Perché Landini non può fare una coalizione sociale e lottare politicamente contro i disastri sociali che la politica combina? Qualcuno vorrebbe liquidare il tutto con una battuta: “non gli riesce di fare bene il sindacalista e vuole scendere in politica”, dicono.
Pasqua con Pannella1: La democrazia reale si sta sostituendo alla democrazia.
“C’è il bombardamento di Renzi in TV. … Uomo apparentemente agile perché non hai il peso delle convinzioni. … Stanno pompando Alfano, che rischia di non superare la soglia del 4%”, ma “Si sta sicuramente cercando di fare stravincere il leader attuale dell’Italia. Sappiamo il collegamento che c’è tra ascolti e dato elettorale”.
I Radicali? … È venuto sempre più formandosi un convincimento: Questi qua non conviene farli parlare. … In questo regime c’è una forza politica alla quale all’opinione pubblica non è consentito di giudicarla.
… Dobbiamo dare un contributo a noi stessi, ma a tutto il mondo, alla scienza, per analizzare quello che accade. … sempre di più la democrazia reale si sta sostituendo alla democrazia”. Non ci candidiamo perché riteniamo più importante poter dare, scientificamente, informazioni sul corpo malato della democrazia.
A questo punto, abbiamo un Presidente delle Repubblica che deve, per prudenza, sottostare a situazioni oggettivamente ricattatorie di questo nuovo astro italiano che c’abbiamo che, in sei mesi, da sindaco di Firenze viene plebiscitato come grande. … Lui (Renzi) sta nelle televisioni ed ha ascolti complessivi da periodo franchista … abita costantemente a casa degli italiani.
Cosa faranno i Radicali che non si candidano alle elezioni?
Dopo la conversazione settimanale di domenica con Massimo Bordin a Pasqua, Marco Pannella lunedì sera si è sentito male e, martedì 22 aprile, come c’ha fatto sapere Rita Bernardini, nella prime ore della mattina è stato operato all’aorta addominale.
Poiché dall’ospedale Gemelli di Roma dov’è ricoverato Marco, Rita Bernardini ci fa sapere attraverso Radio Carcere che Pannella sta meglio, che – addirittura – chiede i suoi sigari e raccomanda di non mollare le lotte in corso, per una sua pronta guarigione oltreché per i prossimi 84 anni che compirà il prossimo 2 maggio, sapendo di fargli cosa gradita non trovo niente di meglio per fargli gli auguri che trascrivere, per grosse linee, quanto il leone della politica italiana ha detto durante la tradizionale conversazione settimanale. Pannella se la prende con Matteo Renzi e, soprattutto, con la televisione italiana “di regime”, il sistema, cioè, della disinformazione radiotelevisiva che non consente ai cittadini di far conoscere la proposta politica dei Radicali e che non gli da’ spazio se non quando, appunto, rischia di tirare le cuoia.
Gli argomenti di riflessione politica sono molti, ma ovviamente Massimo Bordin, nel giorno della resurrezione, parte dalle parole del Papa per dare l’incipit alla conversazione con Pannella.
Le parole che Papa Bergoglio ha pronunciato Venerdì durante la via crucis, durante la sesta stazione, “dove ha parlato di condizione dei detenuti, del sovraffollamento nelle carceri citando i detenuti e gli immigrati come delle persone che soffrono oggi”, aggiunge Bordin, “sono un elemento che si ritrova valorizzato da RadioRadicale più che dal resto dell’informazione italiana”.
Pannella preferisce, però, parlare dell’atro argomento che pure Bordin propone: “quello più prettamente politico che riguarda, invece, il governo Renzi, gli 80 euro promessi a bonus e quello che ne consegue: il che fa il governo”, insomma. “L’uovo di Pasqua”, secondo Bordin che stuzzica Pannella, “Renzi lo mangia sereno perché tutto sommato le cose sembrano andargli abbastanza bene”.
In realtà, però, i due temi non sono del tutto slegati perché di fondo c’è l’informazione del regime italiano.
“Per chi si occupa della politica e delle dinamiche della politica li troverà interessanti. … Ci sono autorevoli parlamentari che si occupano di questi aspetti per motivi istituzionali e usano in genere i dati dell’osservatorio di Pavia per avere i dati sulla comunicazione. Noi abbiamo un criterio del tutto nuovo.
Gli altri fanno (le statistiche, ndr) in base ai minuti e ai secondi che appaiono in tv o in radio. Innovazione del centro di ascolto è, invece, di dire a quanti cittadini italiani offerta la possibilità di ascoltare giudicare; … Attraverso il centro di ascolto non riusciamo a dimostrare che per esempio negli ultimi 12 13 giorni dall’inizio di aprile ad oggi il centro di ascolto può già dare indicazioni di voto! Perché abbiamo l’esperienza passata. Abbiamo questi dati: analisi degli ascolti dei tempi in voce nei telegiornali Rai. E viene questo: partendo dagli ascolti e non dai minuti, si monitora quanto ha potuto l’opinione pubblica giudicare l’uno o l’altro evento. (…) Dal 15 aprile ci sono 90 edizioni di TG della Rai TV e su questi gli ascolti avuti sono in totale un miliardo e 763 milioni. Non potenziali, ma ascolti reali. Questa – dice Pannella – è la novità rispetto agli altri dati. … Si può fare un rapporto (delle presenze) e con questo fare delle previsioni di voto precise”.
In realtà, i dati cui fa riferimento Pannella durante la conversazione con Bordin sono pubblicati non sul sito ma sul blog del Centro d’Ascolto per l’informazione Radiotelevisiva.
E i dati pubblicati sono impietosi. Rivelano infatti la diversità di trattamento delle varie forze politiche e la non democraticità del sistema che – come pure evidenziava Vincezo Vita qualche giorno fa su Il Manifesto – di par condicio non ha nulla.
Nei telegiornali RAI, infatti, di un miliardo e 763 milioni di ascolti, dal primo al 15 di aprile, con ben 316 milioni di ascolti consentiti il PD svetta con il 17,9% seguito a ruota, nella scaletta della dispar condicio, dal Movimento 5 Stelle e Beppe Grillo con 291 milioni di ascolti pari al 16,5% del totale. Beppe Grillo non ha da lamentarsi come presenze in TV.
Seguono poi il governo, nella sua compagine dei ministri e sottosegretari, che hanno avuto nei primi 15 giorni di aprile 269 milioni di ascolti pari al 15,3%. Con 251 milioni di ascolti, pari al 14,2% del totale, nella classifica degli ascolti consentiti durante i telegiornali c’è Forza Italia.
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, lui da solo, ha totalizzato altri 134 milioni di ascolti pari al 7,6% del totale che lo collocano al 5° posto della classifica.
Seguono poi Lega Nord (62 milioni di ascolti, pari al 3,5%), Sinistra Ecologia e Libertà (56 milioni di ascolti, 3,2%), Nuovo Centro destra di Alfano (55 milioni di ascolti, 3,1%), Fratelli d’Italia è al decimo posto (45 milioni di ascolti, 2,5%).
Per ritrovare i Radicali nella classifica della non democrazia italiana o, se vogliamo, della dispar-condicio, bisogna scendere molto più in giù nella classifica, arrivare sotto Scelta civica (32 milioni di ascolti, 1,8%), dell’Unione di Centro (23 milioni di ascolti, 1,3%) e del Centro Democratico (9 milioni di ascolti, 0,5%), sotto ancora a La Destra di Storace e Futuro e Libertà, rispettivamente con 5 milioni di ascolti (0,3%). Al 20 posto della classifica, finalmente, ci sono i Radicali cui, dal 1 al 15 aprile, sono stati dati solo 50 secondi durante le edizioni più notturne e consentendo così solo a 4 milioni di cittadini (0,2% degli ascolti totali) di ascoltarne e giudicarne la proposta politica.
Per Marco Pannella, il sistema dell’informazione radiotelevisiva italiana è totalmente anti democratico e di regime: “Valgono, tranne eccezioni, lo stesso tipo di comportamenti, lo stesso tipo di esclusioni e lo stesso tipo di inclusioni, magari anche ossessive come quella di Renzi”.
“Siamo in grado di dare un apporto alla teorica delle analisi dei movimenti politico elettorali e, dal punto di vista istituzionale, può essere importante. E allora diciamo che è evidente, che in questi ultimi giorni c’è il problema di far avere il 4% ad Alfano. È pacifico, perché ormai si da che quando c’è quel bombardamento in tutte le reti, si riesce a valutare chiarissimamente come l’ascoltatore, molto spesso, se non ha voglia di Grillo o Renzi, se ha sentito le cose che quel giorno dicono, poi dice basta e cambia canale.
(…) Sappiamo il collegamento che c’è tra ascolti e dato elettorale. (…) Uno studio del Centro relativo agli ultimi due anni tra agli ascolti consentiti ed esiti elettorali”, dimostrerà il nesso che c’è tra le due cose, “così si finisce con la questione della rete-non rete. Non importa se la gente ha visto il telegiornale in rete o, invece, direttamente in TV.
(…) Oggi, io che guardo quelle cose, finisce che potrei dire che in questo momento si sta sicuramente cercando di fare stravincere quanto possibile il leader attuale dell’Italia, perché è così che si muovono lor signori. Poi, appunto, quelli che devono venire più o meno dopo. Il movimento cinque stelle che, dai dati del Centro d’ascolto, è quasi a pari grado con le forze di governo complessivamente.
Dopo varie elezioni che si fa questo lavoro (il confronto, cioè, tra ascolti consentiti alle diverse forse politiche e successivo dato elettorale, ndr) puoi cominciare a fare delle ipotesi sull’11ª che farai domani, su quello che può con qualche probabilità avere come conseguenza elettorale”.
Tutto questo, per Marco Pannella,
“Non viene mai fuori nei dibattiti, a meno che non ci sia una presenza Radicale”
Massimo Bordin, a questo punto, è costretto a riassumere:
“Stanno pompando Alfano, che rischia di non superare la soglia del 4%, però – cosa che appare contraddittoria – stanno pompando molto anche i 5 Stelle che è anch’esso con una volata, non sulla soglia ampiamente superata nei sondaggi che lo danno largamente sopra al 20%, ma perché molto vicino a Berlusconi”. In pratica, “Renzi pompato perché Presidente del Consiglio (i potenti, quelli non si sa mai. Si pompano sempre. È la ragione sociale della Rai. Più singolare che lo faccia Mediaset)”.
Per Marco Pannella:
“Ciò che si vede è che Grillo da anni (prima del semestre che precede le elezioni 2013, ndr) – stava a una certa quantità d’ascolti. A un certo punto accade che tutte le televisioni, le principali testate, quelle che hanno milioni di ascolto, questo è importante, a un certo punto Grillo continua a non andare perché non ama i dibattiti, ma tutte queste televisioni vanno da Grillo. E poi che uso ne fanno? Pigliano i due minuti e mezzo oratoriamente più efficaci e li sparano lì. È indubbio. Perché se accadesse – dice ancora Pannella – che sparano lui perché lui va bene, guadagnano ascolti con lui, sarebbe assolutamente un criterio doveroso, ma il problema è un altro: se tu lo metti in un posto che sai già che c’hai 4milioni d’ascolto, evidentemente. E infatti la “sorpresa Grillo” è una sorpresa – per chi studiasse queste cose con un po’ di serietà – assolutamente ingiustificabile come “sorpresa”.
Perché se guardiamo che cosa è successo nei quattro mesi prima delle elezioni dal punto di vista posizioni a questo punto sappiamo come, in che ordine di grandezza, potranno arrivare i leader politici, e questo diventa fondamentale.
(…) Per esempio quando Renzi e diventato uno dei cinque candidati delle primarie del PD i suoi ascolti erano quelli che erano, nel senso anche della frequenza. Poi quello che diventa interessante e che corrisponde la quantità di ascolti che sono stati consentite agli italiani di sentire Renzi con la “sorpresa” Renzi così come corrisponde la “sorpresa” Grillo. E quando dico sorpresa dico “sorpresa” dico sempre tra virgolette”.
Perché, per Pannella,
“C’è un rapporto fisso da questo punto di vista. Quando noi diciamo che sono vent’anni che il trattamento dei Radicali è identico, sia che noi abbiamo parlamentari sia che ci troviamo a livello istituzionale, attenzione, come “quelli” che ponevano l’urgenza del problema del debito pubblico quando ancora non era neanche divenuto tema del dibattito, … dopo un mese allo 0,3 siamo passati a zero di ascolti consentiti. Poi continuiamo a seguire il problema “fame nel mondo” e, su questo, vorrei dire che forse il Papà si è un po’ sbagliato. Oggi Lui ha parlato della fame, mentre invece sui prigionieri e sul diritto … il termine non è stato evocato. Ed è noto che noi abbiamo coinvolto i Papi, i Presidenti della Repubblica, premi Nobel in quell’evento e, torno a dire, da soli. (…) Si può documentare che noi siamo andati, semmai, un po’ meno del pochissimo nel quale andavamo prima che iniziassimo, dopo la fame nel mondo, questa campagna, diciamo, del debito pubblico. È venuto sempre più formandosi un convincimento: Questi qua non conviene farli parlare”.
Poi Pannella spiega, ancora una volta, la posizione dei Radicali che alle prossime elezioni europee non sono candidati:
“Noi dobbiamo dare un contributo a noi stessi, ma a tutto il mondo, alla scienza, per analizzare quello che accade. … Sono 20-25 anni che pure sulle cose per le quali accadeva che coinvolgevamo l’opinione pubblica internazionale, spessissimo il Parlamento europeo, spessissimo le giurisdizioni internazionali come all’ONU, corrispondevano quelle nei momenti di ulteriore compressione della possibilità di essere ascoltati che abbiamo avuto.
Allora quando questo accade per venti o trent’anni di seguito, significa che in questo regime c’è una forza politica alla quale all’opinione pubblica non è consentito di giudicarla … Se la quantità di ascolti è zero, beh allora sei zero”.
Per chiarire il concetto Massimo Bordin ringrazia l’intervento dal web di un ascoltatore che segnala, addirittura, “una formulazione precisa degli ascolti consentiti” di cui si parla.
“Una formula semplice, perfetta”, dice Massimo Bordin ironizzando, “tanto che la capisco perfino io”.
La formula suggerita dall’ascoltatore è la seguente:
“tempo di parola per utenza raggiunta uguale ascolti consentiti, che è poi”, aggiunge Bordin, “quello che dici tu, tradotto in formula”.
Per avvalorare le sue affermazioni sull’esclusione dai media dei Radicali, Pannella fa esplicito riferimento alle condanne della Rai e dell’Autorità di vigilanza ottenute in riparazione delle violazioni dei mancati tempi televisivi.
Bisogna ricordare a chi legge e non segue direttamente le vicende Radicali che, dopo una battaglia legale durata 3 anni, lo scorso 2 maggio 2013, proprio quando Marco compiva i suoi 83 anni, il TAR Lazio ordinava “perentoriamente” all’Agcom di adempiere entro 30 giorni, proprio per l’assenza dalle trasmissioni politiche, altrimenti avrebbe nominato un Commissario ad acta. L’Agcom non ha, com’era prevedibile, adempiuto, ma la cosa grave è che neanche il commissariamento c’è stato, per cui il Tar ha smentito sé stesso.
“Ricorderò che gli ascolti consentiti di Emma Bonino: nell’ordine dei soggetti politici analizzati, Emma, mi pare, è la cento …, non la seconda, la decima o la ventesima. La centosessanta o centocinquantesima, ecco. E continua ad essere questo. Io, per quel che mi riguarda, batto persino Emma; vado cioè più sotto in ascolti consentiti”.
Suggerirei anche ai ricercatori, per non dire ai giornalisti, di documentarsi un tantino di più di queste costanti. Su che cosa non é stato consentito alla gente di farsi un’opinione?
Per Pannella, “oltre al debito pubblico anche su tutte le cose che il Papa oggi dice, il problema del terzo quarto mondo, la miseria e via dicendo, anche su queste nessuno mette in dubbio che noi abbiamo fatto molto. Dal Parlamento europeo ai 130 Nobel, dalle quantità di denaro che abbiamo fatto dedicare alla campagna precise sullo sterminio della fame del mondo. Ma venendo poi al finanziamento pubblico dei partiti. Oggi si torna a discutere, al rimproverarsi, ma il popolo italiano si è pronunciato 15 18 anni fa, con solo noi a sostenere il referendum.
E sono state cose plebiscitarie. .(…)
È indubbio che noi abbiamo avuto per vent’anni il monopolio del mettere questo al centro della realtà politica italiana istituzionale e appunto lì è dimostrato che in quei momenti non è che c’è stato il risultato di una nostra situazione privilegiata nella comunicazione. (…)
Il problema grave oggi qual’è?
È che dopo 20 25 anni noi riteniamo di poter proporre qualcosa che, adesso, non diciamo più solo noi: c’è una democrazia reale che si sta sostituendo alla democrazia.
Cioè l’anti democrazia, via via, continua a serbare, per essere più efficace, alcune forme liturgiche di tipo democratico. È quello che, oggi, possiamo appunto documentare e che in quei casi la stretta informativa si è confermata e non cessa ancora, adesso, quando passano messi a divenire, s’è possibile, ancora più sapiente.
È importante che ci sia una forza politica come la nostra che fornisca, prima che arrivi il corpo sul quale si fa l’autopsia, nel decorso della malattia antidemocratica, di indicare quotidianamente le motivazioni patologiche che si stanno sviluppando su questo corpo sociale e, non è un caso, lo ripeto, che tutte le forze politiche adesso per esempio (lo denuncino, ndr).
Noi abbiamo deciso che cosa? Che noi non vogliamo essere assenti quando ci sono elezioni truffaldine espressioni gravissime dell’anti-democrazia. E allora cosa facciamo?
Facciamo come magari adesso mi fa piacere per loro i verdi che possono senza raccogliere le firme andare alle elezioni?
E devo dire su questo ci sarebbe da fare qualche osservazione direi quasi un pochettino ironica sulla corte costituzionale. Perché lo stesso ufficio della corte costituzionale che, meno di un anno fa, a proposito dei referendum radicali praticamente non ha riconosciuto le firme che avevamo depositate. È lo stesso ufficio. Mi viene da sorridere … la Cassazione, come si sono espressi sui referendum e (sull’ammissione della lista dei Verdi) che il partito sia europeo.
Noi riteniamo più importante poter dare, scientificamente, informazioni sul corpo malato della democrazia, mano mano che lo individuiamo, lo illustriamo e lo documentiamo; sicché non bisogna aspettare come col nazismo, di avere l’autopsia del corpo morto di quello Stato.
Siccome ho sentito, per esempio, Bonelli dire, “Noi, verdi, con le grandi battaglie che stiamo facendo”. Io devo dire, sarò distratto, ma proprio queste grandi battaglie dei compagni verdi, semmai io posso immaginare le posizioni ecologiste, insomma dell’impronta ecologica, sulla quale radio radicale fa anche, ormai da un semestre, delle informazioni purtroppo quasi in regime di monopolio, perché su queste cose è noto … ah … oggi, per esempio, comincia a esserci (su giornali, ndr) la cosa che scoppia sull’adriatico e altrove sul “NO TRIV”. Siccome in Italia s’è sentito parlare solo i No Tav; i NO TRIV, sui quali sono interessati l’Eni, l’Agip, e tutto questo tipo di (aziende, ndr) ufficialmente, allora viene fuori che, adesso, possono essere prese in considerazione tesi scientifiche che venivano ignorate, che mettevano in rapporto, in alcune realtà territoriali, le estrazioni e il regime di estrazioni, anche in mare, e il favorire o rendere più gravi i fenomeni sismici. Ma su questo, noi abbiamo continuato e continuano a documentare, così a rendere più gravi, anche, le condizioni ambientali in rapporto ai tumori. Per quel che riguarda, in particolare in Basilicata, parliamo dei dati (scientifici) che si sono cercati di occultare …, su Taranto città anche e non veniva fuori, i Verdi non se ne erano accorti. Noi si. E adesso devo dire le stesse cose sulla Campania, Vesuvio e altre questioni, ma anche in connessione con, appunto, le attività estrattive. E adesso, questo, viene fuori in Abruzzo. Non sono io che me l’invento. C’è il dubbio, a livello ufficiale, e noi lo dicevamo. A questo punto è venuta fuori la notizia sorprendente: le autorità, lo Stato praticamente, constata che queste attività estrattive stanno creando seri problemi che, da una parte, addirittura per trent’anni, hanno inquinato le acque minerali d’Abruzzo e l’abbiamo scoperto adesso. Come dire, Bussi e d’intorni. Parlo di cose accertate. Ma adesso, invece, creano dei problemi, l’abbiamo letto sui giornali, e i comportamenti dello Stato, da questo punto di vista, sono quelli che sono e noi possiamo dire che abbiamo sicuramente sollecitato la giurisdizione internazionale e sovranazionale superiore, finalmente noi avremo in una di queste settimane giudizi sul Vesuvio, sui Campi Flegrei, e via dicendo, proprio da parte della giurisdizione europea (della CEDU) oltreché italiana. Nel senso che, sappiamo, è stata costituzionalizzata la sede CEDU ed è anche organo di giurisdizione superiore anche in Italia. E le battaglie, devo dire di Bolognetti, e anche più di recente in Calabria.
E poi devo anche dire, non bisogna dimenticare, non solo in Campania ma anche qui nel Lazio, dove tante storie si sentivano sui rifiuti, Malagrotta eccetera, e adesso mentre Massimiliano Iervolino che faceva anche libri, ma il silenzio anche degli intellettuali specifici non è stato mai molto soddisfacente. E quindi diciamo, allora, il non ignorare il fatto che, dopo venti o trent’anni di questo Regime, le componenti che, secondo tutte le giurisdizioni internazionali, consentono di riconoscere come elezioni democratiche e non elezioni di copertura, importantissimo delle dittature, l’abbiamo sempre ricordato che nelle dittature tradizionali non votare era reato, c’era l’obbligo di votare, in quelle democratiche andare a votare, a firmare, eccetera, è una facoltà e non un obbligo. E anche questo, mi pare, dobbiamo metterlo nel conto. Perché andare a presentarsi quando non ti presenti a niente, perché che mandi, il biglietto da visita a casa dei 40 o 35 milioni di elettori italiani?
Queste cose sono illusorie. Perché ogni volta, come dire, ma forse due o tre o quattro, forse riusciamo ad eleggerli. Per carità, magari ne avrà cento, Bonelli o Ingroia. In fondo lo stimolo maggiore è questa, comprensibile, speranza di entrare in organismi parlamentari. Poi che cosa, pochissimi eletti, servono? Beh, credo che nel Parlamento italiano o in quello europeo un po’ ovunque, anche gli avversari riconoscono che pochi elettori radicali comunque hanno una funzione e restano nella Storia di quegli organismi. Mentre altri no.
A questo punto, Massimo Bordin riassume:
In effetti, tutte queste cose che tu hai notato, tutti questi avvenimenti, che sono diversi: da un lato c’è la siderurgia, dall’altro le estrazioni petrolifere, però un minimo denominatore ce l’hanno. Ed è il rapporto, poco trasparente, fra imprese e istituzioni locali. Cioè a dire: sono le istituzioni locali a mettersi d’accordo con le imprese e a mettere a tacere alcuni aspetti sui controlli. Lì è evidente che c’è anche il ricatto occupazionale delle imprese …
Pannella:
“Hai ragione Massimo. Va aggiunta una cosa: che all’interno dei partiti che poi sono quelli che diventano partiti regionali, provinciali eccetera, a monte, sui grossi problemi dei settori produttivi delle imprese eccetera, io per tre anni ho avuto una contrapposizione che non diveniva ufficiale, con la maggioranza degli analisti politici di ispirazione non certo Crociana o Liberale, operanti in Italia, ma per cercare di far riflettere se per caso, il terzo stato italiano come quantità anche, quindi non solo qualità, fosse determinato da i luoghi di produzione di forte presenza sindacale, in genere, vicina al metalmeccanico o, invece, se non in tutto il lavoro impiegatizio statale, parastatale provinciale e via dicendo, (…).
E … Bordin: i Radicali non si presentano, ma secondo loro per chi dovrei votare?
Pannella:
“Secondo noi, andare all’ammasso del voto, in queste condizioni pregiudicate strutturalmente quanto ad anti democraticità, il problema è quello: secondo vecchi schemi rivoluzionari di finanziare di armi quelli che non sono del regime. Oggi, invece, quello che abbiamo detto, e ripetuto adesso, di iscriversi al Partito Radicale così che noi che ci troviamo in una situazione che si aggraverà sempre di più, di ristrettezze gravi, totale, di mezzi, e se non ci presentiamo per nulla e, quindi, di conseguenza, non si avrà magari il rappresentante che sarebbe eletto, la situazione è tale che non solo non hai i quattrini del finanziamento pubblico, ma tutte le esenzioni di servizi che consentono un minimo di agibilità civile, non politica, vengono a mancare. … i Radicali hanno constatato, constatano e documentano, dopo vent’anni di polemiche e di smentite, che c’è da cogliere l’occasione di queste elezioni per far conoscere sempre di più, a studiosi e cittadini, che quello che loro sentono, “tanto è sempre la vecchia solfa”, “sono tutti uguali”, e via dicendo, ha un fondamento oggettivo. E che, quindi, queste elezioni sono la naturale estrema risorsa dell’anti-democrazia e del suo fallimento rispetto al credito che si fa agli ideali democratici. (…)
È indubbio che noi rischiamo di mettere fine a questa storia del Partito Radicale. Vent’anni di fascismo con le tecnologie di allora, quarant’anni, o cinquanta, di anti democrazia antifascista invece che fascista, producono disastri territoriali di tutti i tipi. Quelli per i quali l’Italia è davvero, comunque, su tutti i temi: ambiente, giustizia, è sempre o nei primissimi posti o negli ultimissimi posti, ogni volta che si pongono problemi di diritto, di diritti e, quindi, di correttezza istituzionale. … A questo punto, noi abbiamo un Presidente delle Repubblica che deve, probabilmente per prudenza doverosa ma costosa anche, sottostare a situazioni oggettivamente ricattatorie di questo nuovo astro italiano che c’abbiamo che, in sei mesi, da sindaco di Firenze viene plebiscitato come grande. Lui sta, almeno nelle televisioni ed ha ascolti complessivi da periodo franchista. Allora raggiungevano forse meno di un decimo di ascolti possibili di quelli che oggi riceve Renzi che abita costantemente a casa degli italiani. … All’improvviso Lui come candidato (alle primarie, ndr) è scattato ad essere il secondo in assoluto anche rispetto al Presidente del Consiglio che c’era. … Sta accadendo lo stesso, in realtà, per quelli che devono fare il 4%. C’hanno un’esperienza ormai e, quindi, noi diciamo che oggi noi dobbiamo prendere l’occasione di queste elezioni per cercare di cambiare qualcosa in Italia. (…)
Di Bolognetti (Maurizio, ndr) hanno acquisito lì (in Basilicata, ndr) una fiducia e una stima di tipo personale rispetto al loro conterraneo che da trent’anni loro conoscono; quando poi vedo che se lui va a Taranto, due anni fa ci è andato, e aveva già a Taranto compreso quale fosse la situazione che si stava sviluppando e la funzione del grande Nichi, il governatore di lì, rispetto ai proprietari dell’ILVA e del disastro assassino Tarantino perché di questo si tratta. Allora adesso io o anche un libro, l’ho già accennato, quello di Giuseppe Candido che sta per uscire, direi, su quel tipo di analisi radicale che quella, qui a Roma, di Massimiliano Iervolino ecc.
C’è quello di Bolognetti in Lucania e, appunto, questo di Giuseppe Candido importante, bello, anche per la Calabria. E a questo punto, torno a dire, bisogna cercare di chiarire, lo chiedo, perché la Bonino, la ministra degli esteri in Lucania arriva lei, lì dove la gente quando non l’ha mai vista gli da’ il 2% in più del plebiscito nazionale, e poi (alle regionali, ndr) ci sono 40 voti preferenziali su 40.000! Mi volete da’ una spiegazione? (…)
Radicali in altre liste? Quando Massimo Bordin chiede se c’è la possibilità che qualche radicale sia presente in qualche lista Pannella risponde:
“Mi pare che sarebbe logico! Perché corrisponde a quello che accadrebbe in molti partiti in casi numerosi. Io non credo che ci saranno casi numerosi ma credo che ce ne saranno di sicuro. … E so che significa, magari, poter essere letti, sappiamo l’importanza di essere nelle istituzioni perché sappiamo usarla non solo per sgovernarle o per fare quella politica che ci porta – in questi 40 cinquant’anni – nella situazione fallimentare del nostro territorio.
(…) È cosa automatica che, se non si verificasse poi se non con eccezioni che confermano la regola, sarebbe un’ulteriore dimostrazione del permanere della diversità radicale come diversità alternativa, socialmente, alle altre.
È naturale e di conseguenza, ho detto, se accadrà il modo eccezionale dimostra in modo positivo la diversità Radicale perché questi naturali istinti dovrebbero fare presenza ancor più evidente nella condizione della “fame” Radicale, concretamente delle difficoltà eccetera.
Quindi fornendo non sono più alibi ma più ragioni non da condividere magari ma ragioni. Però qui mi corre l’obbligo di dire noi una volta abbiamo avuto quando ancora in televisione qualche volta c’andavo una volta che abbiamo avuto 42.000 persone che si sono iscritti; allora mi pare costasse 200mila lire la tessera. …
Siamo molto attenti mi pare che oggi dobbiamo pur sapere che da radio radicale c’è il rischio di saturazione, … diventa un imbuto. Non c’è, attorno, la conoscenza di queste cose.
Io invece voglio credere che proprio questa nostra richiesta, questo nostro preannuncio, quello di fare una cosa più importante che, al limite, fare concorrenza Bonelli, Ingroia o altre cose del genere; e cioè fornire una forza anche di documentazione, che significa ricerca, e ci vuole tempo; perché ci vuole tempo in quanto non ci sono fondazioni che lavorino per noi per far sì che le nostre presenze sulle giurisdizioni internazionali e nazionali possono rappresentare un salto di qualità che faccia conoscere la forma di democrazia reale di adesso rispetto a quella di cinquant’anni fa.
Cioè di fare non, appunto, l’autopsia del corpo, ma fare l’anatomia e vedere quali sono i germi i virus che attaccano la salute e quali la difendono. E può avvenire appunto attraverso anche la sottovalutazione che si ha dell’importanza di riuscire.
(…) Era Loris fortuna che mi aveva colpito quando dicevano i radicali extraparlamentari e lui diceva testualmente: «Io non ho mai conosciuto una forza politica e culturale che abbia tanta capacità di occuparsi delle istituzioni, di nutrirle, di alimentarle, comunque, anche in termini critici di sostegno» e credo che, in effetti, questo ci rappresenti in modo positivo; se pensiamo poi anche le cose che convincevano, oltre a Loris Fortuna, anche Altiero Spinelli, per esempio, nei nostri confronti, ma che in questo momento (tornano d’attualità, ndr); ho detto che sono grato a Radio Radicale che credo l’abbia data due volte questa cosa singolare: vado a Monaco a ribadire, parlo in italiano agli uiguri, per ribadire la nostra posizione, quella del Dalai Lama e di Rebia Kader, in termini durissimi, chiarissimi e, mi pare, anche adesso stiamo vedendo essere accettata dai 50 rappresentanti che erano presenti a questo che era un loro consiglio nazionale e non già un congresso. L’elemento di afflato comune, di comprensione, è stato proprio quando dicevamo che dobbiamo aiutare la Cina a prendere più democratica la situazione anche degli Han oltre che di Pechino. …
Per Pannella, in Italia …
(…) Il processo di putrefazione di questi regimi non democratici che dal 1920, grosso modo con una breve pausa hanno governato il territorio italiano.
Abbiamo oggi un territorio che, in tutte le parti, parla in modo eloquente nel senso che esprime le situazioni patologiche che vengono solo da noi, magari, individuate per curarle mentre abbiamo comportamenti dei vari governatori che avvolte ci sembrano vecchi di quarant’anni. E devo dire c’è una cosa che mi pare importante: intanto questo fatto, veramente, di questa scorpacciata in posta di un uomo, non importa quale; da un mese, nei confronti di uno: il presidente del consiglio. Mentre dibattiti ci sono solo di quelli miseri o miserabili dibattitucci, di liti interne fra loro signori, cioè fra componenti di un’associazione che litigano enormemente. Ho sentito che viene la nostra vecchia osservazione, che avevo fatta già a proposito del peculato, ma abbiamo ridetto poi del falso in bilancio vengono oggi vi evidenziati come – anche tecnicamente – un crimine mentre era stato sostanzialmente depenalizzato di fatto.
Quello a cui assistiamo sono tipiche di chi di un direttivo di Associazioni. Non c’è mai una visione riformatrice che si contrappone. Come nel caso del voto di scambio sul quale c’è un dibattito scandaloso. Gli italiani assistono ad dissensi violenti costantemente come ne condomini votano contro ma governano e sgovernano assieme.
Riferendosi ai grillini, dice:
La partitocrazia ha capito che questi non sono pericolosi perché sul piano della protesta, della denuncia e anche dell’onestà che continua ad esserci dietro, ma non rappresentano un pericolo nella durata perché non sono propositivi. Perché non hanno un’idea del tipo di Stato, diciamo, anglosassone, europeo.
Ignorano i nessi e ci stanno, adesso, tra Stati vecchi all’anglosassone, come punto di riferimento, e il benessere sociale ufficiale anche spesso in buona parte tenendo presente le fasce più povere più umili.
(…) Una cosa mi ha colpito di Renzi: che essendo fiorentino e toscano, Toscana che ha sempre prodotto delle posizioni religiose e ti ha espressa nella storia da quelle savonaroliane a quelle di La Pira o cattolici-liberali o quelle che hanno portato la Toscana a essere una regione governata dal Pci e dai succedanei (…), non ho trovato nessuno tra quanti lo conoscono o hanno conosciuto che abbia detto: “aveva un periodo in cui era convinto …”. Mi pare una caratteristica: è uomo apparentemente agile perché non hai il peso delle convinzioni. La sua convinzione e che è possibile con abilità avere successo”.
Bordin: (…) In Vaticano c’è invece una formula: si trema e si trama.
Pannella: C’è una resistenza contro le riforme di Papa Francesco. (…) Lui non si rende conto che Giovanni Paolo II era andato in Parlamento perché aveva la saggezza per evitare che si accumulassero processi.
Lui non si rende evidentemente conto.
(…) Io dico che noi abbiamo al centro la mobilitazione dell’opinione se esistesse intellettuale dell’opinione conta ma diciamo dell’opinione dando fiducia nella gente comune ma so che a quelli noi non riusciamo in questo momento a corromperli con le nostre cose. Beh, la cosa di Emma Bonino e la cosa del parere del Presidente della Repubblica riuscirei a dirli in tre minuti; è quello che loro, adesso, non vogliono più aprirmi la possibilità di fare questo.
Però, … quello che è essenziale adesso e far udire, scrivere, l’essenziale delle cose che vengono negate in patente violazione del diritto italiano del diritto internazionale che connoti quindi in modo chiaro quello che, purtroppo, il Papa ritiene che sia già chiaro. Invece non è chiaro. (…)
Tendono a distrarre il problema del diritto e dei diritti che poi include quello penitenziario, ma se quello penitenziario non lo inquadri dicendo: guardate che tutti questi, alla fine con noi, adesso, riconoscono che è una misura strutturale che già costringe alla ri-forma. È un fatto che, di per sé è già riforma che non può più essere abbandonata. E questo è quello che non deve essere detto, è questo che non deve essere sentito. Magari preferiscono dibattere su Stefano Rodotà Presidente della Repubblica al posto di questo nostro. (…) Temo, però, che non potremo permettercelo alla lunga che li nostro territorio continui ad essere massacrato, con tutto il suo popolo, come lo è proprio perché un problema di diritto e di diritti negati che si traducono in morti ammazzati, tutto qua. Perché la percentuale, appunto, di malattie dovute, e in modo accelerato, al deterioramento delle possibilità di vita sui territori che noi abbiamo nel nostro Paese; è cosa che può avere l’eloquenza se, a un certo punto, qualche giornale di alta tiratura mostri le percentuali di tumori nei bambini. Queste sono le cose che dobbiamo fare ….
Assieme, aggiunge Massimo Bordin, a una campagna affinché tutti i territori che ne sono ancora sprovvisti, la Campania in primo luogo, si doti di un registro tumori regolarmente accreditato e che, periodicamente, rendano pubblici i dati di mortalità per ciascuna patologia oncologica.
Chi controlla buona parte dell’accesso al credito, in questo Paese? Com’è noto, anche se forse non lo è abbastanza, la proprietà di molte banche italiane è in mano ai partiti. “Fuori i partiti dalle banche”, quindi, è l’hashtag della nuova campagna “economica”, che il partito di Emma Bonino e Marco Pannella affianca alla lotta, ancora in corso, per la giustizia e l’amnistia. La campagna, che farà tappa anche in Calabria nel mese di marzo, è stata annunciata e promossa online, giovedì 27 febbraio, da Rita Bernardini, Valerio Federico e Alessandro Massari, rispettivamente segretaria, tesoriere e componente della direzione nazionale del partito. Dagli anni ’90, le fondazioni bancarie, anomala invenzione italiana per mettere una pezza alla richiesta europea di privatizzare il sistema creditizio, di fatto scelgono gli amministratori delle banche; gli enti locali e le Regioni, a loro volta, sono i soggetti che nominano la guida delle fondazioni bancarie e il gioco è fatto. In sostanza, nel nostrano sistema bancario, molte banche che quotidianamente decidono come distribuire il credito, sono, in realtà, controllate dalla mano longa, neanche troppo nascosta, dei partiti. La questione è emersa lampante con la vicenda del Monte dei Paschi a Siena ma i partiti, attraverso gli enti locali e le regioni, controllano dappertutto le fondazioni. Ecco perché, la campagna #sbanchiamoli di Radicali italiani parte proprio dalle e nelle Regioni, dagli enti locali e, in generale, dalle periferie. Per Valerio Federico è così per la Banca di Sardegna, per la Banca Carige, per Intesa San Paolo: “I vertici del MPS nominati dalla politica hanno gettato al vento 4 miliardi di euro, con delle operazioni finanziarie scriteriate. Di chi è la responsabilità? Naturalmente” – per il tesoriere di radicali italiani – “la responsabilità è della proprietà, quindi, della fondazione bancaria e, quindi, dei partiti che hanno scelto i vertici della fondazione bancaria e delle banche. Banca Marche – continua Federico – è stata commissariata perché mal gestita dalle fondazioni bancarie e dai vertici scelti dalle fondazioni bancarie e dai partiti. Casi e scandali che sono l’emblema di un sistema che non funziona, che vede la commistione tra la politica e le banche, tra la finanza e i partiti”. È possibile, con un sistema del genere, garantire il credito ai cittadini e alle imprese che lo meritano, oppure è più facile che a trovare facilmente credito, presso i più importanti istituti del nostro Paese, sono sempre i soliti “amici degli amici”? “Le banche – continua Valerio Federico nel video che promuove la campagna – dovrebbero occuparsi di prestare i soldi alle imprese, di prestare i soldi ai cittadini, dovrebbero occuparsi di prestare i soldi per quelle StarUp, per quelle imprese giovani, più promettenti e, magari, di finanziare idee innovative. Invece, le fondazioni bancarie, sostanzialmente, bloccano l’afflusso di capitali verso le banche italiane; e lo bloccano perché – prosegue il tesoriere di Radicali italiani – hanno tutto l’interesse di farlo per garantire, così, ai partiti di continuare a mantenere il controllo delle banche e del credito”. È un sistema distorto, da superare, per rilanciare lo sviluppo perché, nota Federico: “gli effetti di un sistema che non concede credito, che ne concede poco o lo concede male, sono minore competitività del Paese, perdita di occupazione, riduzione della domanda interna. Il credito orienta il consenso, quindi il voto. Alle Banche servono nuovi flussi di capitali per i cittadini e per le imprese, ma alla politica non conviene, altrimenti ne perderebbero il controllo. La conseguenza è che il credito alle imprese concesso è diminuito costantemente dal 2007 ad oggi. In sostanza, con un sistema creditizio-bancario che non funziona, il Paese non riparte. Separiamo, dunque, i partiti dalle banche, la politica dalla finanza. I partiti – conclude Federico – hanno l’obbiettivo di accrescere consenso, non hanno l’obbiettivo di prestare i soldi a chi merita. Il rischio che lo prestino a chi è loro vicino, agli amici e agli amici degli amici, è un rischio evidente”.
Non ne sapeva nulla Scajola mentre gli compravano l’appartamento; non ne sapeva nulla Penati e, con estrema disinvoltura, anche Francesco Rutelli non ne sapeva niente mentre il suo amico Lusi si fregava i soldi dalle casse del partito della Margherita. Davvero una vergogna d’abolire. Se alla Fiat o alla General Motors avessero fatto sparire 13 milioni di euro se ne sarebbero accorti la mattina dopo: alla Margherita no. Rutelli ha candidamente affermato che non ne sapeva niente fino a quando i magistrati non glie lo hanno riferito. Premesso che delle due una può essere vera: o Rutelli sapeva tutto e mente oppure, se è vero che non si è accorto di nulla allora non può essere capace di amministrare i soldi pubblici e dovrebbe, secondo un principio di responsabilità, andare a casa. Ma il problema vero non è Rutelli: quello che sarebbe immediatamente d’abolire è l’intera partitocrazia che, ladra di soldi dei cittadini e ladra di verità sulla loro volontà chiaramente espressa con un referendum, nel ’93, di abolire il finanziamento dello Stato ai partiti lo ha reintrodotto copiosamente con la legge – truffaldina – dei rimborsi elettorali. Truffaldina perché non solo tradisce la volontà degli elettori ma anche perché non lega i rimborsi erogati a spese realmente documentate dai partiti. No, la legge in vigore dal 97, rimborsa i partiti in base ai voti espressi nei loro confronti dagli elettori. Ogni voto si prendono 4 euro e li spendono poi senza rispettare neanche l’obbligo, costituzionalmente previsto, di rendere pubblici i loro bilanci. Quando venne abolita nel ’93 col referendum il meccanismo in essere distribuiva 59 milioni di euro di finanziamento e poco più di 656 mila euro di rimborsi elettorali. Ma da quando la quota del finanziamento è stata abolita la quota rimborsi è salita vertiginosamente di legislatura in legislatura in maniera esponenziale fino ad arrivare, con le elezioni del 2006, ad un rimborso di oltre 200 milioni di euro all’anno per ogni anno di legislatura per cinque anni anche se la legislatura ne dura soltanto due. L’ennesima vergogna per cui la Margherita, ancora oggi dopo essersi fusa coi DS nel PD, continua a prendere i suoi soldi dei rimborsi relativi alle elezioni del 2006 mettendoli nella cassa del tesoriere di turno. Una pioggia di soldi che ogni anno si riversa sulla partitocrazia e che, dal 2008, è arrivata alla straordinaria cifra di oltre 600 milioni per ogni anno di legislatura. Perciò, quando si parla di abolire i soldi alla casta si lasci perdere la decurtazione del loro numero che, oltretutto, diminuirebbe ancor di più, a discapito della trasparenza e del controllo, il rapporto eletto-elettore. Si pensi piuttosto ad abolire, immediatamente, il sistema dei rimborsi legandolo, magari, a spese realmente sostenute ed adeguatamente documentate.
I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca.
di Antonio Carvello (*)
Della nascita di una “Questione meridionale” propriamente detta si può parlare a partire dall’integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61: infatti, già all’inizio delle annessioni, nel momento cioè in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l’intervento regio l’ipoteca politica della dittatura di Garibaldi, Cavour ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a prendere drammatica coscienza dell’esistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativamente, ma anche in termini sociali e morali. Alla luce delle difficoltà crescenti, il Cavour reputò forse più conveniente anteporre alle ragioni dell’autonomismo e il decentramento amministrativo quelle che persuadevano a rinsaldare un forte sistema accentratore in senso decisamente unitario. Anzi, é da dire che le preoccupazioni politiche suscitate dalla questione del Mezzogiorno influenzarono strettamente tutto il dibattito successivo sulla forma politica-amministrativa da dare al nuovo stato.
Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governativa diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l’alleanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terriera del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l’iniziativa dell’opera di propaganda e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illuministicamente riluttanti a chiudere gli occhi sui problemi che la bruciante realtà meridionale (brigantaggio, fame di terra da coltivare, arretratezza economica complessiva, agricoltura arcaica clientelismo diffuso, ecc .) proponeva.
Primo di tutti fu Pasquale Villari: la sua descrizione della miseria delle plebi contadine e di quelle che affollavano, cenciose e senza mestiere, i “bassi“ dell‘ex capitale (Napoli) infestata dalla camorra, della situazione intollerabile esistente nel latifondo siciliano, delle dimensioni del brigantaggio, procedeva col ripensamento critico delle basi sociali che erano all’origine di quei fenomeni patologici, insieme con l’appello ai ceti dominanti di tramutarsi nel nome del buongoverno, in classe effettivamente dirigente. Analogo spirito riformatore e moralismo filantropico é presente in Sonnino e Franchetti, i quali condussero avanti un discorso polemico che aveva alla base le splendide inchieste sulle condizioni delle province napoletane (1875) e della Sicilia 1876). Anche l’espansionismo coloniale era dal Sonnino giudicato come un canale di sfogo della miseria dei contadini del sud ed il campo per un pacifico svolgimento del loro lavoro in territori aperti alla civilizzazione. La linea del Villari venne altresì continuata da Giustino Fortunato, anche se sul finire del secolo, tuttavia, il Fortunato non nascose la cocente delusione patita per il venir meno di un sogno che aveva alimentato le speranze degli anni precedenti: quella di uno Stato che si facesse centro e motore attivi di rinnovamento materiale e morale nel Sud e nell’Italia intera.
Di fronte all’approfondirsi della frattura fra nord e sud – così come veniva documentata con dovizia di cifre e di fatti da Francesco Saverio Nitti nella opera capitale “Nord e Sud“ (1900) – Fortunato abbandonò gli ideali protezionistici del “socialismo di stato“ e si convertì decisamente al liberismo, convinto addirittura che 1o Stato col suo malgoverno riuscisse d’ostacolo alle sole energie individuali che avrebbero potuto operare per la rinascita del sud. Nel Nitti, al contrario, le speranze riposte nell’industrializzazione si accentuarono nella misura in cui egli pensava che le possibilità di trasformazione sciale dipendessero non soltanto da quella che egli chiamava la “ricostituzione del territorio“, ma anche dall’inserimento della regione nell’area capitalistica settentrionale ed europea, dove Napoli doveva fungere da “polo“ industrializzato propulsore per l’intero Mezzogiorno.
A differenza del Nitti, che fu sempre rigidamente unitario al pari di Fortunato, difese le ragioni di una soluzione federalistica del problema meridionale il repubblicano Napoleone Colajanmi, anche se rimase al di qua del meridionalismo borghese per quel suo privilegiare la riforma dello spirito pubblico quale pressuposto imprescindibile di un effettivo mutamento di rotta nel Sud, anziché far derivare abusi e discriminazioni dalla struttura sociale italiana quale si era storicamente formata con l’unita.
Toccò ai meridionalisti d’ispirazione socialista portare il dibattito su un piano squisitamente politico e svolgere talune conseguenze: con Ettore Ciccotti, al quale stette a cuore illuminare il rapporto che poteva intercorrere tra movimento socialista e questione del sud e che a tal fine operò polemicamente all’interno e fuori del PSI perché questi assumesse coscienza dei compiti che gli spettavano; poi, e soprattutto, con Gaetano Salvemini che quella polemicacondusse con vigore ancora maggiore. Ma mentre il Ciccotti, pur sottolineando l’importanza dell’educazione per la coscienza di classe fra i contadini meridionali, ne considerò sempre la funzione politica subordinata al movimento organizzato del nord, Salvemini attaccò a fondo i compromessi palesi od occulti raggiunti, nel quadro del sistema giolittiano, dal partito socialista con la borghesia settentrionale, a spese del proletariato contadino. Per questo, ed a più riprese, Salvemini si scontrò con la linea riformista di Turati. Accantona e, anche se mai abiurato, il federalismo alla Cattaneo degli anni della milizia giovanile, Salvemini si batté dopo il ‘900 perché al centro del suo programma il PSI ponesse il suffragio universale ed una politica doganale antiprotezionistica, strumenti rispettivamente della rinascita politica ed economica del Sud. Convinto, infine, che il suo partito fosse incapace di fare propri quelle due parole d’ordine, uscito dal partito, fondò un proprio periodico per difendere le sue idee, “L’Unità”.
Guido Dorso, che nel 1914-15 si era accostato all’interventismo di Mussolini supponendo che l’evento “rivoluzionario” della guerra avrebbe infranto le fratture conservatrici del Mezzogiorno, nel suo volume “La rivoluzione meridionale“ (1925) ritenne non poco della lezione di Salvemini, battendo maggiorante l’accento sulle implicazioni interessanti tutto quanto il paese ove si fosse fatto del sud “la base della rivoluzione italiana”.
Un nuovo meridionalismo elaborò Antonio Gramsci: più che negli scritti giovanili ed in quelli del periodo ordinovista, Gramsci giunse allo sue conclusioni più maturo in un saggio rimasto incompiuto e steso nell’ottobre 1926, pochi giorni prima di essere arrestato, “Alcuni temi della questione meridionale”. In quest’opera la concezione leninista dell’alleanza fra operai e contadini, si saldava con la riflessione sui “nodi” principali della lotta politica fra democratici e moderati, sulla egemonia di questi ultimi consolidatasi, poi, storicamente, nella creazione di un “blocco storico” conservatore che nel “blocco agrario intellettuale” di estrazione meridionale aveva il suo perno fondamentale. Sempre il sud offerse al maggiore meridionalista cattolico, il sacerdote di Caltagiorone Luigi Sturzo, fondatore anche del partito popolare,l e occasioni politiche per unificare, com’è stato osservato, i fili sparsi del suo pensiero e per elaborare i punti programmatici che ne sorressero la battaglia politica dal tempo della democrazia cristiana di Romolo Murri fino alla “leadership“ nel partito popolare: la richiesta della proporzionale, del decentramento regionale, la lotta per la rottura del latifondo in favore della piccola proprietà si affiancarono in lui a quella contro il trasformismo ed il clientelismo cui lo stato liberale aveva consentito di prosperare e di trovare alleati fra il clerico-moderati, soprattutto nel Sud.
Nel secondo dopoguerra si pone un nuovo meridionalismo, meno polemico e più propositivo rispetto ai “mali” antichi e nuovi del Mezzogiorno, che ha i suoi maggiori esponenti in Emilio Serni, Rosario Villari, Giuseppe Galasso, Francesco Compagna, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Mario Alicata, Augusto Graziani, ecc; intellettuali e politici di diverso orientamento,c he hanno posto all’attenzione generale del paese il problema del Mezzogiorno come “questione nazionale“, nel senso cioè che sarebbe utopia parlare di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, impensabile senza una politica d’orientamento e indirizzo da parte dello Stato di fronte a quelli che ancora oggi sono i problemi irrisolti del Sud: la mancanza d’industrie, un’agricoltura non competitiva, la cementificazione delle coste, la debolezza organica delle istituzioni, esplodere della criminalità organizzata, la crescente disoccupazione giovanile, l’assistenzialismo sempre più diffuso, ecc.
In questi ultimi tempi si va sempre più “appannando” la riflessione sui problemi del Mezzogiorno: una riflessione, quindi, per nulla comparabile, quanto ad intensità ed eco, ai dibattiti svoltisi negli anni ’50-60, quando ci si spinse ad affermare l’esistenza di un “pensiero”e di una “cultura” non solo meridionali, ma “meridionalisti”. Sembra ora, per diversi aspetti che i problemi della parte meridionale ed insulare del Paese non siano più sentiti come una “questione nazionale”, salvo che in poche dichiarazioni ufficiali, tanto inevitabili quanto spesso formali ed inutili.
Ad aprire la breccia in questa direzione, poco più di un anno fa, é stato ilsen. Umberto Bossi, oggi leader incontrastato delle leghe del Nord: abile, spregiudicato, tanto incolto da raccogliere senza filtro gli umori dispersi della sua gente, ha fatto dell’antimeridionalismo una bandiera politica, ha raccolto consensi, è divenuto lo “spauracchio“ elettorale dei partiti tradizionali. Ma dopo la ricca e varia fioritura dei rozzi slogan di partenza, il fenomeno sta acquistando consistenza, la ricerca delle ragioni del successo delle leghe nordiste si sta ammantando di una “dignità” culturale: le filippiche quasi quotidiane di Giorgio Bocca – che traccia progressivamente il ritratto di un Mezzogiorno quasi irrecuperabile, vero “regno“ del male, ostaggio della criminalità organizzata e sempre più alimentato dall’assistenza statale – hanno aperto la strada a “diagnosi” meno impietose, meno totalizzanti e, per questo, più severe e pericolose.
“La questione meridionale é soprattutto una questione dei meridionali” ha scritto in un editoriale sulla “Stampa” il filosofo Norberto Bobbio. Ma 1’affermazione dell’illustre studioso é stata raccolta ed interpretata al di là della sua valenza effettiva, dando il via ad analisi dure “Mentre le conseguenze del deficit pubblico – ha sottolineato Mario Pirani – sono vissute nelle regioni settentrionali come una minaccia crescente alla possibilità di concorrere alla pari all’integrazione comunitaria, nel Meridione il debito pubblico costituisce la base indispensabile del consenso e dello scambio politico”. Ed il sociologo Luciano Gallimo, riferendosi al Mezzogiorno, ha aggiunto: “Nessun paese europeo reca dentro di sé un nemico altrettanto pericoloso per tutti i progetti di sviluppo, di promozione sociale e culturale“. E Vittorio Feltri, direttore dell’“Europeo” ha avanzato “il sospetto che se i carabinieri nella provincia di Caltanissetta arrestassero tutti coloro che sono in combutta con le cosche e hanno violato il codice, la popolazione in libertà si dimezzerebbe” .
Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma ciò che é importante rilevare é che, sulla spinta di questo “nordismo democratico”, prendono consistenza, in teoria, le ipotesi di una “secessione” del Nord. Il suo profeta è il prof. Gianfranco Miglio, ordinario di scienze della politica alla “Cattolica” di Milano: “Per accelerare il processodi secessione non c'è affatto bisogno che la Lega Nord conquisti la maggioranza assoluta nelle prossime elezioni. È sufficiente che ottenga la maggioranza relativa nelle regioni settentrionali. E questo mi sembra probabile”.
E sulla scia di questa previsione disegna il “modello” di uno Stato Federale, con tre macro regioni (Nord, Centro e Sud), con poteri limitati di coordinamento per il governo centrale e con la conseguenza che a restare “aggrappati” alle Alpi (e all'Europa del '93) rimarrebbero solo i fratelli “separati” del Settentrione. Queste provocatorie proposte, arricchite di nuove sviluppi, il prof. Miglio ora le ripropone in un volume pubblicato da Laterza-Bari “Una Costituzione per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica”, a cura di M.Staglieno, ove alle ipotesi di elezione popolare del primo ministro, di riduzione drastica dei poteri del Parlamento, di divisione delle funzioni tra i componenti delle assemblee rappresentative e quelle degli amministratori, di abbattimento dello stato sociale e l'applicazione integrale delle regole del mercato, sul versante istituzionale ribadisce la costituzione di tre macro regioni (la Padania, il Centro id il Sud), unite in uno Stato federale.
Una proposta che, più che giustificata da un approfondito e persuasivo approccio scientifico al problema, sembra condizionata dalla avversione del prof. Milglio ai guasti creati dalla partitocrazia; una “provocazione”, però, che si muove nella direzione contraria a quella di determinare una ripresa d’interesse e d’impegno tali da ricollocare la questione meridionale al centro del dibattito politico e culturale. E come se, durante li anni ’80, l’affermarsi – non solo a parole, ma anche negli indirizzi economici e nelle pratiche sociali – delle teorie liberiste, con il loro “corredo” di pensiero “debole”, “morte” delle ideologie, ecc. avesse fatto “rovinare” anche nelle coscienze e nella dimensione etico-politica la percezione del problema Mezzogiorno come una questione che – con la realtà drammatica dei suoi “ritardi” – interpella nel profondo la storia dell’Italia post-unitaria e la funzione di governo svolta alle classi dirigenti.
In questo senso non poco ha influito la constatazione del fallimento – oggi evidente in tutti i suoi aspetti – delle politiche d’intervento straordinario, condotte per un quarantennio nel Sud col fine di ridurre le “distanze” che lo separavano dalla parte più sviluppata del Paese. Ma le distanze sono cresciute, il divario si é approfondito e c’é chi non esita a ricordarci, quasi quotidianamente, che nel Mezzogiorno é in corso una preoccupante regressione civile, sociale ed economica: la disoccupazione nel 1988 ha raggiunto la punta del 21,6%, contro il 5% del Nord e non é solo la quantità del dato che impressiona, ma anche la sua “qualità” poiché il Sud ha il triste primato di essere la sola area di un’economia avanzata, quale quella italiana, in cui – com’é stato osservato – i disoccupati adulti e di lunga durata eguagliano quelli giovani. Nel Sud, e nella Calabria in particolare, sono poi in atto processi di vera e propria de-industrializzazione: mentre al Nord si ristruttura, nel Mezzogiorno si smantella con l’effetto di netta contrazione delle attività industriali. L’industrializzazione del Sud ed il maggiore impiego nel Mezzogiorno della sua forza-lavoro hanno rappresentato due “obiettivi” delle politiche dei governi repubblicani che sono stati, però, entrambi mancati.
E le prospettive che ora s’intravedono non sembrano migliori: si ripropone, ancora una volta ed in termini che non sono sostanzialmente cambiati, la vecchia contrapposizione fra politica dell’industrializzazione e politica delle e costruzioni, che nel secondo dopoguerra aveva trovato un punto di mediazione nella teoria di un intervento infrastrutturale che doveva consentire, e in tal senso ne costituiva una precondizione, 1’insediamento delle attività industriali. E molte analisi ritengono che oggi la linea che si viene affermando é di nuovo quella che, già all’epoca di F .S. Nitti, si chiamava delle “opere pubbliche“, delle costruzioni, degli interventi infrastrutturali: si tratta di realizzazioni viarie, di interventi nelle aree urbane, di infrastrutture idriche e fognarie, ecc. Ma almeno due fatti, sotto questo aspetto, vanno sottolineati: il primo é che gli investimenti per centri direzionali delle aree urbane (che dovrebbero rappresentare un indicatore di modernizzazione) spesso si traducono in operazioni di tipo immobiliare, che non hanno quasi nessun rapporto con la modernizzazione e l’industrializzazione (qualcuno s’è spinto ad affermare che nel Sud non vi sono città propriamente moderne, se é vero che la città moderna é definita dal fatto che incorpora una funzione fondamentale che é quella della produzione dei servizi per le imprese); il secondo é che i gruppi industriali meridionali sono prevalentemente attivi nel settore delle costruzioni e che, conseguentemente, 1’uso di capitale é di tipo speculativo”, volto cioè a conseguire rendimenti elevati e a breve termine.
È fuori discussione che il Mezzogiorno in questi ultimi 40 anni ha subìto processi di profonda trasformazione, ma in che senso? Sono cresciuti i consumi e sono diminuite l’occupazione e la produttività; si vive o si tende a vivere con uno “stile” di consumo – e anche con una relativa possibilità – simile a quello delle altre parti del Paese, ma non attraverso un’autonoma produzione di ricchezza: i trasferimenti di risorse hanno accresciuto i consumi ed i redditi, ma non la produzione l’occupazione ed il risultato che si constata oggi é questo: un Sud no povero, ma più “dipendente” o, come l’ha definita qualche studioso, “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno.
È su questa base oggettiva che si fondano i processi di disgregazione e degenerazione della vita associata, che si manifestano in fenomeni come gli “incroci” fra politica ed affarismo, la gestione clientelare dei trasferimenti di risorse, il diffondersi della piaga della criminalità organizzata. Ed é tutto ciò che porta taluni a parlare di un “futuro senza speranza” per il Sud ed altri ancora di un Mezzogiorno che sia finalmente in grado di “sbrogliarsela” da solo, ci sembra superfluo sottolineare le insidie che si nascondono sotto la “nozione” di “sviluppo endogeno” del Sud, oggi riproposta dai leghisti del Nord: essa può essere utilizzata per nascondere il tentativo di abbandonare a se stesso il Mezzogiorno, di farne un’area periferica dell’europa sviluppata con un esclusivo ruolo di “mercato interno”. E se non si può non riconoscere il fallimento delle politiche di sviluppo assistito, tuttavia non si può accettare una posizione che chiede al mezzogiorno che…faccia da solo. Ad una prospettiva di marginalità, di cultura della povertà, di mero “galleggiamento”, bisogna contrapporre, ancora una volta, la tesi di un Mezzogiorno come grande questione nazionale che non può essere risolta se non con lo sforzo concorde di tutto il Paese.
Si tratta, soprattutto per lo Stato, di riconoscere i diritti dei più deboli in un “universo – come ha scritto un filosofo francese – regolato dalla legge del più forte”, di abbandonare le politiche di disimpegno, disinteresse e latitanza nei confronti delle contrade meridionali o, nel migliore dei casi, delle cosiddette “briciole”.
Ma quest’aggressione violenta al Mezzogiorno, questa corale campagna di stampa contro un Sud palla al piede dello sviluppo nazionale, “nasconde” logiche tanto di natura economica quanto di natura politica. A dare risposte alle prime, un economista di fama, Mariano D’Antonio, con questa spiegazione: “Ci sono atteggiamenti motivati che assumono a difesa dei loro interessi, i gruppi sociali più forti, che sono quelli del Centro-nord. Le grandi imprese che sovente invocano il criterio della libera competizione, non disdegnano mai di attingere ai sussidi pubblici (le vicende della ristrutturazione negli anni dal ’79 all’84 sono eloquenti. Oggi che l’economia italiana é chiamata alla grande prova del mercato unico europeo, bisogna ridurre sussidi e trasferimenti ai meridionali per riservarli a quelle porzioni forti del nostro sistema produttivo che devono competere con l’industria e la finanza più agguerrita d’Europa”. Accanto a questa, una spiegazione ancora più inquietante:
“Nell’opinione pubblica si é fatta strada la convinzione che il mercato ed il perseguimento del tornaconto personale siano l’unico collante della i nostra organizzazione sociale. Una filosofia collettiva, un nuovo darwinismo sociale che esclude un intervento pubblico correttivo del mercato, politiche di sostegno e di promozione dei più deboli. Chi é debole deve tutto il suo danno a se stesso e non può disturbare la marcia dei più forti…”.
Più incline a spiegazioni strettamente politiche Francesco Tagliamonte: “Ormai si é soggiogati dall’effetto-mafia e dall’effetto-Leghe. Il primo fa assumere per definitivo il giudizio secondo cui gli aiuti al Mezzogiorno alimentano il malaffare e la delinquenza organizzata. Il secondo attanaglia politici e parlamentari in una sorta di timor panico secondo cui, appoggiando le buoni ragioni del Sud, si perdono voti che vanno ad impinguare le leghe nordiste”. Classico il richiamo alla ragione di un autorevole storico e politico meridionale, Giuseppe Glasso, che ha ossevato: “Vogliamo, come dice Bocca, correre a turare le falle della nostra barca? Riacquistiamo pienamente coscienza della dimensione nazionale non solo del problema meridionale e delle sua attuali caratteristiche, ma anche del problema etico e sociale, da cui l’Italia è da alcuni anni afflitta. Dimensione nazionale significa strategia nazionale, alleanze nazionali, piattaforme nazionali, atteggiamenti e decisioni nazionali, il che é più che dubbio che, al Nord ed al Sud, si possa fare con le Leghe”. Durissimo, infine, il giudizio di un esperto di problemi istituzioni, quale Antonio Maccanico:
“Quale credito può venire concretamente allo sforzo di integrarsi in Europa, se il Mezzogiorno viene considerato un peso da cui liberarsi? Potrebbe accadere che la tessa Italia sia considerata dall’Europa un peso di cui liberarsi, anche se alleggerita dall’amputazione del Mezzogiorno; o, meglio, proprio per questo”.
Ma c’é un’altra considerazione da fare: ed é che in questi ultimi tempi l’andamento decrescente della spesa statale al Sud é stata inversamente proporzionale alla virulenza con la quale si é sviluppata la campagna antimeridionalista.
Ma, per completare il quadro, all’antimeridionalismo dei leghisti bisogna anche aggiungere le polemiche del novembre scorso sul Risorgimento italiano, i grossolani argomenti di Vittorio Messori contro Mazzini e Garibaldi, le farneticanti “buotades” a proposito di una…Norimberga per i protagonisti dell’Unità d’Italia: tutti “segni”, questi, di quanto oggi il senso di appartenenza alla comunità nazionale appaia in crisi (anche tra chi non condivide gli argomenti dei leghisti!), per cui un autorevole storico come Franco Della Peruta ha potuto osservare che mai oggi “il patriottismo é un valore che facilmente cade in letargo”. Anche il presidente del CENSIS, Giuseppe De Rita, in un intervento sul “Corriera della Sera” (24.XI.990) ha sottolineato quanto nella realtà italiana contemporanea stia “diventando grande l’egoismo territoriale, cioè il rifiuto di assumere impegni che travalichino gl’interessi più stretti delle singole comunità locali”, avvertendo che “purtroppo é anche un egoismo destinato a crescere visto che si intreccia con l’attuale forte spinta a radicarsi sul territorio ed a fare localismo, anche politico” e che superare tale egoismo territoriale “é un impegno che non può essere rinviato di troppo tempo” poiché “La qualità della vita e la stessa civiltà di un popolo si sono sempre misurate nella capacità di mettere a frutto comune le risorse e le responsabilità” e sarebbe triste se non ci riuscissimo noi (italiani), ormai giunti ad uno stadio avanzato di sviluppo economico complessivo”.
Queste ed altre ragioni spiegano la ripresa d’interesse, soprattutto a livello di dibattito storiografico e culturale, al periodo storico che portò nel 1860 al processo di unificazione nazionale e a riconsiderare il problema della formazione di una coscienza unitaria nelle varie regioni italiane, col superamento di quelle “differenze” caratterizzanti gli Stati italiani pre-unitari. Per quanto concerne il nostro Mezzogiorno, tra il 1815-20 lo Stato borbonico sembrava il più avanzato d’Italia. Poi, nel periodo di Ferdinando II, la svolta accentratrice aliena definitivamente la Sicilia alla monarchia borbonica e crea difficoltà alla classe dirigente meridionale. Ci fu, quindi, una evoluzione diversa dei singoli Stati: del resto, già nei primi decenni dell’800 era tramontata definitivamente l’economia mediterranea e con la rivoluzione industriale, dagli anni ’50 dell’800 in poi, si avrà la preminenza dell’Europa centro-settentrionale. È allora che il Mezzogiorno comincia ad essere tagliato fuori dai circuiti più moderni della vita economica e sociale. Nel Mezzogiorno vige la convinzione di Ferdinando II per cui tra “acqua santa ed acqua salata” il regno non abbia nulla da temere e, quindi, non abbia bisogno di una evoluzione. Ma é intorno al 1840 che nei vari stati italiani comincia a porsi il problema della formazione di una coscienza unitaria: il momento chiave é legato al dibattito sulla necessità per l’Italia di raggiungere l’unità economica per metterla al passo con le grandi potenze europee in cui si sta compiendo la rivoluzione industriale. Allora non si pensa neanche che si possa abbattere le monarchie secolari esistenti in Italia: s’immagina piuttosto una federazione di Stati, una unità doganale, con la costruzione di una grande rete ferroviaria. Tra le “voci” più autorevoli in questo dibattito ci sono personaggi poco noti come il Serristori in Toscana e Ilarione Petitti in Piemonte, che preparano un clima culturale unitario su cui si salderanno elaborazioni come quelle di Vincenzo Gioberti sull’unità morale degli italiani. E c’é anche Ludovico Bianchini, che già in quegli anni difende gl’interessi del Mezzogiorno e ancor prima dell’unificazione gli sembra che non s’identifichino con quelli del Nord. Nell’Italia del 1859-60, poi, non mancarono momenti in cui sembrò che l’unità della penisola, con la distruzione dei vecchi Stati, avrebbe realizzato un’unità culturale, politica ed economica. Ma subito dopo la proclamazione del Regno le prime delusioni. Un deputato catanzarese della Sinistra, Bendetto Musolino, in un suo discorso agli elettori aveva così decritto la situazione all’indemani dell’unificazione:
“Geograficamente parlando noi siamo quasi uniti: ma le nostre province non hanno tutte le stesse leggi, le stesse istituzioni, lo stesso organismo. Sicché, animati dalla stessa idea, sorretti dallo stesso desiderio, rassomigliamo agli atomi del caos primitivo che si agitano nel vuoto eterno senza aver trovato ancora la forzadi coesione da divenire corpo omogeno e compatto” (1861) .
Naturalmente, oggi i problemi non si pongono più nella stessa maniera: anche dove esistono stati nazionali, sorgono forti tendenze separatiste come in Francia, Spagna, Jugoslavia. C’é l’esigenza di affermare le “piccole patrie”, potremmo dire. E anche in Italia, dove non c’è il peso della nazionalità, si pone questa questione per cui rinascono egoismi economici e sociali, torna l’impressione che una piccola comunità avanzata come quella lombarda possa meglio badare ai propri interessi distaccandosi da quelle meno avanzate come il Mezzogiorno. Ma si tratta di tendenze senza fondamento, né futuro storico poiché é sempre più difficile vivere in comunità ristrette, credere che il progresso risieda nelle nuove “divisioni” d’Italia (proposte da Bossi) piuttosto che nella riaffermazione della sua unità. Così, le varie prospettive neo-federaliste non hanno alcuno respiro, né possibilità di attuazione. Tutt’al più potrebbe aver senso parlare di un potenziamento delle autonomie regionali, peraltro già attuate da tempo con modalità che sembrano aver prodotto più danni che vantaggi.
Anche dopo il 1860 emersero molte forze “nemiche” dello Stato unitario: una certa resistenza dei cattolici, un’opposizione dei nostalgici delle monarchie cadute, un’opposizione del movimento socialista che non si riconosceva nello stato liberale. In definitiva, una gran difficoltà per l’esigua classe dirigente unitaria di farsi davvero classe dirigente di tutta la nazione. I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca. E se c’è ancora qualcosa che rende preziosa la “lezione” dei meridionalisti (da Fortunato a Dorso, da Gramsci a Sturzo) é la loro convinzione che il problema del Sud non é un problema locale e settoriale non é una “questione” … straordinaria e territorialmente circoscritta, ma é un problema “centrale” d’indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato democratico e l’ambito entro cui la “questione” va risolta é quello della democrazia dei partiti.
(*) Antonio Carvello è docente di diritto dell’organizzazione pubblica economica e società presso l’Università degli Studi di Catanzaro “Magna Grecia”
Il voto il 12 e il 13 giugno è per tentare di salvare quel briciolo che resta della nostra democrazia
L’articolo 75 della Costituzione sancisce dal 1948 il diritto dei cittadini ad esprimersi sui quesiti referendari. Ma la scheda referendaria, prevista dalla costituzione sin dal primo momento, fu negata ai cittadini per oltre vent’anni salvo poi concederla nel ’70 ai clericali che volevano abrogare la legge sul divorzio. Pure l’articolo 39 della legge n° 352 del 1970 parla chiaro: solo “Se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”. La legge prevede che le operazioni di voto non si tengano più solo in caso di “abrogazione”. E ciò è ancora più evidente se si tiene conto della pronuncia della Consulta del 1978 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 39 della legge rispetto all’art. 75, comma 1, della Costituzione “limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative”.
Ma la partitocrazia ha sempre digerito malissimo i referendum vivendoli come il più grande pericolo per se stessa ed ha sempre operato per ridurne l’efficacia ed eliminare le scelte compiute dagli italiani. Berlusconi, infondo, non ha inventato nulla di nuovo: “si è dimostrato un ottimo allievo dei suoi predecessori che erano abilissimi a cancellare i referendum con un escamotage legislativo” ha dichiarato Emma Bonino che di referendum ne ha visti cancellati parecchi. L’aborto, il nucleare, la depenalizzazione del consumo di droghe leggere, il finanziamento pubblico dei partiti, la responsabilità civile dei magistrati. Nel 1972, per impedire che “il paese si spaccasse in due” per la legge sul divorzio, vennero sciolte anticipatamente le Camere dal Presidente Leone. Nel 1976, per abrogare l’aborto furono sciolte le Camere e il referendum venne poi superato dall’approvazione della legge 194 del ’78. Il referendum che chiedeva l’abolizione degli ospedali psichiatrici fu anch’esso “superato” con l’escamotage della legge Basaglia che però lasciò tali e quali gli ospedali psichiatrici giudiziari che, dopo lo scoop della commissione d’inchiesta sugli errori sanitari, oggi sappiamo in quali condizioni si trovano. “Superati” con legge di riforma anche i due referendum del ’78 e del ’80 rispettivamente sulla Commissione inquirente dei ministri e l’abolizione dei tribunali militari. I referendum sono stati da sempre sistematicamente aggirati, evitati, elusi dai partiti con norme di “superamento”. E quando non si riuscì ade evitare il referendum con scioglimento delle camere o leggine ad hoc, fu la volontà degli elettori a venire disattesa, spesso letteralmente tradita, dai partiti che, almeno in questo, si sono sempre dimostrati uniti. Dopo il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati di cui oggi si torna tanto a parlare, la volontà degli elettori che chiedevano che i magistrati pagassero per i loro errori come tutti gli altri professionisti, venne aggirata trasferendo allo Stato la responsabilità dei giudici. Ragion per cui, se un cittadino viene ingiustamente detenuto dallo Stato per colpa di un errore di un magistrato si è “ripagati”, con le nostre stesse tasse, sempre dallo Stato, cioè da noi. Cornuti e mazziati. E sulla legge elettorale che i cittadini nel ’93 avrebbero voluto maggioritaria? Anche allora, la volontà chiarissimamente espressa dagli elettori venne disattesa introducendo il famoso “Mattarellum”, la legge elettorale che continuava ad eleggere una parte del parlamento con il sistema proporzionale continuando a garantire alla partitocrazia il potere di accaparrarsi i rimborsi elettorali e stabilire i candidati nei collegi più importanti. Non parliamo dell’abolizione del ministero dell’Agricoltura che venne aggirata mediante l’istituzione dell’acronimo ministero per le politiche agricole. Paradossi italiani. Ne parla da Santoro di finanziamento pubblico abolito con referendum nel ’93 e reintrodotto senza un minimo di pudore col sistema dei rimborsi elettorali ma Beppe Grillo, il giullare della politica italiana, pur di fare dei tutta l’erba un fascio si scorda di nominare i Radicali quale unico partito che aveva raccolto le firme e aveva promosso quel referendum.
Escamotage legislativo anche per il referendum del ’95 sulla privatizzazione della Rai, mai attuata effettivamente ed ancora sotto il palese controllo dei partiti, e quello sulle trattenute sindacali, di fatto sistematicamente ignorato nei contratti collettivi nazionali. Poi la strategia sui referendum cambiò. Sabotarne la volontà diventava sempre meno conveniente per cui la via più facile fu quella di farne fallire il quorum mediante l’azzeramento del dibattito in televisione e gli inviti ad andare a mare che tanto “ghe pensi mi”. Fu così che avvenne per il referendum sulla Legge 40 per la fecondazione assistita per il quale, con lo scopo premeditato di evitare che la gente andasse a votare, il servizio pubblico televisivo, quello che dovrebbe garantirci l’informazione abbondò: propose illegittimamente non due ma addirittura tre posizioni: quella dei Si ai vari quesiti, quella dei No e quella dei “non andate a votare” che alla fine vinse. I clericali poterno, in quel caso, sommarsi agli astensionisti fisiologici e dichiarare chiusa la partita su fecondazione assistita e dar inizio ai viaggi all’estero per molte coppie italiane. Per anni si è cercato di ammazzare i referendum, quello strumento di democrazia diretta e partecipata che i padri costituenti avevano garantito al popolo per renderlo pienamente sovrano. La strage di democrazia dei referendum è in corso ormai da anni. Oggi in televisione il dibattito sui temi referendari è stato completamente cancellato e si vorrebbe far passare il messaggio che, tanto, non vale la pena andare a votare. Proprio per questo, esercitare oggi il voto ai referendum serve non solo a difenderci dal nucleare e dire che la legge è uguale per tutti ma, soprattuto, raggiungere il quorum il 12 e 13 giugno servirebbe a salvare quel briciolo che resta della nostra democrazia.
La sanità calabrese è il paradigma del palese fallimento della partitocrazia nel gestire la cosa pubblica al fine di spartirsi poltrone piuttosto che a quello istituzionale di dare un servizio sanitario efficiente. Mentre d’ovunque si fanno sagre, passerelle culturali dove sfilano sculettanti veline, la Calabria, quella reale, quella della gente vera, torna nuovamente in prima pagina, nei giorni di fine agosto, con la vicenda di malasanità. Una vicenda tragica. La morte, questa volta, è arrivata in ambulanza verso la corsia dell’ospedale di Lamezia Terme. Eleonora Tripodi, di Santa Domenica di Ricadi, paesino ubicato lungo la bellissima costa degli Dei che da Vibo porta a Tropea, aveva solo 33 anni ed aveva partorito il terzo figlio, una bellissima bambina, che purtroppo non conoscerà mai sua madre. Una storia simile, troppo simile, a quella delle altre vittime della sanità calabrese malata di partitocrazia, con un terribile buco nei bilanci e con rare oasi d’eccellenza nell’arido deserto degli sprechi, delle inefficienze e delle clientele. Una sanità in cui si diventa direttori di un’azienda ospedaliera non per il merito, come sarebbe normale ed auspicabile, ma sulla base del colore politico e della tessera di partito che si ha in tasca. Dopo aver messo alla luce una bimba in una clinica privata, a causa di complicazioni dovute ad un’emorragia, Eleonora è stata trasferita nel reparto di rianimazione allo Jazzolino di Vibo Valentia, dove pero’ non ci sarebbero stati posti. Ma com’è possibile non accettare una donna con un’emorragia che la mette in pericolo di vita? Caricata sull’ambulanza per andare all’ospedale di Lamezia Terme, Eleonora è morta durante il tragitto. Sul caso la Procura di Vibo ha aperto un fascicolo ed ha chiesto l’acquisizione della cartella clinica. La famiglia di Eleonora chiede giustizia, la magistratura apre il fascicolo d’indagine, ma ci vorranno anni, come è stato per Federica Monteleone, perché la giustizia, come si suol dire, faccia il suo corso. Un processo in Italia può durare oltre i sei anni. Sbattuta da una parte all’altra, fino alla tappa finale, quella che non consente il ritorno. Ora tutti promettono inchieste ed ispezioni, scattano i messaggi di solidarietà: una squallida passerella della partitocrazia che si preoccupa di avere, ancora una volta, un po’ di spazio sui giornali, invece di fare mea culpa e magari andare a nascondersi. La politica che fino ad oggi ha gestito la sanità calabrese faccia un passo in dietro e si assuma le responsabilità del fallimento.
Meglio arruolare e mobilitare: Emergenza democrazia in Italia? Il Processo farsa di Anna Politkovskaya. di Filippo Curtosi
La figura di Gaetano Salvemini, nel cinquantenario della sua scomparsa viene restituita alla luce grazie ad un saggio di Gaetano Quagliarello (Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007,pp 313) che ripercorre in modo organico l’intero arco della sua esistenza dal 1873 al 1975, soffermandosi su temi di scottante attualità come la morte della patria e sulla partitocrazia. Salvemini, dopo l’uscita dal Partito socialista,all’indomani della prima guerra mondiale ed in particolare di fronte al delitto Matteotti che inquieta Salvemini tanto che diventa uno dei principali propagandisti dell’antifascismo in campo internazionale e per questo fortemente osteggiato da Mussolini. Il fascismo nella lettura salveminiana non è visto come reazione al pericolo di una rivoluzione bolscevica che, come afferma lo stesso Salvemini non è mai esistito se non come” forma di agitazioni e disordini senza scopo provocati da una sinistra massimalista e inconcludente”. Il fascismo assume nella lettura dello storico pugliese i connotati di un fenomeno antiparlamentare. Antifascista de anticomunista tanto e vero che accostava fascismo italiano e comunismo sovietico e fu proprio Gaetano Salvemini a far da guastafeste nel “ Congresso internazionale antifascista degli scrittori per la difesa della cultura” che si svolge a Parigi nel 1935, presieduto da Gide e Malraux ed è li che denuncia il caso dell’arresto di Victor Serge per” trozkismo”. “Esiste una polizia segreta sovietica come la Gestapo e come l’Ovra che tiene prigioniero un intellettuale come Serge”. Scoppia il finimondo e tutta l’intellettualità è costretta a chiedere la liberazione di Serge. Togliatti nel 1945 lo ricorderà come “ un provocatore trozkista che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini”.
Il professore di Molfetta ha consegnato ai promessi sposi del Partito democratico, dice Ugo Finetti una eredità culturale che però giorno dopo giorno è sempre più vuota nel desolante deserto ideale che fa da scenario alla costruzione del nuovo soggetto politico.Siamo cresciuti negli ardori rivoluzionari giovanili e riformisti poi ed abbiamo assistito al governo di una sinistra che ha scambiato i principi in cambio di qualcosa di indecifrabile. Dovrebbero, tutti i politici vibonesi, fare proprie le frasi di Bobbio quando dice che “molte delle promesse della democrazia sono ancora promesse da marinaio”.
Norberto Bobbio nel 1975 in un bellissimo saggio dal titolo” Salvemini e la democrazia” scriveva:” Per comprendere appieno il rapporto tra Salvemini e la democrazia, non è sufficiente riferirsi all’esempio di un impegno durato tutta una vita intera e culminato nella ventennale battaglia contro il fascismo: occorre rileggere con attenzione i suoi scritti, dove è possibile rintracciare una compiuta e perfetta teoria dello Stato democratico”.
Nel 1953 Bertrand Russel pubblicò una sorta di abbecedario politico intitolato” L’alfabeto del buon cittadino e Compendio di storia del mondo( a uso delle scuole elementari di Marte). A partire dalla prima definizione( Asino: quello che pensi tu”), il premio Nobel per la letteratura disprezzava l’arroganza, l’assoluto, il dogmatico. il fanatismo. La definizione di Virtù:” sottomissione al governo” e all’opposto quella di Assurdo” Sgradito alla polizia”. O quella di Libertà” Il diritto di obbedire alla polizia”. E che dire della definizione di Saggezza” le opinioni dei nostri avi”. Per non parlare della definizione di Sacro, la cui definizione russelliana è” sostenuto per secoli da schiere di pazzi”. O di Cristiano, definito” contrario ai Vangeli”. Per non parlare di Bolscevico” chiunque abbia opinioni che non condivido”. Per tornare a Salvemini che sicuramente apparteneva a un’altra categoria di intellettuali cosi rilevava a proposito dell’essere italiani:” Quando parlano gli Italiani colti, mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco e, quello che pensa lo penserei anch’io”.” Il linguaggio storico e politico, scrive infatti Salvemini, attraversando tempi e ambienti culturali diversi, si è caricato con termini polivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuole perdere tempo discutendo di equivoci”. Liberalismo,democrazia, socialismo scrive Sergio Bucchi, sono i termini principali del lessico Salveminiano e prima ancora sono i termini fondamentali del linguaggio politico del secolo decimonono, “il più intelligente, il più umano, il più decoroso dei secoli”. Le tappe essenziali del più grande movimento di emancipazione mai realizzatosi nella storia che ebbe il suo punto d’avvio nella rivoluzione francese. Se il liberalismo si identifica in origine con la battaglia per i diritti personali e la conquista delle istituzioni parlamentari contro i privilegi feudali e i regimi dispotici, la democrazia ne è una estensione, in quanto “ ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali”, il riconoscimento per tutti, senza distinzioni di sorta di tutte le libertà personali e politiche. “Un regime libero può non essere un regime democratico, ma un regime democratico deve essere un regime libero”. In questo senso,continua Bucchi, il “metodo della libertà” costituisce la via imprescindibile di ogni rinnovamento politico o sociale. E metodo della libertà e regole della democrazia non possono non essere alla base anche di ogni tentativo di conquistare quel tanto che è possibile di giustizia sociale. La realizzazione della giustizia contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione è parte integrante non meno delle libere istituzioni, dell’ideale democratico. Istituzioni democratiche e giustizia sociale stanno tra di loro in un rapporto inscindibile di mezzo a fine,al di fuori delle istituzioni non è possibile nessuna realizzazione.
A proposito di democrazia, la casa editrice Bollati-Boringhieri ha ristampato una raccolta di memorie, lettere e saggi del grande storico Liberale e Socialista, Gaetano Salvemini. Proprio cinquant’anni anni fa moriva negli Usa lo storico pugliese. Era nato nel 1873 a Molfetta, Salvemini, precursore del liberal socialismo. Studioso della questione meridionale e maestro dei fratelli Rosselli è stato oppositore del regime fascista, aveva criticato aspramente Giolitti, accusò i rivoluzionari come Prezzolino e Godetti di disprezzare la democrazia: un sistema imperfetto ma da salvaguardare. Annotava nel 1923 sul suo diario: “E’ moda, oggi, in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la democrazia quanto e non più che facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici e anche uomini come Prezzolino, Godetti, eccetera, dimostrano per la democrazia è documento della in cultura politica (…) che è la malattia fondamentale dei “democratici italiani e non italiani”. Parole attualissime perché anche oggi ci sono plutocrazie, gerarchie, oligarchie che dicono a parole di combattere i regimi ma che poi nei fatti deridono le istituzioni democratiche. La democrazia, agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne ed ossa. Queste parole, realistiche e lungimiranti esprimono la convinzione che dietro quella parola c’è un processo di trasformazione, segnato da conquiste e da crisi forti.
Sensibile al liberalismo di sinistra di Mill e alle tesi del laburismo inglese, Salvemini ripropone l’idea del equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia dell’individuo con quella della giustizia sociale.
“La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale che un intellettuale. Se con sicurezza intendiamo un livello di vita minimo e l’uguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuole salvare la democrazia politica dal naufragio”. Attualissimo nella nostra società caratterizzata dal rischio, dalla precarietà e dall’incertezza.
In uno dei suoi ultimi scritti del 1957 dava atto dell’operato della Democrazia Cristiana di De Gasperi: “Debbo riconoscere che i democratici cristiani mi lasciano protestare, mentre prevedo che i comunisti mi taglierebbero la lingua fin dal primo giorno…il giorno in cui fosse certo che Togliatti e Nenni hanno abbandonato sinceramente ogni intenzione totalitaria starei con Nenni e Togliatti. Non volendo cadere dalla padelle nella brace sono costretto a preferire la democrazia-democrazia-democrazia di De Gasperi, alla democrazia di Togliatti”.
Oggi in Europa ed in Italia e soprattutto dalle nostre parti occorre lottare per la giustizia sociale e la libertà da ogni tipo di miseria. Le modalità della morte prima e del processo poi di Anna Politkovskaya è un chiaro esempio che esiste ed è reale una emergenza democrazia. Anna lavorava dal 1999 alla “Nuova Gazzetta” “Novaja Gazeta” per la quale aveva realizzato diversi reportage sul conflitto in Cecenia. I radicali da quelle parti hanno avuto i loro morti,non scordiamocelo mai: l’inviato di Radio Radicale Antonio Russo, torturato a Tiblisi, in Geogia; prima era toccato ad Andrea Tamburi, responsabile dei Radicali a Mosca. Le violazioni dei diritti umani sono evidenti e la società civile si deve mobilitare. “Abolire la Miseria della Calabria” lo fa perché intende contribuire a destabilizzare il sistema per rendere impossibile al potere, alla nomenklatura di destra e di sinistra di continuare a reprimere la libertà di espressione. Il dato è solo politico. Per la Calabria ci vuole una rivoluzione copernicana che non può fare certo Loiero o chi verrà dopo. Per fare questo, in Calabria ed in Italia bisogna lavorare per recuperare le tesi che furono di Gaetano Salvemini che restano ancora valide oggi. Non ci si dimentica di una esperienza socialista, libertaria, liberale e radicale, legata ai temi dello stato di diritto, delle libertà individuali, delle soggettività a partire da quella dei lavoratori. Questa è la strada maestra e la strategia dei prossimi anni e la sola via è quella di costruire un Partito democratico anche con lo spirito radicale, liberale, libertario e socialista. Pannella ci ha provato 40 anni fa e non ci è riuscito, Craxi subito dopo ed ha pure fallito. Solo così il Partito democratico che verrà sarebbe davvero tale a avrebbe l’adesione post mortem anche di Gaetano Salvemini, e modestamente anche la nostra.