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Spes contra spem – Liberi dentro. Presentato il 5 aprile nel carcere di Catanzaro il docu-film di Ambrogio Crespi e NTC

di Giovanna Canigiula

Nel primo pomeriggio del 5 aprile scorso Rita Bernardini e Sergio d’Elia, rispettivamente Presidente onorario e Segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, hanno proiettato nella casa circondariale di Catanzaro, alla presenza della direttrice, dott.ssa Paravati, e di un nutrito gruppo di detenuti, il docufilm Spes contra spem. Liberi dentro di Ambrogio Crespi. Continua la lettura di Spes contra spem – Liberi dentro. Presentato il 5 aprile nel carcere di Catanzaro il docu-film di Ambrogio Crespi e NTC

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L’Ottocento, un secolo cruciale

di Giovanna Canigiula*

L’Ottocento è un secolo cruciale nella storia dell’Italia e della Calabria ma, val bene ricordarlo, è preparato, sotto la spinta della rivoluzione francese, dal triennio 1796-1799, in cui si gettano le basi di un ritrovato nazionalismo e si ridefiniscono i termini della vita politica italiana, poiché sono sul tappeto le grandi questioni degli anni a venire: libertà, democrazia, indipendenza, unità. Agli inizi del secolo Napoleone, dopo aver creato la Repubblica Cisalpina, col proclama di Schoenbrunn dichiara finita la casata borbonica, costringe Ferdinando IV alla fuga in Sicilia, mette sul trono il fratello Giuseppe Bonaparte, quindi dà mandato al generale Massena di occupare il Regno di Napoli e al generale Reynier di ridurre al dominio francese una Calabria già prostrata dal violento terremoto del 1783 e dalla dura repressione, seguita alla breve parentesi della Repubblica partenopea del 1799, ad opera del cardinale Ruffo, sbarcato a Reggio in qualità di Vicario Regio.

Gioacchino Murat

 

A Monteleone i francesi sono accolti a braccia aperte, ma il controllo del territorio non è facile, in quanto le truppe borboniche hanno l’appoggio di bande di briganti che ostacolano le comunicazioni, depredano i villaggi, uccidono. Nel monteleonese il brigante Bizzarro1, a capo di 400 uomini, mette a dura prova il generale Messana che chiede inutilmente, con un bando, la resa pacifica delle armi. La situazione si normalizzerà, infatti, solo dopo la dura repressione del francese Manhès nel 1810.

Con Gioacchino Murat, salito al trono nel 1806, la Calabria è divisa in due province: quella Citeriore, con capoluogo Cosenza, e quella Ulteriore, con capoluogo Monteleone che, dopo tre secoli, cessa di essere feudo e diventa, grazie anche alla posizione strategica, un centro di grande rilievo.

La fine dell’Età napoleonica e, in Calabria, della centralità di Monteleone, è segnata dal congresso di Vienna del 1815, che riconsegna il regno di Napoli a Ferdinando IV, col titolo di Ferdinando I Re delle due Sicilie. Inizia, con la Restaurazione, un periodo di decadenza economica e sociale che dura fino al 1860 e oltre, come testimonia anche il vistoso calo della popolazione. Tuttavia, a dispetto del declino, il fermento culturale e politico del periodo è intenso. Già alla fine del Settecento avevano cominciato a circolare, fra gli intellettuali monteleonesi, le idee liberali della Rivoluzione francese e della Massoneria che, perseguitata a più riprese da Carlo III e Ferdinando IV, aveva attecchito perché auspicava la fine di principati e sacerdozi, in quanto compromissori della libertà che Dio ha dato all’uomo2.

Ettore Capialbi

 

Dopo il 1815, inoltre, si vanno diffondendo in tutta Italia le “vendite carbonare”, col parziale contributo di quel ceto borghese che aveva visto ridimensionate, con la caduta di Napoleone, le proprie prerogative. Senza un reale programma politico, esse legano la loro vicenda nazionale a quella europea, sulla base dell’idea che libertà individuale e libertà dei popoli siano incontestabilmente collegate. A Monteleone sono attive, in questi anni, due “vendite”, quella della Valle del Mesima e quella della Valle d’Angitola, vecchi nomi di significativa derivazione massonica. Il malcontento della popolazione, del resto, è enorme: le tasse sono esiziali, il commercio è danneggiato dalle imposte doganali, la proprietà rustica è deprezzata. In Calabria la repressione dei carbonari è violenta: donne, vecchi e bambini vengono torturati perché facciano i nomi degli affiliati alle sette.

Né va meglio da Napoli a Torino: i moti del 1820-21, che non registrano la partecipazione del popolo e neppure delle classi medie, falliscono. Diversi, tuttavia, i calabresi che vi partecipano e, fra questi, il monteleonese Michele Morelli che, a Nola, è catturato e subito ucciso3.

Delude anche il biennio 1831-33, nonostante la discesa in campo della borghesia.

Comincia, così, un periodo di relativa stasi in cui si riflette sul fallimento dei moti e si prepara, sotto l’egida di Mazzini e dei liberali, ora in sintonia ora divergenti, una nuova idea d’Italia. Parole d’ordine: indipendenza, unità, libertà. Strumenti: educazione e insurrezione. Necessità individuata: mobilitazione popolare. A Monteleone, che conta ormai meno di ottomila abitanti, gli anni Trenta sono tempo di rinascita: si apre l’ospedale civile sui resti dell’antico convento carmelitano, giunge in visita Ferdinando II che promette la costruzione di un orfanotrofio e di un istituto agrario, fioriscono attività artigianali e opifici come quello per la lavorazione della seta, lavorano diverse tipografie, è presente una scuola pittorica4 che, aperta nel Seicento, continua a produrre tele su committenza non solo religiosa ma anche privata.

Uno svizzero, Didier, nel resoconto del suo viaggio in Calabria, parlerà della Monteleone di questi anni come di un centro che va europeizzandosi, a dispetto di ciò che si vede nel resto della regione5. Certo, l’istruzione è ancora per pochi: trascurata dai francesi, è volutamente negata dai Borboni, secondo cui il popolo non deve pensare ma è sufficiente che conosca i rudimenti dell’alfabeto. Alle bambine, ad esempio, si richiede essenzialmente di saper lavorare a maglia e di avere una buona formazione cristiana. E tuttavia, nei primi anni Quaranta, è attivo un gruppo di giovani di idee liberali, come Musolino (fondatore a Napoli dei Figli della Giovane Italia, cui aderisce Luigi Settembrini), Presterà, Santulli, Morelli, Nicotra, Ammirà, Capialbi, che si riuniscono a casa di Cordopatri o al caffè Minerva.

Falliscono però, e tragicamente, i moti di Cosenza del 1844 e di Reggio del 1847.

A Cosenza un giovane Plutino, reduce dal Comitato centrale di Napoli, aveva riferito agli aderenti alla Giovane Italia la decisione dei vari partiti costituzionali e dei repubblicani di Çpiegar le bandiere di fronte ai vitali interessi della nazioneÈ: Mazzini, in sostanza, aveva offerto la corona d’Italia a Carlo Alberto perché guidasse la lotta contro l’Austria e solo una futura costituente nazionale avrebbe deciso la forma di governo migliore. La rivolta, scoppiata il 15 marzo del 1844, è subito repressa, ma la notizia non giunge a Corfù da dove i veneziani Bandiera, ex ufficiali della marina austriaca, partono per portare il loro aiuto. Sbarcati a Crotone, guidati da quello che considerano un profugo politico, in realtà il brigante Meluso, vengono traditi, catturati nei pressi di San Giovanni in Fiore e condannati a morte.

Tre anni dopo, in una Reggio che ritiene maturi i tempi, rientrano diversi studenti da Napoli, Palermo, Torino per fare propaganda rivoluzionaria. Ancora una volta le decisioni arrivano dal Comitato napoletano di liberazione: l’insurrezione dovrà partire, contemporaneamente, da Cosenza e Palermo. Ma i siciliani non ci stanno: vogliono la costituzione solo trattando pacificamente col re. é un nativo di Santo Stefano d’Aspromonte, Romeo, a decidere: toccherà a Messina e Reggio insorgere per attirare le truppe borboniche in maniera da consentire ai rivoltosi, attraverso la via dei monti, di raggiungere Palermo e Napoli. A Messina la rivolta è subito sedata. A Santo Stefano d’Aspromonte, benedetta la bandiera dal parroco e accorsi aiuti da tutti i paesi limitrofi, si insorge al grido di Çviva il re costituzionale, viva la libertàÈ. Ma si perde tempo, a vantaggio del generale Nunziante che, da Pizzo, risale via via fino a Monteleone e oltre, riuscendo ad accerchiare i rivoltosi costretti sui monti: chi non muore, è condannato al carcere duro6.

Francesco Stocco
Francesco Stocco

 

E’ il 1848 la data cruciale per l’Europa: i popoli si ribellano ai governi assoluti; da una Sicilia che ha anima separatista parte l’insurrezione che presto infiamma l’intero napoletano; Venezia e Milano sono teatro di rivolta contro gli austriaci. La partecipazione dei calabresi è grande. Rientra, dopo un esilio di circa trent’anni, quel Guglielmo Pepe che prima aveva combattuto al fianco di Murat contro gli Austriaci e poi partecipato ai moti del 1820. A Reggio gli studenti scendono in piazza. Ferdinando II, messo alle strette, è costretto a concedere la costituzione, che prevede l’istituzione di una Commissione dei Pari in cui entrano due monteleonesi, Taccone e Gagliardi. L’esempio sarà seguito in Piemonte, in Toscana, a Roma. Il disaccordo tra re e Parlamento sulla formula del giuramento, però, induce Ferdinando II a sciogliere la Camera dei deputati riunita a Monte Oliveto. Il 15 maggio è guerra civile. La notizia raggiunge la Calabria dove i Comitati per la salute pubblica di numerosi centri insorgono. A Cosenza si forma un governo provvisorio che dichiara rotto ogni patto tra il re e il popolo e chiede aiuto ai siciliani nella lotta per l’indipendenza; Catanzaro è in subbuglio; a Reggio si vivono ore di attesa; a Sant’Eufemia d’Aspromonte convergono i patrioti reggini guidati da Plutino, Romeo, Cuzzocrea, Di Lieto che, con 500 volontari, formano il Corpo dell’esercito calabro-siculo. Si appellano, con volantini, al popolo, “carne venduta alle voglie di ogni dispotico capriccio”, perché riprenda in mano il suo destino senza più affidarsi al sovrano. A Monteleone la gendarmeria borbonica è disarmata, ma lo sbarco del generale Nunziante pone subito fine all’insurrezione in tutte le province. Ricominciano, cos“, le trattative.

Il re fissa, per il 15 giungo, i comizi per l’elezione dei deputati; il Parlamento inizia i suoi lavori a luglio ma, l’anno che segue, è denso di tensioni finché, nel giugno del 1849, sciolto il Parlamento, tolta la coccarda tricolore dalla bandiera bianca, ricomincia l’ondata delle persecuzioni. Si assiste, nei tre anni successivi, a una serie di processi farsa a danno dei liberali, in cui il nuovo Procuratore Generale, Morelli, detto la “jena”, contribuisce alla distorsione dei fatti per favorire le condanne. I ricorsi degli imputati vengono rigettati dalla Corte Suprema di Napoli e solo la protesta popolare fa s“ che le condanne siano mitigate: sei su 49 i condannati, con pene da sette a trent’anni.

Nel 1852 Ferdinando II scende di nuovo in Calabria, di nuovo Monteleone lo ospita, ma il clima resta teso: si susseguono vendette, persecuzioni, perquisizioni. La magistratura è sotto pressione, gli studenti sono tenuti d’occhio. é di questi anni l’arresto del monteleonese Ammirà che, processato per la sua attività di diffusione delle idee liberali, è accusato persino di offendere il buon costume in quanto tiene in casa una copia del Decameron di Boccaccio. Non è comunque venuta meno, nonostante le batoste, l’azione dei liberali monteleonesi. Lo stesso re rischia la vita per mano di un calabrese, Agesilao Milano, che, dopo la leva, riuscito con uno stratagemma ad entrare nel corpo dei Cacciatori, durante la parata dell’8 dicembre del 1856 a Campo Capodichino, riesce a raggiungere Ferdinando II e a colpirlo col calcio del fucile.

Intanto, mentre il dibattito nazionale divide l’ipotesi mazziniana di una rivoluzione popolare dalla proposta monarchico-governativa di Cavour, le vicende precipitano e le due soluzioni finiscono col trovare una sintesi. Nel 1857 fallisce la spedizione a Sapri di Pisacane, che ha al fianco i calabresi Nicotera e Falcone. Mazzini sacrifica definitivamente l’idea repubblicana alla libertà degli italiani, i franco-piemontesi combattono contro gli austriaci, crollano i ducati di Toscana ed Emilia, nasce il regno dell’Italia del nord.

I successi infiammano il sud: a Reggio, nella bottega di un barbiere, si radunano a più riprese i rivoltosi.

La spedizione in Sicilia è uno dei momenti chiave dell’unità d’Italia: nel 1859 Francesco II subentra al padre, fiuta la tristezza dei tempi e si affretta a concedere la costituzione, ma è tardi e tutti lo abbandonano. L’anno successivo Garibaldi sbarca a Marsala, sbaraglia i borbonici, raggiunge da liberatore Palermo e si appresta ad attraversare la Sicilia mentre a Reggio Calabria sono pronti i comitati insurrezionali, che arruolano volontari allo scopo di formare un campo in Aspromonte. E’ l’uomo giusto, pragmatico e capace di animare il popolo, senza necessariamente avere lo spessore del maestro Mazzini poi rinnegato.

Luigi Bruzzano
Luigi Bruzzano (1838-1902)

La sua impresa aveva messo in moto i calabresi che vivevano a Torino e a Genova e che subito avevano avviato un’affannosa colletta di soldi ed armi. Da Quarto si erano imbarcati con lui nove cosentini, sei catanzaresi e altrettanti reggini. Destinazione Sicilia, dove tuttavia l’insurrezione era fallita sul nascere. Le tappe del generale erano state trionfali: Calatafimi, Palermo, Milazzo, Messina. Sotto la guida di Musolino e Plutino, ai calabresi era stato affidato il compito di occupare il forte di Altafiumara, sullo stretto, per facilitare il passaggio del generale. Il piano, però, era mutato e i patrioti erano risaliti sui monti per attirarvi le truppe borboniche della costa. A San Lorenzo, in duecento e ben accolti dalla popolazione, il 16 agosto danno il via all’insurrezione e, il giorno successivo, si ricongiungono con Garibaldi a Mileto. Intanto, le truppe borboniche di stanza a Monteleone sono allertate e, proprio mentre Garibaldi e Bixio raggiungono Mileto, il generale Ghio prepara la ritirata a Napoli. Il 21 agosto, dopo aspri scontri, Reggio è conquistata e a Londra giunge la notizia che il Regno di Napoli è ormai cancellato dalle carte d’Europa.

Ricomincia la salita. I paesi insorgono. Garibaldi raggiunge una Monteleone sguarnita che lo accoglie trionfalmente e vi sosta, ospite del marchese Gagliardi, dal balcone del cui palazzo incita la gente venuta ad ascoltarlo: “Se un popolo risponde al grido di libertà – dice – esso è degno d’averla è. Proprio a Monteleone c’era stato un precipitoso quanto inutile cambio di guardia: il maresciallo Vial, preoccupato dalle notizie che giungevano, si era dimesso e da Pizzo, con un migliaio di soldati, si era imbarcato alla volta di Napoli; il suo successore, il generale Ghio, non aveva potuto far altro che abbandonare il paese e mettersi in marcia verso Tiriolo. Intanto, Catanzaro, Maida, la stessa Tiriolo vengono liberate. Da Maida Garibaldi chiede aiuto contro le truppe di Ghio ferme a Soveria Mannelli. Ed è a questo punto che la storia del poeta e patriota Luigi Bruzzano e quella della sua terra si intrecciano: il 30 agosto, a Soveria Mannelli, poco più che ventenne, prende parte allo scontro tra i garibaldini guidati dal generale Scocco, che aveva organizzato un suo gruppo, i Cacciatori della Sila, e i borbonici guidati da Ghio che, vistosi circondato dalle truppe nemiche posizionate sulle alture e incalzato frontalmente da Garibaldi, si arrende insieme ai suoi 10.000 uomini. Il resto del tragitto, fino a Salerno, è un passaggio attraverso rivolte già compiute.

Nella cittadina campana Garibaldi incontra altri due calabresi, Salazar e Piria, lo stesso che di lì a poco, su incarico di Cavour, avrebbe preparato il plebiscito in Calabria. Poi la cronaca: in ottobre, a Teano, il Dittatore dell’Italia Meridionale consegna a Vittorio Emanuele II le due Provincie continentali delle Due Sicilie che, come ratificherà nel documento a sua firma dell’8 novembre successivo, lo hanno scelto quale loro Sovrano Costituzionale, unendosi alle altre Province d’Italia, con 1.302.064 di voti a favore e 10.312 contro. Fra i parlamentari del nuovo Regno un monteleonese, Musolino e, fra i senatori, quel marchese Gagliardi che aveva finanziato l’impresa garibaldina7.

Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono di grande fermento politico, economico, sociale e culturale in Italia, ma il Sud da subito arranca. Alla Camera il deputato del collegio di Melito Porto Salvo, Agostino Plutino, protesta ripetutamente contro la cattiva amministrazione regia, propensa a “piemontesizzare” i territori liberati da Garibaldi. Ovunque si chiede Roma capitale, ma la Francia si oppone e il governo Rattazzi scontenta tutti. Così Garibaldi, nel 1862, torna in campo, risale da Palermo verso Napoli ma è fermato e ferito dai Forestali, sull’Aspromonte, nel corso di uno scontro con i sessanta battaglioni che, guidati dal generale Cialdini, gli sono stati mandati contro, mentre a Reggio la Giunta Municipale, il Consiglio Comunale e gli ufficiali della Guarda Nazionale si dimettono.

Garibaldi ritornerà in Calabria, ammalato, nel marzo del 1882, per raggiungere Palermo e partecipare alla commemorazione dei Vespri. Il viaggio in treno è lentissimo: dappertutto, lungo i binari, folle di calabresi giunte a salutarlo. Il legame con Reggio è forte, la città non l’ha mai dimenticato, nel decennio successivo alla spedizione gli ha conferito una medaglia, lo ha eletto presidente onorario della Società Operaia di Mutuo Soccorso, gli ha mandato un assegno di mille lire annue nel momento in cui lo ha saputo in difficoltà8.

Eppure, masse intere di contadini ridotte in miseria gli rimproverano di non aver mantenuto la promessa di una riforma agraria: l’agognata unità ha prodotto un ulteriore arretramento nelle loro condizioni di vita, provocando periodiche insurrezioni e acuendo il fenomeno del brigantaggio. é un piccolo esercito composito quello che si ribella, fatto di braccianti esasperati dallo sfruttamento dei latifondisti, dall’eccessiva tassazione, dalla privatizzazione delle terre demaniali, dalla vendita dei beni ecclesiastici, dall’obbligo del servizio di leva e poi di pastori, ex garibaldini, ex soldati dell’esercito borbonico, malviventi, latitanti: sono, per la gran parte, i “cafoni” di Salvemini in guerra contro i “galantuomini” locali e l’industrializzazione del nord. La repressione, affidata al generale Cialdini, è dura: la legge Pica del 1863, che gli conferisce poteri speciali, consente di colpire non solo i presunti briganti ma anche parenti e semplici sospettati.

In Calabria, la rottura dell’isolamento ha creato le condizioni per l’avvio di una situazione stabile di marginalità economica. L’apertura di un mercato nazionale e l’estensione del gravoso sistema fiscale piemontese, grazie alle cinque leggi Bastogi che si sono susseguite tra il 1861 e il 1862, hanno colpito le poche industrie esistenti. Fino alla metà dell’Ottocento, infatti, la regione, nei territori del cosentino e del marchesato crotonese, produce il 70% della liquirizia consumata sul territorio nazionale e questo è l’unico prodotto che ancora a fine secolo riesce ad esportare in Belgio, Gran Bretagna e Olanda. A Catanzaro, Cosenza e Villa San Giovanni è stata a lungo attiva la manifattura della lana. Funzionavano bene i comparti alimentare e meccanico, la lavorazione di cuoio e pelli, le industrie estrattiva e metallurgica. Già alla vigilia degli anni Settanta e nel ventennio successivo cambia tutto: la crisi agraria, conseguenza di un mercato libero che trova le campagne impreparate a competere con i paesi europei, determina il crollo di settori trainanti come quello granario e vinicolo; declinano le industrie e le piccole unità produttive di tipo artigianale; prende il via il fenomeno migratorio, unico in grado di determinare quel flusso di risorse che può dare respiro alla bilancia dei pagamenti e consentire, a molte famiglie, di sottrarsi alla miseria9.

Il malumore è enorme: il Sud si sente tradito e depredato da chi avrebbe dovuto sanare le strutture feudali lasciate dai Borboni e, invece, adotta una politica di rapina. Nessun governo pare realmente interessato alle sorti della parte più debole e arretrata del paese: è di Depretis la tassa sul grano, come di un meridionale, Crispi, quella politica protezionistica che va ad intaccare la piccola coltura vinicola ingrassando le entrate del Nord e i latifondisti del Sud, ben rappresentati in Parlamento e favoriti da un sistema elettorale che esclude dal diritto di voto chi non sa leggere e scrivere. Salvemini invoca il federalismo come unica faticosa via d’uscita10; ancora negli anni Venti del nuovo secolo Gramsci denuncerà il “patto mostruoso” tra la classe liberale e progressista del Nord e i latifondisti reazionari del Sud voluto da Crispi che, alla domanda di terra dei contadini meridionali, risponde con la facile promessa delle conquiste coloniali11.

Appare lontanissimo quel Nord insieme al quale si è lottato per l’indipendenza e l’unità.

Lì crescono i poli industriali; si forma un proletariato industriale con ansie e istanze diverse da quelle degli operai che, lavorando in fabbriche avvantaggiate dal protezionismo, godono di miglior trattamento salariale; cresce una coscienza operaia di classe che avanza le sue rivendicazioni non più solo attraverso la rete solidale delle Società Operaie di Mutuo Soccorso ma anche attraverso l’Associazione Internazionale degli Operai, di matrice anarchica. Si discute e, nella Milano del 1882, si giunge alla costituzione del Partito Operaio Italiano, subito ridotto alla clandestinità dalla parte più conservatrice della borghesia.

E, però, il fiume è inarrestabile: si diffonde il marxismo; nel 1889 delegati italiani del Partito Operaio partecipano, a Parigi, alla Seconda Internazionale; le diverse categorie dei lavoratori si organizzano in federazioni; si costituiscono le prime Camere del Lavoro; nasce a Genova, nel 1892, il Partito Socialista, che tenta di mediare tra socialdemocrazia e spinte rivoluzionarie. La crisi del ’93, che segna un regresso delle condizioni di vita di operai e contadini, non trova impreparati e, alla fine degli anni Novanta, sono proprio gli operai a scendere in piazza, da soli e senza grossa organizzazione, intanto che i socialisti tentano la via della mediazione e si spaccano. Il secolo si chiude con lo sciopero generale di Genova12.

Diffuso è il pregiudizio, anche in ambiente operaio e favorito dal riformismo socialista, che l’arretratezza del Mezzogiorno sia legata all’inferiorità della sua razza13. Quando Gramsci affronterà la questione meridionale – individuando nell’alleanza tra la borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri del sud le ragioni dell’immobilismo semifeudale del Mezzogiorno ridotto, insieme alle isole, a “colonia di sfruttamento” – inviterà il proletariato industriale del nord ad allearsi con i contadini del sud e a guidare la lotta per l’emancipazione14.

E tuttavia, nei piccoli centri calabresi, sia pure con forte caratterizzazione locale, non manca il fermento culturale che si respira nel resto del paese. A Monteleone di Calabria, all’indomani dell’Unità, si succedono come sindaci gli uomini che avevano guidato idealmente il rinnovamento, come Cordopatri, Gagliardi e Capialbi; scrivono e pubblicano figure versatili come Cordopatri, Morelli, Santulli, Pignatari, Lumini, Morabito, Ammirà, Marzano, Gasparri, Mele; uno dietro l’altro vedono la luce diversi fogli periodici, in cui è dato grande risalto ai problemi locali e alle tradizioni popolari e che meriterebbero maggiore approfondimento: “La Voce pubblica”, “La Verità”, “La Ghirlanda”, “Folklore calabrese”, “Cronaca Vibonese”, “Il primo passo”, l’“Avvenire Vibonese” di Eugenio Scalfari e, dal 1889 al 1902, “La Calabria. Rivista di letteratura popolare” di Bruzzano. Luci e ombre, comunque: il secolo qui si chiude, infatti, con l’arresto dei fratelli Raho, nella cui tipografia si stampavano giornali democratici e socialisti. Muta poco nei primissimi anni del Novecento.

Ancora fogli e periodici, testate di destra o socialiste, testimoniano un vivissimo pullulare di idee e interessi. Bruzzano, che si era dedicato al recupero delle tradizioni popolari in un momento particolarmente difficile per le masse del sud, muore nel 1902 e la sua cittadina si avvia al ventennio fascista tra alti e bassi.

Vitalità politica e culturale, scavi archeologici e pubblicazioni di grande interesse come quelle di Umberto Zanotti Bianco e Paolo Orsi15, personalità di spicco come Lombardi Satriani e, poi, l’altra faccia della medaglia, che racconta il disastro di due terremoti, la miseria e l’emigrazione, le cattive condizioni igieniche, la malaria.

Giovanna Canigiula

1F.S. Nitti, Eroi e briganti, Longanesi, Roma-Milano, 1946, pp. 43-44 2A. Dito, Storia della massoneria calabrese. Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, Brenner, Cosenza, 1980 3R. Giraldi, Il popolo cosentino e il suo territorio: da ieri a oggi, Pellegrini Editore, Cosenza, 2003, p. 165 e ss 4 C. Carlino – G. Floriani, La “Scuola”di Monteleone. Disegni dal XVII al XIX secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001 5 A. Borello (a cura di), Cronistoria di Vibo Valentia. 1830-1899, in “Sistema bibliotecario vibonese”, “Biblioteca digitale”, 2000, p. 263 e ss 6F. Aliquò Taverriti, La Calabria per la storia d’Italia, “Corriere di Reggio”, Reggio Calabria, 1960, p. 41 e ss 7F. Aliquò Taverriti, op. cit. 8F. Aliquò Taverriti, op. cit. 9 V. Daniele, Ritardo e crescita in Calabria. Un’analisi economica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. Dello stesso autore è possibile consultare Una modernizzazione difficile. L’economia della Calabria oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001. Notizie sulle industrie nel Regno di Napoli si trovano in M. Petrocchi, Le industrie del Regno di Napoli dal 1850 al 1860, Edizioni R. Pironti, Napoli, 1955. Il periodo di crisi è sintetizzato da A. Placanica, Storia della Calabria dalle origini ai nostri giorni, Meridiana libri, Catanzaro, 1993, p. 348 e ss 10 G. Salvemini, Il federalismo, in R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. II, Laterza, Roma-Bari,1977, p. 348 e ss 11 A. Gramsci, Il Mezzogiorno e la rivoluzione socialista, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 535 e ss. Sullo stesso tema cfr. A. De Viti De Marco, Il miraggio della Libia, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 424 e ss 12M. Michelino, 1880-1993. Cento anni di lotte operaie, Edizioni Laboratorio politico, Napoli, 1993. 13A. Gramsci, op. cit. 14N. Colajanni, Per la razza maledetta, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 431 e ss. 15M.A. Romano, L’archeologia di Paolo Orsi a Monteleone Calabro. 1912-1925, Qualecultura, Vibo Valentia, 2006.

*Intervento tratto da La Calabria, antologia della rivista di Letteratura popolare diretta da Luigi Bruzzano a cura di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido, – Città del Sole edizioni

 

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Buon compleanno Italia!

Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommen- surabili. Nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.

Giuseppe Garibaldi


 

Buona lettura

A 150 anni dell’Italia unita, Abolire la miseria della Calabria dopo il numero precedente dedica ancora il suo primo numero del 2011 alla storia del nostro Paese e al ruolo del Mezzogiorno nella costituzione dello stato unitario. Ancora una volta in copia omaggio gratuita con una tiratura di 10.000 copie grazie al contributo della Provincia di Catanzaro che sentitamente ringraziamo.

BUONA LETTURA

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Cose del vecchio mondo

di Giovanna Canigiula

Sellia Marina diventa comune autonomo il 13 dicembre 1956, con legge istitutiva n. 1439 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 1957. Fino a quel momento il territorio apparteneva ai comuni di Sellia, Simeri Crichi, Soveria Simeri, Magisano, Albi e Cropani e, infatti, si legge nel testo che il neonato ente, in provincia di Catanzaro, è composto da “Sellia Marina, capoluogo del nuovo comune, dalle frazioni Uria di Magisano, Calabricata e località Feudo De Seta di Albi, e dalle località di La Petrizia di Soveria Simeri e Frasso e Rocca di Cropani”. Si legge ancora che il “Governo della Repubblica è autorizzato a far delimitare il territorio del nuovo comune di Sellia Marina” e che il “Prefetto di Catanzaro, sentita la Giunta provinciale amministrativa, provvederà al regolamento dei rapporti patrimoniali e finanziari tra i comuni interessati”.

I 13 chilometri di costa del paese marino, un tempo paludosi, come ricorda il toponimo ‘Omomorto’ di Simeri Crichi, costituiscono un unicum. La posizione, inoltre, è geograficamente favorevole: mare, collina e, vicinissima, la Sila. La storia di Sellia Marina è strettamente legata a quella di Sellia e la separazione della zona costiera da quella a monte è stata sicuramente travagliata. Come è accaduto un po’ dappertutto, il borgo montano si è progressivamente andato spopolando: molti sono emigrati per mancanza di lavoro, altri hanno preferito spostarsi in città o lungo la costa. In questi ultimi anni il paese ha cercato di rivitalizzarsi: ad agosto, ad esempio,  la sagra dell’olio attira centinaia di persone che hanno, così, l’opportunità di conoscere un territorio incontaminato e apprezzarne i posti più caratteristici, come i ruderi dell’antico castello medievale, le chiese, i vicoli strettissimi che conducono a vecchi frantoi aperti per l’occasione. Nel 2003 l’ente montano ha deciso di citare il comune di Sellia Marina per riavere lo sbocco a mare perduto e, nei giorni scorsi, il Tribunale di Catanzaro ha accolto l’atto con sentenza n.1108/2010: il fondo in località Don Antonio, dopo la registrazione della sentenza, dovrebbe passare al borgo montano. Si tratterebbe di un cambio di proprietà non da poco: la zona Faro Blu- Indian è quella nella quale, in questi decenni, l’ente marino ha investito, realizzando un tratto di lungomare, un parco attrezzato all’interno della pineta e una piazzetta che ospita le manifestazioni estive. Come è potuto accadere e, a dispetto dei facili campanilismi, cosa accadrà? Riguardo al primo punto, si vocifera di un accordo fatto dall’attuale amministratore di Sellia Marina col precedente amministratore del comune montano. L’accordo, stando alle voci, prevedeva la cessione del tratto di forestale antistante lo sterrato tra l’Asso di Fiori e l’Indian: in questa zona sono sempre scesi a mare gli abitanti di Sellia e qui, moltissimi anni fa, avevano le loro baracche di legno sulla spiaggia. Mi auguro che il Sindaco possa smentire perché, se così non fosse, la leggerezza risulterebbe imperdonabile e di questa si dovrebbe, a mio parere, rendere conto. Quale lo scenario che si apre? Si potrebbe dire: cambio di proprietà, nulla di fatto nella realtà. Andremo a mare dove sempre siamo andati. Anzi, c’è chi vede nella vicenda una sorta di punizione divina per le inadempienze terrene. L’accusa che si muove alle diverse amministrazioni succedutesi nell’ente marino, infatti, è quella di non essere state in grado di gestire un territorio così ampio, di non averne saputo sfruttare le enormi potenzialità, di avere consentito in alcune aree una cementificazione abusiva selvaggia, di avere lasciato località prive di servizi minimi quali le fogne e l’illuminazione. Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia, sul quale il cittadino ama sorvolare: chi ha acquistato a quattro soldi, sapeva scientemente di farlo perché nulla era regolare ma sperava, tuttavia, che le pressanti richieste avrebbero portato nel tempo a sanare situazioni ormai consolidate. I problemi sono sempre stati molti. Uno su tutti l’inquinamento delle acque, in parte dovuto al fatto che il depuratore non è in grado di rispondere, d’estate, al triplicarsi delle presenze e, in parte, agli scarichi abusivi di vario tipo mai realmente colpiti.

Non voglio farla lunga, per cui pongo le seguenti domande: come potrà un piccolissimo comune montano gestire una realtà così complessa? Che tipo di accordo dovrebbero raggiungere i due enti, visto che quello a mare perde l’unico tratto sul quale ha molto investito? E’ vero che c’era un accordo sottobanco, mal finito, tra gli amministratori dei due enti? Non dovrebbe la popolazione essere informata, con un consiglio comunale aperto sull’accaduto, sulle eventuali possibili strategie da adottare e sugli sviluppi? Non dovremmo, noi cittadini, mobilitarci perché sia indetto?

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Il lavoro, la Calabria e l’emigrazione

di Giovanna Canigiula
La prima pagina dell’Avvenire Vibonese del 18 marzo 1893 è interamente dedicata al fenomeno dell’emigrazione, in preoccupante ripresa dopo un breve rallentamento della corsa. La grave crisi agraria di fine secolo, infatti, colpisce la Calabria e, in particolare, il settore agricolo. Si calcola che, tra il 1870 e il 1915, abbia lasciato la regione un terzo della sua popolazione e che il picco sia stato raggiunto nel ventennio tra il 1892 e il 1911, quando se ne andarono 714.731 calabresi. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo con maggiori opportunità occupazionali tanto che, ad un certo momento, intervennero politiche restrittive per limitare l’ingresso di nuovi migranti. All’indomani dell’Unità d’Italia, l’estensione nelle regioni annesse della legislazione e del sistema fiscale piemontesi, attraverso le cinque leggi Bastogi, provocarono i primi problemi. Aggravio fiscale, unificazione commerciale, libero scambio, tradimento del problema demaniale, vendita dei beni ecclesiastici, aumento del costo della vita ma non dei salari, ruppero gli equilibri su cui poggiava la struttura feudale borbonica, tagliarono le gambe alla piccola industria, determinarono la crisi del settore granario, favorirono i potenti gruppi agrari a svantaggio del resto della popolazione. Una serie di calamità naturali, cui si aggiunsero la malattia del baco e la conseguente chiusura delle filande che garantivano lavoro stagionale alle donne, fecero il resto.
Pizzo è la spiaggia dell’imbarco che conduce a Genova, dal cui porto centinaia di migliaia di poveri partono per l’incantato Eldorado delle speranze. La situazione appare peggiorata: se, fino a un decennio prima, lasciavano la loro terra solo gli uomini validi  attratti dall’illusione di facili guadagni e con la speranza di un viaggio più o meno lontano dal quale si tornava, ormai attraversano l’Atlantico intere famiglie, dietro al peso di insopportabili miserie. L’emigrante del passato era ricordato attorno al focolare, una sua lettera o un vaglia ne testimoniavano il pensiero per i cari. L’esodo di fine Ottocento è più drammatico perché chi parte non torna e rescinde definitivamente il legame con la propria terra. Il motivo, si legge, non è che uno solo: l’impossibilità di vivere, sia pure di stenti, in patria. Non c’è possibilità d’illudersi: si emigra non per la lusinga di speranze rosee e lontane, non per l’attrazione che l’ignoto esercita sulle menti inculte, non per migliorare le proprie condizioni; si emigra invece per trovare un nuovo posto, nel quale la vita sia possibile. Il posto già occupato in patria non è più sostenibile. Non solo i poveri o gli artigiani sono fuori di posto, ma è la nostra società intiera spostata, i ricchi come i poveri stanno a disagio, vanno in cerca di un nuovo assetto, nel quale l’onesto lavoro sia possibile, e la vita resa più facile e meno colma di triboli e spine. Il ricco, o colui che può aspettare ancora, spera di trovare il nuovo posto in patria, chi non può aspettare sotto lo stimolo della fame parte, scappa, non guarda il pericolo futuro, pur di sottrarsi a quello permanente, incessante, continuo che lo minaccia. E’ un dato allarmante: ricco è colui che può permettersi il lusso di aspettare ancora. Intere famiglie vendono tutto, raccolgono gli ultimi risparmi, se ne vanno senza rammarico, anzi, col sollievo di non lasciarsi nulla alle spalle e di sottrarsi alle persecuzioni fiscali, all’incubo della liquidazione economica, alla miseria. L’immagine dell’emigrante è quella di un uomo che parte col coraggio che anima i disperati alla ricerca di pace. Le rivoluzioni politiche quotidiane, la febbre gialla, il vomito nero, gli orrori sotto tutte le forme, della vita vissuta sotto i tropici, ai quali va incontro, non lo sgomentano. Il settimanale tiene una piccola rubrica sull’emigrazione: il 24 marzo 1892, ad esempio, riporta una disposizione del Ministero che proibisce ogni operazione di emigrazione diretta al Venezuela per le cattive condizioni sanitarie di quelle contrade, invase da mortali epidemie. Il piroscafo “Colombo” proveniente dal Brasile, ebbe a soffrire molti decessi durante la traversata, ed ora sconta la quarantena prescritta al lazzaretto dell’Asinara. A bordo dello stesso trovansi varii nostri concittadini  di ritorno dall’emigrazione, disillusi dal sognato Eldorado. C’è chi torna e chi parte lo stesso e si sorride a chi cerca di trattenere, non si maledice nessuno, si è senza indignazione, calmi e rassegnati a crearsi una nuova patria perché, nella propria, la miseria è passata sulla testa di tutti e quelli che son creduti ricchi, in realtà sono pezzenti mascherati, che non possono dare lavoro agli altri perché anch’essi mancano del necessario, ed hanno oneri maggiori da sopportare.
Il Governo non impedisce la corrente          dell’emigrazione ma dirama circolari che danno conto del modo in cui si vive all’estero e invita alla prudenza: del 1891 è la Circolare ministeriale a firma di Ramognini, che raccomanda agli italiani che vogliano recarsi in Venezuela di accettare solo lavori lungo la linea Caracas- Valenza, una delle più sane. In quest’area, oltretutto, gli operai impiegati dalla ditta tedesca che ha in appalto i lavori di costruzione di una nuova ferrovia godono di sufficiente assistenza medica, per la quale hanno una ritenuta del 2% sui salari e però si suggerisce loro, essendo il vitto piuttosto caro, di non accettare contratti che non assicurino una mercede non inferiore a nove o dieci lire al giorno. Il 4 luglio del 1892, è pubblicata la circolare con cui il Prefetto Carlotti mette in guardia da eventuali truffe in Perù: molti possessori di buoni del debito esterno peruviano si sono riuniti in Società sotto il titolo “Peruvian Corporation” ed avendo ottenuto da quel Governo, in garenzia del loro credito, una certa estensione di terreno, hanno pensato di introdurvi famiglie italiane per affidarne loro la coltivazione. A questo scopo qualche Agente avrebbe già aperte trattative con la suddetta Società. Si vorrebbe con ciò tentare, a rischio e pericolo degli emigranti italiani, l’attuazione di quel progetto per ora solo vagamente ideato e che non presenta sicure garanzie di buona riuscita. Da qui il divieto ministeriale ad Agenti e Subagenti di compiere operazioni d’emigrazione per il Perù, fino a nuove disposizioni.
Gli immigrati italiani, infatti, vivevano ammassati negli slums delle metropoli statunitensi e lavoravano in condizioni disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie. Nel Sudamerica erano impiegati nei lavori agricoli, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. Leggendo questi pochi documenti si avverte l’incapacità del Governo di fronteggiare il fenomeno attraverso interventi che rimuovano le cause dell’emigrazione. La legge Crispi del 1888 e quella del 1901 che assegna allo Stato, attraverso il Commissario Generale dell’Emigrazione, il compito di tutelare e intervenire a favore degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e dopo, denunciano chiaramente il fatto che l’agire politico sia indirizzato non tanto a ostacolare il flusso migratorio, quanto a prendersi parzialmente cura, dopo averle ignorate o sottovalutate, delle condizioni di chi lasciava il paese. Secondo la redazione del settimanale è giusto che il Governo non impedisca l’emigrazione, bisogna però che si conoscano le difficoltà alle quali gli emigranti vanno incontro, partendo senza notizie sicure dei luoghi ai quali sono diretti. Viene così riportato per esteso l’invito che Piero Lucca, per il Ministro, rivolge alle Prefetture affinché pubblicizzino la legge del 26 febbraio 1891 per evitare delusioni, viaggi inutili e dispendiosi, e dolorose peripezie: essa stabilisce che non è permesso l’ingresso nel territorio dell’Unione agli stranieri idioti, pazzi, infermi, poveri che possano cadere a carico della pubblica beneficenza, affetti da malattie nauseanti o pericolose per motivi di contagio, condannati per reati infamanti, o trasgressioni che implicano turpitudine morale, ai poligami e ai lavoratori arruolati per contratto sia esso scritto, verbale o sottinteso, o che abbiano ricevuto danaro da altri come caparra di lavoro. E’ parimenti proibito entrare negli Stati Uniti con biglietto pagato da altri o assistiti da altri per l’espatrio nonché assistere o incoraggiare la importazione o immigrazione di stranieri a mezzo di avvisi, stampati o pubblicati all’estero. Nessuna compagnia o proprietario di navi può favorire l’immigrazione, a meno che non si accerti l’esistenza di ordinaria corrispondenza commerciale, pena una multa di mille dollari o un anno di reclusione o entrambi. E’compito del comandante denunciare, all’arrivo nei porti americani e prima dello sbarco, nome, nazionalità, ultima residenza e destinazione di ogni straniero agli ufficiali ispettori che, saliti a bordo, devono passare in rassegna tutti gli immigrati e possono consentirne uno sbarco provvisorio per sottoporli a visita in tempo e luogo designati, e trattenerli fino a ispezione ultimata. Un’ulteriore multa di 300 dollari è prevista per capitani, agenti, consegnatari o proprietari di navi che si rifiutino di pagare le spese di mantenimento per tutto il tempo che gli immigrati restano a terra e quello successivo per il ritorno a bordo.
Nonostante i rischi, le compagnie di navigazione, in questi anni, si fanno concorrenza, riducono i prezzi del transito, accordano facilitazioni, cercano di accaparrarsi il favore delle agenzie di emigrazione: la miseria fa fare buoni affari. Il paesaggio del sud, invece, tradisce gli abbandoni: lo esodo continua, e le nostre campagne diventano deserte: la vigna non si coltiva, le ulive non si raccolgono, e lo aratro non feconda più i nostri terreni. Come nei territori privi di popolazione il pascolo si estende, le mandrie si moltiplicano […]
Solo qualche anno prima, nel 1885, l’Avvenire Vibonese aveva seguito con attenzione gli sviluppi della discussione sulla crisi agraria in Parlamento, giudicandoli poco soddisfacenti dal momento che l’agitazione che serpeggiava nel Paese si mantiene tuttora sostenuta da un penoso disequilibrio fra la gravezza dell’imposta e la povertà della rendita. Aveva quindi proposto ad agricoltori e proprietari fondiari di aderire al Comitato Centrale della Lega di Difesa Agraria costituitosi a Torino, per poterne a loro volta costituire uno locale. Fuori dai limiti dell’appartenenza politico- ideologica ad un partito, aveva invitato a sostenere l’unico rimedio temporaneo possibile: l’aumento del dazio sull’importazione dei cereali. E riportato le parole di un illustre membro del Senato: “Le libertà economiche del 1848 furono una reazione contro il dispotismo politico, oggi la vostra Lega Agraria insorge contro il dispotismo dottrinario. Plaudo alle Provincie antiche, ieri iniziatrici dell’indipendenza politica, oggi iniziatrici dell’indipendenza economica”. Peggiorato lo scenario, non rimane, negli anni Novanta, che tenere informati sull’andamento del flusso migratorio e cercare di cautelare chi emigra attraverso una campagna d’informazione sui rischi cui si va incontro.
E battagliare, per chi resta, affinché l’istruzione diventi una priorità.

a prima pagina dell’Avvenire Vibonese del 18 marzo 1893 è interamente dedicata al fenomeno dell’emigrazione, in preoccupante ripresa dopo un breve rallentamento della corsa. La grave crisi agraria di fine secolo, infatti, colpisce la Calabria e, in particolare, il settore agricolo. Si calcola che, tra il 1870 e il 1915, abbia lasciato la regione un terzo della sua popolazione e che il picco sia stato raggiunto nel ventennio tra il 1892 e il 1911, quando se ne andarono 714.731 calabresi. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo con maggiori opportunità occupazionali tanto che, ad un certo momento, intervennero politiche restrittive per limitare l’ingresso di nuovi migranti. All’indomani dell’Unità d’Italia, l’estensione nelle regioni annesse della legislazione e del sistema fiscale piemontesi, attraverso le cinque leggi Bastogi, provocarono i primi problemi. Aggravio fiscale, unificazione commerciale, libero scambio, tradimento del problema demaniale, vendita dei beni ecclesiastici, aumento del costo della vita ma non dei salari, ruppero gli equilibri su cui poggiava la struttura feudale borbonica, tagliarono le gambe alla piccola industria, determinarono la crisi del settore granario, favorirono i potenti gruppi agrari a svantaggio del resto della popolazione. Una serie di calamità naturali, cui si aggiunsero la malattia del baco e la conseguente chiusura delle filande che garantivano lavoro stagionale alle donne, fecero il resto.Pizzo è la spiaggia dell’imbarco che conduce a Genova, dal cui porto centinaia di migliaia di poveri partono per l’incantato Eldorado delle speranze. La situazione appare peggiorata: se, fino a un decennio prima, lasciavano la loro terra solo gli uomini validi  attratti dall’illusione di facili guadagni e con la speranza di un viaggio più o meno lontano dal quale si tornava, ormai attraversano l’Atlantico intere famiglie, dietro al peso di insopportabili miserie. L’emigrante del passato era ricordato attorno al focolare, una sua lettera o un vaglia ne testimoniavano il pensiero per i cari. L’esodo di fine Ottocento è più drammatico perché chi parte non torna e rescinde definitivamente il legame con la propria terra. Il motivo, si legge, non è che uno solo: l’impossibilità di vivere, sia pure di stenti, in patria. Non c’è possibilità d’illudersi: si emigra non per la lusinga di speranze rosee e lontane, non per l’attrazione che l’ignoto esercita sulle menti inculte, non per migliorare le proprie condizioni; si emigra invece per trovare un nuovo posto, nel quale la vita sia possibile. Il posto già occupato in patria non è più sostenibile. Non solo i poveri o gli artigiani sono fuori di posto, ma è la nostra società intiera spostata, i ricchi come i poveri stanno a disagio, vanno in cerca di un nuovo assetto, nel quale l’onesto lavoro sia possibile, e la vita resa più facile e meno colma di triboli e spine. Il ricco, o colui che può aspettare ancora, spera di trovare il nuovo posto in patria, chi non può aspettare sotto lo stimolo della fame parte, scappa, non guarda il pericolo futuro, pur di sottrarsi a quello permanente, incessante, continuo che lo minaccia. E’ un dato allarmante: ricco è colui che può permettersi il lusso di aspettare ancora. Intere famiglie vendono tutto, raccolgono gli ultimi risparmi, se ne vanno senza rammarico, anzi, col sollievo di non lasciarsi nulla alle spalle e di sottrarsi alle persecuzioni fiscali, all’incubo della liquidazione economica, alla miseria. L’immagine dell’emigrante è quella di un uomo che parte col coraggio che anima i disperati alla ricerca di pace. Le rivoluzioni politiche quotidiane, la febbre gialla, il vomito nero, gli orrori sotto tutte le forme, della vita vissuta sotto i tropici, ai quali va incontro, non lo sgomentano. Il settimanale tiene una piccola rubrica sull’emigrazione: il 24 marzo 1892, ad esempio, riporta una disposizione del Ministero che proibisce ogni operazione di emigrazione diretta al Venezuela per le cattive condizioni sanitarie di quelle contrade, invase da mortali epidemie. Il piroscafo “Colombo” proveniente dal Brasile, ebbe a soffrire molti decessi durante la traversata, ed ora sconta la quarantena prescritta al lazzaretto dell’Asinara. A bordo dello stesso trovansi varii nostri concittadini  di ritorno dall’emigrazione, disillusi dal sognato Eldorado. C’è chi torna e chi parte lo stesso e si sorride a chi cerca di trattenere, non si maledice nessuno, si è senza indignazione, calmi e rassegnati a crearsi una nuova patria perché, nella propria, la miseria è passata sulla testa di tutti e quelli che son creduti ricchi, in realtà sono pezzenti mascherati, che non possono dare lavoro agli altri perché anch’essi mancano del necessario, ed hanno oneri maggiori da sopportare.Il Governo non impedisce la corrente          dell’emigrazione ma dirama circolari che danno conto del modo in cui si vive all’estero e invita alla prudenza: del 1891 è la Circolare ministeriale a firma di Ramognini, che raccomanda agli italiani che vogliano recarsi in Venezuela di accettare solo lavori lungo la linea Caracas- Valenza, una delle più sane. In quest’area, oltretutto, gli operai impiegati dalla ditta tedesca che ha in appalto i lavori di costruzione di una nuova ferrovia godono di sufficiente assistenza medica, per la quale hanno una ritenuta del 2% sui salari e però si suggerisce loro, essendo il vitto piuttosto caro, di non accettare contratti che non assicurino una mercede non inferiore a nove o dieci lire al giorno. Il 4 luglio del 1892, è pubblicata la circolare con cui il Prefetto Carlotti mette in guardia da eventuali truffe in Perù: molti possessori di buoni del debito esterno peruviano si sono riuniti in Società sotto il titolo “Peruvian Corporation” ed avendo ottenuto da quel Governo, in garenzia del loro credito, una certa estensione di terreno, hanno pensato di introdurvi famiglie italiane per affidarne loro la coltivazione. A questo scopo qualche Agente avrebbe già aperte trattative con la suddetta Società. Si vorrebbe con ciò tentare, a rischio e pericolo degli emigranti italiani, l’attuazione di quel progetto per ora solo vagamente ideato e che non presenta sicure garanzie di buona riuscita. Da qui il divieto ministeriale ad Agenti e Subagenti di compiere operazioni d’emigrazione per il Perù, fino a nuove disposizioni.Gli immigrati italiani, infatti, vivevano ammassati negli slums delle metropoli statunitensi e lavoravano in condizioni disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie. Nel Sudamerica erano impiegati nei lavori agricoli, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. Leggendo questi pochi documenti si avverte l’incapacità del Governo di fronteggiare il fenomeno attraverso interventi che rimuovano le cause dell’emigrazione. La legge Crispi del 1888 e quella del 1901 che assegna allo Stato, attraverso il Commissario Generale dell’Emigrazione, il compito di tutelare e intervenire a favore degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e dopo, denunciano chiaramente il fatto che l’agire politico sia indirizzato non tanto a ostacolare il flusso migratorio, quanto a prendersi parzialmente cura, dopo averle ignorate o sottovalutate, delle condizioni di chi lasciava il paese. Secondo la redazione del settimanale è giusto che il Governo non impedisca l’emigrazione, bisogna però che si conoscano le difficoltà alle quali gli emigranti vanno incontro, partendo senza notizie sicure dei luoghi ai quali sono diretti. Viene così riportato per esteso l’invito che Piero Lucca, per il Ministro, rivolge alle Prefetture affinché pubblicizzino la legge del 26 febbraio 1891 per evitare delusioni, viaggi inutili e dispendiosi, e dolorose peripezie: essa stabilisce che non è permesso l’ingresso nel territorio dell’Unione agli stranieri idioti, pazzi, infermi, poveri che possano cadere a carico della pubblica beneficenza, affetti da malattie nauseanti o pericolose per motivi di contagio, condannati per reati infamanti, o trasgressioni che implicano turpitudine morale, ai poligami e ai lavoratori arruolati per contratto sia esso scritto, verbale o sottinteso, o che abbiano ricevuto danaro da altri come caparra di lavoro. E’ parimenti proibito entrare negli Stati Uniti con biglietto pagato da altri o assistiti da altri per l’espatrio nonché assistere o incoraggiare la importazione o immigrazione di stranieri a mezzo di avvisi, stampati o pubblicati all’estero. Nessuna compagnia o proprietario di navi può favorire l’immigrazione, a meno che non si accerti l’esistenza di ordinaria corrispondenza commerciale, pena una multa di mille dollari o un anno di reclusione o entrambi. E’compito del comandante denunciare, all’arrivo nei porti americani e prima dello sbarco, nome, nazionalità, ultima residenza e destinazione di ogni straniero agli ufficiali ispettori che, saliti a bordo, devono passare in rassegna tutti gli immigrati e possono consentirne uno sbarco provvisorio per sottoporli a visita in tempo e luogo designati, e trattenerli fino a ispezione ultimata. Un’ulteriore multa di 300 dollari è prevista per capitani, agenti, consegnatari o proprietari di navi che si rifiutino di pagare le spese di mantenimento per tutto il tempo che gli immigrati restano a terra e quello successivo per il ritorno a bordo.Nonostante i rischi, le compagnie di navigazione, in questi anni, si fanno concorrenza, riducono i prezzi del transito, accordano facilitazioni, cercano di accaparrarsi il favore delle agenzie di emigrazione: la miseria fa fare buoni affari. Il paesaggio del sud, invece, tradisce gli abbandoni: lo esodo continua, e le nostre campagne diventano deserte: la vigna non si coltiva, le ulive non si raccolgono, e lo aratro non feconda più i nostri terreni. Come nei territori privi di popolazione il pascolo si estende, le mandrie si moltiplicano […]Solo qualche anno prima, nel 1885, l’Avvenire Vibonese aveva seguito con attenzione gli sviluppi della discussione sulla crisi agraria in Parlamento, giudicandoli poco soddisfacenti dal momento che l’agitazione che serpeggiava nel Paese si mantiene tuttora sostenuta da un penoso disequilibrio fra la gravezza dell’imposta e la povertà della rendita. Aveva quindi proposto ad agricoltori e proprietari fondiari di aderire al Comitato Centrale della Lega di Difesa Agraria costituitosi a Torino, per poterne a loro volta costituire uno locale. Fuori dai limiti dell’appartenenza politico- ideologica ad un partito, aveva invitato a sostenere l’unico rimedio temporaneo possibile: l’aumento del dazio sull’importazione dei cereali. E riportato le parole di un illustre membro del Senato: “Le libertà economiche del 1848 furono una reazione contro il dispotismo politico, oggi la vostra Lega Agraria insorge contro il dispotismo dottrinario. Plaudo alle Provincie antiche, ieri iniziatrici dell’indipendenza politica, oggi iniziatrici dell’indipendenza economica”. Peggiorato lo scenario, non rimane, negli anni Novanta, che tenere informati sull’andamento del flusso migratorio e cercare di cautelare chi emigra attraverso una campagna d’informazione sui rischi cui si va incontro.E battagliare, per chi resta, affinché l’istruzione diventi una priorità.

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Abolire la miseria della Calabria è in stampa

chiuso lo scorso 20 febbraio, tra qualche giorno sarà in distribuzione presso le edicole calabresi al costo di un euro. In piccolo contributo alla cultura, alla storia e alla politica laica e liberale calabrese.

La prima pagina

ALM Calabria Anno IV N°1 e 2 (Gennaio e Febbraio 2010)

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Carne da Lavoro

di Giovanna Canigiula
                                                                  

 

 

                                                                                                                                                                                              Ce n’est qu’un debut

Il Rapporto Italia 2010 dell’Eurispes racconta un paese sull’orlo del collasso: viviamo in un ‘cantiere aperto’ con costi altissimi per l’economia e un rischio concreto per la ‘tenuta stessa della democrazia’, in cui non c’è capacità progettuale, gli stipendi sono i più bassi dei paesi industrializzati, è costante il peggioramento delle condizioni di vita di fasce sempre più ampie della popolazione, si continuano a perdere posizioni nelle graduatorie internazionali della competitività e del reddito. E’ anche in crescita il reato di corruzione, per il quale occupiamo il sessantatreesimo posto su 180 paesi osservati: l’abuso d’ufficio quello più contestato, punta di un iceberg di cui non si intravvede il reale sommerso. Il sud d’Italia la regione più corrotta, la sanità il settore in cui si registra il maggior numero di denunce. Meno di un italiano su 100, si legge nel Rapporto, guadagna più di 100 mila euro all’anno e 100 sono i miliardi annualmente evasi, ma è una denuncia al ribasso. Da quanto si legge altrove, cifre da capogiro, fino a 5.560.000, costituiscono il trattamento economico dei primi cento manager delle aziende italiane. Un mondo sempre più in bianco e nero, regolamentato dalle selvagge leggi di un mercato che ragiona su numeri senza scorgervi volti e storie. E poi le uscite: gli incidenti sul lavoro, nel 2008, sono stati 874 mila, con costi per oltre 40 miliardi di euro che, se si aggiungono gli incidenti stradali, diventano 70 miliardi e passa. I disoccupati sono più di due milioni ma nel conto non sono compresi i cassintegrati, decine di migliaia i posti persi e con scarse possibilità di reinserimento per molti, 800.000 circa dall’inizio della crisi, addirittura raddoppiate le domande di disoccupazione in un anno. E’ chiaramente emergenza. E di lavoro si muore: oltre 1.300 i morti lo scorso anno, un bollettino costruito per il 60% nei comparti dell’edilizia e dell’agricoltura, con picchi al sud e fra gli extracomunitari. E c’è pure chi muore per mancanza di soccorso: sono gli irregolari, abbandonati in tutta fretta per evitare fastidi.

Il lavoro uccide, dunque, in tanti modi: perché non sono rispettate le norme sulla sicurezza, perché lo si perde, perché non lo si trova. L’intera nostra esistenza è programmata in sua funzione: noi siamo perché lavoriamo e siamo il lavoro che facciamo. La nostra mente è strutturata dal lavoro: pensiamo, ci rapportiamo agli altri, modelliamo il nostro carattere, siamo stanziali o mobili, fabbrichiamo amicizie e abitudini sempre sotto il segno del mestiere e così, per il suo tramite, non solo mangiamo, ma arriviamo a una diversa definizione di noi. Il lavoro è anzitutto danaro. E il danaro ci fa padroni o servi, pochi o massa, con potere decisionale o attitudine alla sottomessa sopportazione, ricattatori ricattabili e ricattati. La disperazione da lavoro ci rende potenziali assassini: di chi ci vessa o di chi trasciniamo con noi quando il buio della sopravvivenza con responsabilità verso terzi si fa fitto. E’ la stagione, questa, delle catene e delle proteste sui tetti: da nord a sud, gli espulsi dal mercato montano tende all’addiaccio per urlare a governo, politici e aziende il dolore di un’esistenza condizionata dal salario. Il megafono puntato al cielo contro il silenzio, perché questo è anche il tempo in cui affidarsi ai mediatori sindacali non basta e le lotte le devi rendere visibili da te. Tra fabbriche che chiudono e fabbriche che delocalizzano, società private dal breve respiro che hanno in subappalto il subappalto del subappalto, il benservito può arrivare anche senza preavviso, dalla sera al mattino e addio retribuzione: baciati dalla sorte persino i poveri della terza settimana al massimo, quelli comunque con bollette e affitti arretrati, pasti saltati o mendicati, stracci rimediati. Con dolorante dignità. Paradossi mostruosi di un fallito capitalismo: vite che vorrebbero consumarsi nel lavoro per le necessità essenziali e che si ritrovano spesso inghiottite da marciapiedi e ricoveri di fortuna, quando pure la casa non c’è più. Cervelli congelati, perché il pensiero si fa uno e ossessivo. Fuori il resto. Il lavoro.

A un certo punto della nostra vicenda umana ci siamo provati a seguire le inclinazioni e ci siamo sentiti liberi, secondo formula giuridica, perché in grado di coniugare, sull’ambiguo filo dell’autonomia, dovere e piacere. La crisi, quando è arrivata, ha atterrato la politica, che ha prontamente proposto la scappatoia interinale e rubato il verso alle galline, co.co.co., spacciandoli per opportunità straordinaria di misurarsi con le proprie capacità creative, competitive, dinamiche: se sai reinventarti, hanno detto, sei un vincente. Destra e sinistra si sono strette le mani e hanno poi codificato la sistemazione clientelare, il sindacato si è fatto bottega, è nato il mito dell’uomo che si fa da sé senza troppi scrupoli e abbiamo mandato il modello a governare, piccoli artigiani e piccoli imprenditori hanno cominciato ad essere stritolati insieme ai lavoratori, l’occupazione sottopagata a tempo determinato è stato salutata come un sollievo donato. Piano piano la massima ambizione è coincisa con la ricerca di un impiego, qualunque esso fosse e a qualunque condizione, mentre l’instabilità è arrivata a mettere contro il licenziato col cassintegrato, l’italiano con l’extracomunitario, l’operaio della fabbrica con la donna delle pulizie. Il mondo del lavoro ha conosciuto forti divisioni. Secondo il sociologo Luca Ricolfi 400.000 italiani che hanno perso il lavoro sono stati rimpiazzati con stranieri regolari, perché il nostro sistema economico crea solo posti poco appetibili e non adeguati alla nostra immagine di noi stessi: gli stranieri, anche se qualificati, sono disposti a lavorare anche a Natale e alle otto di sera e costano meno di un operaio nostrano. Sarà davvero solo così, se anche l’impiegato di un call center lasciato a spasso si dispera e l’operaio disoccupato si dà fuoco?

Oggi che i drammi si allargano a macchia d’olio e si consumano in diretta televisiva, ci tocca sentire Santo Versace che dichiara che basterebbe contrastare la grande evasione fiscale, anche solo quella più di superficie, per rimediare a queste sparse disperazioni: e che ci fa lui al fianco dell’evasore principe nonché protettore dei grandi evasori? E Bersani, che bacchetta per quanto accade, non arriva dritto dritto da scelte economiche assai vicine a quelle di un governo il cui leader non è mai stato seriamente messo in discussione o frenato nell’esercizio dell’abuso? Se l’impunibilità regolamentata ha avuto l’avallo dell’opposizione anche quando questa è stata promossa a governare e se alla politica e al sindacato si è concesso di trasformarsi in agenzie di collocamento, perché mai l’operaio non avrebbe dovuto sognare di svoltare con pari disinvoltura, consegnando il paese nelle mani di affaristi senza scrupolo che poco si curano della rovina? E non è sempre l’ex Pci con vocazione socialdemocratica che corteggia l’Udc, il partito che nel Mezzogiorno incassa voti in cambio del corrotto mantenimento dell’esistente? Quello stesso che propone, per bocca di D’Alia, di fare marcia indietro nella lotta al lavoro nero e di stralciare la direttiva europea sul tema, per restare sulla scia tracciata della Bossi-Fini di lotta all’immigrato e basta? Ancora chiacchiere e sull’orlo dell’abisso. Un spaventoso abisso per tutti, si spera, non solo per i poveracci che volevano seguire il modello vincente o si accontentavano ormai di essere al più macchine a basso costo e non solo per l’ex ceto media che precipita a rotta di collo ma anche per i burattinai della politica, quelli che hanno fatto carta straccia degli interessi del popolo curando i loro e cedendo alle lusinghe del grande potere economico .

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Vite al Nero

di Giovanna Canigiula

Migranti – Foto: Zingaro su Flickr

 Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»

(Pasolini P.P., Profezia, in Alì dagli occhi azzurri, 1964)

 

In uno dei tanti ghetti neri del Sud d’Italia è scoppiata, per la seconda volta nel volgere di un anno ma forse imprevedibile nella forma, la rivolta. Degli africani ribelli, ridotti nelle nostre campagne in stato di  schiavitù, sappiamo ormai quasi tutto tranne il numero esatto, non essendo possibile un censimento: a Rosarno, dove fino a ieri si contavano ufficialmente circa duemila presenze, sono arrivati nei primi anni Novanta e sono stati impiegati  nella raccolta invernale delle arance. Da ottobre ad aprile si radunavano, tutte le mattine alle cinque, sulla Nazionale e qui venivano caricati e portati nei campi. Dopo 14 ore di lavoro, per 20- 25 euro al giorno nel migliore dei casi, tornavano in  ricoveri di fortuna, come il  vecchio capannone poco fuori il centro abitato dove un tempo si lavoravano le arance. Fra vetri rotti, baracche di cartone e lamiere, vecchi copertoni e reti usate, tende da campeggio, hanno trascorso qui quattro mesi all’anno per venti anni.  Molti locali li hanno accusati di voler vivere come bestie per non pagare un affitto: cento euro a posto letto avrebbero potuto aiutare le economie familiari.

Gli irregolari di Rosarno sono burkinabé, maliviani, ivoriani, ghanesi, togolesi  che, sbarcati a Lampedusa e finiti a Crotone, non hanno ottenuto il permesso di soggiorno e hanno cercato di racimolare qualche soldo per sé e le famiglie lontane confidando nella brevità del soggiorno obbligato, ma vi sono anche molti immigrati che hanno perso il lavoro nelle fabbriche del Nord e cercato un posto in cui  il controllo dello Stato fosse meno pressante e, soprattutto, stagionali che si spostano per tutto il meridione, raccogliendo pomodori d’estate in Puglia e Campania, arance e olive d’inverno in Calabria, ortaggi in Sicilia. Sono la manodopera in nero che nessuno sopporta ma che tutti tollerano, perché fa girare l’economia di quello che, per rubare la definizione che Fabrizio Gatti ha applicato alla Puglia,  è il mercato più sporco dell’Europa agricola. Inseguono da sempre il sogno di un lavoro regolare, che la Bossi-Fini ha praticamente reso impossibile: per restare in Italia devi lavorare, per lavorare devi avere un permesso di soggiorno, per avere il permesso di soggiorno devi dimostrare che un lavoro ce l’hai. Insomma, o sloggi o il lavoro sporco in campagne altrimenti spopolate tocca a te, ovviamente alla condizione del servaggio tacitamente legalizzato.  Medici senza frontiere ne ha da tempo denunciato la precarietà esistenziale: nei posti in cui i più elementari diritti umani sono negati, si arriva sani e si finisce presto ammalati. Diversi anche i reportage  eppure, sebbene sia  a tutti chiaro da un pezzo che, per mantenere inalterato lo stato delle cose, è necessaria la complicità di stato, regione, amministrazioni locali, Asl, sindacati, imprenditori, forze dell’ordine, gli unici interventi umanitari sono stati finora opera di associazioni e privati.

Gli africani di Rosarno, cuore di un settore importante dell’economia regionale che, diversamente, sarebbe in profonda crisi, hanno dunque alzato la testa contro tutte le mafie, non solo contro quella ‘ndranghetista che controlla la Piana di Gioia Tauro dove, tra il porto e gli interminabili lavori sulla SA-RC,  si consumano affari milionari e che, infiltrandosi nelle amministrazioni locali, gestisce a pieno titolo appalti e fondi. Proprio il  consiglio comunale di Rosarno, come quello del limitrofo San Ferdinando, sono stati sciolti l’anno scorso per mafia. E’ nell’interesse delle cosche, del resto, bonificare il ghiotto territorio dalla presenza degli africani ed è in questi luoghi che il bianco muore senza lasciare grosse tracce e la convivenza omertosa col ricatto si consuma  in nome della personale sopravvivenza:  le uniche denunce che hanno consentito di risalire ai responsabili dell’agguato, dopo il ferimento di un ghanese e un ivoriano lo scorso inverno, sono arrivate dai neri d’Africa. Un nuovo attacco ha provocato la rivolta, scoppiata nell’unico modo che la rabbia a lungo covata ha consentito: blocco della statale 18; auto, vetrine e cassonetti sfasciati. Scontata la reazione: negozi e scuole chiusi per lo stato di emergenza; caccia sapientemente pilotata all’immigrato; immediata rimozione con le ruspe dei vergognosi luoghi del soggiorno straniero; trasferimento di centinaia di lavoratori nei centri di accoglienza di Crotone e Bari.  E  la fuga volontaria di molti dai luoghi della rappresaglia portandosi dietro, come profughi di guerra, quel po’ che la fretta ha consentito di raccattare. Complici tutti,  si diceva, nelle terre delle mafie. Così tanto che lasciano addosso un profondo senso di vergogna gli inopportuni interventi di Maroni e Calderoli sui danni della clandestinità quando questa è tollerata e non combattuta.

Perché questo post? Non certo per aggiungere parole alle parole. Quanto scritto lo leggiamo ripetutamente in questi giorni. E’ che mi ha profondamente colpito vedere per chilometri, lungo la statale 106 in direzione Crotone, uomini con valigie, pacchi, grosse buste stracolme sulla testa o serrate al petto, il giorno successivo ai fatti. Un piccolo esercito  in marcia silenziosa.  Alcuni si fermavano stanchi a riprendere fiato sul ciglio della strada, mentre gli altri proseguivano. Ho allora pensato che, forse, sia il momento per  tutti di alzare la testa in questa terra in cui mafia e stato non hanno confini netti. Ho pensato che la sconfitta di chi fugge  sia la nostra sconfitta. Ho pensato che questo sistema sia andato avanti con la nostra complicità, i nostri voti, la nostra disponibilità al ricatto, la nostra acquiescenza, la nostra rassegnata miseria.  Ho pensato che i figli dei vecchi contadini che lottavano per le terre e una vita più dignitosa  hanno tradito la causa dei padri. Ho pensato alla storia da cui veniamo e che ci siamo messi alle spalle. Ho pensato al Gesù nero che don Pino ha dovuto inserire nel presepe della Chiesa di Rosarno per ricordare alla comunità che siamo tutti fratelli. Ho pensato che la parola onore è associata a famiglie come quelle dei Piromalli, dei Pesce e dei Ballocco. Ho pensato al candidato a sindaco comunista Valarioti che, nel lontano 1979, fu ucciso per avere ottenuto il 30% dei consensi e oggi è tutto uguale. A quei politici che anni e anni fa avevano alzato solide barriere contro l’illegalità, poi prontamente cadute. Ai pochi, troppo pochi che si danno da fare perché credono ancora che si possa cambiare o per spirito puramente umanitario. Ho pensato a chi siamo e a quello che lasciamo. Poca cosa. Ho pensato che c’è chi stila percentuali su chi è più razzista, inscenando la solita meschina contrapposizione tra nord e sud. E ho pensato di mettere su carta questi pensieri, nella speranza che altri calabresi stufi li raccolgano e, insieme, davvero insieme, si possa concretamente scegliere una nuova via .

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Vite tra(t)tenute

di Giovanna Canigiula

Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia

Vite tra tenute è una testimonianza sulla vita in carcere realizzata dai detenuti dell’Alta Sicurezza  della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Imputati o condannati per tipi di reati previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, vivono al primo piano di un padiglione inaugurato nel 1997 in condizioni di sovraffollamento: in venticinque celle, che potrebbero ospitare 50 detenuti,  sono rinchiuse circa 70/80 persone, con una media di tre per cella, senza nessuna osservanza, al momento dell’assegnazione, degli artt. 27 reg. esec. (osservazione della personalità), 14 e 64 o. p. (separazione imputati- condannati, separazione giovani- adulti, necessità di trattamento individuale o di gruppo).  Meno della metà dei carcerati sono definitivi, i più sono giudicabili ed appellanti.

La testimonianza è figlia dell’adesione, da parte dei detenuti, al progetto sperimentale ATHENA, elaborato nel 2004 dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria con lo scopo di favorire la socializzazione, la partecipazione attiva dei soggetti alla “gestione” del carcere e la costruzione di un sistema sociale migliore. L’assunzione dell’impegno ha dovuto vincere molte resistenze dal momento che, come i detenuti scrivono, il carcere controlla un ampio ventaglio di benefici e di oneri essenziali, a volte decisivi e nessuno è disposto a rischiare il trasferimento in altri istituti e l’allontanamento dai propri familiari per avere protestato contro limitazioni e privazioni.

L’aspetto più doloroso della vita in carcere è, senza dubbio, l’essere privati della libertà e, quindi, della possibilità di intrecciare o conservare relazioni con parenti e amici. Tra le testimonianze, infatti, significativa è quella di un detenuto che rimpiange il carcere di Palermo perché, anche se vecchio e “rigoroso”, gli consentiva di usufruire della visita settimanale dei familiari, essenziale per chi è costretto, per anni o per la vita, a vivere tra le quattro pareti di una cella in cui, all’essere socialmente morto, si aggiunge la sofferenza di dovere quotidianamente alternare la branda allo sgabello per la mancanza di spazio, dividere un vano bagno di un metro quadrato con altre persone, scambiare forzate conversazioni, temere per la propria sicurezza personale a causa di detenuti violenti ed aggressivi o dell’azione repressiva del  personale carcerario, subire continui controlli. L’elenco dei danni psico- fisici è lungo: danneggiamento della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo, perdita di valori e attitudini, isolamento, perdita di stimoli dovuta all’adattamento a un ambiente povero e al ritmo lento e monotono della vita istituzionale, estraniamento, diminuzione della stima in se stessi e conseguente dipendenza dalla struttura, anestesia emotiva, ansia e depressione che possono portare ad episodi di autolesionismo, suicidi e violenza. E poi danni visivi e all’apparato digerente e dentario, patologie dermatologiche, compromissione del sistema respiratorio, disturbi del sonno. Ammalarsi in carcere è una vera tragedia perché, nel luogo in cui si può morire ma non guarire, si è come orsi feriti che nulla possono fare a tutela della propria salute,terminali di un apparato sanitario già mal funzionante all’esterno, inceppato dietro le sbarre, dove si paga lo scotto di carenti risorse finanziarie, di personale che è, quindi, costretto ad operare per tamponare la malattia più che per curarla, di un apparato che non interviene per prevenire, quanto invece per accertare e tenere sotto controllo, il tutto con i tempi consentiti in un carcere. Il carcere diventa, così, un’“istituzione totale” che annienta, anche se vi sono momenti in cui urge il bisogno dianimare le vigilie; vivere nell’esistente, dare un senso alle cose, al tempo, alle ricorrenze;  attivare sentimenti, ricordi, emozioni; collegarsi con la mente ed il cuore ai personali legami forti che sono fuori, lontani quanto dentro, e vicini in ognuno nella prospettiva. La speranza prende allora i colori della creatività: è l’albero di Natale realizzato con bottiglie di plastica, carte colorate e mezzi di fortuna; sono i dolcetti tradizionali che si preparano a Pasqua con ciò di cui si dispone; sono le trombette e le maschere appese a Carnevale alle pareti della cella. E’ il caffè che si fa trovare ai familiari nel giorno delle visite.

L’arte di arrangiarsi è una di quelle cose che si impara abbastanza presto. L’Ordinamento Penitenziario prevede la somministrazione quotidiana di tre pasti, preparati nelle apposite cucine degli Istituti ad opera di detenuti e internati che svolgono la mansione per tre mesi. A tutti è però consentito di tenere, in cella, fornelli di dimensioni e caratteristiche conformi alle prescrizioni ministeriali e di ricevere quattro pacchi al mese, di peso complessivo non superiore ai venti chili, contenenti abbigliamento e generi di consumo comune tassativamente indicati in tabelle fissate dalla direzione dei singoli Istituti. Ogni anno il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stabilisce i limiti delle somme che possono essere spese per gli acquisti e la corrispondenza e questa è una voce importante perché i detenuti preferiscono, anche quando il servizio cucina è accettabile, preparare da sé ciò che consumano. Scatta, infatti, una sorta di rifiuto nei confronti dell’istituzione che porta a vivere come imposizione ciò che ti viene somministrato: l’affermazione della propria identità passa attraverso la preparazione dei piatti, centro motore di un’esistenza altrimenti immobile.

Ogni detenuto, al momento dell’ingresso in cella, ha in dotazione dall’Istituto un cucchiaio, una forchetta, due piatti e un bicchiere di plastica dura, Niente coltelli. In due metri quadrati, inoltre, deve organizzare una cucina. Che fa? Nella parete sopra il tavolino attacca ganci adesivi, resi più resistenti con accorgimenti particolari, per appendervi le pentole. Queste, una volta usate e lavate, vengono lasciate asciugare su scolapiatti di manifattura artigianale: sulla parete sopra il lavandino si mettono tre ganci a forma di triangolo, ai due ganci che costituiscono la base si aggancia un lato di un cestello, all’altro si lega un laccio di plastica ricavato dai sacchetti della spazzatura e vi si lega il centro della parte opposta del cestello. Cestelli variamente sovrapposti servono a contenere frutta, conserve e stoviglie. Con cartoni, bottiglie di plastica, pezzi di legno, vinavil, strisce di plastica  si realizzano tavolini, leggii, vasi, soprammobili, portariviste, portaritratti, portalettere, portacenere, porta bicchieri, sturalavandini, pattini per le brande. Con un appendiabiti di plastica è possibile ottenere una bilancia: basta appendere, alle due estremità, quattro lacci che sorreggono due piatti di carta. I pesi, da cento cinquanta e dieci grammi, si possono realizzare inserendo del sale in dei contenitori di plastica. Per stirare si usa la caffettiera con acqua bollente. Acqua e candeggina servono da deodorante. Tra i sistemi di fabbricazione di un forno, ve n’è uno ingegnoso: si appoggia su uno sgabello un fornello da campeggio smontato della base d’appoggio e del bruciatore, poi rimontato dalla parte interna dello sgabello medesimo,  se ne copre il tronco con un lenzuolo o una coperta o un asciugamano inumiditi; si capovolge quindi lo sgabello e lo si poggia su una base, si incastra o si appende una pentola avendo cura che non tocchi la fiamma e se ne ricopre la parte superiore. Basta accendere e il forno funziona. Le bevande, invece, si tengono al fresco mettendo le bottiglie dentro calze bagnate o in secchi d’acqua in cui si svuota una bomboletta di gas. Le grattugie si ottengono da coperti o da scatole di latta bucherellati. Con una penna, tre astucci e tre pezzi di filo interdentale si fabbrica un telecomando; con tubicini in pvc e cestelli da frutta un comodo stendibiancheria da attaccare alle grate.

Nel bagno, a forma di trapezio con basi di due metri per uno, vi sono un lavandino con specchio, tazza e bidet. Anche qui, visto il numero di ospiti per cella, l’organizzazione è fondamentale. Alla destra del lavandino scatole di pasta e pacchetti di sigarette rivestiti di carta argentana o fazzoletti decorati ospitano gli effetti personali di ciascun detenuto. Un palo di scopa incastrato all’altezza del rivestimento delle mattonelle serve per agganciare gli appendiabiti e tenere in ordine vestiti, accappatoi e la busta con i panni sporchi. Il porta scarpe è realizzato con i cilindri di cartone dei rotoli di carta igienica, tagliati in otto punti su un’estremità: le frange si piegano verso l’esterno a 90° e si incollano su un cartoncino rotondo. Appendini di plastica riscaldati e tagliati a forma di gancio diventano, invece, porta rotoli. Progressi enormi: negli anni ’70 i bisogni fisiologici si facevano, senza privacy ad eccezione della coperta con cui ci si avvolgeva, dentro un buiolo, cioè un bidoncino, che veniva ritirato due volte al giorno e nel quale si bruciava un foglio di giornale per coprire gli odori; non c’era lavandino; la doccia si faceva una volta a settimana e ci si asciugava con un lenzuolo; ci si cambiava una volta a settimana.

Com’è la giornata tipo di un detenuto nel carcere di Vibo? Il buongiorno, alle sette, è dato dallo scricchiolio del giro di chiavi nella serratura del blindo esterno dell’ingresso della cella. Dopo circa un quarto d’ora lasciano le celle i detenuti addetti alla preparazione della prima colazione (latte, the, caffè) e, intorno alle 7.50, viene aperta la cella del vivandiere che provvede alla distribuzione. Alle otto un agente passa per le celle e chiede se qualcuno vuole iscriversi per avere contatti con l’ufficio di matricola o con l’infermeria. A giorni alterni, dalle 8.30 alle 11.00 e dalle 15.30 alle 18.00, è consentito fare la doccia.  Dalle 9.00 alle 11.00 ci sono le classiche due ore d’aria in cui si osservano regole codificate: ci si divide in gruppi, gli anziani stanno al centro e non bisogna voltare loro le spalle quando si raggiunge l’estremità del cortile che non va mai attraversato trasversalmente. Se si preferisce frequentare la scuola, le lezioni durano fino alle 12.00, ora in cui viene servito il pranzo in cella. Per ingannare il tempo, il regolamento prevede l’uso della carte napoletane ma non di quelle francesi. Per realizzarle, allora, i detenuti comprano 55 cartoline plastificate, le tagliano a metà, le rifiniscono e le disegnano. Due volte a settimana, per gruppi di quindici e per un’ora e mezza, si può andare in una sala a giocare a biliardo, ping- pong, dama e carte. Una volta a settimana si può utilizzare il campo di calcio. La palestra è in cella: con bottiglie, pali e strisce di maglia si realizzano i pesi.

L’ordinamento penitenziario attribuisce al detenuto il diritto all’istruzione e lo Stato è obbligato, in base all’art. 33 comma 2, a garantire la fruizione dei corsi scolastici, soprattutto di quelli obbligatori. La scelta di frequentare una scuola non è dettata dall’interesse per l’istruzione ma dalla possibilità di evadere dalla monotonia di una giornata segnata da due possibilità: stare in cella o uscire all’aria aperta.  Con in più il piacere di sentire e vedere persone che vengono dal mondo esterno, assaporare la sensazione di respirare una boccata di libertà, provare il gusto di conversare con “altri” di altro. Il detenuto ha pochi stimoli per programmi ideati per ragazzi di 6- 18 anni, frequenta magari le lezioni per guadagnarsi possibilità da spendere una volta fuori, si rapporta però all’istituzione scolastica come a un corpo rigido, quasi estraneo ai suoi interessi e alle sue prospettive. Studiare non è facile: come si fa se uno cucina, un altro ascolta musica, un altro guarda la TV? Non si hanno contatti con altri studenti e, se c’è un intoppo ad esempio nella soluzione di un problema, non si dispone che di se stessi di fronte al testo. Scoraggiante. Tuttavia il D.A.P. Calabrese ha stipulato anche un protocollo d’intesa con l’Università della Calabria per coloro che ambiscono a un titolo superiore ed in alcuni istituti penitenziari, come quello di Catanzaro, sono stati avviati corsi della facoltà di giurisprudenza, con docenti che tengono lezione in carcere e studenti che dispongono di celle singole per poter studiare. Vibo ha seguito a ruota l’iniziativa.

Il sistema carcere tende a essere conservatore e refrattario ai cambiamenti. Le tecniche usate dal personale sono consolidate:  rimandare richieste, ordini, disposizioni a un’autorità responsabile esterna, seguendo il principio del “lavarsene le mani”; svuotare di significato le proposte in conflitto con gli interessi dominanti; rendere impraticabili le proposte innovative; dilatare fino a “nuovo ordine” l’attuazione di una proposta; sminuire un’idea o un’iniziativa senza osteggiarla apertamente; appropriarsi di un’idea apportandole sottili cambiamenti.

Anche la comunicazione segue delle direttrici. Relazioni di tipo orizzontale sono quelle fra detenuti, per i quali vale anzitutto la regola secondo cui a megghiu  parola esti chidda chi nun nesci e ciò per la convinzione di essere continuamente controllati e intercettati, il che favorisce un dialogo per parabole o per gesti. Comunicare tra persone che vivono lo stesso disagio porta, però, a parlare sempre delle stesse cose e se all’inizio è consolante, col passare del tempo intristisce, l’interesse si spegne e si diventa taciturni. Di tipo verticale è la comunicazione tra detenuto e staff dirigenziale che avviene secondo regole precise. Al mattino l’agente di sezione annota la richiesta di colloquio avanzata dal detenuto, viene stilato un elenco, generalmente il colloquio arriva quando ormai le ragioni della richiesta sono state superate dagli eventi. Il sistema di relazioni spesso è tale che, per evitare ritorsioni, il detenuto è indotto a comportamenti remissivi e furbeschi e ciò porta a sviluppare personalità asociali, genera rabbia e rafforza la solidarietà del sottosistema in cui ci si rifugia. Quando avviene, il colloquio del detenuto col direttore si svolge in una stanza che resta aperta e alla presenza di un assistente: viene così annotato tutto ciò che dice stando in piedi di fronte alla scrivania. Il rapporto con l’agente penitenziario è, invece, complesso. Molti agenti criminalizzano il detenuto in quanto responsabile del loro “odiato” lavoro e lo guardano con gli occhi omologanti, svogliati e veloci della società di cui fanno parte: il detenuto è il “diverso” che va rinchiuso, isolato, ibernato, eliminato dal corpo sociale. Spesso utilizzano espressioni e atteggiamenti che vengono percepiti come vessatori, provocatori e prevaricatori e si innesca un rapporto conflittuale che rende l’agente guardiano e, al tempo stesso, ladro di dignità e di umanità. Per contro vi sono agenti professionali che, pur rigorosi, sanno operare un approccio differenziato e individualizzato, non hanno pregiudizi, non sono razzisti, basano il sistema relazionale su regole chiare, fondate su diritti e doveri e ispirate ai principi della cultura del rispetto. Non esercitano un potere, ma prestano un servizio.

Scioperare in carcere è un modo per dare voce alla sofferenza dei detenuti. Se, poi, la protesta è nazionale e fa notizia sui quotidiani, è il modo per denunciare le condizioni d invivibilità, per sollecitare l’intervento delle istituzioni, per interloquire con quella parte della società cinica che considera il carcere una discarica sociale. A Vibo, i detenuti dell’Alta Sicurezza hanno dato vita aSpazio Ristretto, un giornale nato dalla collaborazione con l’I.T.C. “G. Galilei”, in cui si affrontano i problemi della vita dentro, si promuove la cultura dei Diritti e della Solidarietà, si discute di giustizia e legalità: giustizia è rispondere con progetti di bene al male ed agire con giustizia significa attuare l’opera dei diritti umani, architrave della democrazia a prescindere da tutte le condizioni o status.Sanzione penale e pena detentiva, scrivono i detenuti, non sono l’unica risposta possibile per difendere i cittadini e la società da delitti e violenze. Nel 90 % dei casi, chi sta in carcere ha una storia di emarginazione sociale alle spalle, percorsi educativi insufficienti, povertà materiali e culturali. Al termine della pena, il “rientro” in società fa scontare una doppia emarginazione e l’impossibilità di reinserimento lavorativo e sociale determina quel circolo vizioso che dal carcere riconduce al carcere. Tendere al recupero sociale del condannato significa preoccuparsi di quale soggetto rientrerà nella società una volta scontata la pena: è meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza?

I detenuti, attivissimi, hanno curato e promosso anche una pubblicazione, dal titolo Ogni società ha il carcere che si merita, in cui non solo hanno raccolto riflessioni sul mondo- carcere, ma indicato una serie di proposte di modifica legislative del sistema sanzionatorio, evidenziandone le incongruità sotto il profilo politico- criminale e l’inefficienza delle pene che trasforma il carcere in una entitàcriminogena. Hanno scritto a tutti: ai Magistrati di  Sorveglianza dei Tribunali della Calabria, agli Ordini degli Avvocati e alle Camere Penali della Calabria, ai candidati alla Presidenza della Regione Calabria, agli operatori del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Catanzaro, ai parlamentari calabresi, ai sindaci delle 11 città sedi di carceri, agli assessori comunali dei servizi sociali, ai presidenti delle Amministrazioni provinciali, agli assessori provinciali dei servizi sociali.

In Vite tra tenute la parola che ricorre più di frequente è “uomini”. I detenuti che si cimentano a fare i giornalisti si rivolgono, infatti, alla copia dell’uomo che in ognuno di loro c’è. Alunni adulti che considerano la libertà un dono speciale, che vogliono far riflettere sul fatto che diversi sono coloro che li considerano tali, che vivono il loro giornale come la pedagogia evangelica che l’uomo mette in atto con altri uomini, che superano col lavoro il senso di soffocamento insopportabile che dà l’amara realtà della cella, della gabbia, del chiuso, del dolore per il dolore, della sofferenza per la sofferenza. Che recuperano anche la loro calabresità attraverso raccolte di poesie, filastrocche, proverbi.

Uomini che, se viene loro data un’opportunità, svolgono attività teatrali, realizzano cortometraggi, si improvvisano attori. E che, nel luogo della sofferenza, ritrovano le condizioni ideali per parlare alle proprie anime. Citano E. Dickinson: L’anima è per se stessa/ Un imperiale amico/ O la più angosciante spia/ Che un nemico possa mandare. Per legge la pratica spirituale è considerata uno strumento di rieducazione del recluso. Tale attività è però vissuta come vuoto cerimoniale: la messa settimanale, spesso con il rito abbreviato per esigenze di servizio, la presenza del vescovo nelle ricorrenze annuali solenni, l’incontro periodico con il cappellano sono visti come distrazioni che non sollecitano l’animo alla riflessione sulle proprie modalità di essere o al ripensamento del proprio passato. Ciò che chiedono è altro: la possibilità di avviare processi di riflessione sui temi esistenziali, sui valori, sui principi che costituiscono il motore portante delle dinamiche dei rapporti sociali, parlare all’interiorità di ognuno e farla parlare.

Esseri deprivati, maschere che reprimono o dissimulano le sensazioni che provano, affidano alla scrittura i desideri  di libertà, amore, gioia, prospettiva, futuro, normalità, serenità. Voci dal Silenzio è una raccolta di poesie curata sempre dall’I.T.C. di Vibo, pensieri in libertà dedicati a genitori mogli e figli,  al cielo alla luna e alle stelle ai quali si è detto arrivederci, ai fratelli fuori dai cancelli, agli amici alla scuola all’amore, alla voglia di vivere e alla paura di vivere, alla rabbia alla pazienza ai sogni, alle mosche che fanno compagnia, ai sogni e alle attese. Tutto ciò che per Te…è inutile…/ Per noi è…bisogno;/ Tutto ciò che per Te è… insignificante…/ Per Noi è…importante;/ Tutto ciò che per Te è…superfluo…/ Per Noi è…necessario;/ Tutto ciò che per Te è…complicato…/ Per Noi è…semplice;/ Tutto ciò che per Te è…tempo perso…/ Per Noi è…vita;/ Tutto ciò che per Te è…da buttare…/ Per Noi è…da salvare;/ Tutto ciò che per Te è…ignoranza…/ Per Noi è…scuola;/ Tutto ciò che per Te è…cemento…/ Per Noi è…panorama; /Tutto ciò che per Te è…fatica…/ Per Noi è un…sollievo;/ Tutto ciò che per Te è…uffa…/ Per Noi è…libertà.

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“Tango greco”: l’amore e la donna nella tragedia ateniese del V secolo a.C.

di Giovanna Canigiula

Nella tragedia  greca del V  secolo a.C. le donne, prima di Euripide, non hanno grande cittadinanza, se è vero che si può sacrificare una figlia per propiziarsi gli dei. Di storie d’amore tranquillo, sia pure su uno sfondo politico od esistenziale drammatico, non se ne vedono granché. Neppure quando il mito prende la struttura di una fiaba. Se, come dice Paduano, la tragedia è fenomenologia del dolore, l’amore ne è indiscutibile testimone.

Il più vecchiotto dei tre grandi tragici, Eschilo, affronta il tema dell’amor sacro e, quindi, della sacralità del matrimonio, nelle Supplici: le cinquanta figlie di Danao, non volendo sposare i cinquanta cugini d’Egitto, chiedono ed ottengono asilo politico dal re di Argo, Pelasgo. O città, o terra, o limpide acque,/ e dei del cielo, e voi, numi sotterranei/ che occupate vindici tombe,/ e tu, o Zeus, salvatore terzo,/ che proteggi le case degli uomini pii,/ accogliete questo femmineo sciame di supplicanti/ al soffio reverente del suolo./ Ma lo sciame brulicante dei maschi,/ lo sciame prevaricante dei figli d’Egitto/ già prima che il piede imponga/ sulla paludosa distesa/ gettatelo a mare col suo vascello veloce […] e muoiano prima di montare sui talami/ che liceità rifiuta,/ prima di far proprie le creature/ che al fratello del loro padre appartengono. Dai frammenti degli Egizi e delle Danaidi, che narrano lo sviluppo della vicenda, si viene a sapere che, ucciso Pelasgo dagli Egizi che reclamano le promesse spose, Danao è costretto a cedere le figlie ma, prima, suggerisce loro di fingere di accondiscendere al matrimonio per poi uccidere i rispettivi mariti durante la prima notte di nozze. Solo Ipermestra, per amore, non partecipa alla strage: imprigionata dal padre, è salvata non a caso da Afrodite. L’amore impuro che non si ricambia è assassino, l’amore impuro felice trova credito. Ma non sempre è così.

Con Sofocle le cose cambiano di poco: l’amore che si racconta è anzitutto quello, fortissimo, di Antigone per il fratello morto, al quale decide di dare sepoltura contravvenendo alle disposizioni del re di Tebe, Creonte. La pietosa manciata di polvere che la ragazza getta sul corpo di Polinice le vale la condanna a morte e a nulla serve l’accorato intervento del figlio del re, suo promesso sposo. Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio è il grido di Antigone, ma Creonte è inflessibile: non prende ordini da una donna. Quando, su suggerimento dell’indovino Tiresia, il re si ricrede, la tragedia si è compiuta: Antigone è morta, il figlio Emone si è tolto la vita, si ucciderà anche la moglie. Amore e morte si intrecciano: una giovane donna sfida le crudeli regole imposte dagli uomini, un giovane uomo si uccide perché non riesce ad immaginare una vita senza di lei. Eros, in battaglie invincibile,/ Eros, tu che sulle bestie ti slanci/ e vigili sulle tenere guance/ della vergine,/ tu che valichi il mare/ e penetri tra i rustici tuguri:/ non dio immortale,/ non essere umano, creatura d’un giorno,/ fuggire ti può./ E delira chi ti possiede. L’amore travia anche le menti dei giusti, accende liti tra consanguinei, fa del desiderio il potere seduto fra le grandi leggi del mondo.

Amore e morte si consumano anche nelle Trachinie: protagonista inconsapevole è Deianira che, per gelosia, pensa di poter trattenere al suo fianco il marito, invaghitosi della giovane Iole, utilizzando quello che crede un potente talismano, la veste imbevuta del sangue del centauro Nesso, ucciso dall’eroe. Veste fatale, portatrice cioè dei disegni del fato, che provoca la morte fra atroci tormenti di Eracle e il suicidio di una pentita Deianira. Chi si erge contro Eros, come un pugile, per lottare con lui, aveva detto, è soltanto uno stolto. Persino sugli dei Eros domina a suo piacimento, e su di me, certo: e perché non su un’altra donna come lo sono io? Sarei proprio folle, dunque, se biasimassi il mio sposo, colpito da tale malattia, oppure questa donna, sua complice in una cosa che per me non è affatto una vergogna né un male. In Sofocle l’amore è anche incesto e colpa e, se pure si agisca in buona fede e si sia innocenti, la punizione arriva ed è terribile: è la triste vicenda dell’ Edipo re. Salvato piccolissimo da un destino di morte, perché un oracolo aveva predetto che avrebbe ucciso il padre, Edipo è affidato alle cure del re di Corinto. Un giorno uccide un passante con cui ha un litigio, ignorando che si tratti del padre. Sposa quindi Giocasta, vedova di Laio, re di Tebe, ignorando che si tratti della madre. Con lei mette al mondo dei figli, ma non c’è pace nell’universo torbido dei sentimenti. Quando sulla città infuria la peste e l’oracolo suggerisce di allontanare chi ha ucciso il re Laio, Edipo indaga alla ricerca della verità ed è un servo a chiarire l’antefatto. L’orrore è grande, l’incestuoso innocente si acceca e se ne va in esilio, la sposa- madre si toglie la vita, la maledizione ricade sui figli. O luce del sole, che io ti veda per l’ultima volta, perché oggi è venuta la rivelazione che sono nato da chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso chi non dovevo uccidere. L’amore è una tragedia.

In Euripide, curiosamente, il mondo è donna. Il tragediografo, figlio di una idea alta di democrazia che non tarda a rivelarsi imperfetta, cede al relativismo, mette in scena non eroi ma uomini lacerati dalla quotidianità, dà voce a chi vive ai margini, sia esso servo o contadino o nutrice o, più semplicemente, donna. E delle donne sa raccontare il dolore e la grandezza, anche nella miseria.

Ed ecco il sacrifico di Alcesti, la sposa che salva dall’Ade quel marito per il quale Apollo aveva intercesso a patto che un altro morisse al suo posto e per il quale nessuno, neppure i vecchi genitori, aveva voluto spendere la propria vita. Muoio per te, dice Alcesti, mentre avrei potuto non morire e prendermi per marito un altro Tessalo, chi volevo, e abitare una casa prosperosa e regale. Il sacrificio. La migliore delle donne piange sul letto nuziale che il marito dividerà con un’altra, com’è costume, poi ci ripensa: in cambio della vita, Admeto dovrà prometterle fedeltà oltre la morte, perché nessuna matrigna renda un inferno la vita dei figli. Amore doppio: per lo sposo e per i figli. Admeto giura, la supplica un po’ tardivamente di non lasciarlo o di condurlo con sé. Basto io. Admeto promette: quando arriverà la sua ora, sarà sepolto nella sua stessa tomba, immaginata come casa comune, nel frattempo nessun’altra dividerà il suo letto, piuttosto una statua che abbia le sembianze dell’amata sposa. Alcesti muore e lui rinnega il padre: maledetti questi vecchi che a chiacchiere lamentano una vita troppo lunga e si augurano di morire perché a conti fatti, quando la morte è vicina, a nessuno più la vecchiaia pesa. Io ti ho generato e allevato come il futuro padrone della mia casa, è la risposta di Fereto, ma non ho il dovere di morire per te: non ho ricevuto dai miei antenati questa legge, che i padri muoiano al posto dei figli: non è usanza greca. Di più. Tu hai piacere di vivere; pensi forse che tuo padre non ne abbia? Molto è il tempo che dobbiamo passare laggiù e breve quello della vita, ma dolce però. Tant’è vero che tu senza nessun pudore hai lottato per non morire, e vivi avendo superato i limiti della sorte segnata e ucciso tua moglie. Sarà Eracle a salvare capra e cavoli: ospitato secondo sacra norma greca in una casa su cui regna un lutto che non gli è stato  fatto pesare, otterrà dagli dei di riportare in vita Alcesti, sposa silenziosa e velata che Admeto dapprima respinge e poi accetta.

C’è posto, nell’immaginario euripideo, per la donna che, offesa, si vendica. E’ Medea: la maga, la straniera, l’infanticida. Ha aiutato Giasone quando è arrivato nella sua terra, ha tradito patria e famiglia per seguirlo, ha persino lasciato morire il fratello.  Ha avuto da lui dei figli e, d’improvviso, si vede ripudiata per un’altra, la figlia del re che, addirittura, decreta per lei l’esilio. Il confronto. Medea  aggredisce: Giasone è solo un malvagio calcolatore che ha voluto evitare, in vecchiaia, il disonore di un letto barbaro, nulla può accettare da lui perché il dono di un uomo infame non ha utilità. Urla tutta la sua rabbia di donna rinnegata. Di barbara in terra d’altri. Minaccia. Vattene! Goditi le tue nozze; ma forse –sia detto con il favore del dio- hai fatto un matrimonio tale da dovertene pentire. Il coro delle donne ha pietà della straniera: O patria, o casa, mai divenga io/ priva della mia città, vivendo una vita/ d’angustie, aspra da traversare,/ infelicissima di afflizioni. La folle Medea è astutissima e prende tempo, chiede un giorno ancora per la partenza, quindi finge la via della riconciliazione e manda in dono alla rivale una veste e un diadema che saranno fatali. Non basta. Il greco deve pagare il fio: sconvolgerò tutta la casa di Giasone e andrò via da questa terra, fuggendo la strage dei figli carissimi e dopo aver osato l’azione più empia. Essere derisa dai nemici non è cosa che si possa sopportare. Non c’è supplica che tenga, la decisione è presa. Rifletti sul colpo che stai per vibrare ai tuoi figli,/ rifletti quale strage ti addossi./ No, per le tue ginocchia/  tanto, tanto ti supplichiamo,/ non uccidere i tuoi figli./ Da dove il coraggio trarrai/ nell’animo e per la mano e nel tuo cuore/ sì da infligger l’audacia tremenda?/ E come volgendo sui figli lo sguardo/ potrai senza lacrime/ sostenere il loro destino di morte? Nessuna greca aveva mai concepito l’indicibile. Amori che giungano eccessivi/ né fama accordano agli uomini né virtù;/ ma se con misura Cipride giunge,/ altra dea non c’è così gradita.

Fedra. La vittima di Afrodite. La dea ce l’ha col figliastro, Ippolito, che le preferisce Artemide e, così, decide di lasciarla consumare d’amore per lui. Fedra confida alla nutrice i suoi strazi, non è in grado di contrastare questo veleno  che, non per suo volere, fa amare il male anche alle persone sagge e virtuose. Vuole morire. Mia cara bambina, abbandona i cattivi pensieri e smetti il tuo orgoglio; giacché non è altro che orgoglio il credersi più degli dei. Abbi il coraggio di amare: è un dio che l’ha voluto. Mai consiglio peggiore. Messo al corrente, Ippolito inorridisce. Un disastro. Non resta che la morte, non senza prima avere accusato il figliastro di violenza. E’ terribile la vendetta di una donna respinta. Amore, che stilli sugli occhi il desiderio, indicendo il dolce fascino nell’animo di quelli che assalti, non apparirmi assieme alla sventura, non venire in dissonanza. Niente da fare. Teseo le crede, mette al bando il figlio, lo maledice: un mostro marino farà imbizzarrire i cavalli del cocchio e il giovane, impigliato nelle briglie, viene trascinato e straziato. Ancora amore e morte. E’un tango. Tutto greco.

Altre donne, altri drammi. Andromaca ed Ecuba, vedove di uomini amati, prigioniere di guerra, concubine. Donne senza possibilità di scelta. Elettra, la figlia di Agamennone costretta a sposare un uomo povero perché non metta al mondo un figlio di stirpe regale, un uomo che la rispetta e che lei non guarda neppure, sognando solo la vendetta. Elena, la fedele. Un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo, del tutto simile a lei, un vuoto miraggio scatena l’inutile guerra di Troia, porta morti, lutti e rovine, intanto che lei vive in Egitto e rifiuta le nozze col figlio del re. Io voglio essere fedele all’uomo che da tanti anni è mio marito. L’inatteso ricongiungimento. Una vecchiaia serena. Le forme del divino sono molteplici, e molte sono le azioni degli dei che vanno contro le nostre attese. Quel che si credeva possibile non si verifica, mentre un dio fa accadere l’impossibile. Così termina questa storia.

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