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Storie nascoste

di Maria Elisabetta Curtosi

Una volta all’anno, con tanta malinconia rammentiamo l’esistenza dei lager, i campi di concentramento tedeschi che tutti conosciamo. L’immagine di tale realtà è annebbiata, remota, immergendoci nella convinzione che quegli avvenimenti inumani siano indiscutibilmente conclusi e irripetibili. Ricordo che un mio professore, durante una lezione, mi spiegò che il nazismo è una bestia e che non è sola, perché “nazismo e comunismo sono due facce della stessa medaglia”. Infatti in oriente, precisamente in Cina, vediamo che ciò che un tempo si chiamava lager in Germania e gulag in Russia, oggi, in Cina, si chiama laogai.I laogai vennero istituiti da Mao un anno dopo la rivoluzione comunista, aveva seguito le impronte di Lenin che aveva aperto i gulag nel 1948 nell’URSS. I laogai vengono intesi come luoghi dove ci si riforma attraverso il lavoro, così dall’esterno tutto appare come soluzione giusta ed equa ai problemi sociali. Ma in verità i  laogai ha tutt’altro significato: significa lavoro forzato; diciotto ore di lavoro al giorno e centoventisei a settimana; significa patire la fame, diventare scheletri viventi, abbandonare la propria famiglia e la vita normale. Il tuo smartphone, i tuoi vestiti, il tuo mouse, tutto ciò che ti circonda potrebbe provenire da un laogai poiché commerciare i prodotti fabbricati in questi campi di lavoro è legale. Numerose multinazionali cinesi trovano conveniente vendere le mercanzie dei laogai: dato che la manodopera è gratuita e i profitti sono alti, riescono eccellentemente a esportare tali prodotti nascondendo la reale provenienza – che sarebbe teoricamente illecita – usando il secondo nome del laogai, che è sempre quello di un’impresa commerciale. Per le imprese cinesi il termine laogai significa profitto. Purtroppo sono certa che non saremo noi a chiudere i battenti dei laogai e quindi dare la possibilità al popolo cinese diesprimere la loro democratica esigenza di capovolgere il sistema. Ma mi è sufficiente pensare che oggi si parla di questa cruda realtà, quando ieri la disinformazione la celava. Il sogno di Harry Wu  – che è stato prigioniero nei laogai per diciannove anni – è quello di riuscire a inserire il termine laogai nei dizionari di tutte le lingue. Io mi auguro, invece, che quel termine possa andare oltre ed entrare nella vita di ognuno di noi, di modo che il mondo smetta di parlare di baggianate e di tacere sulle cose importanti. Liu Xiaobo , che ha ricevuto un premio Nobel per la pace, scrisse: “l’uomo ha l’intelletto, per questo si crede superiore agli animali e ritiene di poter dominare su tutte le cose del mondo. […] le infinite regole, leggi, norme, dogmi e teoremi stabilite dalla ragione costringono in maniera evidente l’esistenza a un appiattimento dottrinale, facendo sì che l’uomo sia così limitato dalle sue stesse creazioni da non riuscire nemmeno a muovere un passo”.

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Quando il libero mercato incrementa la miseria

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 9.11.2010

Siamo in un Paese bloccato in cui – ai fini del successo – conta di più la ricchezza dei propri genitori che non il livello d’istruzione o il merito. Sono queste, in sostanza, le conclusioni che si possono trarre dall’intervento, o forse sarebbe meglio chiamarla “lezione”, del Presidente della Banca d’Italia Mario Draghi tenuto il 5 novembre scorso ad Ancona alla facoltà di economia intitolata al grande economista Giorgio Fuà.

L’Italia – ha affermato Draghi – è a un bivio fra la stagnazione e la crescita e deve saper uscire dalla spirale del calo della produttività che ha colpito tutto il paese, anche il Nord, nell’ultimo decennio non appagandosi della ricchezza conquistata negli scorsi anni.

A darne per prima grande risalto sulla stampa nazionale è Chiara Paolin, giornalista de il Fatto quotidiano, che riporta nel suo articolo titolato “Italia povera come nel ‘600” alcuni passaggi di quell’intervento sul tema “Crescita, benessere e compiti dell’economia politica” in cui Draghi, interrogandosi sulle cause del deludente andamento della produttività dell’Italia afferma, senza peli sulla lingua, che “La stagnazione di questo valore nel decennio precedente la crisi è stata uniformemente diffusa sul territorio”. Dal Mezzogiorno al Nord d’Italia Draghi parla di un Paese per il quale “Dobbiamo ancora valutare gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva” aggiungendo che “E’ possibile che lo choc della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività” ma anche che “è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi” o peggio ancora “un percorso più negativo”.

Già quarant’anni prima che esplodessero gli scandali di Tangentopoli un grande intellettuale denunciava, con pagine roventi e documentate, gli illeciti di imprese e partiti che oggi rivediamo emergere in “cricche” degli appalti che “lavorano” in assenza di concorrenza o in condizioni di concorrenza “controllata”. Nel volume Capitalismo inquinato Ernesto Rossi (1897-1967), quarant’anni prima degli scandali del ’92, documentava come, in questo Paese, “I grandi industriali hanno la coscienza troppo sporca” perché “Capiscono anche loro che non possono continuare ad accumulare miliardi, senza dare alcun servizio utile alla collettività, riscuotendo dei balzelli ai passaggi obbligati e non pagando le imposte che servono a mantenere l’ordine di cui profittano”.

Secondo Mario Draghi, oggi, si potrebbe precipitare in “situazioni vissute in epoche lontane, nel ‘600 o agli inizi del ‘900, quando una pur consolidata ricchezza di base non riuscì ad arrestare la recessione ad una civiltà squilibrata verso le forme più rurali ed arretrate”. E in questo scenario “a rischiare di più sono i giovani”. Oggi come allora sono proprio i giovani di questo Paese a rischiare di più. La disoccupazione a livelli che non si registravano da anni, quasi 4 milioni di lavoratori precari pari al 16% del totale della forza lavoro e il lavoro irregolare che secondo i dati istat raggiunge il 12% su media nazionale ma che, in regioni come la Calabria, sfiora il 20% del totale della forza lavoro. E, spiega Draghi, “Senza la speranza di una sia pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si hanno effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Ma non è un inno retorico ai giovani. Da economista qual’è, Draghi sottolinea proprio come il precariato finirà per scardinare il sistema capitalistico italiano, cioè la nostra vita economica.

Draghi descrive insomma un paese non solo economicamente ma anche socialmente “bloccato” dalle troppe rendite di posizione: “Nel determinare il successo professionale di un giovane, il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuano a pesare molto di più delle caratteristiche personali, come il livello d’istruzione”. Si hanno cioè più chance se si è figli di un’industriale o un parlamentare e si nasce in Lombardia o in Veneto piuttosto che in regioni come la Calabria o la Campania. È questa la fotografia dell’Italia scattata a 150 anni dalla sua storia unitaria. “E questo accade in Italia” – continua impietosamente Draghi nel suo discorso – “con incidenza che non ha pari in Europa”. Il lavoro e la fine della precariato come emergenze e come possibilità di riscatto sociale, morale e politico del nostro Paese. Forse sarebbe possibile se si guardassero quegli studi e quelle proposte troppo spesso in passato considerate “marginali” se non “utopiche”, ma che oggi sarebbero utili davvero per abolire la miseria. Mentre si premiano imprenditori come Marchionne, dovremmo ricordare che, ancora oggi, come scriveva Rossi nel ’46, “Le dimostrazioni che molti economisti hanno creduto di dare che il regime individualistico, consentendo la maggiore approssimazione possibile allo schema teorico della libera concorrenza, tende automaticamente ad attuare in ogni momento un massimo di utilità collettiva, non reggono alla critica, rivelandosi, nel migliore dei casi, delle semplici tautologie; la libera concorrenza può dare degli effetti socialmente benefici o malefici, a seconda degli argini dell’ordinamento giuridico entro i quali viene contenuta”. Se le regole del libero mercato non esistono o vengono sistematicamente violate, derogate, se gli imprenditori sono lasciati liberi di agire nel loro esclusivo interesse individualistico anche quando essi non contribuiscono alla collettività in cui operano con il giusto pagamento delle tasse, se si lascia che non si paghino i contributi ai lavoratori perché li si lascia lavorare in nero, se anzi si premiano i comportamenti evasivi con i condoni fiscali, allora il libero mercato è destinato ad incrementare la miseria e quel divario tra la tracotanza di coloro che vivono di rendite e la gente comune, sempre più miserabili, destinati a non riuscir a sopravvivere neanche del loro lavoro.

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Il lavoro, la Calabria e l’emigrazione

di Giovanna Canigiula
La prima pagina dell’Avvenire Vibonese del 18 marzo 1893 è interamente dedicata al fenomeno dell’emigrazione, in preoccupante ripresa dopo un breve rallentamento della corsa. La grave crisi agraria di fine secolo, infatti, colpisce la Calabria e, in particolare, il settore agricolo. Si calcola che, tra il 1870 e il 1915, abbia lasciato la regione un terzo della sua popolazione e che il picco sia stato raggiunto nel ventennio tra il 1892 e il 1911, quando se ne andarono 714.731 calabresi. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo con maggiori opportunità occupazionali tanto che, ad un certo momento, intervennero politiche restrittive per limitare l’ingresso di nuovi migranti. All’indomani dell’Unità d’Italia, l’estensione nelle regioni annesse della legislazione e del sistema fiscale piemontesi, attraverso le cinque leggi Bastogi, provocarono i primi problemi. Aggravio fiscale, unificazione commerciale, libero scambio, tradimento del problema demaniale, vendita dei beni ecclesiastici, aumento del costo della vita ma non dei salari, ruppero gli equilibri su cui poggiava la struttura feudale borbonica, tagliarono le gambe alla piccola industria, determinarono la crisi del settore granario, favorirono i potenti gruppi agrari a svantaggio del resto della popolazione. Una serie di calamità naturali, cui si aggiunsero la malattia del baco e la conseguente chiusura delle filande che garantivano lavoro stagionale alle donne, fecero il resto.
Pizzo è la spiaggia dell’imbarco che conduce a Genova, dal cui porto centinaia di migliaia di poveri partono per l’incantato Eldorado delle speranze. La situazione appare peggiorata: se, fino a un decennio prima, lasciavano la loro terra solo gli uomini validi  attratti dall’illusione di facili guadagni e con la speranza di un viaggio più o meno lontano dal quale si tornava, ormai attraversano l’Atlantico intere famiglie, dietro al peso di insopportabili miserie. L’emigrante del passato era ricordato attorno al focolare, una sua lettera o un vaglia ne testimoniavano il pensiero per i cari. L’esodo di fine Ottocento è più drammatico perché chi parte non torna e rescinde definitivamente il legame con la propria terra. Il motivo, si legge, non è che uno solo: l’impossibilità di vivere, sia pure di stenti, in patria. Non c’è possibilità d’illudersi: si emigra non per la lusinga di speranze rosee e lontane, non per l’attrazione che l’ignoto esercita sulle menti inculte, non per migliorare le proprie condizioni; si emigra invece per trovare un nuovo posto, nel quale la vita sia possibile. Il posto già occupato in patria non è più sostenibile. Non solo i poveri o gli artigiani sono fuori di posto, ma è la nostra società intiera spostata, i ricchi come i poveri stanno a disagio, vanno in cerca di un nuovo assetto, nel quale l’onesto lavoro sia possibile, e la vita resa più facile e meno colma di triboli e spine. Il ricco, o colui che può aspettare ancora, spera di trovare il nuovo posto in patria, chi non può aspettare sotto lo stimolo della fame parte, scappa, non guarda il pericolo futuro, pur di sottrarsi a quello permanente, incessante, continuo che lo minaccia. E’ un dato allarmante: ricco è colui che può permettersi il lusso di aspettare ancora. Intere famiglie vendono tutto, raccolgono gli ultimi risparmi, se ne vanno senza rammarico, anzi, col sollievo di non lasciarsi nulla alle spalle e di sottrarsi alle persecuzioni fiscali, all’incubo della liquidazione economica, alla miseria. L’immagine dell’emigrante è quella di un uomo che parte col coraggio che anima i disperati alla ricerca di pace. Le rivoluzioni politiche quotidiane, la febbre gialla, il vomito nero, gli orrori sotto tutte le forme, della vita vissuta sotto i tropici, ai quali va incontro, non lo sgomentano. Il settimanale tiene una piccola rubrica sull’emigrazione: il 24 marzo 1892, ad esempio, riporta una disposizione del Ministero che proibisce ogni operazione di emigrazione diretta al Venezuela per le cattive condizioni sanitarie di quelle contrade, invase da mortali epidemie. Il piroscafo “Colombo” proveniente dal Brasile, ebbe a soffrire molti decessi durante la traversata, ed ora sconta la quarantena prescritta al lazzaretto dell’Asinara. A bordo dello stesso trovansi varii nostri concittadini  di ritorno dall’emigrazione, disillusi dal sognato Eldorado. C’è chi torna e chi parte lo stesso e si sorride a chi cerca di trattenere, non si maledice nessuno, si è senza indignazione, calmi e rassegnati a crearsi una nuova patria perché, nella propria, la miseria è passata sulla testa di tutti e quelli che son creduti ricchi, in realtà sono pezzenti mascherati, che non possono dare lavoro agli altri perché anch’essi mancano del necessario, ed hanno oneri maggiori da sopportare.
Il Governo non impedisce la corrente          dell’emigrazione ma dirama circolari che danno conto del modo in cui si vive all’estero e invita alla prudenza: del 1891 è la Circolare ministeriale a firma di Ramognini, che raccomanda agli italiani che vogliano recarsi in Venezuela di accettare solo lavori lungo la linea Caracas- Valenza, una delle più sane. In quest’area, oltretutto, gli operai impiegati dalla ditta tedesca che ha in appalto i lavori di costruzione di una nuova ferrovia godono di sufficiente assistenza medica, per la quale hanno una ritenuta del 2% sui salari e però si suggerisce loro, essendo il vitto piuttosto caro, di non accettare contratti che non assicurino una mercede non inferiore a nove o dieci lire al giorno. Il 4 luglio del 1892, è pubblicata la circolare con cui il Prefetto Carlotti mette in guardia da eventuali truffe in Perù: molti possessori di buoni del debito esterno peruviano si sono riuniti in Società sotto il titolo “Peruvian Corporation” ed avendo ottenuto da quel Governo, in garenzia del loro credito, una certa estensione di terreno, hanno pensato di introdurvi famiglie italiane per affidarne loro la coltivazione. A questo scopo qualche Agente avrebbe già aperte trattative con la suddetta Società. Si vorrebbe con ciò tentare, a rischio e pericolo degli emigranti italiani, l’attuazione di quel progetto per ora solo vagamente ideato e che non presenta sicure garanzie di buona riuscita. Da qui il divieto ministeriale ad Agenti e Subagenti di compiere operazioni d’emigrazione per il Perù, fino a nuove disposizioni.
Gli immigrati italiani, infatti, vivevano ammassati negli slums delle metropoli statunitensi e lavoravano in condizioni disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie. Nel Sudamerica erano impiegati nei lavori agricoli, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. Leggendo questi pochi documenti si avverte l’incapacità del Governo di fronteggiare il fenomeno attraverso interventi che rimuovano le cause dell’emigrazione. La legge Crispi del 1888 e quella del 1901 che assegna allo Stato, attraverso il Commissario Generale dell’Emigrazione, il compito di tutelare e intervenire a favore degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e dopo, denunciano chiaramente il fatto che l’agire politico sia indirizzato non tanto a ostacolare il flusso migratorio, quanto a prendersi parzialmente cura, dopo averle ignorate o sottovalutate, delle condizioni di chi lasciava il paese. Secondo la redazione del settimanale è giusto che il Governo non impedisca l’emigrazione, bisogna però che si conoscano le difficoltà alle quali gli emigranti vanno incontro, partendo senza notizie sicure dei luoghi ai quali sono diretti. Viene così riportato per esteso l’invito che Piero Lucca, per il Ministro, rivolge alle Prefetture affinché pubblicizzino la legge del 26 febbraio 1891 per evitare delusioni, viaggi inutili e dispendiosi, e dolorose peripezie: essa stabilisce che non è permesso l’ingresso nel territorio dell’Unione agli stranieri idioti, pazzi, infermi, poveri che possano cadere a carico della pubblica beneficenza, affetti da malattie nauseanti o pericolose per motivi di contagio, condannati per reati infamanti, o trasgressioni che implicano turpitudine morale, ai poligami e ai lavoratori arruolati per contratto sia esso scritto, verbale o sottinteso, o che abbiano ricevuto danaro da altri come caparra di lavoro. E’ parimenti proibito entrare negli Stati Uniti con biglietto pagato da altri o assistiti da altri per l’espatrio nonché assistere o incoraggiare la importazione o immigrazione di stranieri a mezzo di avvisi, stampati o pubblicati all’estero. Nessuna compagnia o proprietario di navi può favorire l’immigrazione, a meno che non si accerti l’esistenza di ordinaria corrispondenza commerciale, pena una multa di mille dollari o un anno di reclusione o entrambi. E’compito del comandante denunciare, all’arrivo nei porti americani e prima dello sbarco, nome, nazionalità, ultima residenza e destinazione di ogni straniero agli ufficiali ispettori che, saliti a bordo, devono passare in rassegna tutti gli immigrati e possono consentirne uno sbarco provvisorio per sottoporli a visita in tempo e luogo designati, e trattenerli fino a ispezione ultimata. Un’ulteriore multa di 300 dollari è prevista per capitani, agenti, consegnatari o proprietari di navi che si rifiutino di pagare le spese di mantenimento per tutto il tempo che gli immigrati restano a terra e quello successivo per il ritorno a bordo.
Nonostante i rischi, le compagnie di navigazione, in questi anni, si fanno concorrenza, riducono i prezzi del transito, accordano facilitazioni, cercano di accaparrarsi il favore delle agenzie di emigrazione: la miseria fa fare buoni affari. Il paesaggio del sud, invece, tradisce gli abbandoni: lo esodo continua, e le nostre campagne diventano deserte: la vigna non si coltiva, le ulive non si raccolgono, e lo aratro non feconda più i nostri terreni. Come nei territori privi di popolazione il pascolo si estende, le mandrie si moltiplicano […]
Solo qualche anno prima, nel 1885, l’Avvenire Vibonese aveva seguito con attenzione gli sviluppi della discussione sulla crisi agraria in Parlamento, giudicandoli poco soddisfacenti dal momento che l’agitazione che serpeggiava nel Paese si mantiene tuttora sostenuta da un penoso disequilibrio fra la gravezza dell’imposta e la povertà della rendita. Aveva quindi proposto ad agricoltori e proprietari fondiari di aderire al Comitato Centrale della Lega di Difesa Agraria costituitosi a Torino, per poterne a loro volta costituire uno locale. Fuori dai limiti dell’appartenenza politico- ideologica ad un partito, aveva invitato a sostenere l’unico rimedio temporaneo possibile: l’aumento del dazio sull’importazione dei cereali. E riportato le parole di un illustre membro del Senato: “Le libertà economiche del 1848 furono una reazione contro il dispotismo politico, oggi la vostra Lega Agraria insorge contro il dispotismo dottrinario. Plaudo alle Provincie antiche, ieri iniziatrici dell’indipendenza politica, oggi iniziatrici dell’indipendenza economica”. Peggiorato lo scenario, non rimane, negli anni Novanta, che tenere informati sull’andamento del flusso migratorio e cercare di cautelare chi emigra attraverso una campagna d’informazione sui rischi cui si va incontro.
E battagliare, per chi resta, affinché l’istruzione diventi una priorità.

a prima pagina dell’Avvenire Vibonese del 18 marzo 1893 è interamente dedicata al fenomeno dell’emigrazione, in preoccupante ripresa dopo un breve rallentamento della corsa. La grave crisi agraria di fine secolo, infatti, colpisce la Calabria e, in particolare, il settore agricolo. Si calcola che, tra il 1870 e il 1915, abbia lasciato la regione un terzo della sua popolazione e che il picco sia stato raggiunto nel ventennio tra il 1892 e il 1911, quando se ne andarono 714.731 calabresi. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo con maggiori opportunità occupazionali tanto che, ad un certo momento, intervennero politiche restrittive per limitare l’ingresso di nuovi migranti. All’indomani dell’Unità d’Italia, l’estensione nelle regioni annesse della legislazione e del sistema fiscale piemontesi, attraverso le cinque leggi Bastogi, provocarono i primi problemi. Aggravio fiscale, unificazione commerciale, libero scambio, tradimento del problema demaniale, vendita dei beni ecclesiastici, aumento del costo della vita ma non dei salari, ruppero gli equilibri su cui poggiava la struttura feudale borbonica, tagliarono le gambe alla piccola industria, determinarono la crisi del settore granario, favorirono i potenti gruppi agrari a svantaggio del resto della popolazione. Una serie di calamità naturali, cui si aggiunsero la malattia del baco e la conseguente chiusura delle filande che garantivano lavoro stagionale alle donne, fecero il resto.Pizzo è la spiaggia dell’imbarco che conduce a Genova, dal cui porto centinaia di migliaia di poveri partono per l’incantato Eldorado delle speranze. La situazione appare peggiorata: se, fino a un decennio prima, lasciavano la loro terra solo gli uomini validi  attratti dall’illusione di facili guadagni e con la speranza di un viaggio più o meno lontano dal quale si tornava, ormai attraversano l’Atlantico intere famiglie, dietro al peso di insopportabili miserie. L’emigrante del passato era ricordato attorno al focolare, una sua lettera o un vaglia ne testimoniavano il pensiero per i cari. L’esodo di fine Ottocento è più drammatico perché chi parte non torna e rescinde definitivamente il legame con la propria terra. Il motivo, si legge, non è che uno solo: l’impossibilità di vivere, sia pure di stenti, in patria. Non c’è possibilità d’illudersi: si emigra non per la lusinga di speranze rosee e lontane, non per l’attrazione che l’ignoto esercita sulle menti inculte, non per migliorare le proprie condizioni; si emigra invece per trovare un nuovo posto, nel quale la vita sia possibile. Il posto già occupato in patria non è più sostenibile. Non solo i poveri o gli artigiani sono fuori di posto, ma è la nostra società intiera spostata, i ricchi come i poveri stanno a disagio, vanno in cerca di un nuovo assetto, nel quale l’onesto lavoro sia possibile, e la vita resa più facile e meno colma di triboli e spine. Il ricco, o colui che può aspettare ancora, spera di trovare il nuovo posto in patria, chi non può aspettare sotto lo stimolo della fame parte, scappa, non guarda il pericolo futuro, pur di sottrarsi a quello permanente, incessante, continuo che lo minaccia. E’ un dato allarmante: ricco è colui che può permettersi il lusso di aspettare ancora. Intere famiglie vendono tutto, raccolgono gli ultimi risparmi, se ne vanno senza rammarico, anzi, col sollievo di non lasciarsi nulla alle spalle e di sottrarsi alle persecuzioni fiscali, all’incubo della liquidazione economica, alla miseria. L’immagine dell’emigrante è quella di un uomo che parte col coraggio che anima i disperati alla ricerca di pace. Le rivoluzioni politiche quotidiane, la febbre gialla, il vomito nero, gli orrori sotto tutte le forme, della vita vissuta sotto i tropici, ai quali va incontro, non lo sgomentano. Il settimanale tiene una piccola rubrica sull’emigrazione: il 24 marzo 1892, ad esempio, riporta una disposizione del Ministero che proibisce ogni operazione di emigrazione diretta al Venezuela per le cattive condizioni sanitarie di quelle contrade, invase da mortali epidemie. Il piroscafo “Colombo” proveniente dal Brasile, ebbe a soffrire molti decessi durante la traversata, ed ora sconta la quarantena prescritta al lazzaretto dell’Asinara. A bordo dello stesso trovansi varii nostri concittadini  di ritorno dall’emigrazione, disillusi dal sognato Eldorado. C’è chi torna e chi parte lo stesso e si sorride a chi cerca di trattenere, non si maledice nessuno, si è senza indignazione, calmi e rassegnati a crearsi una nuova patria perché, nella propria, la miseria è passata sulla testa di tutti e quelli che son creduti ricchi, in realtà sono pezzenti mascherati, che non possono dare lavoro agli altri perché anch’essi mancano del necessario, ed hanno oneri maggiori da sopportare.Il Governo non impedisce la corrente          dell’emigrazione ma dirama circolari che danno conto del modo in cui si vive all’estero e invita alla prudenza: del 1891 è la Circolare ministeriale a firma di Ramognini, che raccomanda agli italiani che vogliano recarsi in Venezuela di accettare solo lavori lungo la linea Caracas- Valenza, una delle più sane. In quest’area, oltretutto, gli operai impiegati dalla ditta tedesca che ha in appalto i lavori di costruzione di una nuova ferrovia godono di sufficiente assistenza medica, per la quale hanno una ritenuta del 2% sui salari e però si suggerisce loro, essendo il vitto piuttosto caro, di non accettare contratti che non assicurino una mercede non inferiore a nove o dieci lire al giorno. Il 4 luglio del 1892, è pubblicata la circolare con cui il Prefetto Carlotti mette in guardia da eventuali truffe in Perù: molti possessori di buoni del debito esterno peruviano si sono riuniti in Società sotto il titolo “Peruvian Corporation” ed avendo ottenuto da quel Governo, in garenzia del loro credito, una certa estensione di terreno, hanno pensato di introdurvi famiglie italiane per affidarne loro la coltivazione. A questo scopo qualche Agente avrebbe già aperte trattative con la suddetta Società. Si vorrebbe con ciò tentare, a rischio e pericolo degli emigranti italiani, l’attuazione di quel progetto per ora solo vagamente ideato e che non presenta sicure garanzie di buona riuscita. Da qui il divieto ministeriale ad Agenti e Subagenti di compiere operazioni d’emigrazione per il Perù, fino a nuove disposizioni.Gli immigrati italiani, infatti, vivevano ammassati negli slums delle metropoli statunitensi e lavoravano in condizioni disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie. Nel Sudamerica erano impiegati nei lavori agricoli, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. Leggendo questi pochi documenti si avverte l’incapacità del Governo di fronteggiare il fenomeno attraverso interventi che rimuovano le cause dell’emigrazione. La legge Crispi del 1888 e quella del 1901 che assegna allo Stato, attraverso il Commissario Generale dell’Emigrazione, il compito di tutelare e intervenire a favore degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e dopo, denunciano chiaramente il fatto che l’agire politico sia indirizzato non tanto a ostacolare il flusso migratorio, quanto a prendersi parzialmente cura, dopo averle ignorate o sottovalutate, delle condizioni di chi lasciava il paese. Secondo la redazione del settimanale è giusto che il Governo non impedisca l’emigrazione, bisogna però che si conoscano le difficoltà alle quali gli emigranti vanno incontro, partendo senza notizie sicure dei luoghi ai quali sono diretti. Viene così riportato per esteso l’invito che Piero Lucca, per il Ministro, rivolge alle Prefetture affinché pubblicizzino la legge del 26 febbraio 1891 per evitare delusioni, viaggi inutili e dispendiosi, e dolorose peripezie: essa stabilisce che non è permesso l’ingresso nel territorio dell’Unione agli stranieri idioti, pazzi, infermi, poveri che possano cadere a carico della pubblica beneficenza, affetti da malattie nauseanti o pericolose per motivi di contagio, condannati per reati infamanti, o trasgressioni che implicano turpitudine morale, ai poligami e ai lavoratori arruolati per contratto sia esso scritto, verbale o sottinteso, o che abbiano ricevuto danaro da altri come caparra di lavoro. E’ parimenti proibito entrare negli Stati Uniti con biglietto pagato da altri o assistiti da altri per l’espatrio nonché assistere o incoraggiare la importazione o immigrazione di stranieri a mezzo di avvisi, stampati o pubblicati all’estero. Nessuna compagnia o proprietario di navi può favorire l’immigrazione, a meno che non si accerti l’esistenza di ordinaria corrispondenza commerciale, pena una multa di mille dollari o un anno di reclusione o entrambi. E’compito del comandante denunciare, all’arrivo nei porti americani e prima dello sbarco, nome, nazionalità, ultima residenza e destinazione di ogni straniero agli ufficiali ispettori che, saliti a bordo, devono passare in rassegna tutti gli immigrati e possono consentirne uno sbarco provvisorio per sottoporli a visita in tempo e luogo designati, e trattenerli fino a ispezione ultimata. Un’ulteriore multa di 300 dollari è prevista per capitani, agenti, consegnatari o proprietari di navi che si rifiutino di pagare le spese di mantenimento per tutto il tempo che gli immigrati restano a terra e quello successivo per il ritorno a bordo.Nonostante i rischi, le compagnie di navigazione, in questi anni, si fanno concorrenza, riducono i prezzi del transito, accordano facilitazioni, cercano di accaparrarsi il favore delle agenzie di emigrazione: la miseria fa fare buoni affari. Il paesaggio del sud, invece, tradisce gli abbandoni: lo esodo continua, e le nostre campagne diventano deserte: la vigna non si coltiva, le ulive non si raccolgono, e lo aratro non feconda più i nostri terreni. Come nei territori privi di popolazione il pascolo si estende, le mandrie si moltiplicano […]Solo qualche anno prima, nel 1885, l’Avvenire Vibonese aveva seguito con attenzione gli sviluppi della discussione sulla crisi agraria in Parlamento, giudicandoli poco soddisfacenti dal momento che l’agitazione che serpeggiava nel Paese si mantiene tuttora sostenuta da un penoso disequilibrio fra la gravezza dell’imposta e la povertà della rendita. Aveva quindi proposto ad agricoltori e proprietari fondiari di aderire al Comitato Centrale della Lega di Difesa Agraria costituitosi a Torino, per poterne a loro volta costituire uno locale. Fuori dai limiti dell’appartenenza politico- ideologica ad un partito, aveva invitato a sostenere l’unico rimedio temporaneo possibile: l’aumento del dazio sull’importazione dei cereali. E riportato le parole di un illustre membro del Senato: “Le libertà economiche del 1848 furono una reazione contro il dispotismo politico, oggi la vostra Lega Agraria insorge contro il dispotismo dottrinario. Plaudo alle Provincie antiche, ieri iniziatrici dell’indipendenza politica, oggi iniziatrici dell’indipendenza economica”. Peggiorato lo scenario, non rimane, negli anni Novanta, che tenere informati sull’andamento del flusso migratorio e cercare di cautelare chi emigra attraverso una campagna d’informazione sui rischi cui si va incontro.E battagliare, per chi resta, affinché l’istruzione diventi una priorità.

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Considerazioni demografiche

di Salvatore Colace
La popolazione mondiale sta invecchiando in maniera abbastanza rapida: in Europa gli ultra sessantacinquenni rappresenteranno nel 2020 più del 25% della popolazione totale. In Italia la situazione è ancora più critica: gli ultrasessantenni sono già al livello del 34%. Questo netto cambiamento demografico- legato all’allungamento della vita e a una riduzione della natalità, rende urgente l’adozione di interventi che assicurano una vecchiaia attività e dignitosa agli anziani, evitando il rischio emarginazione e facendo in modo che essi continuano a restare integrati nella società.
L’invecchiamento della popolazione sta anche modificando il mondo del lavoro: il rapporto fra persone attive e pensionati che oggi è a livello di 4:1 è destinato a diminuire drasticamente raggiungendo un rapporto 2:1 nel 2025.
Il problema dell’invecchiamento della popolazione è ai primi posti nell’agenda dei Governi, dell’industria e del mondo economico tutto. Le barriere per gli anziani nella vita di tutti i giorni sono numerose. La fragilità fisica e/o mentale, le barriere presenti all’interno della propria abitazione, la mancanza di strutture idonee nei trasporti pubblici, le lacune e/o la ridotta accessibilità dei servizi di comunicazione e d’informazione e i bassi livelli di reddito sono fra le principali barriere.
Le tecnologie informatiche e della comunicazione (ICT) possono fare molto; è una sfida enorme ma al contempo una notevole opportunità per le tecnologie ICT.
Bisogna rispondere ai bisogni e alle aspettative degli anziani con progetti d’assistenza mirati delle persone più anziane, malati e fragili  in alcune specifiche aree.
1) Servizi per una vita indipendente.
2) Per promuovere una maggiore integrazione dell’anziano nella società.
3) Per una mobilità autonoma.
4) Per favorire il proseguimento della vita lavorativa .
Oltre all’elevato numero di anziani ci sono tante patologie che condizionano anche gravemente la vita tra cui la demenza .
Le forme di demenza, tra cui per il 60% l’Alzheimer, colpiscono in Italia circa 1 milione di persone, con una prevalenza soprattutto nelle persone in età avanzata.
Oggi, secondo i dati comunicati da Alzheimer Europe, le persone affette da demenza in Europa sono quasi 10 milioni e a livello mondiale circa 35 milioni, per arrivare nel 2030 rispettivamente a 15 e 65 milioni ( Rapporto Mondiale Alzheimer, 2009 ). Oltre alla malattia di Alzheimer esistono diverse forme di demenza, caratterizzate da un progressivo declino della memoria e di altre funzioni cognitive, tale da interferire con le attività della vita. La maggior parte delle persone con demenza vive in famiglia; si determina quindi un forte carico psicologico, relazionale, economico ed anche pratico, per la necessità di sorvegliare e accompagnare il malato, di accudirlo e, nelle fasi avanzate, di sostituirlo nelle attività della vita quotidiana. La malattia di Alzheimer e le demenze rappresentano quindi una grande sfida per i Sistemi sociali e sanitari di tutti i Paesi.
La curiosità del lettore non sarà fine a se stessa se potrà far meglio capire la vita delle persone affette da demenza e il carico di fatica delle loro famiglie.
Se, infatti, contro la malattia di Alzheimer la medicina è ancora alla ricerca di una risposta mirata, la vita dell’ammalato e della sua famiglia richiede non solo la competenza e l’attenzione di chi è preposto alla cura, ma anche un’ampia e generosa solidarietà.
La sofferenza del corpo e della mente è lenita dalle scoperte della medicina, ma anche da vicinanze significative; per questo motivo vorremmo che nessuno si sentisse solo quando nelle lunghe giornate e nelle notti difficili offre con timore e tremore al proprio caro l’assistenza amorosa che gli rende meno difficile il vivere.
* Presidente associazione di volontariato “L?Altro Aiuto”

a popolazione mondiale sta invecchiando in maniera abbastanza rapida: in Europa gli ultra sessantacinquenni rappresenteranno nel 2020 più del 25% della popolazione totale. In Italia la situazione è ancora più critica: gli ultrasessantenni sono già al livello del 34%. Questo netto cambiamento demografico- legato all’allungamento della vita e a una riduzione della natalità, rende urgente l’adozione di interventi che assicurano una vecchiaia attività e dignitosa agli anziani, evitando il rischio emarginazione e facendo in modo che essi continuano a restare integrati nella società.L’invecchiamento della popolazione sta anche modificando il mondo del lavoro: il rapporto fra persone attive e pensionati che oggi è a livello di 4:1 è destinato a diminuire drasticamente raggiungendo un rapporto 2:1 nel 2025.Il problema dell’invecchiamento della popolazione è ai primi posti nell’agenda dei Governi, dell’industria e del mondo economico tutto. Le barriere per gli anziani nella vita di tutti i giorni sono numerose. La fragilità fisica e/o mentale, le barriere presenti all’interno della propria abitazione, la mancanza di strutture idonee nei trasporti pubblici, le lacune e/o la ridotta accessibilità dei servizi di comunicazione e d’informazione e i bassi livelli di reddito sono fra le principali barriere.Le tecnologie informatiche e della comunicazione (ICT) possono fare molto; è una sfida enorme ma al contempo una notevole opportunità per le tecnologie ICT.  Bisogna rispondere ai bisogni e alle aspettative degli anziani con progetti d’assistenza mirati delle persone più anziane, malati e fragili  in alcune specifiche aree. 1) Servizi per una vita indipendente.2) Per promuovere una maggiore integrazione dell’anziano nella società.3) Per una mobilità autonoma.4) Per favorire il proseguimento della vita lavorativa . Oltre all’elevato numero di anziani ci sono tante patologie che condizionano anche gravemente la vita tra cui la demenza .Le forme di demenza, tra cui per il 60% l’Alzheimer, colpiscono in Italia circa 1 milione di persone, con una prevalenza soprattutto nelle persone in età avanzata.Oggi, secondo i dati comunicati da Alzheimer Europe, le persone affette da demenza in Europa sono quasi 10 milioni e a livello mondiale circa 35 milioni, per arrivare nel 2030 rispettivamente a 15 e 65 milioni ( Rapporto Mondiale Alzheimer, 2009 ). Oltre alla malattia di Alzheimer esistono diverse forme di demenza, caratterizzate da un progressivo declino della memoria e di altre funzioni cognitive, tale da interferire con le attività della vita. La maggior parte delle persone con demenza vive in famiglia; si determina quindi un forte carico psicologico, relazionale, economico ed anche pratico, per la necessità di sorvegliare e accompagnare il malato, di accudirlo e, nelle fasi avanzate, di sostituirlo nelle attività della vita quotidiana. La malattia di Alzheimer e le demenze rappresentano quindi una grande sfida per i Sistemi sociali e sanitari di tutti i Paesi.La curiosità del lettore non sarà fine a se stessa se potrà far meglio capire la vita delle persone affette da demenza e il carico di fatica delle loro famiglie.Se, infatti, contro la malattia di Alzheimer la medicina è ancora alla ricerca di una risposta mirata, la vita dell’ammalato e della sua famiglia richiede non solo la competenza e l’attenzione di chi è preposto alla cura, ma anche un’ampia e generosa solidarietà.La sofferenza del corpo e della mente è lenita dalle scoperte della medicina, ma anche da vicinanze significative; per questo motivo vorremmo che nessuno si sentisse solo quando nelle lunghe giornate e nelle notti difficili offre con timore e tremore al proprio caro l’assistenza amorosa che gli rende meno difficile il vivere.
* Presidente associazione di volontariato “L?Altro Aiuto”

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Gli africani di Rosarno, moderni figli della gleba

di Filippo Curtosi

Richiamano alle labbra una voce in uso tra i Greci dell’età classica che significa seme e quando patteggiando col proprietario fa inserire nel contratto il suo diritto al “paraspolo”, fa ritornare al pensiero la parola dei suoi avi ellenici come pure li fa rivivere quando nella stagione propizia si reca con la zappetta nei campi seminati a “sporiare” come suol dire, il grano, il frumento. Non è vero quindi che la storia della parola “paresporium” o “parasporium” sia oscura  se erroneamente si è creduto.La sua formazione ,più che all’epoca dei monaci basiliani deve risalire tempi remoti della Magna Grecia. E’ evidente,sostiene il profes sore di Nicotera che il contratto enumera soltanto gli obblighi ai quali si sottopongono i coloni calabresi. Questi si impegnano a corrispondere al convento una giornata di lavoro alla settimana, a titolo di servitù. (angaria) e tre volte all’anno, il paresporo di tre giorni insieme al giorno settimanale di angaria. Dei tre periodi o turni di paresporo uno è destinato ai lavori di mietitura, un altro a quello pel maggese e un altro poi alla semina dei campi. Come risulta evidente            dall’esame letterale e comparativo del documento il paresporo è un tributo colonico comune nell’età media, alla quale perviene come ultimo avanzo di servitù personali, ultimo    residuo delle miserevoli imposizioni fatte agli uomini della gleba. Nel territorio di Cassano all’Ionio il bifolco, il forese annaruolo, a quanto scrive il Lanza, prende ogni mese un tomolo di grano misura rasa,mezzo rotolo di sale,undici once d’olio ,un ottavo di tomolo di legumi, un barile di vino del peso di rotoli quaranta durante il tempo della semina autunnale e altrettanto nella trebbiatura delle messi. Più il paraspolo, consistente nel prodotto di tomolo quattro grano,di un tomolo di orzo e di uno stuppello di legumi seminato in comune nella masseria, su dei quali egli paga il terratico, la falciatura e le altre spese di coltivazione soltanto per metà. Così deve praticarsi anche nel medioevo. Per concludere, aggiungiamo noi col Corso, se la storia è la rappresentazione della vita di un momento, di un’epoca, d’un mondo sociale, non possono essere trascurate in essa le indagini che nella vita presente rivelano la persistenza delle idee e dei costumi del passato e in quella dei tempi scomparsi osservano le forme vecchie o anche le forme originarie delle attuali condizioni sociali degli africani di Rosarno, novelli servi della gleba.

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Telai, fucine e folklore giuridico

di Filippo Curtosi
J. M. de PradaLa vera cultura”, sostiene lo scrittore Juan Manuel de Prada, è quella che nasce da ciò che i romantici tedeschi chiamavano Volkgeist, “lo spirito del popolo”; deve essere una emanazione naturale della gente, che canta, balla, racconta, dipinge, perché sente il bisogno di esprimere qualcosa che le appartiene nel profondo, qualcosa che è legato alla sua genealogia spirituale alla sua identità. Questa cultura, oggi come ieri, subisce però il sequestro da parte del potere; quest’ultimo si rende conto che se riesce a trasformare queste effusioni naturali in un”artefatto”, ossia in un prodotto artificiosamente creato, può ottenere una ingegneria sociale. Allo stesso tempo si osserva una casta di intellettuali gregari; persone che si sono adeguate a una determinata interpretazione della realtà auspicata dal potere, che le sovvenziona e promuove, affinché impongono una determinata cultura,che non è autentica, perché non nasce da una espressione naturale del popolo. Inoltre, all’idea di popolo si è andato sostituendo il concetto nuovo di “cittadinanza”, una massa amorfa dove l’esperienza artistica non si produce più in modo naturale.
La vera arte è comunitaria,per dirla con le parole di Manuel de Prada è come un seme che si getta e suscita il desiderio d’incorporarsi all’esperienza artistica e di comunicarla ad altri, di modo che ognuno, in un certo senso, diviene anche creatore. E’ una specie di contagio. La domanda che ci poniamo oggi è: come è possibile recuperare l’autentica cultura ed in particolare la cultura del lavoro? Solo riappropriandoci della nostra identità, di quella “pasta” che di tanta civiltà ha illuminato il mondo, potremmo evitare di “non eternare” come scriveva  Vito Capialbi al suo amico Paolo Orsi, il cattivo nome, che di Noi corre per il mondo”.
Occorre realizzare un lavoro di ricomposizione del tessuto sociale partendo dal basso, creare una specie di “controcultura” di fronte a questa “pseudocultura” stabilita dall’alto. Ma il popolo è bombardato quotidianamente dalla cultura artificiale che ci viene venduta. La Calabria possiede un ricco patrimonio di cultura materiale ed immateriale che ha influenzato il processo di trasformazione sociale ed economico di questo nostro territorio che resta ancora poco noto e documentato e che per questo necessita di un intervento di recupero e valorizzazione.
Terra di Calabria, dove sono le giogaie che     “traversano la penisola in tutta la sua lunghezza, stendendo le loro diramazioni verso spiagge fiorite, in fertili vallate,f ino ai lembi costieri,s u cui si inchinano àgavi ed ulivi bagnati dal cupo mare”. Dai monti al mare passando per le colline. Dai pini ed abeti, agli aceri, alle querce, castagni e poi più giù verso le valli coi vigneti, l’odore degli agrumi, delle zagare, ai fichi d’india, la liquirizia, i capperi. Dov’è il caolino di Parghelia, la lignite di Briatico, il ferro di Mongiana, l’arte tessile, le sete e i damaschi di cui Catanzaro ebbe il primato della tessitura,” nobile nella materia come ci racconta Alfonso Frangipane e nella impronta artistica. Da Catanzaro, continua il fondatore della rivista”Brutium” si sparse l’amore dell’arte gentile, e sorsero i primi telai lignei, con le lignee macchine rudimentali e si formarono le specialissime maestranze di tessitori e tintori. Esempio fecondo Cosenza, Taverna, Monteleone, Reggio, ebbero tessitori di seta e di cascami. E’ vanto di Catanzaro l’avere preceduto altre città italiane nel lavoro serico; è storico il progresso delle produzioni catanzaresi, pregiate nei grandi centri dell’Italia centrale e settentrionale, fino a Lione, Parigi, Tours, dove pervenivano i nostri tessuti e tessitori. Si pregiavano ovunque i panni di seta, sciamiti, zendadi, anche a fili d’oro, ed i paramenti sacri, le coperte di velluto, i fazzoletti catanzaresi di organzino colorato, e le tinte, cremisi, verdi, gialle, turchine. A Tropea la tessitura particolare di cotone e lana con carattere rustico broccato,unica in Italia è ancora viva,le coperte “ a pizzuluni” cioè a rilievo,facevano parte fino a pochi anni fa del corredo nuziale. Così a Longobucco, altro secolare e mirabile laboratorio tessile cui tutto il paese collabora appassionatamente. Non meno degne sono le ceramiche. Ecco le borracce, le cannate ed i boccali di Seminara. Botteghe importanti esistono a Gerace,S oriano, Bisignano.
Bisogna ricordare i fabbri di Serra San Bruno per lavori di applicazione, insuperabili sono le balconate ricurve indorate di flessuosi ed enormi tulipani.
Cosi come non va dimenticata l’arte lignea dei costruttori e decoratori di cassoni nuziali, di collari, di conocchie, di bastoni e borracce, nonché quelle delle lucerne rudemente forgiate;gli artigiani del giunco e della “janestra”.
http://www.legambientelaroverella.it/tessitura.html
http://www.legambientelaroverella.it/tessitura.html
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Folklore giuridico come raccolta degli usi e delle consuetudini
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Il  “comprensorium haereditarium” della famiglia:
Cu’ non d’ha casa o ortu, si po’ diri ch’eni mortu
La podestà familiare ripartita fra il marito e la moglie:
‘A casa havi quattru cantuneri: Dui u maritu e dui ‘ mugghieri;
Il rispetto ai genitori e le credenze popolari:
Cu ‘no rispetta mamma e tata,
Erramu vaci strata strata
L’età minore dei figli:
Non diri ch’hai figghoili
Si non hannu denti e moli
Il corredo da preparare fin da quando la fanciulla è in fasce:
Figghia ‘nfaccia, E dota ‘nacascia
La fascia sociale a cui la donna appartiene:
A figghia du massaru,
Dui vòi e lu vòaru;
A figghia d’ù garzuni
A vesti e dui casciuni
L’invulnerabilità della dote:
A dota passa pi subba
O focu e non si vruscia
Il grado di parentela degli sposi e l’impedimento matrimoniale:
In quattu
La chiesa li spatta;
l’”osculum interveniens”
Donna vasata
Donna spusata;
La ripartizione ed il sorteggio delle quote successorie:
U randi faci i parti
Ed u picciottu pigghia.
Gli altri nove concernono i nidi,gli sciami delle api e la selvaggina di pelo:
Sciami, nido e pilu
Undi u vidi pigliatilu;
La caccia ai volatili e la selvaggina grossa:
Caccia di pilu,
Si sparti a filu filu;
Caccia di pinna,
Cù ammazza s’à spinna;
La costruzione arbitraria su suolo altrui:
Cù frabbrica ‘nta terra strana,
Perdi a carci, a petra e a rina;
La tolleranza di raccogliere fichi e simili frutti: per “ sfamarsi”
U ficu eni cuccu
Cu’ u’mbatti s’u ‘mvuccu
La disdetta dei fondi seminativi
Quando è a Nunziata
I rani pianu a licenziata;
L’anno del garzone e i suoi diritti:
P’u bon’ annu,
U garzuni chiumpi l’annu;
E si scappa ‘nta annata
Perdi a misata;
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Questione di padri

di Giuseppe Maria Matina

Impianto fotovoltaico

Un buon padre di famiglia è colui che, capace di osservare attentamente il presente, riesce a vedere dove esso si diriga, quali tempeste o bonacce si preparino e si dispone al peggio per affrontarle, costruendo fortificazioni e mettendo da parte il necessario.

E se, invece o nello stesso tempo, intravede opportunità di crescita, si attrezza per non lasciarsele sfuggire, programma interventi correttivi della direzione di marcia in vista di un miglioramento possibile di condizione per sé e per coloro verso cui è responsabile.
Non credo che la complessità – apparente o sostanziale che sia – del nostro presente possa confondere a tal punto le idee da farci perdere di vista la bontà di questo principio fondato sul senso comune che quotidianamente ispira le sagge azioni umane: la previdenza.
In relazione alla problematica del lavoro in Calabria, un’osservazione attenta ci parla di una questione secolare da collegare al sottosviluppo economico del meridione italiano in generale.
Le ragioni storiche di questo sono già state ampiamente descritte dalla letteratura meridionalista, ma i tentativi di imprimere una svolta decisa e definitiva da parte dei governi che hanno inteso cimentarvisi, sono risultati vani. Cosicché il divario di partenza tra nord e sud del paese, pur avendo conosciuto periodi di maggiore o minore accentuazione, ha continuato a manifestarsi secondo un trend costante. L’attuale negativa congiuntura economica, rebus sic stantibus, ovviamente aggrava un quadro già di per sé precario, determinando sofferenze pericolose in un tessuto sociale già debole sotto il profilo della capacità di reazione motivazionale oltre che morale e civile.
A mio avviso, in questo contesto, concentrare gli sforzi su provvedimenti puramente emergenziali, di tutela o di creazione di “astratti posti di lavoro”, rischia di risultare addirittura controproducente se non ci si chiede, innanzitutto, quali posti di lavoro salvaguardare o inventare.
Perché la crescita sia strutturale e stabile, è necessario, infatti, fissare una rotta tenendo conto, da una parte, delle esigenze primarie e, dall’altra, delle nuove opportunità che si presentano.
Per brevità di esposizione, faccio solo due esempi. Uno riguardo ad esigenze primarie ed uno relativo alle nuove opportunità.
1 – La tutela del territorio appare, oggi, alla luce del dissesto urbanistico ed idrogeologico che minaccia la sicurezza di larghe fasce di popolazione calabrese una priorità imprescindibile oltre che una necessità economica: investire in prevenzione piuttosto che essere costretti a dispendiosissimi interventi “curativi” che alla fine, per mancanza di risorse, si rivelano, al più, solo “lenitivi”.
La rottamazione degli edifici che non rispettano le norme antisismiche, così come l’elaborazione di un piano di canalizzazione delle acque per impedire lo sbriciolamento franoso del terreno, sembrano, anche agli occhi di un profano, provvedimenti di buon senso che, oltre al pregio di essere economicamente vantaggiosi, hanno anche quello di richiedere un rilevante impiego di forza lavoro.
2 – Quello delle energie alternative è un settore di rilevanza strategica che avrebbe, anch’esso, una ricaduta positiva nella creazione di reddito. L’energia solare e quella eolica – in particolare, ma non solo -, naturalmente disponibili, richiedono di essere trasformate a beneficio della comunità. L’attuale legislazione in materia consentirebbe il coinvolgimento di molti nell’attività di produzione, ma l’informazione a riguardo è del tutto insufficiente e la burocrazia connessa scoraggia pesantemente chi intenderebbe accostarsi a tale occupazione. Il risultato, per ora, è che soltanto chi ha a disposizione strumenti finanziari e organizzativi riesce a sfruttare questa opportunità.
L’ostacolo potrebbe essere superato, in ambito regionale, diffondendo informazioni semplificate, mettendo a disposizione dei cittadini un servizio di disbrigo delle pratiche necessarie, costituendo un fondo di prestito agevolato. Molti piccoli proprietari, in questo modo, anziché accontentarsi di affittare i loro terreni ad imprenditori – magari spagnoli, tedeschi o padani – a prezzi irrisori, potrebbero avviare un’ attività produttiva in proprio.
Un buon padre di famiglia – ovvio – deve prioritariamente voler essere tale, non essere distratto da propositi differenti rispetto a quelli assegnati al suo ruolo, che non è tanto quello di perdurare in una posizione di dominio o di proclamare guerre per sconfiggere i “clan” ritenuti nemici, quanto quello di  contribuire, secondo le sue capacità, alla costruzione di un futuro migliore per sé e per gli altri. Nel contesto in cui ci troviamo, possiamo dare ciò per scontato? Purtroppo, non mi sembra.
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Carne da Lavoro

di Giovanna Canigiula
                                                                  

 

 

                                                                                                                                                                                              Ce n’est qu’un debut

Il Rapporto Italia 2010 dell’Eurispes racconta un paese sull’orlo del collasso: viviamo in un ‘cantiere aperto’ con costi altissimi per l’economia e un rischio concreto per la ‘tenuta stessa della democrazia’, in cui non c’è capacità progettuale, gli stipendi sono i più bassi dei paesi industrializzati, è costante il peggioramento delle condizioni di vita di fasce sempre più ampie della popolazione, si continuano a perdere posizioni nelle graduatorie internazionali della competitività e del reddito. E’ anche in crescita il reato di corruzione, per il quale occupiamo il sessantatreesimo posto su 180 paesi osservati: l’abuso d’ufficio quello più contestato, punta di un iceberg di cui non si intravvede il reale sommerso. Il sud d’Italia la regione più corrotta, la sanità il settore in cui si registra il maggior numero di denunce. Meno di un italiano su 100, si legge nel Rapporto, guadagna più di 100 mila euro all’anno e 100 sono i miliardi annualmente evasi, ma è una denuncia al ribasso. Da quanto si legge altrove, cifre da capogiro, fino a 5.560.000, costituiscono il trattamento economico dei primi cento manager delle aziende italiane. Un mondo sempre più in bianco e nero, regolamentato dalle selvagge leggi di un mercato che ragiona su numeri senza scorgervi volti e storie. E poi le uscite: gli incidenti sul lavoro, nel 2008, sono stati 874 mila, con costi per oltre 40 miliardi di euro che, se si aggiungono gli incidenti stradali, diventano 70 miliardi e passa. I disoccupati sono più di due milioni ma nel conto non sono compresi i cassintegrati, decine di migliaia i posti persi e con scarse possibilità di reinserimento per molti, 800.000 circa dall’inizio della crisi, addirittura raddoppiate le domande di disoccupazione in un anno. E’ chiaramente emergenza. E di lavoro si muore: oltre 1.300 i morti lo scorso anno, un bollettino costruito per il 60% nei comparti dell’edilizia e dell’agricoltura, con picchi al sud e fra gli extracomunitari. E c’è pure chi muore per mancanza di soccorso: sono gli irregolari, abbandonati in tutta fretta per evitare fastidi.

Il lavoro uccide, dunque, in tanti modi: perché non sono rispettate le norme sulla sicurezza, perché lo si perde, perché non lo si trova. L’intera nostra esistenza è programmata in sua funzione: noi siamo perché lavoriamo e siamo il lavoro che facciamo. La nostra mente è strutturata dal lavoro: pensiamo, ci rapportiamo agli altri, modelliamo il nostro carattere, siamo stanziali o mobili, fabbrichiamo amicizie e abitudini sempre sotto il segno del mestiere e così, per il suo tramite, non solo mangiamo, ma arriviamo a una diversa definizione di noi. Il lavoro è anzitutto danaro. E il danaro ci fa padroni o servi, pochi o massa, con potere decisionale o attitudine alla sottomessa sopportazione, ricattatori ricattabili e ricattati. La disperazione da lavoro ci rende potenziali assassini: di chi ci vessa o di chi trasciniamo con noi quando il buio della sopravvivenza con responsabilità verso terzi si fa fitto. E’ la stagione, questa, delle catene e delle proteste sui tetti: da nord a sud, gli espulsi dal mercato montano tende all’addiaccio per urlare a governo, politici e aziende il dolore di un’esistenza condizionata dal salario. Il megafono puntato al cielo contro il silenzio, perché questo è anche il tempo in cui affidarsi ai mediatori sindacali non basta e le lotte le devi rendere visibili da te. Tra fabbriche che chiudono e fabbriche che delocalizzano, società private dal breve respiro che hanno in subappalto il subappalto del subappalto, il benservito può arrivare anche senza preavviso, dalla sera al mattino e addio retribuzione: baciati dalla sorte persino i poveri della terza settimana al massimo, quelli comunque con bollette e affitti arretrati, pasti saltati o mendicati, stracci rimediati. Con dolorante dignità. Paradossi mostruosi di un fallito capitalismo: vite che vorrebbero consumarsi nel lavoro per le necessità essenziali e che si ritrovano spesso inghiottite da marciapiedi e ricoveri di fortuna, quando pure la casa non c’è più. Cervelli congelati, perché il pensiero si fa uno e ossessivo. Fuori il resto. Il lavoro.

A un certo punto della nostra vicenda umana ci siamo provati a seguire le inclinazioni e ci siamo sentiti liberi, secondo formula giuridica, perché in grado di coniugare, sull’ambiguo filo dell’autonomia, dovere e piacere. La crisi, quando è arrivata, ha atterrato la politica, che ha prontamente proposto la scappatoia interinale e rubato il verso alle galline, co.co.co., spacciandoli per opportunità straordinaria di misurarsi con le proprie capacità creative, competitive, dinamiche: se sai reinventarti, hanno detto, sei un vincente. Destra e sinistra si sono strette le mani e hanno poi codificato la sistemazione clientelare, il sindacato si è fatto bottega, è nato il mito dell’uomo che si fa da sé senza troppi scrupoli e abbiamo mandato il modello a governare, piccoli artigiani e piccoli imprenditori hanno cominciato ad essere stritolati insieme ai lavoratori, l’occupazione sottopagata a tempo determinato è stato salutata come un sollievo donato. Piano piano la massima ambizione è coincisa con la ricerca di un impiego, qualunque esso fosse e a qualunque condizione, mentre l’instabilità è arrivata a mettere contro il licenziato col cassintegrato, l’italiano con l’extracomunitario, l’operaio della fabbrica con la donna delle pulizie. Il mondo del lavoro ha conosciuto forti divisioni. Secondo il sociologo Luca Ricolfi 400.000 italiani che hanno perso il lavoro sono stati rimpiazzati con stranieri regolari, perché il nostro sistema economico crea solo posti poco appetibili e non adeguati alla nostra immagine di noi stessi: gli stranieri, anche se qualificati, sono disposti a lavorare anche a Natale e alle otto di sera e costano meno di un operaio nostrano. Sarà davvero solo così, se anche l’impiegato di un call center lasciato a spasso si dispera e l’operaio disoccupato si dà fuoco?

Oggi che i drammi si allargano a macchia d’olio e si consumano in diretta televisiva, ci tocca sentire Santo Versace che dichiara che basterebbe contrastare la grande evasione fiscale, anche solo quella più di superficie, per rimediare a queste sparse disperazioni: e che ci fa lui al fianco dell’evasore principe nonché protettore dei grandi evasori? E Bersani, che bacchetta per quanto accade, non arriva dritto dritto da scelte economiche assai vicine a quelle di un governo il cui leader non è mai stato seriamente messo in discussione o frenato nell’esercizio dell’abuso? Se l’impunibilità regolamentata ha avuto l’avallo dell’opposizione anche quando questa è stata promossa a governare e se alla politica e al sindacato si è concesso di trasformarsi in agenzie di collocamento, perché mai l’operaio non avrebbe dovuto sognare di svoltare con pari disinvoltura, consegnando il paese nelle mani di affaristi senza scrupolo che poco si curano della rovina? E non è sempre l’ex Pci con vocazione socialdemocratica che corteggia l’Udc, il partito che nel Mezzogiorno incassa voti in cambio del corrotto mantenimento dell’esistente? Quello stesso che propone, per bocca di D’Alia, di fare marcia indietro nella lotta al lavoro nero e di stralciare la direttiva europea sul tema, per restare sulla scia tracciata della Bossi-Fini di lotta all’immigrato e basta? Ancora chiacchiere e sull’orlo dell’abisso. Un spaventoso abisso per tutti, si spera, non solo per i poveracci che volevano seguire il modello vincente o si accontentavano ormai di essere al più macchine a basso costo e non solo per l’ex ceto media che precipita a rotta di collo ma anche per i burattinai della politica, quelli che hanno fatto carta straccia degli interessi del popolo curando i loro e cedendo alle lusinghe del grande potere economico .

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Sono radicale nell’animo

Dopo che pubblicamente avevamo preso chiara posizione nel sostegno a Pippo Callipo come Presidente contro la partitocrazia dei veleni calabresi, sia personalmente sia come associazione di volontariato culturale “Non Mollare”, siamo oggi felici nell’apprendere che anche la lista Bonino Pannella e i Radicali sosterranno Pippo Callipo come presidente per la Calabria.

Giuseppe Candido

“Un crescendo della società civile” sostiene Pippo Callipo.

Nel programma: “Ambiente, no ponte sullo stretto, no nucleare, si ad infrastrutture. Lavoro, sanità ambiente, sicurezza … contro la malapolitica collegata alla ‘ndrangheta”.

“Una vera rivoluzione, pacifica, nonviolenta, ovviamente, per portare la Calabria nella normalità. La gente vuole aggiustata la sanità, vuole il mare pulito … bisogna avere il coraggio di fare le scelte. Qui da noi è mancato il coraggio, … si è guardato alla poltrona. Oggi sono sguinzagliati a fare preferenze”. E ancora: “Sanità nell’interesse del malato e non nell’interesse del primario, nell’interesse dell’amico o dell’amico dell’amico. In Calabria dobbiamo abolire il “compare”. Dobbiamo dare spazio alla meritocrazia, alla cultura.

Rendicontazione ai cittadini, come avviene nel privato, almeno semestrale dell’operato svolto rispetto al programma. Trasparenza dell’operato per spiegare ai cittadini come vengono amministrati i suoi soldi. Trasparenza, onestà, meritocrazia.

L’intervista a Pippo Callipo, imprenditore, candidato alla presidenza della regione Calabria sul programma elettorale e sull’accordo con i Radicali Italiani e la lista Bonino Pannella.

di Stefano Imbruglia (Radio Radicale)

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