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Continuità e attualità del Risorgimento

di Vittorio Emanuele Esposito

Giuseppe Garibaldi 1870 Nadar

La proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) segnò la fine di una lunga attesa, la ‘realizzazione di un sogno’, avvenuta in tempi e modi in gran parte fortunosi e largamente imprevisti, ma fortemente voluta da quelli che ne furono i più diretti promotori e ne prepararono le condizioni: il mazziniano Partito d’Azione, la Società Nazionale di Manin, Garibaldi, La Farina, e il conte di Cavour, che ne fu il segreto ispiratore.

La rivoluzione italiana, il processo cui fu dato il nome di ‘Risorgimento’, era, in realtà, iniziata molto prima, alla fine del Settecento, quando i ‘giacobini italiani’, infiammati dalle idee e dai radicali cambiamenti politici e sociali introdotti dalla Rivoluzione Francese, si resero conto dei limiti del riformismo dei principi ‘illuminati’ e compresero che il presupposto necessario della libertà e del progresso, nella penisola, erano l’unità e l’indipendenza del popolo italiano dal dominio straniero: fosse quello dell’Impero austriaco o quello della Repubblica francese.

Il ‘popolo’ italiano, la nazione, l’Italia come idea e sentimento esistevano già da secoli e avevano la loro radice nell’unità di lingua, di cultura e di vita, nella condivisione di un territorio, in una storia comune. Ciò, nonostante la molteplicità e la divisione politica che, per secoli, fu la caratteristica negativa degli italiani e fu avvertita come tale in quanto causa principale di rivalità e di lotte incessanti tra i diversi Stati e della conseguente caduta della penisola sotto il dominio delle potenze nazionali straniere: gli spagnoli, i francesi, gli austriaci.

Fu Machiavelli, nel XVI secolo, a porre il problema della creazione di un unico Stato italiano, che egli voleva modellato sulla Costituzione della repubblica romana e dotato di un esercito di popolo in grado di difenderne i confini, anche se ne affidava la realizzazione ad un “Principe” demiurgo, dotato di eccezionali virtù politiche. Ma si trattava, per il momento, solo di un’ipotesi generosa, nata dalla sua acuta mente di studioso di fatti politici, che si scontrava, tuttavia, con tre forze avverse: le oligarchie politiche, sociali ed economiche dei diversi Stati italiani, le ideologie particolaristiche, la Chiesa, che da quella divisione traeva vantaggio per le sue ambizioni di assoluto dominio sulle coscienze e le sue pretese temporalistiche, fondate sull’inganno della falsa ‘donazione di Costantino’, e, per questo, le alimentava, stabilendo organiche alleanze con il potere politico a danno della libertà.

Fu la Rivoluzione Francese, che, scardinando l’assetto feudale e il regime del privilegio della nobiltà e del clero, all’insegna del trinomio ‘libertà, uguaglianza, fratellanza’ (idee guida di ogni civiltà degna del nome), diede ai giovani ‘giacobini’ italiani l’impulso e la fede in un possibile riscatto e ‘risorgimento’ della nazione. L’unità e l’indipendenza dell’Italia passarono, appunto, dalla sfera del puro desiderio al terreno concreto dei fatti e della lotta politica nel triennio rivoluzionario 1796-99, aiutate in parte e insieme ostacolate dalla presenza delle armi francesi in Italia.
I patrioti di tutti gli Stati italiani, si ritrovarono sotto l’unica bandiera tricolore, che quell’unità spirituale simboleggiava e che fu inaugurata il 7 gennaio 1976 a Reggio Emilia, dove, con l’unione delle quattro città di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara, affrancatesi dal dominio ducale e papale, era sorta la Repubblica Cispadana: ‘il primo stato democratico repubblicano della nuova Italia’ (Luigi Salvatorelli).

Contro i luoghi comuni, oggi prevalenti, mentre si prepara una celebrazione dei 150 anni dello Stato italiano, ambigua, epidermica e dai toni populistici – quasi un festeggiamento da mondiali di calcio- il sentimento unitario era, fin da allora diffuso in tutti i ceti e non conosceva limiti regionalistici. La Lombardia, dove si instaurarono prima la Repubblica Cisalpina e poi la Repubblica italiana e il successivo Regno napoleonico d’Italia, fu la regione in cui le aspirazioni nazionali trovarono uno dei principali terreni di cultura. A Milano Melchiorre Gioia vinse il concorso bandito dall’amministrazione lombarda con una dissertazione in cui dimostrava che i tempi erano maturi per la formazione di un solo Stato italiano, indipendente, libero, repubblicano e unitario. E Venezia, dove oggi sembrano prevalere le nostalgie filo- asburgiche, subì un vero e proprio trauma per il tradimento di Napoleone in seguito alla pace di Campoformio, come Ugo Foscolo ci testimonia.

Quanto al Sud, vano e fuorviante è il tentativo di una storiografia giornalistica, tendenziosa e scopertamente strumentale, di accreditare le insorgenze antifrancesi delle popolazioni meridionali come rivolte contro lo straniero. Essere, allora, contro i francesi, significava favorire l’egemonia austriaca. Per uscire dal dilemma l’unica via era quella imboccata dai giacobini, che con i francesi intrattennero un rapporto dialettico, visto che il loro intento principale era quello di rompere il dominio feudale e che, nella breve vita della Repubblica partenopea, impostarono quella eversione del sistema feudale, che non riuscirono a realizzare e che fu poi attuato nel 1806, appunto, dai francesi. Il sanfedismo fu e rimane una reazione oscurantista e retrograda, nonostante l’opinione contraria dei ‘revisionisti’.

Il revisionismo storico, nelle sue espressioni più serie, ha il merito di portare al centro dell’attenzione le ragioni di quanti vengono scavalcati dall’incessante moto di cambiamento della storia. E, nel caso specifico, oggi sappiamo che nella rivolta dei lazzari napoletani e delle popolazioni calabresi, subornate dal cardinale Ruffo, così come nel cosiddetto ‘brigantaggio’ post-unitario, vi erano esigenze di sopravvivenza, di giustizia, di emancipazione, che non possono minimamente essere sottovalutate e conosciamo i limiti intrinseci dei processi innovativi che si svilupparono nel corso dell’Ottocento. Ma le coordinate fondamentali della storia non possono essere oscurate e messe in cantina.
Nessun revisionismo può farci dimenticare che il Risorgimento fu il processo storico attraverso cui, in Italia, venne superato il sistema politico-sociale del feudalesimo con tutto il suo corredo di oppressione morale e materiale delle popolazioni e che il nuovo Stato unitario – che ne fu il maggiore risultato- con tutti i compromessi che furono necessari per realizzarlo, con tutte le insufficienze che hanno condizionato pesantemente, fino ai nostri giorni, la vita della nazione, ha trasformato gli italiani da sudditi in liberi cittadini, uguali di fronte alla legge. Certo l’uguaglianza civile fu solo la prima importante tappa di un cammino che è ancora in gran parte da compiere e che ha ancora, come meta da raggiungere, l’uguaglianza economico-sociale, quella ‘libertà giusta’, cioè, che era nelle aspirazioni di Mazzini e dei democratici realizzare. Ma, intanto, è bene marcare il discrimine tra Risorgimento e l’ Antirisorgimento perenne, che oggi riacquista vigore attraverso il blocco delle forze tradizionali della conservazione mentale e sociale.

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Ancora frane in provincia di Vibo Valentia

di Franco Vallone

Fessura da frana
Fessure da frana nei paesini del vibonese in Calabria

Ancora importanti eventi franosi stanno interessando la provincia di Vibo Valentia. Si sono aperte in questi giorni vere e proprie fenditure che squarciano il terreno, le strade, i muri e le case.

Il fatto inedito che emerge in queste ore è veramente inquietante: gli squarci, le ferite della terra, sono lunghi molti chilometri e passano da un paese all’altro sulla stessa linea.

Questo lo si può notare, ad esempio, tra i paesi di Pannaconi di Cessaniti e Potenzoni di Briatico. Il cedimento di metà carreggiata stradale a Pannaconi, sulla via che porta a Cessaniti, scende e continua per tutta la vallata per poi risalire ed arrivare a Conidoni, dove sono scesi a valle, verso la fiumara, terra e alberi interi. Il movimento franoso riprende e si manifesta sulla stessa linea poco più avanti, con uno sprofondamento che ha inghiottito, per un fronte di circa cento metri, la strada San Cono di Cessaniti – Briatico da un lato e la strada San Cono di Cessaniti – Potenzoni di Briatico dall’altro. Poco più sopra, nei pressi delle cave di Cessaniti, a dieci metri dal metanodotto, la strada che dal Campo d’Aviazione conduce alla strada ex 522 si è abbassata pericolosamente. Dall’altro versante, poco più sopra l’abitato di San Leo di Briatico, una grossa frana ha inghiottito per centinaia di metri la strada che porta a San Costantino di Briatico. In questo caso è stato necessario scavare e bypassare a titolo precauzionale un intero tratto della rete gas del metanodotto.


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Senza un cambiamento di rotta appare appare inevitabile l’ “Appello al Cielo”

di Vittorio Emanuele Esposito

pubblicato il 17 febbraio su Rivoluzione Democratica, noterelle di politica e cultura su Blogspot

Quando, in un regime costituzionale, le regole che disciplinano la formazione della volontà, la libera scelta dei rappresentanti del popolo, il processo democratico delle decisioni, la funzione di controllo sugli atti del governo, vengono reiteratamente messe in discussione, eluse, forzate e alterate da una maggioranza parlamentare che, non riconoscendo il ruolo e le ragioni dell’opposizione e ignorando quella consistente parte di elettorato che non si è espressa esplicitamente con un voto, mostra di voler interpretare solo se stessa e non l’interesse generale del popolo che le consente di governare;

quando, da parte di questa maggioranza, viene attaccato, in modo sistematico e pregiudiziale, l’operato degli organi della Magistratura, compreso quello della Corte Suprema, nel caso di provvedimenti avversi agli atti del governo o a persone facenti parte della sua compagine (così come, per altro verso, vengono enfaticamente esaltate le decisioni giudiziali favorevoli);

quando a carico del governo, nei suoi vertici o nel suo apparato, emergono emblematici casi di corruzione o di immoralità, che non sono denunciati e contrastati con energia, come ci si aspetterebbe, ma vengono omertosamente coperti, negati, minimizzati, se non addirittura giustificati e ostentati quali aspetti coessenziali all’esercizio del potere;

quando la maggioranza, giovandosi del consenso elettorale, attende a privatizzare le strutture e il patrimonio dello Stato, che è bene comune, canalizza le risorse finanziarie, generate dal concorso di tutti i contribuenti, in politiche di favore per imprese, gruppi, ceti sociali appartenenti all’oligarchia dominante e, contro il principio democratico dell’uguaglianza dei cittadini, in nome di una ‘libertà’ prepotente basata sulla forza del danaro, rinnova e rafforza differenze e privilegi nel campo dell’informazione, della scuola, della sanità, del lavoro, della distribuzione della ricchezza;

quando tutto questo si verifica e non sembra possibile, per le vie ordinarie, ricondurre l’azione eversiva di un governo entro lo spirito e il dettato della legge comune ( che nessuna maggioranza elettiva è autorizzata a violare e a deformare secondo la visione particolaristica dei suoi capi), al cittadino sovrano, al popolo che è la fonte originaria della legalità e a cui spetta, in ultima istanza, il controllo sulla legittimità degli atti e delle condotte degli organi dello Stato, non rimane che l’ “appello al Cielo”.

* * *

Con questa formula John Locke, padre del moderno costituzionalismo, indicò il ‘diritto di resistenza’ all’ingiustizia di un potere dimentico della sua origine, dei suoi limiti, del suo scopo, riconducendolo alla irriducibile libertà dell’individuo, da cui esso scaturisce, come diritto estremo, insieme a tutti gli altri diritti che trovano riconoscimento e garanzia nell’ordinamento costituzionale dello Stato.

Per Locke vi sono, infatti, alcuni diritti ‘naturali’, irrinunciabili e intangibili, che non possono essere manomessi dal potere costituito, anche se con decisioni prese a maggioranza e , dunque, apparentemente conformi alle regole democratiche, ma, di fatto, arbitrarie.

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Nel centenario della morte di Mario Pannunzio

di Vittorio Emanuele Esposito

Il Mondo
Il Mondo

Ricordare Mario Pannunzio oggi, in occasione del centenario della sua nascita, significa, almeno per i giovani e per quanti non l’hanno conosciuto di persona, richiamare alla mente l’esperienza de “Il Mondo”, il settimanale da lui fondato e diretto dal 1949 al 1966, l’ opera’‘, cioè, di maggior impegno e rilievo culturale e civile, in cui la sua individualità si è –crocianamente- concretizzata e totalmente risolta.

Mario Pannunzio è “Il Mondo”, l’organo e la sede di elaborazione della cultura politica antifascista, democratica e progressista che per quasi un ventennio ha trovato spazio nelle pagine e nelle rubriche che il suo direttore, come abile, quanto discreto, regista, alieno da tentazioni di protagonismo e deciso a rimanere sempre dietro le quinte, componeva e curava nei minimi dettagli, anche grafici, avendo sempre di mira la congruenza e l’efficacia dell’insieme.

Ecco perché, in fondo, è certo sempre interessante, ma in modo solo relativo, ricostruire storicamente le linee della sua biografia personale, chiarire le sue ascendenze intellettuali, interrogarsi sulla natura del suo ‘liberalismo’, distinguendo la sua posizione da quella dei collaboratori, dei redattori e delle firme ospitate sulle colonne del suo settimanale, dal momento che quello che conta di più è la ‘linea’ complessiva che emerge da quest’opera a più voci, in cui le singole parti si ricompongono in un tutto.

Questa ‘linea’ di politica culturale, o, meglio, questa ‘linea’ culturale, che autonomamente si metteva a servizio della politica, distinguendosi con nettezza dalla prassi politica che mira ad utilizzare strumentalmente la cultura, ha esercitato, grazie all’apporto di un élite intellettuale di grandissimo valore, una funzione educativa di eccezionale importanza nell’Italia appena nata alla democrazia moderna, riuscendo ad incidere sulla svolta storica degli anni Sessanta, cioè sulla svolta politica più ricca di promesse della storia repubblicana: quella dell’ ‘apertura a sinistra’ e del passaggio al centro-sinistra, attraverso il quale, programmaticamente, l’istanza della libertà si ricongiungeva strettamente con quella della giustizia sociale, in un rapporto, certamente difficile e problematico, ma coessenziale.

Perché, una libertà fine a se stessa può entusiasmare, e magari commuovere fino alle lacrime, le oligarchie economiche e sociali dominanti, ma soltanto l’ideale di una ‘libertà giusta’ può diventare fede comune e trasformare un aggregato di individui, sempre più atomizzati e ristretti in cerchie protettive, in una società, veramente ‘aperta’, in cui vengano superate le numerose, persistenti e paralizzanti chiusure corporative.

‘Liberale’ certamente Pannunzio fu, ma nel senso pregnante concettualizzato da Croce, per cui la libertà non può essere per sempre oggettivata in leggi e istituti, che in sé e per sé intrinsecamente la contengano e automaticamente la garantiscano dai suoi nemici. La libertà, infatti, vive soltanto nell’anima umana; è un’energia che deve essere alimentata attraverso una cura e un impegno costanti, e può accrescersi, così come può decadere, esprimendosi, di volta in volta, in processi, forme e istituzioni, più o meno adatti a consentirne l’ espansione, o, viceversa, posti in essere per limitarla o per opporle ostacoli che finiscono per soffocarla.

Questo fu il motivo che portò Croce a contrapporsi ad Einaudi e a negare che tra liberalismo e liberismo vi fosse un rapporto necessario. Una polemica, nata forse da un non compiuto reciproco chiarimento circa il rapporto tra i fini e i mezzi, che, da una parte, non rendeva ragione del comune rifiuto – di Einaudi e di Croce – del totalitarismo comunista e, dall’altra, metteva in ombra l’ apertura einaudiana verso le politiche sociali atte a far fronte ai ‘bisogni’ reali e ad incrementare, dunque, la libertà, pur nella convinzione che il mercato è stato storicamente e resta il mezzo, il meccanismo, migliore e senza alternative, per corrispondere alla ‘domanda’ effettiva di beni e di servizi.

Così come da un’incomprensione nacque il dissenso di Croce dai suoi discepoli di ‘sinistra’, molti dei quali confluirono nel Partito d’Azione e, dopo il suo scioglimento, entrarono a far parte dell’ambiente culturale de ‘Il mondo’, restando fedeli, come azionisti, alla ‘religione della libertà’ e distinguendosi dal maestro soltanto nell’individuazione delle forze che tradizionalmente si opponevano al suo progresso e nella volontà di lottare concretamente contro di esse, per la trasformazione sociale e l’affermazione, in Italia e nel mondo, di equilibri più liberali e più giusti.

Pannunzio fu, appunto, un’anima liberale: “uno dei pochi liberali autentici –scrisse Vittorio Gorresio – per l’istinto critico sicuro che lo guidava alla ricerca di soluzioni morali, culturali, politiche”, andando sempre in profondità e riuscendo a guardare le cose “da un angolo diverso e nuovo, mai nel modo generico proprio della maggioranza”.

Per questo egli fu un vero maestro di intelligenza politica e di anticonformismo. La sua eredità, ancora viva e solo parzialmente messa a frutto, ci invita ad approfondire i temi che furono al centro della ricerca e della riflessione de “il Mondo”: l’europeismo, l’economia di mercato (alla luce dei suoi più recenti sviluppi e delle sue indesiderabili conseguenze), il laicismo.

E ci addita la possibilità di una alternativa tra la subcultura cattolica e la subcultura marxista, che a lungo hanno prevalso in Italia, ritardandone il processo di modernizzazione, e rispetto ad una cultura pseudo liberale, strumentalmente ossequiosa verso la prima e dichiaratamente avversaria della seconda, nonostante questa non esista più.

Ci addita, cioè, la via di una “rivoluzione democratica”, senza la quale il paese non uscirà dalla crisi istituzio

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