di Vittorio Emanuele Esposito
La proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) segnò la fine di una lunga attesa, la ‘realizzazione di un sogno’, avvenuta in tempi e modi in gran parte fortunosi e largamente imprevisti, ma fortemente voluta da quelli che ne furono i più diretti promotori e ne prepararono le condizioni: il mazziniano Partito d’Azione, la Società Nazionale di Manin, Garibaldi, La Farina, e il conte di Cavour, che ne fu il segreto ispiratore.
La rivoluzione italiana, il processo cui fu dato il nome di ‘Risorgimento’, era, in realtà, iniziata molto prima, alla fine del Settecento, quando i ‘giacobini italiani’, infiammati dalle idee e dai radicali cambiamenti politici e sociali introdotti dalla Rivoluzione Francese, si resero conto dei limiti del riformismo dei principi ‘illuminati’ e compresero che il presupposto necessario della libertà e del progresso, nella penisola, erano l’unità e l’indipendenza del popolo italiano dal dominio straniero: fosse quello dell’Impero austriaco o quello della Repubblica francese.
Il ‘popolo’ italiano, la nazione, l’Italia come idea e sentimento esistevano già da secoli e avevano la loro radice nell’unità di lingua, di cultura e di vita, nella condivisione di un territorio, in una storia comune. Ciò, nonostante la molteplicità e la divisione politica che, per secoli, fu la caratteristica negativa degli italiani e fu avvertita come tale in quanto causa principale di rivalità e di lotte incessanti tra i diversi Stati e della conseguente caduta della penisola sotto il dominio delle potenze nazionali straniere: gli spagnoli, i francesi, gli austriaci.
Fu Machiavelli, nel XVI secolo, a porre il problema della creazione di un unico Stato italiano, che egli voleva modellato sulla Costituzione della repubblica romana e dotato di un esercito di popolo in grado di difenderne i confini, anche se ne affidava la realizzazione ad un “Principe” demiurgo, dotato di eccezionali virtù politiche. Ma si trattava, per il momento, solo di un’ipotesi generosa, nata dalla sua acuta mente di studioso di fatti politici, che si scontrava, tuttavia, con tre forze avverse: le oligarchie politiche, sociali ed economiche dei diversi Stati italiani, le ideologie particolaristiche, la Chiesa, che da quella divisione traeva vantaggio per le sue ambizioni di assoluto dominio sulle coscienze e le sue pretese temporalistiche, fondate sull’inganno della falsa ‘donazione di Costantino’, e, per questo, le alimentava, stabilendo organiche alleanze con il potere politico a danno della libertà.
Fu la Rivoluzione Francese, che, scardinando l’assetto feudale e il regime del privilegio della nobiltà e del clero, all’insegna del trinomio ‘libertà, uguaglianza, fratellanza’ (idee guida di ogni civiltà degna del nome), diede ai giovani ‘giacobini’ italiani l’impulso e la fede in un possibile riscatto e ‘risorgimento’ della nazione. L’unità e l’indipendenza dell’Italia passarono, appunto, dalla sfera del puro desiderio al terreno concreto dei fatti e della lotta politica nel triennio rivoluzionario 1796-99, aiutate in parte e insieme ostacolate dalla presenza delle armi francesi in Italia.
I patrioti di tutti gli Stati italiani, si ritrovarono sotto l’unica bandiera tricolore, che quell’unità spirituale simboleggiava e che fu inaugurata il 7 gennaio 1976 a Reggio Emilia, dove, con l’unione delle quattro città di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara, affrancatesi dal dominio ducale e papale, era sorta la Repubblica Cispadana: ‘il primo stato democratico repubblicano della nuova Italia’ (Luigi Salvatorelli).
Contro i luoghi comuni, oggi prevalenti, mentre si prepara una celebrazione dei 150 anni dello Stato italiano, ambigua, epidermica e dai toni populistici – quasi un festeggiamento da mondiali di calcio- il sentimento unitario era, fin da allora diffuso in tutti i ceti e non conosceva limiti regionalistici. La Lombardia, dove si instaurarono prima la Repubblica Cisalpina e poi la Repubblica italiana e il successivo Regno napoleonico d’Italia, fu la regione in cui le aspirazioni nazionali trovarono uno dei principali terreni di cultura. A Milano Melchiorre Gioia vinse il concorso bandito dall’amministrazione lombarda con una dissertazione in cui dimostrava che i tempi erano maturi per la formazione di un solo Stato italiano, indipendente, libero, repubblicano e unitario. E Venezia, dove oggi sembrano prevalere le nostalgie filo- asburgiche, subì un vero e proprio trauma per il tradimento di Napoleone in seguito alla pace di Campoformio, come Ugo Foscolo ci testimonia.
Quanto al Sud, vano e fuorviante è il tentativo di una storiografia giornalistica, tendenziosa e scopertamente strumentale, di accreditare le insorgenze antifrancesi delle popolazioni meridionali come rivolte contro lo straniero. Essere, allora, contro i francesi, significava favorire l’egemonia austriaca. Per uscire dal dilemma l’unica via era quella imboccata dai giacobini, che con i francesi intrattennero un rapporto dialettico, visto che il loro intento principale era quello di rompere il dominio feudale e che, nella breve vita della Repubblica partenopea, impostarono quella eversione del sistema feudale, che non riuscirono a realizzare e che fu poi attuato nel 1806, appunto, dai francesi. Il sanfedismo fu e rimane una reazione oscurantista e retrograda, nonostante l’opinione contraria dei ‘revisionisti’.
Il revisionismo storico, nelle sue espressioni più serie, ha il merito di portare al centro dell’attenzione le ragioni di quanti vengono scavalcati dall’incessante moto di cambiamento della storia. E, nel caso specifico, oggi sappiamo che nella rivolta dei lazzari napoletani e delle popolazioni calabresi, subornate dal cardinale Ruffo, così come nel cosiddetto ‘brigantaggio’ post-unitario, vi erano esigenze di sopravvivenza, di giustizia, di emancipazione, che non possono minimamente essere sottovalutate e conosciamo i limiti intrinseci dei processi innovativi che si svilupparono nel corso dell’Ottocento. Ma le coordinate fondamentali della storia non possono essere oscurate e messe in cantina.
Nessun revisionismo può farci dimenticare che il Risorgimento fu il processo storico attraverso cui, in Italia, venne superato il sistema politico-sociale del feudalesimo con tutto il suo corredo di oppressione morale e materiale delle popolazioni e che il nuovo Stato unitario – che ne fu il maggiore risultato- con tutti i compromessi che furono necessari per realizzarlo, con tutte le insufficienze che hanno condizionato pesantemente, fino ai nostri giorni, la vita della nazione, ha trasformato gli italiani da sudditi in liberi cittadini, uguali di fronte alla legge. Certo l’uguaglianza civile fu solo la prima importante tappa di un cammino che è ancora in gran parte da compiere e che ha ancora, come meta da raggiungere, l’uguaglianza economico-sociale, quella ‘libertà giusta’, cioè, che era nelle aspirazioni di Mazzini e dei democratici realizzare. Ma, intanto, è bene marcare il discrimine tra Risorgimento e l’ Antirisorgimento perenne, che oggi riacquista vigore attraverso il blocco delle forze tradizionali della conservazione mentale e sociale.