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Pannella, i Radicali e lo scontro tra Stato di Diritto, Diritti Umani e la Ragion di Stato in Italia

MP&MB_18maggioC’è, da una parte, dettato una linea, un comportamento formale che le autorità magistrali formalmente ribadiscono, richiedono e, da questa parte, è la posizione del Partito Radicale … invece … ci ritroviamo attorno, in tutte le cloache della politica quotidiana

Marco Pannella e i Radicali non sono presenti a queste elezioni europee ma non sono certo assenti, anzi non molliamo nel denunciare lo Stato italiano in tutte le sedi magistrali possibili e rilanciamo una campagna iscrizioni al Partito come l’unica campagna di speranza, contro ogni vana speranza: Spes contra spem. Di seguito pubblichiamo il testo dell’intervento di Marco Pannella1  che ritrovate nella versione audio su Radio Radicale a questo Link

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Marco Pannella

Eccoci in collegamento, certo, ma vorrei dire anche, cercando di scollegarmi da tutto sto casino che anche al nostro interno rischia, qualche volta, di farci perdere la chiarezza che Rita costantemente ci ripropone in modo molto forte. Cosa intendo dire? In questo momento, quello che sta accadendo è qualcosa che proprio non si vuole registrare. Che cosa?

Abbiamo, in questo momento, la politica italiana del governo, dei sottogoverni, e via dicendo, che si manifestano contro la legalità, contro la legalità proclamata, confermata, e tutta la politica cerca, con Renzi con quell’altri di Grillo o Grallo e via dicendo, di sfuggire alla realtà anche giuridica ormai chiara. Che cosa intendo dire? Le massime autorità magistrali nazionali, europee, internazionali si sono pronunziate, si pronunziano e ribadiscono che oggi il problema centrale è quello dell’attuazione del diritto e dei diritti, mentre c’è tutta una “roba” di regime di fatto che si contrappone a questa chiarezza, a questo obiettivo. Con tutte le cose di Renzi1, Renzi2, Renzi5, quell’altri e tutti quanti.

La situazione invece è chiara: Presidente della Repubblica, CEDU, via via le altre autorità magistrali che si stanno pronunciando, sottolineano che il problema è ch’è uno solo lo spartiacque. C’è, da una parte, dettato una linea, un comportamento formale che le autorità magistrali formalmente ribadiscono, richiedono e, da questa parte, è la posizione del Partito Radicale. Cioè, oggi, al centro della politica deve esserci: sì o no, l’articolo 3 (Tortura, ndr) e l’articolo 6 (eccessiva durata dei processi), oggi quello che è lo scontro ritengo anche formalmente ed è irrimediabilmente anche istituzionale, perché di questo si tratta, non solo politico, per discutere: è vero o no che le autorità magistrali hanno dettato in modo non equivoco una politica legata alla necessità e alle necessità del rispetto del diritto, o no? C’è il programma, di già: ed è quello per cui deve essere posto al centro i diritti della CEDU (articoli 3 e 6), articolo quindi, innanzitutto, sullo stato di diritto e gli altri sui diritti umani. Punti costituivi della forma e della sostanza del diritto vigente in questo momento e al quale esplicitamente le autorità magistrali italiane ed anche, per noi, europee ci richiamano e ci ordinano. Altrimenti, questi, poi stanno a discutere di leggi elettorali, di tutte le altre pisciatone, pisciatine. Consentitemi di dirlo: anch’io avrei voglia di dire, come qualche compagno: beh, però adesso mi piacerebbe andare a votare, per esempio, anche per Marco Boato o cose del genere. Ma non si capisce che, in questo momento, è in causa, come nel ’44, ’45, ’46, quindi, l’alternativa dello stato di diritto dei diritti umani del diritto vigente contro quello del persistere delle realtà statuali opposte a tutti questi principi. Quelli che noi evochiamo con le “ragion di Stato nazionali” ed altro. Ma è su questo, quasi, che non esiste consapevolezza. Il confronto c’è ed è uno solo: fra la difesa del diritto e dei diritti, lo ripeto, proclamato, ribadito, lo ripeto ancora perché naturalmente ci sono i politici, diciamo i politici democratici, i politici “anti” di tutti i tipi, che invece di questo non ci vogliono sentire. C’è questo confronto, non è solo il 28 maggio o le altre cose. Il confronto è questo. In Italia, in ogni luogo del nostro Paese anche, il confronto è fra i diritti umani e il diritto da Stato di diritto contro quello da Stato di fatto che, adesso, anche in Italia è uno stataccio criminale tecnicamente sfasciato e sfasciante.

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M. Pannella

E vorrei, quindi, su questo ribadirlo: questo è lo scontro. Non se ne parla per nulla! Io vorrei dire: va beh, si può pure chiacchiera’ e non vorrei troppo sembrare saccente quando ricordo che, comunque, la posizione del nostro partito è stata quella di dire che, comunque, questo è importante. Non si possono ignorare non solo le ipoteche gravissime, ma le evidenze contrarie oggi rispetto allo Stato quale si comporta rispetto alle partitocrazie, il 30% di Renzi, il 30% de Grillo, il 30% di Berlusca col seriale … come si chiama quello che lo insidia, quello del Nuovo Centro Destra, questa roba. Quindi questo va ribadito, questa va confermata: questa è la posizione Radicale. E vorrei dire che questa posizione Radicale comporta la consapevolezza che la storia radicale è, da tempo, chiaramente messa a morte dalla ufficialità della politica che stiamo vivendo e, di conseguenza, la campagna iscrizioni al Partito Radicale è l’unica campagna che è campagna che preannuncia e da’ forma all’avvenire e a un avvenire alternativo a quello nel quale stiamo precipitando in questa fase, come dire, di putrefazione del basso impero e dell’impero partitocratico. Di questo occorre essere ben chiari e, a questo punto, mi auguro che il mondo dei credenti in altro che nel potere e nei poteri, credenti nei valori, quelli credenti, per esempio, nella fiducia, come l’abbiamo evocata, (Spes contra spem, gli ricorda la voce fuori campo di Matteo Angioli) contra quello che viene smerciato come l’obbiettivo pratico dei politicanti oggi di regime. Termino qui, ma vorrei dire: la nonviolenza, l’approfondimento degli aspetti anche giuridici della attuale situazione alla quale dobbiamo dare corpo, sia chiaramente quella che, appunto, è stata evocata un momento fa: Spes contra spem. Queste “spem” che ci ritroviamo attorno, in tutte le cloache della politica quotidiana, io spero che sia soprattutto dal mondo dei credenti, dei credenti in altro che nel potere e credenti, anche, nella ascesi, nei comportamenti che non riducano la Spes a vili spem ed altro che possa essere individuata come quella del nostro Partito e spero che Cardinali arrivino da tutte le parti a dare corpo esemplare umile e glorioso a questa campagna per le iscrizioni al Partito Radicale perché nel ’14-’15 il mondo possa continuare.

1Testo estratto dall’intervento di Marco Pannella durante il secondo collegamento telefonico (12minuti circa) realizzato nello spazio del notiziario del pomeriggio su Radio Radicale il 22 maggio 2014 “Spes contra spem: lo scontro tra Stato di Diritto, Diritti Umani e la Ragion di Stato in Italia. Collegamento telefonico in diretta con Marco Pannella” – Pannella rilancia la campagna di iscrizioni al Partito Radicale. Trascrizione a cura di Giuseppe Candido, in Satyagraha

Spes contra spem
Ascolta l’audio su RadioRadicale.it … Spes contra spem

 

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Pannella: Europee una truffa contro la costituzione e la democrazia

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Marco Pannella durante la conversazione con Massimo Bordin del 18 maggio 2014

C’è la resistenza del regime contro la CEDU, contro il presidente della Repubblica, contro il diritto

Dopo la conversazione con Massimo Bordin, mentre Roberto Spagnoli da un’occhiata alle notizie del giorno, Marco Pannella è ancora negli studi di Radio Radicale e, quando sente Spagnoli spiegare il “perché i radicali non si presenteranno alle elezioni europee” dicendo “perché le giudicano inesistenti”, Marco lo interrompe ed esplode:

” … Essere una truffa contro la costituzione e la democrazia

E aggiunge:

“Mi auguro sia possibile che non solo la CEDU, ma anche le altre organizzazioni come quelle inter americane, possono fare il salto di criminalizzare lo stato italiano per le manifeste sempre più gravi violazioni delle legalità proclamate dai massimi magistrati italiani, ed ex cattedra, e che invece si traducono adesso in una realtà patente. C’è una resistenza di regime contro la CEDU, contro il presidente della Repubblica, contro il diritto eccetera.

Per cui basta che quello lì (Renzi, ndr) dice: no, io non sono d’accordo con tutte le cose del presidente della Repubblica che a quel punto il governo non è d’accordo con tutte le cose del presidente della Repubblica.

Beh, quello lì mi chiedo se dovrà e potrà anche lui usufruire se non di quel processo che a volte viene evocato di Norimberga per l’Italia, ma tenendo presente che grazie a noi Norimberga non è più possibile, la giustizia dei vincitori incontri vinti, ma grazie a noi la corte penale internazionale potremmo sperare di vedere in galera primo poi, appunto, i responsabili del comportamento dello Stato italiano in questi ultimi decenni.”

A questo punto Roberto spagnoli sottolinea che queste sono le puntuali parole di Marco Pannella sul motivo della “non presentazione dei radicali alle prossime europee…“. Ma Spagnoli non fa in tempo a finire la frase che Marco Pannella lo interrompe ancora, questa volta urlando:

Della non accettazione! Non è “non presentazione” – ruggisce il leone della politica italianofona – “noi non accettiamo questa truffa anti democratica e anticostituzionale, come un atto al quale con tutta la non violenza di cui siamo capaci, non possiamo riprendere l’omaggio dell’ossequio silenzioso”

 

Dal Notiziario di Roberto Spagnoli (18.5.2014)

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Paolo di Tarso, l’Apostolo delle genti, “Radicale, fertile avanguardia”

 

Chiave del dialogo tra ebrei, cristiani e musulmani

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido(*)

Paolo di Tarso
Paolo di Tarso, fonte: www.homolaicus.com

Tra i protagonisti della tradizione sulla sacra Lettera, si erge innanzi a noi, per molteplicità di ragioni, l’imponente figura di Paolo di Tarso, l’Apostolo delle genti. L’argomento ci appare da subito notevole e fortemente attuale. La predicazione di San Paolo, è risaputo, rappresenta una pietra miliare nella sostanza e nella storia della fede cattolica, stando alla base della diffusione del Cristianesimo nella Chiesa Universale.

Per comprendere che cosa sia la sacra Lettera è necessario riandare ai primordi della storia della chiesa, è fondamentale rifare i percorsi del Gesù storico, andare alle radici alle nostre origini cristiane e, quindi, partire da un luogo, da un nome e da una data: Gerusalemme, Paolo e l’anno 42 d.C..

SanPaoloViaggioIl primo come il centro della fede cristiana. Gerusalemme, Città santa, Città simbolo, Città promessa, Città della pace. Il secondo, Paolo, come chiave del dialogo tra ebrei, cristiani e musulmani.

L’anno 42 come momento storico successivamente al quale la storia prese un nuovo corso.

Da quel momento, infatti, ebbero inizio i grandi viaggi dell’Apostolo Paolo per l’evangelizzazione in tutta l’umanità.

“L’amore non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà, la scienza è imperfetta, la profezia limitata, ma verrà ciò che è perfetto ed essi scompariranno”1.

Coraggioso ai limiti dell’ardimento, innamorato delle proprie passioni, colto, carismatico, sognante.

Così lo descrive su Il Foglio la giornalista Rita Sala parlando con Giulio Maspero, docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma e che, in occasione del bimillenario della nascita di Paolo di Tarso, ha organizzato nella capitale lombarda un ciclo di conversazioni su San Paolo.

Domanda la giornalista: Paolo di Tarso come ponte fra ellenismo, ebraismo e cristianesimo? Possiamo dire sia questo uno dei tratti essenziali della sua “poetica”?

Si narra, risponde Giulio Maspero, che i discepoli di Cristo furono chiamati per la prima volta cristiani ad Antiochia, quando iniziarono ad annunciare il Vangelo ai greci. Ed è estremamente interessante che si sia iniziato a parlare di cristianesimo proprio in quell’occasione ed in quella Città della Siria, poco distante da Tarso, di dove era originario Paolo. L’incontro, simbolico e non, tra Atene e Gerusalemme è certo un elemento essenziale della sua vita.

Paolo aveva ricevuto a Tarso l’educazione tipica di una Città grecizzata di allora. Aveva letto Euripide ed Omero e si era formato secondo i principi della retorica del tempo, come è evidente dalle sue opere. Da esse traspare anche la conoscenza della filosofia stoica. E proprio un trattato filosofico di origine aristotelica, oggi perduto, è alla base del discorso all’Areòpago, quando, ad Atene, si rivolge ai filosofi. Gli ateniesi lo seguono, ma rifiutano l’annuncio del Vangelo quando sentono parlare di Resurrezione, cioè quando dalla natura si passa alla storia. Si tratta proprio, continua Maspero, del tratto essenziale che è richiesto dal cristianesimo, quello dalla Necessità alla Libertà, quello che distingue Natura e Storia, riempiendo di valore quest’ultima e superando la concezione dell’eterno ritorno”.

Il Mediterraneo e le civiltà che vi erano affacciate favorirono l’ecumenismo ante litteram di Paolo. E la centralità del Mare Nostrum è un tema molto attuale: “L’annuncio di Paolo fu possibile perché il Mediterraneo era unito dall’uso di una unica lingua, la koinè greca, diffusa dalle conquiste di Alessandro Magno. Il quale, creando un impero, aveva fiaccato il primato delle polis greche e favorito gli stati nazionali, come la Macedonia e l’Egitto. Le forze vive della Grecia vennero attratte verso grandi Città come Alessandria, Pergamo e Antiochia, che divennero i nuovi centri culturali e commerciali dell’epoca. Per avvicinarsi a Paolo è essenziale comprendere bene questa possibilità linguistica e l’assetto compatto del Mediterraneo di allora”.

Paolo riuscì a “comunicare” ai popoli di cultura greca, filosoficamente evoluti, il “concetto di Dio che era degli Ebrei.” Gli Ebrei erano un popolo errante (il termine “ebreo” significa colui che attraversa, colui che passa). Non avevano nemmeno un loro Dio, dovevano fare i conti con gli dèi dei popoli che incontravano. Eppure svilupparono ben prima dei Greci una concezione di Dio estremamente fine. La teologia ed il pensiero di Paolo nacquero da essa, dal concetto di un Dio capace di “irrompere” di persona nella vita dell’uomo. Un Dio “Amico”. Cristo chiama i discepoli amici e predica l’amore ai nemici. Un salto radicale: la filosofia greca riconosce l’impossibilità di essere amici di Dio, ed evidenzia le difficoltà dell’amicizia. La rivelazione cristiana, invece, afferma che Dio si fa nostro amico e che, quindi, è possibile amare tutti.

L’incontro fra Atene e Gerusalemme, per Paolo, avviene prima, dopo o “sulla via di Damasco”? Chiede ancora la giornalista.

Chi è cristiano deve tenere presente ciò che afferma la filosofia greca sull’impossibilità del rapporto con Dio, e fare la differenza: il Dio cristiano viene incontro all’uomo. Tutte le seti dell’uomo possono riconoscere il loro senso, allora, nell’incontro che ha segnato la vita di Paolo, il quale camminando verso Damasco si è imbattuto in Cristo stesso che gli ha chiesto “perché mi perseguiti?”. Il Dio cristiano, in quell’occasione chiese perché.

È il mistero di una presenza che Atene ha tanto desiderato, ma che solo a Gerusalemme, nella singolarità e libertà della Croce, ha trovato il suo senso”.

Un perché di portata cosmica. Un “quo vadis per tutti” proprio questo domandare perché, è la ragione ultima dell’apertura estrema di Paolo, nonché lo stimolo alla sua ricerca costante dell’uomo, di ogni uomo: l’anno paolino potrà (oggi dovremmo dire avrebbe potuto) trasformarsi nell’occasione per riflettere su questo esempio, che può essere modello e proposta, sia nell’ambito laico che in quello cristiano, per affrontare le sfide sempre più globalizzate del mondo di oggi”.

Davide Rondoni, in un editoriale scritto per la rivista Luoghi dell’Infinito, lo definisce “Radicale, fertile avanguardia”.

In Paolo, spiega Rondoni

Martirio e parola si accordano. La destinazione del sangue e l’orizzonte della parola coincidono. Così, proprio mentre ci sottrae ogni possibile e vana consolazione della parola poetica come sufficiente rivelazione del mistero, Paolo ci offre ancora la potenza di una parola, ma al prezzo della nostra umiliazione. Per una gioia dura, frutto di donazione”.

Ma qual’è il vero ruolo dell’Apostolo Paolo, l’ebreo di Tarso che da persecutore divenne cristiano e maestro di proselitismo, e che Nietzsche accusò di aver tradito il messaggio di Cristo, unendo la fede biblica e la filosofia greca?

Jacob Neusner, rabbino preferito di Benedetto XVI, l’ebreo con cui da anni il Papa cattolico tesse un fecondo scambio nel dialogo religioso, dà questa risposta:

“Paolo avviò un racconto sistematico del cristianesimo, fondando una tradizione di pensiero rigoroso. Ma ha anche definito le questioni chiave della teologia del giudaismo, visto che le sue categorie di formazione corrispondevano a quelle della Torah di Mosè, fondamento del popolo eletto”.

Ma cosa resta davvero del suo insegnamento?

“Nelle lettere ai Romani, risponde il rabbino Neusner, Paolo fornisce la chiave del dialogo tra ebrei e cristiani. Paolo ha risolto il problema di come entrare a far parte di Israele, senza aderire alle prescrizioni della Torah. Si può essere ebrei senza essere giudei. Paolo è ancora attuale perché ha colto il significato di Israele e dei suoi bisogni”.

Paolo di Tarso, come ponte tra popoli, culture e religioni

Paolo di Tarso, un convertito innamorato delle proprie passioni, della cultura. È proprio lui il Santo Popolare, il Filosofo delle ragioni del cuore, ma non stupisce più di tanto. Di fronte ad un mondo sempre più caotico e abbandonato al caso, forse nichilista, comunque seguace del pensiero del nulla. Paolo: “Sono un ebreo di Tarso in Cilicia”.

Paolo, Apostolo della Parola. Quasi hard. Paolo di Tarso, fondatore della Chiesa di Reggio Calabria. Nella primavera dell’anno 60, il procuratore di Cesarea Marittima, Festo, per ragioni di sicurezza, lo inviò sotto scorta a Roma dove, arrivò dopo una burrascosa traversata che rese necessaria una sosta a Malta. Fu un viaggio difficile che qualcuno ha definito il “viaggio della cattività”.

Malta, punto di partenza ideale per fare un tuffo nel passato, nel cuore del Mediterraneo, crocevia di popoli e mercanti. In questo posto lasciarono tracce nel tempo Fenici, Cartaginesi e Romani prima, Arabi e Normanni poi.

Al largo di Creta, la sua nave, un ponto, si trovò sotto una tempesta e andò alla deriva per 15 giorni. Approdò a Malta e “circumnavigando devenimus Rhegium”, cioè “costeggiando giungemmo a Reggio” si legge negli Atti degli Apostoli. A Gozo, uno scoglio nel cuore blu del Mediterraneo, a mezz’ora di traghetto da Malta si trova l’isola di Ogigia, Regno di Calypso, la Ninfa che riuscì a trattenere Ulisse per sette anni.

Sull’isola si trova il famoso “Scoglio di San Paolo”, naufrago come abbiamo detto in viaggio da Cesarea Marittima, inviato dal Governatore del luogo.

Paolo, in origine Saulo, ebbe una educazione ellenistica ed ebraica, parlava la lingua dei padri ed il greco, studiò a Gerusalemme con il rabbino Gameliele il Vecchio. Fece per tutta la vita il mestiere di padre e non ha mai chiesto soldi pubblici per mantenersi anche durante l’apostolato: fece per molto tempo il mestiere di costruttore di tende che aveva imparato da suo padre. Un uomo, così viene descritto, “di bassa statura, la testa calva e le gambe storte, le sopra ciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità che a volte aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo2.

Paolo on the road: il viaggiatore capace di parlare a tutti ed in qualsiasi luogo: tribunali, stadio, teatro, porto, accampamenti militari. Paolo di Tarso come ponte tra popoli, tra culture, tra religioni.

Paolo a Reggio

La Tradizione vuole che proprio a Reggio Calabria, la Città dove si celebrava la festa della dea Diana, dea Vergine, armata di faretra e arco, casta cacciatrice, Paolo sbarcò all’altezza del cippo che lo ricorda. Per non rendere clamoroso il suo arrivo a Messina “Ei discese nella spiaggia meridionale non più di dieci miglia distante dalla Città di Messina, dove quindi i cristiani, in memoria di tal di sbarco una chiesetta vi eressero”.

L’Apostolo della Parola quel giorno parlò tanto, quanto per il tempo che si spegnesse una mezza candela che aveva accesso e posato su una antica colonna che gli stava accanto. Paolo come stimolo costante di ricerca dell’uomo.

In modo del tutto naturale, ci siamo trovati davanti ad un’altra questione strettamente legata all’oggetto della presente ricerca, di cui cercheremo a tal fine ed entro tali limiti, di dare brevemente conto.

Un passo indietro, prima di entrare nel vivo della nostra trattazione, ma un passo che ci sembra doveroso.

Non solo sulla tradizione della venuta di S. Paolo a Reggio, antichissima ed ormai indiscussa, fonda le origini della Chiesa reggina e di quella calabrese, ma ci dice che Reggio, la Calabria, hanno rappresentato la primissima tappa per la diffusione e l’affermazione del Cristianesimo nell’intera penisola. Un tale privilegio non può che inorgoglirci.

Fede e religiosità che da quel primo innesto si è mantenuta viva nei secoli, passando nella nostra terra attraverso vicende storiche che l’arricchirono, attribuendole connotati propri, “calabresi”, che ritroviamo ancora nelle nostre tradizioni religiose locali, lasciandola, tuttavia, una e viva fin dall’accensione di quella prima fiammella.3

La tradizione della venuta di S. Paolo a Reggio si lega alla nostra ricerca al punto che, come vedremo, le due tesi sembrano stare a fondamento l’una dell’altra.

La conferma viene, in maniera particolare, dall’ottimo lavoro di Mons. Francesco Gangemi,4 “La venuta di S. Paolo a Reggio”, una lettura interessante, di cui daremo conto qui ai fini della nostra trattazione5.

Nel libro del Gangemi la figura di Paolo risplende, umile ed eccelsa, figura di Apostolo follemente innamorato di Cristo, tanto da far assumere alla prosa i toni della poesia.

Fin dalla premessa si osserva che dopo duemila anni, in una Città più volte disastrata, non si può pretendere di trovare per ogni particolare del fatto il relativo documento storico, esplicito, assoluto, ineccepibile, ma non si può neppure rifiutare in blocco o peggio ancora, calpestare, se non ci sono irrefutabili argomenti contrari, una tradizione ininterrotta che, quando è seria, diviene essa stessa fonte di storia.

La storicità della venuta a Reggio dell’Apostolo viene documentata dal Gangemi attraverso un’importante apparato critico, la ricca bibliografia conta circa ventuno fonti (6 codici, 140 citazioni di autori, ben 451 note) che fondano e legittimano il primato delle affermazioni ivi contenute.

Di queste la più note ed incontrovertibile, perché antica e contemporanea all’avvenimento si trova nella Scrittura stessa, in Luca (At. 28,13).

La Vulgata traduce: “Inde, circumvegentes devenimus Rhegium et postum unum diem, flante austro secunda die venimus Puteolos…”.

Costeggiando si raggiunse Reggio, grazie a vento favorevole, sollevatosi l’indomani, in due soli giorni si raggiunse Pozzuoli…” . La nave dunque attraccò a Reggio, dove S. Paolo sostò un giorno6.

La circostanza che Reggio fosse allora una rotta obbligata per raggiungere Roma viene confermata da Svetonio nel “De vita duodecim Caesarum”7, ove si afferma: “Cum Regium, dein Puteolos honerari nave appulisset, Romam inde contendit”. Ossia “(Tito) giunto con una nave da carico a Reggio e poi a Pozzuoli, di là corse di filato a Roma”.

Il testo greco di Luca riporta il verbo κατανταώ, sbarcare; il modo di navigare è περιελθόντες, costeggiando: “κατηντήσαμεν είς Ρήγιον” cioè “si raggiunse Reggio”; κατηντήσαμεν indica il punto di arrivo e di attracco, pertanto, secondo Morisani8, il verbo greco dovrebbe tradursi in latino con discendimus, ossia sbarcammo, piuttosto che con devenimus, come, invece, si legge nella Vulgata. Questo dovrebbe indicare, dunque, la discesa dalla nave e quindi la permanenza in Città.

Nel prosieguo del testo greco S. Luca adopera almeno sei volte il verbo κατανταώ, nel senso di approdare e sbarcare. A suffragare la tesi vengono quindi citati altri passi del testo greco di Luca degli Atti degli Apostoli.9

Altro problema di cui si occupa la trattazione di Mons. Gangemi è la datazione storica del viaggio di S. Paolo.

Nel “Manuel Biblique di Wrgourouse, Bacuz e Brassac” si legge di un secondo viaggio di San Paolo a Roma e del suo passaggio a Reggio nella primavera inoltrata del 61 d. C. Mons. Martini Sales, Zoccali e P. F. Russo concordano sulla circostanza della partenza da Cesarea verso Roma nel ‘61 dell’era volgare.

Alcuni autori trovano difficile, tra l’altro, che in un solo giorno, l’Apostolo abbia potuto predicare, convertire, fondare una comunità cristiana e consacrare, 1° Vescovo di Reggio, S. Stefano di Nicea10.

Essi sono inclini ad ammettere la possibilità di un secondo viaggio di S. Paolo a Reggio, che la tradizione messinese della sacra Lettera della Madonna confermerebbe implicitamente.

I Messinesi udito della predicazione di S. Paolo a Reggio, lo invitarono nella Città e con lo stesso Apostolo fecero partire una delegazione che sarebbe tornata poi con la sacra Lettera, ma questo non sarebbe potuto avvenire nel viaggio di cui si parla negli Atti degli Apostoli, quello del ‘61 d.C. A detta delle fonti citate dal Gangemi e, malgrado le incongruenze dovute alle traduzioni dall’ebraico al greco e dal greco al latino, la Lettera ha un’innegabile genuinità.

Stando allo scritto, la prima fonte risale all’86 d. C. “Apud Messanenses celebris est memoria B. Virginis Mariae, missa ipsis ab eadem dulci epistola”: così si legge nel “Chronicon Omnimodae Hisitoriae” di Flavio Lucio Destro, figlio del Vescovo di Barcellona Paciano e prefetto del pretorio nell’Impero orientale, scritto nel 430 d.C. e dedicato a S. Gerolamo.

È chiaro secondo il Clave nel 388 d. C.: “…tempore in tabulario messanenses reperta est quaedam epistula, hebraice scripta, exarata a Beata Vergine ad eosdem cives messanenses et maxime dicitur”.

P. Giovanni Fiore da Cropani in “Della Calabria Illustrata”11, afferma che S. Paolo sarebbe giunto a Reggio la prima volta nel 39-40 d. C. e la seconda sarebbe quella narrata negli Atti degli Apostoli.

Carlo Morabito12, cui soccorre Carlo Giangalino13, (e consta anche a Plinio, Soto, Cornelio e Lisiano), sostiene che il capitolo XV della Lettera ai Romani, parla della predicazione nella Grecia che era ingannata dagli errori dei Filosofi.

E, dunque, non era forse la Calabria di quel tempo tutta greca e tutta imbevuta di dogmi pitagorici?

Così la vuole Costantino Lascaris14 e fino al tempo dell’Imperatore Costantino: “Venne qui Paolo in quel suo primigenio viaggio per recarvi il lume della vera dottrina di Cristo e il suo Vangelo”.

Marino Freccia sostiene che S. Paolo fu in Calabria, a Reggio, a Cosenza, “Città libere non sottoposte ad imperio alcuno”.

Nel secondo viaggio Paolo sapeva che andando verso Roma, sarebbe finito in prigione. Ed è durante questo secondo viaggio che ante questo secondo e, nel quale, S.Paolo consacrò Vescovo della Città di Reggio, S. Stefano di Nicea, mentre il miracolo della colonna fu compiuto nel primo viaggio, di cui S. Luca non scrive, non essendo stato presente.

Anche il barone Taccone Gallucci15, scrive che S. Paolo tra il ‘39 ed il ‘42 d.C., partito da Gerusalemme, andò a predicare il Vangelo fino all’Illirico ed all’Italia peninsulare ed insulare.

Concordano G.B. Moscato e P.F. Russo16, sul fatto che, così, “fu gettato il seme evangelico che germogliò e si ingrandì nella penisola, passando in primo luogo dalla nostra Calabria”.

Tra numerosi messaggi, brevi e bolle17 papali, una voce su tutte ci è gradito ricordare: «… Ecco l’antica Reggio, le cui origini si perdono nella notte dei tempi! Ecco la Reggio della Magna Grecia,di cuiancora conservate le vestigia monumentali ed i preziosi cimeli nel vostro importante Museo Nazionale, che ora accoglie anche i due grandi bronzi di Riace.

La storia di Reggio corre lungo i filoni delle grandi civiltà classiche europee: la greca, la romana e la cristiana.

Nel toccare il suolo di questa Città, provo una viva emozione al considerare che qui approdò, quasi duemila anni fa, Paolo di Tarso, e che qui l’Apostolo delle genti accese la prima fiaccola della fede cristiana; da qui il Cristianesimo ha iniziato il suo cammino in terra Calabra, espandendosi in ogni direzione, sia verso la costa ionica sia verso la fascia tirrenica. È questo un primato che mi piace sottolineare e che è motivo di giusto orgoglio per la Chiesa e per la Città di Reggio Calabria.

Il vostro cristianesimo, ormai bi-millenario, ha permeato le radici più profonde della vostra civiltà e della vostra cultura e vi ha dato la forza di far fronte con coraggio, e talvolta con eroismo, ai difficili momenti della vostra storia, durante le molteplici invasioni e dominazioni che la Calabria ha dovuto subire.

Ma soprattutto, il vostro animo temprato dalla fede ha trovato la forza di resistere alle calamità naturali; per due volte il terremoto, nel 1783 e più recentemente nel 1908, ha distrutto la vostra Città, e per due volte l’avete ricostruita più grande e più bella. Reggio! Città che hai nelle tue radici la fede di Paolo, Reggio! che hai un cuore antico ma, sempre giovane e caldo, nel nome di Dio ti saluto e ti benedico!»18

Sulle orme di Paolo

A 1950 anni dal naufragio dell’Apostolo delle genti sull’isola, Benedetto XVI intraprende il pellegrinaggio sui passi di Paolo.

Anche il Pontefice, come Paolo di Tarso, si reca nell’ex roccaforte dei Cavalieri di Malta gravato da “una profonda sofferenza”. Il dolore per il male commesso da alcuni sacerdoti, i pesanti e ingiustificati attacchi alla persona del Vescovo di Roma che oramai fanno parte della cronaca.

Così come il coraggio dimostrato dal Papa nel fronteggiare questo delicato momento con atteggiamento autenticamente paolino di saper trasformare un possibile “naufragio” in una occasione di annuncio del Vangelo e di crescita della Chiesa.

Il Papa compie un viaggio sui passi di Paolo di Tarso che ha saputo dialogare tra popoli e culture.

Recandosi da Roma a Malta, spiega monsignor Romano Penna, docente emerito dell’Università Lateranense, uno dei più noti specialisti su Paolo di Tarso, compie un viaggio a ritroso rispetto a quello compiuto da Paolo che, partito da Cesarea Marittima, soggiornò a Malta sulla strada per Roma a causa di un disastroso naufragio.

Il viaggio ci mostra la figura di quel Paolo sia come emblema di un Apostolo instancabile, sia come interprete originalissimo del Vangelo.

Paolo, insomma, come intelligente interculturazione del Vangelo stesso.

(*) Curtosi F., Candido G, ne:
S. Maria a Sacra Littera, Sulle origini e sul culto della Madonna della Lettera, Tra storia, arte e letteratura popolare – Non Mollare edizioni 
 

 pp.21-30

1 Prima Lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso

2 Così ce l’hanno tramandato gli Apocrifi di Paolo e Tecla

3 Il frammento, reliquia della fiaccola miracolosa si può osservare nella navata destra del Duomo di Reggio Calabria.

4 Mons. Francesco Gangemi, è stato, tra l’altro, fondatore del Museo di S. Paolo. Negli anni questa preziosa istituzione culturale, della quale fanno parte anche una ricca pinacoteca e una rilevante biblioteca, si è accresciuta di materiale pergamenaceo e cartaceo particolarmente significativo per la ricostruzione delle vicende storiche della città di Reggio.E’ un fondo miscellaneo costituito da 11 pergamene e da numeroso materiale documentario i cui estremi cronologici vanno dal 1507 al 1933 nel quale si possono ritrovare privilegi, corali, manoscritti, spartiti inediti di Lorenzo Perosi e di Francesco Cilea, sonetti e studi di ecclesiastici reggini.

5 Il volume “La venuta di S. Paolo a Reggio” è stato pubblicato dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose e sponsorizzato dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, nella collana teologia e storia.

6 Acuni autori ritengono che la nave su cui viaggiava S. Paolo fosse sbarcata alla Rada dei Giunchi, presso il Tempio di Diana Fascelide, che doveva sorgere nell’area prima occupata, fino al terremoto del 1783, dal Convento dei Conventuali Francescani, in seguito Monastero delle Benedettine. Altre ipotesi ritengono sia sbarcata tra Capo Spartivento e Scilla. Il Morisani indica Lucopetra, altri ancora la spiaggia di Pellaro o la Fossa di S. Giovanni, che offriva un’accampamento tranquillo ai soldati. Acuni ritengono che Reggio stessa sia da identificarsi come promontorio citato negli Atti. Poteva trattarsi altresì di Punta Calamizzi a Porta Dogana, dell’Acroterio nelle colline di Pentimele, la cui rada era un ancoraggio tra i più sicuri dello stretto. Si rimanda al testo del Gangemi “La venuta di S. Paolo a Reggio”, pag. 117.

7 Titi Vita (1.VIII c.5)

8 “Acta S. Stephani Nicei”

9 Si rimanda per le conferme successive delle fonti sul punto in questione dal XVI sec. in poi, alla pag. 95 del libro del Gangemi.

10 Il culto di S. Stefano di Nicea, e la venuta a Reggio di S. Paolo che lo consacrò primo vescovo della città, sembrerebbero confermarsi dunque a vicenda, dimostrando l’antichità del primo si conferma quella della seconda.

11 Tomo II, Napoli 1734 pp. 18-20.

12 Annali della Chiesa di Messina, Isapoge par. 77 tit. I.

13 Houdegraphia disc. 3 cap 100.

14 De Philos Calab.

15 Ann. Eccles. Anno 61 n.1.

16 Storia della Chiesa di Calabria.

17 Benedetto XVI, con la bolla “Suprema dispositionem” del 25 settembre 1741, diretta all’arcivescovo di Reggio, con cui si concedeva al Capitolato Metropolitano l’uso delle insegne. Pio XI nel breve del 10 agosto 1928 al Cardinale Ascalesi, Arcivescovo di Napoli, Legato pontificio al primo Congresso Eucaristico regionale calabro. Giovanni XXXIII in messaggio all’Arcivescovo Mons. G. Ferro per il XIX anniversario della venuta di S.Paolo a Reggio. Paolo VI nella bolla del 21 giugno 1978 in cui la Cattedrale di Reggio Veniva eretta Basilica minore. Giovanni Paolo II nella bolla 6 marzo 1980, con cui S. Paolo viene ufficialmente proclamato Patrono principale dell’Arcidiocesi Reggina. Da ultimo Giovanni Paolo II nel discorso tenuto in occasione della visita a Reggio il 7 ottobre 1984, ivi riportato.

18 Dal Saluto di Giovanni Paolo II al suo arrivo a Reggio Calabria il 7.10.84

 

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Il presidente #Talarico e le cene elettorali finiscono a #LeIene

Chissà se le avrà almeno dichiarate come contributi alla sua campagna elettorale!

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ALM della Calabria e l’associazione Non Mollare sostengono l’iniziativa del Partito Radicale

Abolire la miseria della Calabria, periodico nonviolento di storia, arte, cultura e politica laica e liberale,  assieme all’associazione di volontariato culturale “NonMollare” sostengono il Satyagraha del Partito Radicale Nonviolento transpartito transnazionale

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Ali d’indaco, il nuovo libro di Giovanna Moscato

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Sabato 29 marzo alle ore 17,30 l’autrice calabrese Giovanna Moscato presenterà al pubblico il suo secondo romanzo “Ali d’indaco”, edito da Città del sole edizioni, presso l’Aula Magna dell’Istituto Comprensivo di Botricello.
La scrittrice è docente di italiano con la passione per la scrittura e la sua terra, la Calabria. Anche se in questo testo, con le sfumature del “giallo”, i principali luoghi rappresentati sono più quelli dell’anima, dei sentimenti, “luoghi ideali”, dai colori blu come il cielo e l’azzurro del mare, “luoghi” che superano quelli temporali o spaziali, individuabili in coordinate geografiche. Diversamente dal primo romanzo “Ritratto in bianco e nero” che aveva un’impostazione descrittiva, in questo si trovano tracce dell’elemento psicologico, dei condizionamenti dell’inconscio. La storia tratta dell’amore, dei moti dell’animo, ma inizia quasi plasticamente con la morte di Rosaria, madre di Anna, la protagonista. Che lascia un vuoto incolmabile nei suoi tre figli e nel marito. Un dolore che il trascorrere del tempo riuscirà a lenire ma non a cancellare. Un dolore e un vuoto che accompagnano la crescita di Anna, che rischia di perdersi nell’illusorio affidarsi a un bell’imbusto, mentre il vero amore che l’ha accompagnata e protetta da sempre, sembra confuso tra il vociare dei condizionamenti sociali che l’autrice tiene a far risaltare sempre nei suoi scritti, denunciandone la dannosità. Le uniche vere eroine sono le donne. Solo attraverso di loro si iniziano a vedere i germogli del cambiamento, della rottura dei condizionamenti sociali. E poi si vede la forza, il coraggio, il buon senso delle donne calabresi, giovani o adulte che siano. Un romanzo con sfumature di giallo, perché si caratterizza per l’incisiva presenza di una stolker che attualizza il racconto anche in senso socio-culturale e introduce elementi di suspense, con un amaro epilogo.

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Si può insegnare, l’utopia? Ugo Arcuri, l’indimenticabile “maestro”dedito alla modernità con salde radici nel passato

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Educazione dell’individuo, cultura, lavoro, lotta alla subalternaza ed alla illegalità, cambiamento: l’asse del suo pensiero

di
Donatella Arcuri
(Articolo pubblicato su Lettere Meridiane, n. 34 Dicembre 2013
Franco Arcidiaco editore,
Citta’ del Sole Edizioni S.a.S.

Quando cerco di fissare il ricordo di mio padre – ed in questi giorni1 lo sto facendo su invito degli amici dell’Istituto “Ugo Arcuri” – il criterio principe con cui assemblare le immagini mi sembra essere questo: lui, cosa ne avrebbe detto? Non costruirò queste pagine come uno scrigno di ricordi privati: il ricordo personale è una specie di oggetto infiammabile se acceso, e di troppo friabile se spento, comunque troppo dentro i percorsi oscuri dei sentimenti e – primo tra questi – della nostalgia. Vorrei piuttosto offrire ai lettori una sua immagine per così dire “a mezza costa”, non sulle alture della teoria, ma neppure nelle valli profonde del personale. Difficile comunque contenere questo ricordo in uno spazio e in un tempo e sfuggire alla sensazione che Ugo Arcuri non abbia affatto abbandonato il mondo dei vivi: vi entra anzi con il suo talento delle parole chiare e piane, il suo talento innato per la verità e la sua fede in ideali che travalicano ogni moda effimera.
In questi anni, nell’ininterrotto omaggio e ricordo che gli è stato tributato, lo si è spesso chiamato “maestro”. È ormai un luogo comune quello per il quale nel nostro tempo abbondano i professori e scarseggiano i maestri: ed è proprio da questo punto che vorrei partire per ricordarlo e ricostruirne l’immagine che propriamente mi appartiene, ancora a distanza di trent’anni.
Una scena descritta da Platone nel “Protagora” mi ha sempre fatto pensare al suo stile. Il giovane Ipparco è pieno di emozione per l’arrivo ad Atene del celebre Protagora, un sofista straniero e alla moda, da cui ci si attendono lezioni straordinarie (a pagamento). Socrate è qui chiamato in causa da Platone per smontare questa ingenua aspettativa: la prima dote di un buon maestro è quella di non darsi troppa importanza. Proprio così. La banalità ininterrotta, la prosopopea e la seriosità del tutto infondata di molti intellettuali e presunti maestri dei nostri tempi- a questo proposito – colpiscono chi ha conosciuto certi aspetti dell’insegnamento di Ugo Arcuri, il suo grande talento divulgativo, una semplicità e chiarezza (mi verrebbe da dire una chiarità) che ho poi difficilmente trovato, nella mia vita di allieva ed insegnante, una leggerezza ed insieme una grande forza nel trattare ed anche nel manipolare temi cruciali di storia del pensiero, un uso direi scanzonato ed innocente di metafore didattiche che sono state una sua cifra decisamente irresistibile. Ma, parlando di magistero, bisognerà pur dire – infine – in che cosa esattamente è consistito il suo insegnamento, al di là delle mode transitorie che la sua vita ha attraversato. Personalmente credo che la sua libertà di giudizio, rispetto al suo tempo ed anche rispetto al suo spazio – se così si può dire – siano stati un grande insegnamento. Lo è stato di certo, in tempi in cui dominavano miti egualitari ma non particolarmente liberali, il suo fortissimo senso della libertà, ma anche della responsabilità del singolo individuo, quella non delegabile ad alcuna Storia ed alcuna Struttura, e dell’impegno di ciascun individuo a migliorare il pezzetto di mondo nel luogo in cui il caso lo ha deposto. Si potrebbe obiettare che questo sarebbe bastato per fare di lui un liberale, ma il punto è che non ignorava affatto l’altra metà del cerchio: non credeva però che fosse possibile – e giusta – la militarizzazione dell’eguaglianza che i tempi proponevano.
Ma questi temi riguardano e riportano circolarmente alla visione che Ugo Arcuri aveva della scuola. Il centro propulsore di tutte queste accennate convinzioni era il senso che egli attribuiva all’opera della scuola e dei buoni insegnanti: giudizio complementare e speculare rispetto a quello, che allora appariva forse debole e antiquato, sull’astrattezza marxista della struttura e sulla sostanziale inutilità di tutti i sistemi filosofici non fondati – appunto – sulla persona e sull’individuo, sulla sua possibile educazione al dialogo e al riconoscimento dell’altro.
C’è una concorrenza spietata nel settore delle profezie, ma credo di poter dire con certezza che, se avesse costruito un sistema, cosa che non ha avuto il tempo di fare, ma forse non avrebbe comunque fatto, la scuola ne sarebbe stata il centro. Come il Don Milani della scuola di Barbiana, Ugo Arcuri pensava all’educazione e all’istruzione come all’unico vero potere dei senza potere, grimaldello dell’unico vero “rovesciamento” rivoluzionario della condizione di subalternanza. La scuola dunque: non tanto un’istituzione con tutti i suoi necessari paludamenti, ma il luogo di tutti gli interrogativi e di tutte le metamorfosi, il centro di una mobilità sociale e di una cultura che – sole – tengono in piedi la democrazia, la legalità e persino la possibilità di dare scacco al destino. Non che condividesse l’illusione dei tardi anni ‘60, che la scuola cioè dovesse liberare gli istinti piuttosto che educarli, ma era per una scuola “liberata” a sua volta, cioè per uno spazio in cui possono regnare il pensiero e la contraddizione, non una risposta definitiva e autoritaria al problema e all’interrogativo morale, ma la possibilità e il dialogo su quell’interrogativo. La libertà era per lui il luogo dove solo può sorgere l’idea dell’eguaglianza ed anche – appunto – la domanda su ciò in cui essa consiste. Scuola e spazio della coscienza individuale, quello dove tutto accade, dove tutto comincia… Sarebbero forse bastati pochi anni, al di là del fragile crinale degli anni ‘70, in cui anche nei licei di provincia cominciava ad emergere un profilo antropologico di studente proprio della nascente società di massa, sarebbero davvero bastati pochi anni per disilludere profondamente Ugo Arcuri. Ma anche qui – forse – prima o poi le armi di Achille saranno restituite ad Aiace: in fin dei conti possiamo immaginare l’esagitato Brunetta non molto diverso da quel famoso senatore Tomè con cui, negli anni ‘50, Ugo Arcuri sostenne un coraggiosissimo – anzi temerario – scontro giudiziario respingendone le stesse accuse sfrontate, mosse oggi alla scuola, di albergare incapaci, fannulloni e gente che guadagna un pacco di soldi. Anche oggi, in effetti e contro tutte le aspettative, restituire serietà ed autorevolezza alla scuola potrebbe essere un serio segnale di controtendenza rispetto allo sfacelo morale e culturale figlio della trasformazione antropologica elaborata negli studi di Mediaset, nei centri commerciali, in una cultura biecamente ignorante, edonista, immeritocratica.
Alla scuola, al primato dell’individuo come luogo dal quale partire ed al quale arrivare, più ancora che ad un sistema teorico e/o ad una rete di riferimenti teorici, riporta anche la sua fede pacifista ed antimilitarista. Poiché la guerra comincia nell’animo dell’uomo, è da qui che bisogna partire, da quel famoso “foro interiore” di agostiniana memoria, che era sempre nei suoi pensieri, da un disarmo degli animi, ma anche da quella rivolta delle coscienze che era stato il grande insegnamento di Gandhi e di Capitini. I “medaglioni” cui stava lavorando negli ultimi mesi della sua vita, piccoli ritratti di grandi pacifisti e profeti (in particolare mi ricordo di aver discusso con lui dell’esperimento pedagogico libertario di Jasnaja Poliana) – avrebbero probabilmente chiarito più precisamente questo punto e ricostruito l’asse al quale – a me sembra – Ugo Arcuri pensava: educazione dell’individuo, cultura, lavoro, lotta alla subalternanza ed alla illegalità, cambiamento. Facile inferire che questi stessi elementi erano, da sempre, quelli di una possibile ricostruzione dei termini della complicata faccenda che allora si chiamava, al singolare, “questione meridionale”. Ed anche lì tutti gli elementi del quadro sono oggi radicalmente cambiati, ma solo nella ricostruzione storico sociologica, poiché il menù culturale della Calabria è invece, più o meno, lo stesso: politica famelica ed acefala, intrecci familistici soffocanti, dominio incontrollato della malavita e dell’incultura, con l’aggravante di un’economia dopata da canali di approvvigionamento del tutto illegali. Ma anche qui i deboli segnali di speranza, emessi di tanto in tanto dal fondo delle tenebre, non sono certo attribuibili ad alcun sistema ed alcuna istituzione, ma alla capacità di indignazione e rivolta di singoli individui, gruppi, movimenti, in gran parte giovanili.
Ma erano anni – quelli ‘60 e ‘70 – in cui le serene convinzioni di Ugo Arcuri dovevano reggere l’urto di un tumulto ideologico, sociale esistenziale assolutamente travolgente: da molti segmenti di quel tumulto anche mio padre accettò con entusiasmo di farsi travolgere, ma non dalle fedi teologiche ed acritiche dei tempi, non dalle propensioni collettive – e non solo giovanili – ad assumere mitologie che gli apparivano pericolosamente idolatre, e non soltanto perché coltivavano una violenza o l’altra.
Il mondo giovanile, io stessa in testa, immerso nelle tenebre della giovinezza, brandiva allora la magia sinistra e metafisica della parola “struttura” e, contro quelle che sembravano teorie idealiste e crociane (peraltro conosciute di seconda e terza mano), sguainava un Marx utilizzato altrettanto sconsideratamente ed ignorantemente. Alle virtù taumaturgiche del verbo marxista leninista, mio padre si ribellava con energia, ma non certo in nome dello status quo: in questi ultimi anni i suoi amici fedeli (come Vincenzo Fusco) e – spero me lo si consenta – i suoi figli vicari (come Francesco Adornato) hanno spiegato, molto meglio di come potrei farlo io in questa sede, i motivi della sua resistenza ad accogliere le nostre vulgate e la pretesa di esclusività del verbo marxista rispetto ad altre ipotesi e altre tradizioni di pensiero rivoluzionario, prima tra tutte quella libertaria ed anarchica. Credo, e con questo so di incrinare una versione accreditata dei fatti, che Ugo Arcuri fosse in fondo un empirista, e che i sommovimenti violenti, le palingenesi radicali gli apparissero, un po’ come al Dostojewskj dei Demoni, il segno di un odio profondo nei confronti della realtà. Ma alla realtà – invece – Ugo Arcuri era profondamente legato, forse anche per il peso della sua malattia. Con buona approssimazione posso dire che non si faceva illusioni, né politiche né religiose: e tuttavia non ha permesso a se stesso nessuna incrinatura del piacere intellettuale, della gioia di vivere, della libertà di giudizio, col suo particolare dono di distillare serenità dalla tenebra e di fidarsi – appunto – della nostra fragile umanità, molto più di qualsiasi divinità e molto più di qualsiasi palingenesi.
Occorre forse ricordare, contro una tradizione forse un po’ oleografica che lo ha riguardato, che Ugo Arcuri non ignorava affatto il principio di real-politica, secondo il quale ogni rivoluzione ha il suo momento conservatore: infatti, e forse in virtù di questa lungimiranza, era spesso un po’ più in là, con sorridente e bonario scetticismo, rispetto a tutti i miti, più o meno estemporanei, del suo tempo. Credo che il mito del 5° Centro siderurgico sia stata l’unica sua vera forma di coincidenza con certa cultura operaistica che non era certo nelle sue corde. Alla metà degli anni ‘70 uno dei primi ecologisti del tempo, Franco Nebbia, venne in visita da noi: lo portammo in giro per la Piana, lui e Vittorio Emiliani, poi direttore del Messaggero ed allora esperto di beni ambientali e culturali. Si discuteva del 5° Centro siderurgico, promessa politica seguita alla drammatica rivolta reggina del ‘70. Nebbia, estasiato dalle distese di ulivi e rapito da quei sottoboschi, così tipici e folti, di piccoli agrumi, si diceva orripilato dall’idea di un’industria ad alto impatto ambientale, che avrebbe in pochi anni fatto il deserto dove splendeva tutto quell’oro grigio verde. Mi ricordo mio padre difendere, contro quei miti naturisti e romantici, le ragioni del progresso: il lavoro, la cultura del fare piuttosto che quella della collera permanente e del lamento, l’uscita della Calabria dall’eterno stato di minorità in cui una classe politica incapace e corrotta l’aveva da sempre abbandonata.
Non posso non ricordare, di quegli anni, la passione con cui Ugo Arcuri condivise le battaglie civili di quella stagione. Certamente non ignorava affatto il dolore e gli strappi che divorzio ed aborto portano nella vita personale, ma era per un sistema di regole che mantenessero le convinzioni religiose nel luogo in cui la loro stessa natura le predisponeva a restare, cioè ancora una volta la coscienza dell’uomo e non le leggi dello stato (stiamo ancora constatando a sufficienza quanto sarebbe utile attenersi a questo sano principio).
Infine non si può chiudere il cerchio senza toccare un tema così intimamente legato a quegli anni, come una sorta di carbonio 14, e così propriamente ad Ugo Arcuri. Oggi il termine “tolleranza” – com’è noto – appare desueto ed implausibile, evocando benevole concessioni ai “diversi” e – di nuovo – gerarchie etniche e sociali non abbandonabili né abbandonate. I tolleranti appaiono retaggi di una sorta di paternalistico assolutismo illuminato che sarebbe politicamente corretto deporre a favore di reciproci riconoscimenti, rispetti, confronti. Ma, al di là delle controversie non dico infondate e nominalistiche ma forse sovrastrutturali, resta il dato di fatto, ineludibile, di un mondo che formula accuse di clandestinità, che ricostruisce ghetti e separatezze dovunque, che non soltanto non “tollera”, ma esclude con ferocia inaudita. Tornando dunque all’apertura del cerchio… cosa ne avrebbe detto lui? Temo di dover concludere che oggi, per leggere questo mondo del terzo millennio e contro la barbarie della sordità collettiva, non sarebbero sufficienti la sua vena tolstojana, né i suoi studi su Capitini, né la sua fiducia nelle risorse immunitarie suscitate dall’educazione e dal lavoro; né la sua raffinata e un po’ malinconica vena estetica. Inattuali e radicali ieri, i suoi valori morali appaiono – oggi – quelli di una tradizione, ma soprattutto di una speranza scomparsa: valori disarmati ed inermi, non più innestabili nella nuova superficie extralight sulla quale vaghiamo.
Navigatore solitario, ma forse non quanto oggi sembri, Ugo Arcuri appare come un uomo dedito, nel breve spazio dei suoi paeselli, ad una modernità con salde radici nel passato, in un tempo che coltivava l’austerità senza avarizia ed una sobrietà piena di discrezione. Cosa ne avrebbe detto lui di questo mondo sovraffollato, in cui distese di merci, ettari di cose, parole ed oggetti indifferenti ci possiedono e di cui non sappiamo dove smaltire i rifiuti? Penso che questa cattiva modernità non gli piacerebbe affatto e mi dico anzi – a questo proposito – che tutto questo risveglierebbe in lui non solo e non tanto un rigurgito di filosofico pessimismo cosmico, ma anche un moto di disobbedienza civile.
Vorrei concludere con due brevi ricordi personali, ma non troppo, che trovo assolutamente illuminanti. Il primo riguarda una breve ed intensa poesia di Eluard che gli era stata inviata, in uno dei suoi ricorrenti, affettuosi biglietti, da Francesco Adornato, suo affezionatissimo:

Vivendo in un borgo tranquillo/ dove la via muove, lunga e dura, ad un luogo di lacrime e sangue/ noi siamo puri/ sono tiepide e calme le notti / e a quelli che ci amano /verrà da noi/ questa preziosa fedeltà suprema/ la speranza della vita

Discutemmo di quel luogo di lacrime e sangue che a me, banalmente, sembrava la morte. Ma la morte – lui disse – non è affatto un luogo di lacrime e sangue. Non ricordo purtroppo come andò a finire quella conversazione e se ne venne fuori altro, ma vorrei fermarmi su un’immagine che nel tempo mi sembra ancora legata a quella speranza della vita evocata da Eluard: mio padre e suo fratello Armando, di fedi politiche assai diverse e neppure complementari, seduti sul terrazzo della nostra casa a discutere di politica, in un mattino d’estate, davanti ad una forma di pecorino: uno tagliava e l’altro raddrizzava. La forma spariva in tempi brevi (proverbiali mangiatori di formaggio, gli Arcuri, in tempi in cui si ignorava tutto del tasso di colesterolo) e nessuno aveva convinto l’altro dei propri argomenti: ma i toni restavano quelli di un bonario rispetto e di una ironica, sorridente attenzione reciproca. Ecco… mi sembra del tutto tramontata proprio la possibilità di quello sguardo attento, e di un piccolo spazio vuoto tra le cose, dove lasciare che l’altro si esprima: il rumore del mondo appare assordante, impedisce ogni reciproco ascolto e – se non fosse espressione di una forse troppo rozza geometria – direi che l’al di qua che abbiamo costruito in questi trent’anni somiglia molto, ma proprio molto, ad un luogo di lacrime e sangue.

1 ​Questo scritto è stato ultimato nell’inverno 2008, in occasione dei 30 anni dalla morte di Ugo Arcuri, ma non pubblicato a causa delle successive vicende della rivista alla quale era destinato.

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Corti di memoria. Segni privati (ma non tropnon troppo)” Lunedì 16 dicembre ore 15.00

F.I.C.C. Federazione Italiana dei Circoli del Cinema – Centro Regionale della Calabria

In collaborazione con
UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA

Dipartimento di
Studi Umanistici

Premiazione della II edizione del concorso video
“Corti di memoria. Segni privati (ma non troppo)”
Lunedì 16 dicembre ore 15.00
Sala Stampa Aula Magna
Campus di Arcavacata – Rende (CS)

Si avvia alla conclusione la seconda edizione del concorso Corti di memoria. Segni privati (ma non troppo), organizzato dalla Federazione Italiana dei Circoli del Cinema – Centro regionale della Calabria (F.I.C.C.) e realizzato in collaborazione con l’Associazione Culturale “Fata Morgana” e il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria.
Scaduti i termini per la presentazione dei video, la giuria d’esperti – composta da Tiziana Bagnato (giornalista); Loredana Ciliberto (Presidente Associazione Culturale “Fata Morgana” e Responsabile organizzativo del concorso); Roberto De Gaetano (docente di Filmologia); Giorgio Lo Feudo (docente di Semiotica del testo presso l’Università della Calabria e coordinatore FICC-Calabria); Bruno Roberti (docente di Stili di regia) – ha decretato i video finalisti: Il rito della Passione: i vattienti di Isabella Mari (Cosenza), Resti frame e me di Ilenia Borgia (Reggio Calabria), Spread Fiction di Luigi Edoardo De Bartolo (Cosenza), Tommasina di Margherita Spampinato (Roma), Un giorno con: Margherita di Eleonora Campanella (Ragusa) e Un incontro casuale di Elio Moroni (Roma).
Durante la cerimonia di premiazione, che si svolgerà il prossimo lunedì 16 dicembre, alle ore 15.00, presso la Sala Stampa dell’Aula Magna Unical, verranno comunicati i nomi dei tre vincitori. Questi i premi: ai primi tre classificati, oltre al trofeo ricordo del concorso (realizzato a partire dalla bellissima immagine creata appositamente dall’illustratrice Mirella Nania), saranno consegnati tre cofanetti-premio Smart-box. Il vincitore, inoltre, sarà ospitato durante il corso di “Semiotica del testo” per realizzare un seminario, all’interno del quale potrà raccontare l’esperienza che l’ha portato alla realizzazione del video che risulterà vincitore di questa seconda edizione del concorso. La premiazione si aprirà con la proiezione aperta al pubblico dei video finalisti.
Lo spirito del concorso è stato quello di riportare alla luce i cosiddetti “filmini di famiglia” e ridare loro nuova vita. Il bando richiedeva, infatti, che i video partecipanti riguardassero la sfera familiare/amicale, ma anche che contenessero tracce storico-sociali e contestuali di evidente interesse collettivo. Così da poter leggere, attraverso gli eventi privati, anche il contesto comune in cui si svolgevano. La premiazione, con la proiezione dei video selezionati, sarà così un momento per ripercorrere la nostra storia più recente, vista, filtrata e ricostruita a partire da immagini che, concepite inizialmente come private, potranno ora assurgere a testimonianza di un costume, di uno stile di vita, di un’epoca.
L’incontro si chiuderà con un brindisi augurale di buone feste.

Per maggiori informazioni: centroregionale.calabria@ficc.it; www.ficc.it; www.fatamorganacinema.it (Eventi)

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DETENUTI ATTORI PER UN GIORNO Al nuovo penitenziario l’anno scolastico si chiude con il teatro

di Francesco Lo Duca

LA chiusura dell’anno scolastico, per gli allievi detenuti del Nuovo complesso penitenziario di Vibo Valentia, ha assunto un significato particolare, diverso dagli alunni di tutte le altre scuole che salutano festosamente l’arrivo delle tante aspirate vacanze estive per andare a mare o vagare in libertà senza il pensiero dei libri scolastici. Gli alunni detenuti vorrebbero invece che l’anno scolastico andasse avanti anche in estate, quando le giornate diventano ancora più soffocanti da trascorrere nelle affollate celle. Si spiega così, il successo e l’entusiasmo della commedia “Il viaggio della speranza a Padre Pio” rappresentata ieri, nella sala polivalente del Nuovo complesso penitenziario di Vibo Valentia, dagli alunni detenuti della sezione carceraria dell’Istituto tecnico commerciale “G. Galilei” di Vibo e dal Secondo centro territoriale Educazione permanente a chiusura dell’anno scolastico. La rappresentazione teatrale, in atto unico, è nata dall’ispirazione di un allievo detenuto dell’Itc “Galilei” che attraverso un cantastorie ha raccontato, al pubblico del Nuovo complesso penitenziario di Vibo Valentia situato in località Castelluccio, le vicende rocambolesche di un viaggio della speranza che ha come meta il santuario di Padre Pio. Il promoter del viaggio, Antonio ha coinvolto vari personaggi di un immaginario paese calabrese a partire in pullman per il santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, e tra una serie di sorprese e azioni esilaranti raggiunge il suo scopo con un sorprendente colpo di scena. Ecco i nomi degli alunni detenuti che hanno interpretato i personaggi della commedia: Alberto nelle vesti del promoter del viaggio, Giovanni il parroco del paese, Leonardo l’autista dell’autobus, Ciro il bigliettaio, Luciano il ragazzo stitico, Alessandro sindaco del paese, Salvatore e Giacomo le due guardie del corpo, Antonella e Vito due i due fidanzatini, Anna donna Ntonuzza mamma dei fidanzatini, Daniela suor Patrizia, Gaetano e Wang i due malavitosi, Caterina donna Carmela (voce fuori campo), Mino il cantastorie, Anna signora Maria a Crapa, Francesco il marito della signora Maria a Crapa, Francesco e Demetrio due agenti penitenziari. I testi e l’arrangiamento musicale sono stati il frutto della spontanea collaborazione tra i docenti dell’Istituto tecnico commerciale “Galilei” di Vibo e gli alunni detenuti dello stesso Istituto. La scenografia è stata interamente realizzata dagli allievi del Secondo centro territoriale Educazione permanente, che svolge corsi didattici per la scuola elementare e media del penitenziario vibonese e da quelli dell’Itc “Galilei”, che hanno utilizzato parte del materiale messo a disposizione dall’Amministrazione carceraria e parte dell’Arci teatro popolare di Anna Faga. A fine spettacolo, seguito con partecipazione da quasi tutta la popolazione carceraria e da un nutrito pubblico esterno, sono intervenuti il dirigente scolastico dell’Itc “Galilei” Diego Cuzzucoli, la direttrice del carcere Angela Marcello, il comandante della polizia penitenziaria Nazzareno Iannello, il docente dell’Itc Enrico Parisi e il cappellano don Maurizio Macrì, esprimendo i loro complimenti agli attori detenuti per la piena riuscita della manifestazione. «E’ stato uno spettacolo di vita e generosità – ha espresso il dirigente Cuzzucoli – e mi auguro che sia portato all’esterno delle mura carcerarie. Quando la scuola si muove i risultati sono sempre positivi». Don Maurizio Macrì, ha invocato «maggiori spazi da dare a questi momenti di cultura e socializzazione, che ci fanno stare bene e rilassati». La richiesta è stata accolta dai dirigenti dall’Amministrazione carceraria di Vibo, che hanno promesso di inaugurare il prossimo anno scolastico con una rappresentazione teatrale. In un contesto difficile e drammatico come quello delle carceri italiane, l’esperienza e l’opportunità a poter frequentare corsi scolastici, scrivere poesie e racconti, fare teatro rieduca e aiuta a sentirsi ancora un essere umano, a cercare di ricostruire il proprio percorso di vita. Ricorrere alla fantasia, aiuta inoltre a non rimanere inchiodato al proprio passato, a recuperare dignità, orgoglio e speranza nel futuro.

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A conclusione dello spettacolo foto ricordo per tutti i protagonisti

 

Da il Quotidiano della Calabria – Mercoledì 12 giugno 2013

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