Si può insegnare, l’utopia? Ugo Arcuri, l’indimenticabile “maestro”dedito alla modernità con salde radici nel passato

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Educazione dell’individuo, cultura, lavoro, lotta alla subalternaza ed alla illegalità, cambiamento: l’asse del suo pensiero

di
Donatella Arcuri
(Articolo pubblicato su Lettere Meridiane, n. 34 Dicembre 2013
Franco Arcidiaco editore,
Citta’ del Sole Edizioni S.a.S.

Quando cerco di fissare il ricordo di mio padre – ed in questi giorni1 lo sto facendo su invito degli amici dell’Istituto “Ugo Arcuri” – il criterio principe con cui assemblare le immagini mi sembra essere questo: lui, cosa ne avrebbe detto? Non costruirò queste pagine come uno scrigno di ricordi privati: il ricordo personale è una specie di oggetto infiammabile se acceso, e di troppo friabile se spento, comunque troppo dentro i percorsi oscuri dei sentimenti e – primo tra questi – della nostalgia. Vorrei piuttosto offrire ai lettori una sua immagine per così dire “a mezza costa”, non sulle alture della teoria, ma neppure nelle valli profonde del personale. Difficile comunque contenere questo ricordo in uno spazio e in un tempo e sfuggire alla sensazione che Ugo Arcuri non abbia affatto abbandonato il mondo dei vivi: vi entra anzi con il suo talento delle parole chiare e piane, il suo talento innato per la verità e la sua fede in ideali che travalicano ogni moda effimera.
In questi anni, nell’ininterrotto omaggio e ricordo che gli è stato tributato, lo si è spesso chiamato “maestro”. È ormai un luogo comune quello per il quale nel nostro tempo abbondano i professori e scarseggiano i maestri: ed è proprio da questo punto che vorrei partire per ricordarlo e ricostruirne l’immagine che propriamente mi appartiene, ancora a distanza di trent’anni.
Una scena descritta da Platone nel “Protagora” mi ha sempre fatto pensare al suo stile. Il giovane Ipparco è pieno di emozione per l’arrivo ad Atene del celebre Protagora, un sofista straniero e alla moda, da cui ci si attendono lezioni straordinarie (a pagamento). Socrate è qui chiamato in causa da Platone per smontare questa ingenua aspettativa: la prima dote di un buon maestro è quella di non darsi troppa importanza. Proprio così. La banalità ininterrotta, la prosopopea e la seriosità del tutto infondata di molti intellettuali e presunti maestri dei nostri tempi- a questo proposito – colpiscono chi ha conosciuto certi aspetti dell’insegnamento di Ugo Arcuri, il suo grande talento divulgativo, una semplicità e chiarezza (mi verrebbe da dire una chiarità) che ho poi difficilmente trovato, nella mia vita di allieva ed insegnante, una leggerezza ed insieme una grande forza nel trattare ed anche nel manipolare temi cruciali di storia del pensiero, un uso direi scanzonato ed innocente di metafore didattiche che sono state una sua cifra decisamente irresistibile. Ma, parlando di magistero, bisognerà pur dire – infine – in che cosa esattamente è consistito il suo insegnamento, al di là delle mode transitorie che la sua vita ha attraversato. Personalmente credo che la sua libertà di giudizio, rispetto al suo tempo ed anche rispetto al suo spazio – se così si può dire – siano stati un grande insegnamento. Lo è stato di certo, in tempi in cui dominavano miti egualitari ma non particolarmente liberali, il suo fortissimo senso della libertà, ma anche della responsabilità del singolo individuo, quella non delegabile ad alcuna Storia ed alcuna Struttura, e dell’impegno di ciascun individuo a migliorare il pezzetto di mondo nel luogo in cui il caso lo ha deposto. Si potrebbe obiettare che questo sarebbe bastato per fare di lui un liberale, ma il punto è che non ignorava affatto l’altra metà del cerchio: non credeva però che fosse possibile – e giusta – la militarizzazione dell’eguaglianza che i tempi proponevano.
Ma questi temi riguardano e riportano circolarmente alla visione che Ugo Arcuri aveva della scuola. Il centro propulsore di tutte queste accennate convinzioni era il senso che egli attribuiva all’opera della scuola e dei buoni insegnanti: giudizio complementare e speculare rispetto a quello, che allora appariva forse debole e antiquato, sull’astrattezza marxista della struttura e sulla sostanziale inutilità di tutti i sistemi filosofici non fondati – appunto – sulla persona e sull’individuo, sulla sua possibile educazione al dialogo e al riconoscimento dell’altro.
C’è una concorrenza spietata nel settore delle profezie, ma credo di poter dire con certezza che, se avesse costruito un sistema, cosa che non ha avuto il tempo di fare, ma forse non avrebbe comunque fatto, la scuola ne sarebbe stata il centro. Come il Don Milani della scuola di Barbiana, Ugo Arcuri pensava all’educazione e all’istruzione come all’unico vero potere dei senza potere, grimaldello dell’unico vero “rovesciamento” rivoluzionario della condizione di subalternanza. La scuola dunque: non tanto un’istituzione con tutti i suoi necessari paludamenti, ma il luogo di tutti gli interrogativi e di tutte le metamorfosi, il centro di una mobilità sociale e di una cultura che – sole – tengono in piedi la democrazia, la legalità e persino la possibilità di dare scacco al destino. Non che condividesse l’illusione dei tardi anni ‘60, che la scuola cioè dovesse liberare gli istinti piuttosto che educarli, ma era per una scuola “liberata” a sua volta, cioè per uno spazio in cui possono regnare il pensiero e la contraddizione, non una risposta definitiva e autoritaria al problema e all’interrogativo morale, ma la possibilità e il dialogo su quell’interrogativo. La libertà era per lui il luogo dove solo può sorgere l’idea dell’eguaglianza ed anche – appunto – la domanda su ciò in cui essa consiste. Scuola e spazio della coscienza individuale, quello dove tutto accade, dove tutto comincia… Sarebbero forse bastati pochi anni, al di là del fragile crinale degli anni ‘70, in cui anche nei licei di provincia cominciava ad emergere un profilo antropologico di studente proprio della nascente società di massa, sarebbero davvero bastati pochi anni per disilludere profondamente Ugo Arcuri. Ma anche qui – forse – prima o poi le armi di Achille saranno restituite ad Aiace: in fin dei conti possiamo immaginare l’esagitato Brunetta non molto diverso da quel famoso senatore Tomè con cui, negli anni ‘50, Ugo Arcuri sostenne un coraggiosissimo – anzi temerario – scontro giudiziario respingendone le stesse accuse sfrontate, mosse oggi alla scuola, di albergare incapaci, fannulloni e gente che guadagna un pacco di soldi. Anche oggi, in effetti e contro tutte le aspettative, restituire serietà ed autorevolezza alla scuola potrebbe essere un serio segnale di controtendenza rispetto allo sfacelo morale e culturale figlio della trasformazione antropologica elaborata negli studi di Mediaset, nei centri commerciali, in una cultura biecamente ignorante, edonista, immeritocratica.
Alla scuola, al primato dell’individuo come luogo dal quale partire ed al quale arrivare, più ancora che ad un sistema teorico e/o ad una rete di riferimenti teorici, riporta anche la sua fede pacifista ed antimilitarista. Poiché la guerra comincia nell’animo dell’uomo, è da qui che bisogna partire, da quel famoso “foro interiore” di agostiniana memoria, che era sempre nei suoi pensieri, da un disarmo degli animi, ma anche da quella rivolta delle coscienze che era stato il grande insegnamento di Gandhi e di Capitini. I “medaglioni” cui stava lavorando negli ultimi mesi della sua vita, piccoli ritratti di grandi pacifisti e profeti (in particolare mi ricordo di aver discusso con lui dell’esperimento pedagogico libertario di Jasnaja Poliana) – avrebbero probabilmente chiarito più precisamente questo punto e ricostruito l’asse al quale – a me sembra – Ugo Arcuri pensava: educazione dell’individuo, cultura, lavoro, lotta alla subalternanza ed alla illegalità, cambiamento. Facile inferire che questi stessi elementi erano, da sempre, quelli di una possibile ricostruzione dei termini della complicata faccenda che allora si chiamava, al singolare, “questione meridionale”. Ed anche lì tutti gli elementi del quadro sono oggi radicalmente cambiati, ma solo nella ricostruzione storico sociologica, poiché il menù culturale della Calabria è invece, più o meno, lo stesso: politica famelica ed acefala, intrecci familistici soffocanti, dominio incontrollato della malavita e dell’incultura, con l’aggravante di un’economia dopata da canali di approvvigionamento del tutto illegali. Ma anche qui i deboli segnali di speranza, emessi di tanto in tanto dal fondo delle tenebre, non sono certo attribuibili ad alcun sistema ed alcuna istituzione, ma alla capacità di indignazione e rivolta di singoli individui, gruppi, movimenti, in gran parte giovanili.
Ma erano anni – quelli ‘60 e ‘70 – in cui le serene convinzioni di Ugo Arcuri dovevano reggere l’urto di un tumulto ideologico, sociale esistenziale assolutamente travolgente: da molti segmenti di quel tumulto anche mio padre accettò con entusiasmo di farsi travolgere, ma non dalle fedi teologiche ed acritiche dei tempi, non dalle propensioni collettive – e non solo giovanili – ad assumere mitologie che gli apparivano pericolosamente idolatre, e non soltanto perché coltivavano una violenza o l’altra.
Il mondo giovanile, io stessa in testa, immerso nelle tenebre della giovinezza, brandiva allora la magia sinistra e metafisica della parola “struttura” e, contro quelle che sembravano teorie idealiste e crociane (peraltro conosciute di seconda e terza mano), sguainava un Marx utilizzato altrettanto sconsideratamente ed ignorantemente. Alle virtù taumaturgiche del verbo marxista leninista, mio padre si ribellava con energia, ma non certo in nome dello status quo: in questi ultimi anni i suoi amici fedeli (come Vincenzo Fusco) e – spero me lo si consenta – i suoi figli vicari (come Francesco Adornato) hanno spiegato, molto meglio di come potrei farlo io in questa sede, i motivi della sua resistenza ad accogliere le nostre vulgate e la pretesa di esclusività del verbo marxista rispetto ad altre ipotesi e altre tradizioni di pensiero rivoluzionario, prima tra tutte quella libertaria ed anarchica. Credo, e con questo so di incrinare una versione accreditata dei fatti, che Ugo Arcuri fosse in fondo un empirista, e che i sommovimenti violenti, le palingenesi radicali gli apparissero, un po’ come al Dostojewskj dei Demoni, il segno di un odio profondo nei confronti della realtà. Ma alla realtà – invece – Ugo Arcuri era profondamente legato, forse anche per il peso della sua malattia. Con buona approssimazione posso dire che non si faceva illusioni, né politiche né religiose: e tuttavia non ha permesso a se stesso nessuna incrinatura del piacere intellettuale, della gioia di vivere, della libertà di giudizio, col suo particolare dono di distillare serenità dalla tenebra e di fidarsi – appunto – della nostra fragile umanità, molto più di qualsiasi divinità e molto più di qualsiasi palingenesi.
Occorre forse ricordare, contro una tradizione forse un po’ oleografica che lo ha riguardato, che Ugo Arcuri non ignorava affatto il principio di real-politica, secondo il quale ogni rivoluzione ha il suo momento conservatore: infatti, e forse in virtù di questa lungimiranza, era spesso un po’ più in là, con sorridente e bonario scetticismo, rispetto a tutti i miti, più o meno estemporanei, del suo tempo. Credo che il mito del 5° Centro siderurgico sia stata l’unica sua vera forma di coincidenza con certa cultura operaistica che non era certo nelle sue corde. Alla metà degli anni ‘70 uno dei primi ecologisti del tempo, Franco Nebbia, venne in visita da noi: lo portammo in giro per la Piana, lui e Vittorio Emiliani, poi direttore del Messaggero ed allora esperto di beni ambientali e culturali. Si discuteva del 5° Centro siderurgico, promessa politica seguita alla drammatica rivolta reggina del ‘70. Nebbia, estasiato dalle distese di ulivi e rapito da quei sottoboschi, così tipici e folti, di piccoli agrumi, si diceva orripilato dall’idea di un’industria ad alto impatto ambientale, che avrebbe in pochi anni fatto il deserto dove splendeva tutto quell’oro grigio verde. Mi ricordo mio padre difendere, contro quei miti naturisti e romantici, le ragioni del progresso: il lavoro, la cultura del fare piuttosto che quella della collera permanente e del lamento, l’uscita della Calabria dall’eterno stato di minorità in cui una classe politica incapace e corrotta l’aveva da sempre abbandonata.
Non posso non ricordare, di quegli anni, la passione con cui Ugo Arcuri condivise le battaglie civili di quella stagione. Certamente non ignorava affatto il dolore e gli strappi che divorzio ed aborto portano nella vita personale, ma era per un sistema di regole che mantenessero le convinzioni religiose nel luogo in cui la loro stessa natura le predisponeva a restare, cioè ancora una volta la coscienza dell’uomo e non le leggi dello stato (stiamo ancora constatando a sufficienza quanto sarebbe utile attenersi a questo sano principio).
Infine non si può chiudere il cerchio senza toccare un tema così intimamente legato a quegli anni, come una sorta di carbonio 14, e così propriamente ad Ugo Arcuri. Oggi il termine “tolleranza” – com’è noto – appare desueto ed implausibile, evocando benevole concessioni ai “diversi” e – di nuovo – gerarchie etniche e sociali non abbandonabili né abbandonate. I tolleranti appaiono retaggi di una sorta di paternalistico assolutismo illuminato che sarebbe politicamente corretto deporre a favore di reciproci riconoscimenti, rispetti, confronti. Ma, al di là delle controversie non dico infondate e nominalistiche ma forse sovrastrutturali, resta il dato di fatto, ineludibile, di un mondo che formula accuse di clandestinità, che ricostruisce ghetti e separatezze dovunque, che non soltanto non “tollera”, ma esclude con ferocia inaudita. Tornando dunque all’apertura del cerchio… cosa ne avrebbe detto lui? Temo di dover concludere che oggi, per leggere questo mondo del terzo millennio e contro la barbarie della sordità collettiva, non sarebbero sufficienti la sua vena tolstojana, né i suoi studi su Capitini, né la sua fiducia nelle risorse immunitarie suscitate dall’educazione e dal lavoro; né la sua raffinata e un po’ malinconica vena estetica. Inattuali e radicali ieri, i suoi valori morali appaiono – oggi – quelli di una tradizione, ma soprattutto di una speranza scomparsa: valori disarmati ed inermi, non più innestabili nella nuova superficie extralight sulla quale vaghiamo.
Navigatore solitario, ma forse non quanto oggi sembri, Ugo Arcuri appare come un uomo dedito, nel breve spazio dei suoi paeselli, ad una modernità con salde radici nel passato, in un tempo che coltivava l’austerità senza avarizia ed una sobrietà piena di discrezione. Cosa ne avrebbe detto lui di questo mondo sovraffollato, in cui distese di merci, ettari di cose, parole ed oggetti indifferenti ci possiedono e di cui non sappiamo dove smaltire i rifiuti? Penso che questa cattiva modernità non gli piacerebbe affatto e mi dico anzi – a questo proposito – che tutto questo risveglierebbe in lui non solo e non tanto un rigurgito di filosofico pessimismo cosmico, ma anche un moto di disobbedienza civile.
Vorrei concludere con due brevi ricordi personali, ma non troppo, che trovo assolutamente illuminanti. Il primo riguarda una breve ed intensa poesia di Eluard che gli era stata inviata, in uno dei suoi ricorrenti, affettuosi biglietti, da Francesco Adornato, suo affezionatissimo:

Vivendo in un borgo tranquillo/ dove la via muove, lunga e dura, ad un luogo di lacrime e sangue/ noi siamo puri/ sono tiepide e calme le notti / e a quelli che ci amano /verrà da noi/ questa preziosa fedeltà suprema/ la speranza della vita

Discutemmo di quel luogo di lacrime e sangue che a me, banalmente, sembrava la morte. Ma la morte – lui disse – non è affatto un luogo di lacrime e sangue. Non ricordo purtroppo come andò a finire quella conversazione e se ne venne fuori altro, ma vorrei fermarmi su un’immagine che nel tempo mi sembra ancora legata a quella speranza della vita evocata da Eluard: mio padre e suo fratello Armando, di fedi politiche assai diverse e neppure complementari, seduti sul terrazzo della nostra casa a discutere di politica, in un mattino d’estate, davanti ad una forma di pecorino: uno tagliava e l’altro raddrizzava. La forma spariva in tempi brevi (proverbiali mangiatori di formaggio, gli Arcuri, in tempi in cui si ignorava tutto del tasso di colesterolo) e nessuno aveva convinto l’altro dei propri argomenti: ma i toni restavano quelli di un bonario rispetto e di una ironica, sorridente attenzione reciproca. Ecco… mi sembra del tutto tramontata proprio la possibilità di quello sguardo attento, e di un piccolo spazio vuoto tra le cose, dove lasciare che l’altro si esprima: il rumore del mondo appare assordante, impedisce ogni reciproco ascolto e – se non fosse espressione di una forse troppo rozza geometria – direi che l’al di qua che abbiamo costruito in questi trent’anni somiglia molto, ma proprio molto, ad un luogo di lacrime e sangue.

1 ​Questo scritto è stato ultimato nell’inverno 2008, in occasione dei 30 anni dalla morte di Ugo Arcuri, ma non pubblicato a causa delle successive vicende della rivista alla quale era destinato.

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