Archivi categoria: Aforismi

Aforismi politici di Tommaso Campanella

Aforismi cresciuti nel nulla.

di Maria Elisabetta Curtosi

E’ necessario, in questo notro “strano” momento storico, riprendere il testo “Discorso sopra i costumi presenti degli italiani” di Giacomo Leopardi in cui collegava il nostro ridere con il nostro cinismo, col nostro spirito di sopraffazione, con la nostra assenza di “conversazione”, termine che deriva dal Settecento di cui s’è persa l’originale pregnanza semantica che non vuol dire solo scambio pacato di opinioni con rispetto dei turni ma anche socievolezza, buone maniere, saper stare al mondo.

 
<< In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie il persiflage [la canzonatura e la presa in giro] , cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia. Quest’è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca. Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo di più mondo, e considerato superiore agli altri nelle maniere e nella conversazione, quando altrove sarebbe considerato per il più insopportabile, e il più alieno dal modo di conversare. Gl’italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout [spingersi agli estremi]colle parole, più di alcun’altra nazione. Il persiflage degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e pe lo più del grossolano, ed una specie di polissonnerie [marachella, atto di monello], ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di raillerie. I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa.
Gl’italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di sé stessi e per conseguenza di voi >>.

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (Giacomo Leopardi)

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“Mi viene da sorridere…”

“Mi viene da sorridere a pensare quanto ci sia della vita in quei rompicapi, anche sotto il profilo estetico.

Quando nasci ti tirano a sorte. E’ solo una questione di culo la pagina dove vai a finire. Da quel punto ci sono poi il bianco e il nero, gli spazi vuoti da cui cacciare le incognite, le lettere pronte a qualunque calligrafia, ognuna nella sua casella con la presunzione di essere importante. Per poi rendersi conto che non è nulla senza tutte le altre.

In fondo è solo questo che siamo: orizzontali e verticali. Una semplice serie di atteggiamenti e di posizioni, parole che si incrociano mentre camminiamo, dormiamo, giochiamo, facciamo l’amore, torniamo a casa con i brividi e cadiamo nel letto ammalati. Finché un giorno tutto si omologa e ci si rende conto che l’enigma, quello che si sta provando a risolvere da tanto e con tanta fatica, non potrà mai esssere risolto.”

(G. Faletti, Appunti di un venditore di donne)

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Il sapore dell’estate

di Maria Elisabetta Curtosi

Ho trovato tra le carte queste poche strofe, non so chi le ha composte e di certo non me ne approprio indebitamente, però è un peccato non scriverele, perciò:

Il profumo del mare, il silenzio dei pesci,
l’odore del sale, il caldo sole d’agosto,

l’abbraccio dalla sabbia, l’amore di chi ci sta intorno,
la carezza di un padre, il sorriso di nostra madre.

Le urla dei bambini, il gusto fresco dell’anguria,
il canto del vento che accarezza la sabbia.

L’odore del pesce fresco appena grigliato;
gocce di limone sulle nostre labbra.

La nostra vita piena di sapore,
il nostro sguardo che non muore,
le nostre mani pien d’amore.

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Leggere: un tesoro.

di Maria Elisabetta Curtosi

L’invito a leggere da qualche tempo è sparito nel nulla, sarà forse perchè il buon vecchio libro di carta stampata è stato deposto per dare spazio alle nuove tecnologie sempre più sottili, pratiche, perfette insomma . D’altra parte chi ce la fa fare a portarci, in metro magari, un “peso” come Guerra e Pace di Tolstoj? L’importante è che non si smetta mai di leggere.

Leggere, in fondo,non vuol dire altro che creare

un piccolo giardino all’interno della nostra memoria.

Ogni bel libro porta qualche elemento, un’aiuola, un viale,

una panchina sulla quale riposarsi quando si è stanchi.

Anno dopo anno, lettura dopo lettura, il giardino si trasforma in parco

…e, in questo parco, può capitare di trovarci qualcun altro…

Leggere non è un dovere, né un amaro calice da bere fino in fondo

con la speranza di chissà quali benefici.

Leggere vuol dire crearsi un proprio piccolo tesoro personale di ricordi e di emozioni,

un tesoro che non sarà uguale a quello di nessun altro

e che tuttavia potremo mettere in comune con altri.

{Cara Mathilda di Susanna Tamaro}

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I “Subnormali”

di Maria Elisabetta Curtosi

Charles Bukowski
Foto: huffingtonpost

In questo periodo non posso fare a meno di citare un grande autore  Charles Bukowski che come sempre ci stupisce con la sua schiettezza e sintassi breve quanto basta a trafiggere i cuori dei più.

 

 

“Nella società c’è sempre chi difende i subnormali  perché non si rende conto che i subnormali sono subnormali. 

E la ragione per cui non se ne rendono conto è che sono subnormali anche loro. 

Viviamo in una società subnormale e questo è il motivo per cui tutti si comportano come si comportano  e si fanno fra loro le cose che si fanno.

Ma questi sono fatti loro e a me non interessa, a parte il fatto che ci devo vivere insieme.”

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Camminando controvento

di Maria Elisabetta Curtosi

Ci sono donne che camminano controvento da una vita. Per questo riporto per intero una citazione di C. De Felice che mi ha piacevolmente colpito.

Ci sono donne che hanno occhi profondi e sconosciuti come oceani. Ci sono donne che cambiano pelle per amore..Ci sono donne che donano il loro cuore, per poi ritrovarsi a raccattarne i cocci da sole…Ci sono donne che in silenzio fanno ballare la propria anima su una spiaggia al tramonto…Se ti fermi un istante le puoi sorprendere, mentre lottano contro il proprio istinto…Mentre fanno passeggiare il proprio dolore a piedi nudi, affrontando onde che ad ogni mareggiata sono sempre più minacciose…Ci sono donne che chiudono gli occhi, ascoltando una musica lenta, che rende ancora più salate le loro lacrime…Ci sono donne che con orgoglio ma con il nodo in gola, rinunciano alla felicità…Ci sono donne che con i loro occhi fotografano quegli splendidi ma così fugaci attimi in cui si sentono abbracciate dall’amore,sperando di mantenerli vivi e colorati per sempre…Se apri gli occhi un istante le puoi osservare, mentre disseminano briciole di se stesse lungo il percorso verso quel treno che le porterà via, mentre urlano la loro rabbia contro vetri tremolanti di una casa diventata prigione…mentre sorridono di disperazione a chi le vorrebbe far tornare alla vita di sempre…Ci sono donne che non si fermano davanti a nulla… perché non troveranno mai la fine di quel filo…Ci sono donne che hanno fatto un nodo per ogni loro lacrima,sperando che arrivi qualcuno a scioglierli…Non fermare il cuore di una donna, niente vale di più. Non far piangere una donna, ogni lacrima è un po’ di lei stessa che se ne va…Non farla aspettare da sola ed impaurita seduta sul confine della pazzia e se la vuoi amare, fallo davvero,con tutto te stesso! Stringila e proteggila… lotta per lei, uccidi per lei, piangi con lei, donale il più bel raggio di sole,ogni giorno tieni sempre accesa quella luce nei suoi occhi,quella luce è speranza, è amore, è puro spirito. É vento, è la più bella stella di qualsiasi notte…

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La delusione

di Maria Elisabetta Curtosi

“Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione.
Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato. La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi. Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta. Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono.”
Oriana Fallaci

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“Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori.”

di Maria ELisabetta Curtosi

Informare per conoscere, capire e migliorare: sventolando per la prima volta la bandiera della verità – così scriveva Gian Pietro testa nel “mestiere del giornalista” – fascicoli in ottava, copertina gialla, questa era la <<Giovane Italia>> di Mazzini, sei quaderni, usciti dal 1832 al 1834.

La rivoluziona aveva aperto un esplorato territorio fino ad allora nella storia della democrazia: “l’uso di strumenti riservati al potere da parte di chi combatteva contro il privilegio dei pochi inaugurando così un processo davvero irreversibile”. Questo strumento così importante era il giornale, appunto. In questo contesto, fine Settecento, si aprì perciò la discussione sul significato filosofico di <<verità>> non in quanto assoluta , ma relativa ai fatti, “brandelli inalienabili della nostra realtà, e come  arma per affrontare altre verità spacciate per assolute e indiscutibili.

Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottar con la forza, perchè almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? […]- Se avete le braccia in catene, perchè inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui nè i tiranni nè la fortuna, arbitri d’ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poichè non potete opprimerli, mentre vivono, co’ pugnali, opprimeteli almeno con l’obbrobrio per tutti i secoli futuri.

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Illusioni perdute: letteratura e giornalismo.

di Mari Elisabetta Curtosi

<< La differenza tra letteratura e giornalismo? Il giornalismo è illeggibile e la letteratura non è letta. Questo è tutto>>. Come non riconoscere il tono perfido come sempre dello scrittore inglese Oscar Wilde in questo aforisma. Ma cosa vogliono dire le sue parole? Sicuramente il contesto è quello dell’Ottocento dove era diffusa l’opinione ( era la realtà) che il giornalista altro non era che un letterato… fallito, una professione di ripiego forse più lucrosa ma certamente la letteratura era l’unica attività “di penna degna di onore”  così scriveva Honorè de Balzac nelle “Illusioni Perdute” dove evidenziava il contrasto tra le due scelte di vita.

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L’ESERCIZIO ASCETICO VERSO LA LIBERTA’ MISTICA

DE TRISTITIA CHRISTI DI THOMAS MORE

di Maria Elisabetta Curtosi

Paura, preghiera, dolore fisico e sofferenza interiore. Siamo nel 1535 quando quel 6 luglio, dopo un lungo periodo di isolamento nelle carceri della Torre di Londra, Thomas More presto verrà decapitato. Conosciuto per le sue doti di politico rigoroso, colto umanista e pensatore, rimase alla storia per il suo capolavoro “Utopia”, ma fu anche un cristiano appassionato e fervido fedele.

A prova di ciò è importante citare il suo scritto “ De tristitia Christi” che nella traduzione in italiano è indicato come Gesù al Getsemani, in cui troviamo la Passio di Cristo, che agonizzante nell’orto degli ulivi, isolato dagli apostoli assonnati, supplichevole domanda al Padre << di allontanare il calice della sofferenza e della morte >>. Ma nella scena dell’arresto di Cristo il testo rimane incompiuto perché More viene allontanato dalla sua cella e gli vengono sottratti carta e inchiostro.

Così che la tristezza, il tradimento e la solitudine si fanno voci comuni di un solo grido di salvezza e consolazione sia per il Cristo, sia per l’integerrimo cancelliere del re tiranno d’Inghilterra Enrico VIII che vive gli stessi attimi nell’ultima fase della sua vita.

Un viaggio nella letteratura spirituale con grande accuratezza e acutezza è stato percorso da Mons. Gianfranco Ravasi che citando More propone un trittico che procede verso “il genio della mistica” Juan de la Cruz (Giovanni della Croce) e il suo scritto Salita al Monte Calvario dove predomina nell’oscurità del tema, <<l’eclisse della luce divina per cui l’anima procede in un gelido e drammatico cono d’ombra>>. Anche in quest’ opera incompiuta leggiamo la crisi dell’autore per un percorso troppo arduo nella contemplazione che porta ad una ascesa-ascesi di catarsi dello spirito e dei sensi -afferma Ravasi- che continua con un ultimo autore Jean-Joseph Surin che scrisse “Un Dio da gustare”, fu gesuita nel Seicento, afflitto da una grave malattia mentale e strane possessioni diaboliche nel monastero delle orsoline di Loudun di cui era cappellano, aveva grandi doti, non tanto nelle sue opere ma nel sua epistolario variegato e suggestivo, di intellettuale e mistico presto dimenticate per questi due eventi tragici.

Per questo Enzo Bolis offre un particolare ritratto di quest’autore definendolo un intelligente laico prematuramente scomparso; e Mino Bergamo lo indica come il più grande e dimenticato dei contemplativi seicenteschi, basta leggerlo una volta e non lo si abbandona più, proprio come una medicina efficace o un amico al quale chiedere consiglio.

Ravasi ne rimase particolarmente colpito e lo definì sotto un profilo << di raffinatezza letteraria che si coniuga con una teologia viva e intensa, l’esercizio ascetico sfocia nella gioiosa libertà mistica, il linguaggio spirituale illumina le vicende umane, l’esperienza interiore s’incrocia con la testimonianza operosa >> .

Concludiamo con uno tra i suoi eccezionali e razionali aforismi:

Che io possa avere la forza

Di cambiare le cose che possono cambiare,

che io possa avere la pazienza

di accettare le cose che non possono cambiare,

che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”

 

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