Terza edizione riveduta, nuovi capitoli e approfondimenti, una copertina giallo fosforescente, cento pagine riccamente illustrate con foto a colori e in bianco e nero, una prefazione di Rocco Cambareri, presentazioni di Giuseppe Braghò e Albert Bagno. Si intitola “Giganti – Cammelli di fuoco, ciucci e cavallucci nella tradizione popolare calabrese” ed è il nuovo libro, appena uscito in libreria, di Franco Vallone. Un percorso antropologico e storico che vede protagonisti i giganti processionali calabresi e i tanti animali da corteo che vengono “abballati” durante i giorni di festa. Jijante, gehante, gehanti, gihanta, giaganti: sono solo alcune delle denominazioni dei giganti nelle diverse aree della Calabria. In alcuni luoghi i due giganti vengono chiamati semplicemente giganti e gigantissa, in altri Mata e Grifone. In un’intervista, all’interno del film documentario I Gigantari, della regista Ella Pugliese, l’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani, spiega fra l’altro che «i giganti in questa forma non hanno un nome specifico perché in genere i giganti processionali che vengono “ballati” durante le feste dei nostri paesi calabresi vengono chiamati ’u giganti e ’a gigantissa, qualche volta ’u re e ’a regina, comunque, qualsiasi nome abbiano, il riferimento è alla coppia che costituisce i fondatori mitici della città. Sono gli antenati e quindi è come se la comunità facesse un passo indietro, risalisse al momento della sua origine, della sua fondazione, in modo che la vita venisse poi ripotenziata, rivivificata da questo richiamo alle origini. (…)». Il volume inizia partendo da una presentazione delle due alte figure: “Ti svegliano di prima mattina con i loro tamburi. In principio si fanno solo sentire, da lontano, ti comunicano che sono arrivati e che oggi non è un giorno qualsiasi. Poi lentamente si avvicinano e si fanno anche vedere. Oggi è festa, e loro devono aprire il tempo speciale che solo la festa può dare. Sono i giganti, esseri enormi, fantocci grandi, colorati, simulacri arcani, speciali, proprio come il tempo che rappresentano e simboleggiano. Li senti quindi, li senti arrivare in un crescendo del rullare dei tamburi che li accompagnano con il loro ritmo inconfondibile. Arrivano prorompenti spezzando il silenzio della quotidianità e annunciando la festa. Enormi esseri con l’anima d’uomo, immortali nel loro eterno rituale di corteggiamento, sono i simboli dell’amore. Sono i giganti, antichi re dal viso scuro, e bellissime regine dalla carnagione rosea. Poi il racconto prosegue descrivendo la coppia del gigante e della gigantessa che si prepara ad uscire in pubblico; rullano i tamburi. Le due alte e inquietanti figure danzano e si corteggiano. In un rituale antichissimo tracciano, per le strade del paese, un itinerario magico simbolico. La festa è il loro mondo, il ritmo la loro vita, la strada e la piazza il loro preordinato e ritualizzato movimento. I due giganti fanno parte di un’antica tradizione calabrese. L’antropologo Apollo Lumini, in Studi Calabresi, nel 1890, scrive tra l’altro: «per la festa della Madonna di Agosto, vidi già in Monteleone (l’odierna Vibo Valentia) il Gigante e la Gigantessa, ma non so se qui, come in Sicilia, sia per ricordare il re Ruggero vincitore dei Saraceni. Vidi pure un nuovo genere di fuochi artificiali fuori della città, alla Madonneja, nei quali, pupazzi incendiati, figuravano appunto un combattimento tra cristiani e infedeli. Almeno suppongo fosse così, perché tra le grandi risate che se ne fecero, e l’entusiasmo clamoroso del popolino, non mi curai di appurare le cose». Nel volume ci sono tutti i giganti del vibonese, da quelli di San Leo di Briatico a quelli di Porto Salvo, Dasà, Vena Media, Arzona, Joppolo, Mileto, Papaglionti e Cessaniti e non mancano le esperienze più giovani come quelle di Zungri, Vibo Marina, Briatico, Favelloni, Monterosso, San Costantino e Potenzoni di Briatico, Sciconidoni, San Cono, Sciconi… e poi ci sono gli animali da corteo. In Calabria durante le feste di paese vengono utilizzati diversi tipi di fantocci dalle forme animalesche. Colorati animali in cartapesta, stoffa o cartone, si conservano di anno in anno per essere riutilizzati e portati in processione nelle feste. Poi ci sono i simulacri di animali che a fine festeggiamenti vengono incendiati e quelli preparati in modo da funzionare come macchine sceniche esplodenti capaci di produrre giochi pirotecnici di luci, scintille e rumori assordanti. Alcuni di questi animali accompagnano il ballo dei giganti, altri vengono ballati a fine serata per chiudere la festa. Molto spesso nella nostra regione il ballo dei giganti è accompagnato dal ballo del cameju, del ciucciu o del cavaju. Fantocci di cammelli, cavallucci o asini, ma anche d’elefanti, giraffe e dromedari, simbolici animali grotteschi che nel finale delle feste si esibiscono in un pirotecnico ballo di fuoco purificatore.
Archivi categoria: Tradizioni
Omaggio a Vittorio De Seta
Numero (Anno VII n° 1-8/ 2013) speciale di Abolire la miseria della Calabria dedicato al Maestro del film documentario mondiale scomparso in Sellia Marina il 28 novembre 2011. Speciale alta risoluzione – speciale media risoluzione
A Bova anche quest’anno la suggestiva Processione della Domenica delle Palme
di Carmelo Giuseppe Nucera (*)
Come ogni anno la città di Bova commemora l’ingresso di Cristo a Gerusalemme, con la suggestiva Processione della Domenica delle Palme. L’antico rito, di cui si ignorano le origini, consiste nel realizzare Palme a forma di figure femminili, intrecciate con foglie di ulivo e addobbate con fiori, frutta e primizie.
Una processione rara, diversa da tutte le altre, in cui la partecipazione religiosa dei fedeli emoziona quanto le suggestione che emanano questi simboli della cultura popolare grecanica.
Domenica 24 Marzo 2013, alle ore 10:00, le ancestrali sculture vegetali si riuniranno in Piazza Roma a Bova per giungere in corteo al Santuario di San Leo, dove saranno benedette. Da qui sfileranno in una sacra processione per le vie medievali del borgo fino ad arrivare nella Concattedrale dell’Isodia, riaperta al culto dopo quindici anni di restauri. La liturgia della Domenica delle Palme di Bova, tornerà quindi a celebrarsi nell’edificio in cui nel 1572 si mise fine al rito greco e s’intraprese la latinizzazione dell’intera diocesi. Un luogo pieno di fascino, testimone della storia bovese e dell’antica tradizione di costruire sagome femminili per celebrare la Domenica delle Palme.
In questa straordinaria processione i temi della Pasqua Cristiana nascondono, infatti, tracce di feste liturgiche del mondo ortodosso bizantino, ma anche ricordi di universi ancora più lontani, radicati nel contesto rurale delle comunità grecaniche di questi versanti aspromontani. Le Palme di Bova commemorano i riti di passaggio dall’inverno alla primavera, il ciclo della vita, la fertilità dei campi e il rapporto di Bova con le campagne circostanti.
Un evento ricco di stratificazioni simboliche in cui non mancano riferimenti ai miti dell’Aspromonte Greco, alle figure mitologiche di Demetra e Persefone, alle grandi madri del Neolitico, senza escludere le entità femminili che sopravvivono nella tradizione contadina della Bovesia in cui la donna, occupa sempre un ruolo centrale. Significative in tal senso solo le immagini femminili in alcuni dolci (‘ngute), e formaggi (musulapare) che si preparano nel periodo pasquale. Emblematica è la leggenda della fondazione stessa della città di Bova ad opera di una regina, la cui impronta è impressa sulla rocca del castello.
Le palme di Bova sono quindi il simbolo più significativo della cultura magno greca e bizantina dell’Area Grecanica, soprattutto della sua viscerale vocazione rurale. Ma il rito pasquale ha anche il primato di incarnare la rinascita stessa di Bova, il quale negli ultimi anni ha saputo recuperare non solo il suo centro storico ma anche un tassello della propria identità, mantenendo inalterato il valore spirituale e religioso delle sue tradizioni. Il rito delle Processione delle Palme è una finestra dalla quale osservare combinazioni e mescolanze di miti e tradizioni, mondi lontani e sotterranei, sincretismi religiosi e culturali, mitologie antiche e moderne.
Come vuole la tradizione le figure antropomorfe lasceranno la Concattedrale dell’Isodia per portarsi verso le ore 12:00 in piazza Roma, dove verranno smembrate. Ogni singola parte che costituisce la palma, detta “steddha”, verrà quindi offerta ai fedeli, nella meravigliosa cornice dell’agorà di Bova.
Alla festa religiosa seguono gli eventi organizzati dal Comune di Bova in collaborazione con l’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte, la Parrocchia di San Teodoro, il comitato provinciale delle Croce Rossa Italiana di Reggio Calabria, sede locale di Bova. Al termine del rito, promosso anche grazie l’Assessorato alla Cultura delle Regione Calabria e patrocinato della Provincia di Reggio Calabria saranno offerti i dolci tradizionali pasquali “ngute” mentre alle ore 17:00 si terrà un convegno presso Palazzo Mesiani Mezzacuva, all’interno del quale è allestita una mostra sul rito pasquale bovese. L’incontro, dal titolo, “Natura sacra: i riti della Settimana Santa nell’Aspromonte Greco”, è un occasione per esaminare la processione bovese ma soprattutto per contestualizzare l’evento religioso all’interno della Settimana Santa dell’Aspromonte, al fine di mettere in luce, le matrici comuni che fanno di questi riti un momento di grande interesse spirituale ma anche un volano culturale di respiro internazionale. Ai saluti del Sindaco di Bova, Santo Casile, del Vicesindaco Gianfranco Marino, e di Antonio Alvaro, Presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, seguiranno gli interventi della dott.ssa Anna Maria Zurzolo, redattrice, per la provincia di Reggio Calabria, degli itinerari religiosi nell’Aspromonte, della dott.ssa Rossella Agostino, responsabile della Soprintendenza dei Beni Archeologici della Calabria; di Fulvio Librandi, docente di Antropologia presso l’Università della Calabria, dell’antropologo Roberto Lucifero, direttore Centro Studi Cappella Orsini, Antonio Blandi, editore, Pasquale Faenza, Conservatore dei Beni Culturali e Storico dell’Arte.
Nell’ambito del convegno, in cui sarà presentato per la prima volta il video sui “Misteri” di Cittanova, il Sindaco di Bova omaggerà di una Palma il comune di Bova Marina al fine di ribadire le comuni origini dei due centri. Il bene etnografico sarà esposto presso il Centro di Documentazione del ParcoArcheoderi, dov’è parte integrante di un allestimento museale che pone la Palma di Bova a simbolo della minoranza storico linguistica dei Greci di Calabria. All’incontro saranno partecipi i sindaci di tutta l’area grecanica.
* Presidente del Circolo di Cultura Greca Apodiafazz
Tra l’America e la Calabria
di Maria Elisabetta Curtosi
“Tutte le mattine passavo in traghetto davanti alla Statua della Libertà e a Ellis Island, e ripensavo ai miei all’epoca in cui erano approdati in questo paese: erano emozionati come lo ero io arrivando al porto in quella prima mattina d’ottobre? ”. Frank McCourt, nel suo libro ” Che Paese, l’America” ( Adelphi,442 pagine,19 euro).
Una domanda alla quale non c’è risposta e che interessa milioni d’italiani partiti verso la fine dell’Ottocento al di là dell’oceano per motivi di lavoro e non solo.
I versi di Michele Pane, poeta calabrese non hanno bisogno di commenti. << Maju addurusu,tu chi ‘mbuoschi l’arvului de lu coluri bellu d’a speranza, rinvirdi u cori miu chinu di triguli,fallu sonari n’tra vota tu.?mulicammillu ccu pampini tennari,frischi di l’acquazzina- cum’è usanza-pè sanari li piaghi chi lu vruscianu, ca niujia medicina cci poti cchiù: majiu addurusu e menta di papaveri, di suia,di murtijia e nepitella, fammi tu risbigghiari dintra st’anima tutto l’adduri d’amia gioventù; fammi penzari sempi sempi mammama achijia cara vecchiarejia chi m’aspetta, suspira, chianti, spantica pecchi si spagna ca no tornu cchiù.Majiua addurusu mio fammi tu sentere n’atra vota la notti i vrisnignoli e alla matina i rondini e li passeri comu i sentia quando era jia, fammi vidimi ancora ntra li ticini di li picchi e di li torturi lu volu e u scrusciu di funtani fammi sentiri nò lu forti rumuri di sta città>>.
Un passato di miseria e mortificazione molto simile al presente degli altri.
Storie di uomini e santi
di Maria Elisabetta Curtosi
Migliaia di “fedeli” tanto tempo fa accorrevano a Pannàconi, in Calabria, dove un uomo aveva scoperto una “fonte miracolosa” e affermava di parlare con la Vergine.
“ LA MADONNA MI HA DETTO: DAI, FAMMI UNA CHIESA”.
Racconta Domenico Bucci: “Ho costruito il tempio accanto a una sorgente di acqua benedetta, proprio dove voleva la Madonna quando mi apparve per la prima volta. Sono un guaritore e un veggente”. Per capire le malattie spiega che ha come suggeritori i Santi Cosma e Damiano: “Senza il loro aiuto non potrei fare nulla perché non conosco il corpo umano”. Mette in contatto i vivi con i defunti e ha anche scritto un “vangelo” perché, dice, ha “un filo diretto” col cielo.
Il “tempio dei miracoli”, sorge a un limitare di un sentiero che scende impervio,tra olivi secolari e cespugli di rovi. E’ un edificio di gusto grossolano, moderno, inadeguato ai colori sommessi di questa campagna dallo spirito persistentemente antico. Ma il suo instancabile costruttore ne parla con fierezza.” L’ho realizzato accanto a una sorgente d’acqua benedetta, proprio dove voleva la madonna” ci spiega in un dialetto difficile da comprendere.” E’ stata lei stessa, quando mi è apparsa per la prima volta, suggerire le indicazioni necessarie. Al resto ho pensato io. Lavorando da solo e tra mille ostacoli”. L’uomo a questo punto s’interrompe bruscamente per indicare i preliminari cui dobbiamo sottoporci prima di dialogare con lui. Si tratta di un semplice rituale, obbligatorio per chiunque si accosti a questo luogo “sacro”: una breve sosta di preghiera in chiesa, la bevuta purificatrice presso la fonte, infine l’incontro con lui. Domenico Antonio Bucci, inviato del Signore. Se sia un veggente, un guaritore o più semplicemente un impostore è difficile stabilirlo, perché si tratta di un “fenomeno” troppo recente. Ma è un fatto indiscutibile oramai,che la fama di quest’uomo sta dilagando nelle città e campagne della Calabria e sta già rimbalzando oltre i confini della regione. I suoi” fedeli” non si contano più. Vengono da ogni parte per sottoporgli quesiti di ordine medico e problemi di carattere personale, per cercare conferme e conforto.
E lui risponde a tutti, senza stancarsi di ripetere che ogni parola gli viene suggerita dall’alto, dalla Madonna e dai santi con cui entra di volta in volta in contatto. Anche la nostra visita gli era stata preannunciata, dice. Cosi, mentre ci apprestiamo a dialogare con lui,riusciamo a studiare da vicino questo personaggio carismatico. Una figura comune, nell’aspetto, a tante altre dell’universo contadino della Calabria. Un uomo piccolo, asciutto, vestito in modo dimesso e con il volto segnato dall’età e dalla sofferenza. Pure la storia della sua vita non sembra discostarsi dalle vicissitudini di tanti altri che da questa regione sono stati costretti a emigrare per sfuggire agli stenti. E lui stesso a raccontarla. “Ho sessantasette anni, sono di origine molisana ma ho trascorso la mia infanzia qui, a Pannàconi. La miseria mi ha spinto, quando già ero sposato e con un figlio, a tentare la fortuna in Brasile. Sono partito solo e senza soldi. Anche laggiù ho dovuto penare per essere assunto come operaio. Il lavoro era massacrante e cosi,quando la mia salute è andata peggiorando, sono stato licenziato. Nel frattempo, qualche mese dopo il mio arrivo, anche mia moglie si è ammalata gravemente. Ho passato dei mesi interminabili ad accudirla in ospedale e a piangere sulla nostra situazione. Un giorno poi ero particolarmente depresso e mi sono trovato a sfogliare la Bibbia e a cercare di leggerla, tra mille difficoltà. Improvvisamente una luce accecante ha inondato la stanza. L’episodio si è ripetuto per tre giorni consecutivi e qualcosa che non so definire mi ha portato a credere che si trattasse di una manifestazione dello Spirito Santo. Da quel momento ho cominciato a dedicarmi al prossimo”.
Emigrazioni in America
Emigrazioni verso le Americhe o verso il Nord Europa : molti recitavano a memoria alcuni versi di Enotrio Pugliese, genuino ed immenso artista calabrese, anch’esso figlio di emigranti:
“Quando nascivi patrima era a Merica.
Fici u sordatu e patrima era a Merica.
Vinneru i figghji e patria era a Merica.
Mama moriu e patria era a Merica.
Aguannu tornau patrima d’a Merica pe nommu mori a Merica”.
Dal paiolo al labirinto: storia e storie
di Francesco Santopolo
Premessa
La scelta di presentare contemporaneamnte quattro libri apparentemente diversi, nasce dall’esigenza di spiegare le ragioni della scrittura e trovare il filo rosso che tiene insieme un raccolta di versi, due “diari” a percorso differente e una vicenda in cui la biografia di una protagonista, diventata un’icona delle lotte democratiche del dopoguerra, è assunta a simbolo della storia dei subalterni in Calabria.
C’è, altrettanto importante, una seconda motivazione che giustifica questa scelta: questi libri meritano di essere letti ma riteniamo che non abbiano avuto e potrebbero non avere sufficiente diffusione.
Poetica e anti- poetica
Se partiamo dall’idea- cara a formalisti e strutturalisti- che «oggetto della poetica non è il testo letterario in se stesso, bensì […] la sua “letterarietà”» (Chatman, 2010), significa che prima della “qualità” di un’opera è necessario definire e collocare l’opera stessa.
Quando Jakobson scrive del Macbeth che il problema non è quello di stabilire se è un capolavoro ma piuttosto quali sono gli elementi che ci portano a definirlo una tragedia (in Chatman, l. c.), apre un problema non da poco per l’analisi poetica.
Ed è il problema che ci troviamo davanti con il libro di versi di Rosanna Talarico (Labirinti ed io dispersa), per tentare, prima di ogni giudizio critico, di cogliere gli elementi che ci consentono di definirlo un libro di poesia. L’autrice è nata a Cerva, nell’alta montagna interna della Presila catanzarese e da qui si è mossa verso spazi ambiziosi e, in qualche modo, laceranti.
Dopo essersi laureata alla “Bocconi” è andata a vivere a Parigi.
Due mondi lontani dalle sue radici e in cui la “matematica certezza” del dubbio si trasforma nella solitudine di un “lacerante immenso”.
L’autrice vive una condizione in qualche modo estraniante e, sebbene eviti di parlare in modo esplicito dei boschi e delle montagne, che pure ha nel cuore, risolve la propria esistenza in “Parentesi/graffe/dubbi” e solo la sera può abbandonarsi alla “vista sul mondo illuminato/dalla cima della montagna”.
Oppure può osservare che “i fiori crescono/inerpicandosi/sulle pareti del mondo”, quel mondo cui più non appartiene, ormai calata “nel rumore/di soffocante caos” fatto di “Volti, cemento, frenesia” che le fanno pensare con nostalgia a “strade/tra verdi montagne” e a “gente di poche ambizioni/ semplicità e silenzio”.
In altre parole, le sue strade e la sua gente. La poesia, in fondo, è uno dei tanti modi per guardare il mondo, con gli occhi di chi emerge dal “porto sepolto” e vede che “per le strade/della città deserta” appaiono “non più ombre di vita/ma fantasmi”.
Ci troviamo davanti a versi maturi, pervasi da una originale carica emotiva, pure in presenza di un ermetismo espressivo dominato dalla sapienza immaginifica di cui l’autrice fa uso nella scelta della parola.
Raccontare la vita, narrare la storia
Su tutt’altro piano si pongono i libri di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate), Francesca Rizzari Gregorace (Pagine dell’Ottocento catanzarese) e Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata), la cui lettura necessita di una premessa.
Se la narrativa è una struttura con un piano del contenuto e un piano dell’espressione, definiti, rispettivamente, storia e discorso (Chatman, l.c.), emergono alcune dicotomie.
La prima è rappresentata dal rappporto tra enunciati di processo ed enunciati di stasi, cioè tra il mondo dell’essere (esistenza) e il mondo del fare (azione). (Chatman, l. c.).
La seconda dicotomia è legata alla “rappresentazione” narrativa che può essere diretta o mediata.
Muovendosi all’interno di questi schemi, l’autore «scrivendo crea non soltanto un ideale, impersonale “uomo in generale” ma una implicita versione di “sé stesso”» o il proprio alter ego, per cui «il suo lettore si costruirà inevitabilmente l’immagine dello scrivente ufficiale, che è l’autore impicito, cioè l’autore «ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione» (Chatman, l.c.).
Di un libro, quindi, si può scrivere in termini formalmente “tecnici” ma ci sono operazioni narratologiche che nascono da un viaggio dentro sé stessi e finiscono col coinvolgere e contaminare il lettore.
Nel caso di Francesca Rizzari Gergorace diciamo subito che ha scritto un libro che mancava e nel suo bisogno di recuperare “i ricordi della nonna”, offre, attraverso una testimone privilegiata, una ricostruzione attenta della Catanzaro ottocentesca e apre spiragli importanti per capire una città improbabile.
Nonna Giuditta era figlia di Michele Maria Manfredi, ingegnere di altissimo profilo, cui si devono la stesura del primo Piano Regolatore di Catanzaro e opere di sistemazione urbanistica e di difesa idrogeologica d’avanguardia, in una regione devastata da calamità naturali e terremoti.
Tra il 1637 e il 1689, la Calabria era stata devastata da alluvioni con cadenza ventennale (ad eccezione di quelle del 1683 e del 1689), gelate ad intervalli di 4-6 anni tra il 1600 e il 1683 e, infine, tra il 1609 e il 1635 terremoti ogni 3-5 anni fino alla scossa terribile del 1693 che produsse 12 mila morti nell’area dell’attuale Lamezia Terme.
Circa un secolo dopo, il 5 febbraio 1783, una violenta scossa di terremoto, seguita da altre nello stesso mese e in quelli successivi, sconvolge l’assetto oroidrografico della Calabria e consegna alla distruzione interi paesi e comunità, con 30.000 morti pari al 7,5% della popolazione.
Andando indietro di una generazione, il nonno di Giuditta, l’avvocato Giuseppe Maria, definito “decoro del Foro catanzarese”, era nato a Cantalupo (CB) il 9 novembre 1788.
A otto anni si trasferisce con la famiglia in una Napoli appena uscita dalla tragica esperienza della Repubblica Partenopea e in cui si preparano gli eventi del ’48 e gli uomini che ne saranno protagonisti.
Per chi manifesta nostalgia della Napoli borbonica, è il caso di ricordare che i moti del ’48 si concluderanno con la condanna a morte di Filippo Agresti, Michele Aletta, il barone Gennaro Bellelli, il barone Francesco Antonio Mazziotti, Casimiro De Lieto, Salvatore Faucitano, Luigi De Matera, Stanislao Lupinacci, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Filadelfo Sodano, Antonio Lopresti (Petrusewicz, 1998).
Ad altri come Silvio Spaventa, Saverio Barbarisi, Salvatore Gigliarano e Michele Calafiore, viene comminato l’ergastolo (Petrusewicz, l. c.).
Poi ci furono i condannati a pene tra i 18 e i 30 anni e molti, come Guglielmo Pepe, Santorre di Santarosa, il poeta Gabriele Rossetti, Francesco De Sanctis, Giuseppe Poerio, Terenzio Mamiani, Nicolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, Carlo Pepoli, Pietro Giannone, Giuseppe Sirtori, Michele Amari, Pier Silvestro Leopardi, Giuseppe Ricciardi, Piero Emilio Imbriani, Giuseppe Massari, finirono in esilio (cfr., M. Petrusewicz, l. c.).
In questo clima è del tutto naturale che il giovane Manfredi venga contaminato dalle prime esperienze politiche e culturali, mediate dalla conoscenza di Basilio Puoti (maestro di Francesco De Sanctis) e la frequentazione assidua di Pietro Colletta.
Divenuto giacobino, nel 1812 entra nel battaglione dei Véliti nella grande armata della Campagna di Russia.
Ebbe modo di distinguersi nella vittoria di Lutezet (Sassonia, maggio 1813) e guadagnò il grado di sergente, prima di tornare in Calabria con Florestano e Guglielmo Pepe (Sinopoli et al., 2004)
Da avvocato penalista difese i tre fratelli Marincola nel processo farsa del 20-24 marzo 1823 che vide la condanna a morte di Francesco Monaco (ghigliottinato), Giacinto De Jesse e Luigi Pascali (afforcati), la condanna “ai ferri” per 11 imputati e l’assoluzione di 3 imputati, i fratelli Cesare, Odoardo e Giovanni Marincola.
I fatti addebitati risalivano ai moti rivoluzionari del 1821 e nel corso del processo furono ascoltati 36 testimoni a carico sui 98 citati e nessun testimone a discarico. Gli estensori di quella sentenza infame furono, poi, processati e condannati nel 1825 (Sinopoli et al, l. c.).
Probabilmente al lettore risulterà difficile ricostruire l’autore implicito di Pagine dell’Ottocento catanzarese, perché con sapienza e umiltà Francesca Rizzari Gregorace riesce a celarsi dietro i ricordi della nonna, alla cui voce offre una narrativa fluida, curata nei toni e, solo apparentemente, neutra.
Affatto diverse sono le operazioni narratologiche di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate) e di Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata) che si muovono nell’ambito della letteratura diaristica, diretta nel caso della Manna, mediata nel caso della Furfaro.
Trovandoci al cospetto di narrativa diaristica, l’errore da evitare è quello di considerarlo un racconto privato e non, invece, come l’amarcord della vita di ognuno di noi per quel poco o molto che ci accomuna al narratore.
Per spiegarmi meglio farò riferimento ad alcune operazioni narrative diaristiche “indirette” citandone soltanto tre.
Autobiografia della leggera (1966) in cui Danilo Montaldi da voce a cinque personaggi della leggera, quel mondo di emarginati, dai cento mestieri e dall’esistenza precaria.
Il mondo dei vinti (1977) in cui Nuto Revelli ha raccolto ottantacinque racconti di vita contadina e L’anello forte (1985) in cui, sempre Nuto Revelli, da voce alla figura più marginale della nostra società: la donna contadina emarginata dalla propria condizione suibalterna e da una storia scritta al maschile. Questo richiama subito alla mente la figura della nonna di Anna Manna, rievocata con l’enfasi di una nipote che ha ricostruito lo spirito di tempi tragici, quando anche una donna appartenente alla classe agiata, si trova ad attraversare la storia, ed è costretta a prendere decisioni importanti, mostrando di che pasta sono fatte le donne che hanno radici nelle campagne.
Il romanzo di Lina Furfaro assume valenza emblematica nelle rievocazione di una figura come Giuditta Levato e si carica di valori epici nella ricostruzione del modello economico e del sistema di valori di cui erano espressione i subalterni nella Calabria tradizionale.
Sono passati sessantasei anni dalla morte di Giuditta Levato, questa contadina carismatica che guiderà i braccianti “senza terra” nelle occupazioni di terre incolte e malcoltivate.
Per ricostruire il clima in cui sono maturate le vicende che porteranno alla morte di Giuditta Levato va ricordato che a fine ‘700, nel Regno di Napoli, 113 famiglie possedevano il 61% della terra e 64 enti ecclesiastici ne possiedono il 37% (Woolf, 1973).
In pratica, il 98% della terra era in possesso dei nobili e della manomorta: 15 famiglie possedevano i ¾ delle terre feudali e la sola famiglia Pignatelli possedeva 72 feudi ma le le imposte sui terreni rappresentavano poco meno di 1/5 del carico tributario, mentre tassazioni indirette, gabelle, imposte di consumo e dazi doganali, raggiungevano livelli così alti che chi lavorava la terra pagava in tasse più di chi la possedeva (Woolf, 1973).
Dopo la liquidazione dell’Asse Ecclesiastico e le leggi eversive della feudalità, in Calabria almeno dieci famiglie avevano accumulato proprietà superiori ai ventimila ettari, senza considerare le terre possedute in altre aree (Berlingeri in Basilicata, Barracco in Rhodesia e Brasile).
Il latifondo era dominato dalla rotazione sessennale: maggese, grano, ringrano e tre anni di riposo pascolativo e l’anno di ringrano (quello meno produttivo) veniva dato a terraggeria.
Alla fine della seconda guerra mondiale, si ripresentava quella “fame di terra” che era stata la rivendicazione principale dei giacobini napoletani.
Il movimento contadino, partito nel 1943 con l’occupazione del fondo “Lochicello” di Andali, si concluderà con l’eccidio di Melissa, sarà uno dei momenti alti delle lotte democratiche del dopoguerra e, proprio per questo, contrassegnato da episodi di inaudita: violenza: Portella delle Ginestre, Montescaglioso, Calabricata, Melissa.
Ma se a Portella della Ginestra era stata la mafia a sparare- sia pure per conto degli agrari e con la protezione degli apparati istituzionali- a Melissa è la polizia dello Stato ad usare le armi contro bracianti inermi per difendere il “diritto” di chi aveva usurpato il fondo “Fragalà”, demanio di uso civico.
Per un paradosso della storia, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, legittimi proprietari in qualità di “cittadini lavoratori manuali della terra”, furono uccisi per sancire il diritto degli usurpatori.
Diverso il destino di Giuditta Levato che muore per mano di Vincenzo Napoli, in circostanze che non furono chiarite durante il processo.
Napoli fu assolto per insufficienza di prove e i giudici espressero “dubbio se fu lui a sparare, dubbio se sparò volontariamente, dubbio se sparò per legittima difesa” (dalla sentenza del 3 agosto 1948. In Furfaro, l. c.)).
È veramente impagabile- se non celasse risvolti drammatici- l’ipotesi della legittima difesa che potrebbe indurci a credere che gli sputi o le minacce possano rendere legittimo l’uso delle armi.
Passando alla narrazione autobiografiche in prima persona che si muovono negli enunciati di processo, vorremmo citare alcuni esempi.
Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, per esempio, sono solo un racconto “privato” che, per quanto intrigante, sarebbe stato consegnato inevitabilmente all’oblio? O rappresentano la ricostruzione di un’epoca e di una generazione che vale fissare nella memoria?
Quale sarebbe oggi la nostra conoscenza della shoah senza il Diario di Anna Frank o le opere di Primo Levi? O, meglio, quale sarebbe oggi la nostra percezione di un etnocidio che non ha eguali nella storia dell’uomo e che meglio di ogni altro potrebbe fornire elementi per ricostruire quella Critica della ragion criminale in cui Gregory (2006) immagina coinvolto Immanuel Kant?
Più recentemente la narratologia diaristica ha acquistato una valenza storica e documentaria importante con Terra matta di Vincenzo Rabito e Ci trovammo bene nel futuro di Antonio Mele, due autori che hanno in comune il fatto di non essere “addetti ai lavori”.
Vincenzo Rabito era un bracciante semianalfabeta protagonista, a suo modo, di una storia minoritaria che ha atraversato tutto il ‘900. A un certo punto della sua vita, si chiude in casa a Chiaramonte Gulfi e, con l’ausilio della mitica “Lettera 32”, scrive 1300 pagine in spazio uno raccontando, in un misto di dialetto e qualche parola italiana appresa oralmente, una storia, la sua e quella di milioni di subalterni, che nessun altro avrebbe potuto raccontare con tanta efficacia.
Antonio Mele, ex bracciante, poi “contadino” su una quota di terra assegnata con la riforma fondiaria degli anni ’50, anche lui semianalfabeta ma “contaminato” da una cultura costruita attraverso la militanza politica nel partito socialista, o attraverso letture senza ordine che lo porteranno a scegliere un destino diverso per i suoi figli: uno avvocato, uno medico, uno agronomo e l’unica figlia libraia.
Il paiolo pieno di patate si presenta subito come opera aperta nel senso che si offre al lettore come stimolo verso atti di libertà interpretativa che rappresentano ”il peso della quota soggettiva nel rapporto di fruizione” (Eco, 1980). In altri termini, la maggior parte dei narratori guida il lettore e non lascia spazio alla sua interpretazione o, per dirla meglio, non lo contamina e non lo coinvolge.
Nel caso del “Paiolo”, leggere i ricordi di Anna Manna e sovrapporvi i nostri, obbedisce ad automatismi incosci ma profondamente contaminanti, per come l’autrice riesce a tenere in equilibrio la storia (il cosa) e il discorso (il come) (Chatman, l. c.).
Ma le due cose non sono separate perché gli eventi di una storia (cosa), quella che si chiama “intreccio” e che Aristotele chiamava mythos, acquistano senso dal discorso (come).
Il paiolo pieno di patate non è solo una operazione di recupero delle proprie radici ma acquista valore letterario per il fatto che storia e discorso si fondono armonicamente portandoci a dire che un libro su questi temi (cosa) poteva essere scritto solo in questo modo (discorso).
Ma ci sono altri aspetti del libro di Anna Manna che meritano di essere evidenziati.
Il libro è certamente un libro di ricordi o, meglio, una narrazione diaristica cui conferiscono grande dignità la storia (cosa) e il discorso (come) e il modo in cui l’autrice combina gli elementi della narrazione ma è anche un libro di antropologia o, meglio, di quella branca della disciplina definita antropologia sensoriale (Gusman, 2004) ed è anche un libro di storia.
Il paiolo pieno di patate si colloca autorevolmente nella rivoluzione culturale che ha attraversato queste due discipline. Quanto si è verificato negli ultimi 80 anni in campo storico, ne fa un libro di storia, così come raccontare i ricordi attraverso i sensi (la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto) lo collocano autorevolmente tra gli studi antropologici, nella branca dell’antropologia sensoriale nata a fine ‘900.
Veniamo agli aspetti storici entro i quali è possiile collocare il lavoro e che si muovono all’interno di quel grande movimento conosciuto come scuola delle “Annales”, raggruppata attorno a una rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre.
Il titolo iniziale della rivista era “Annales d’histoire économique et sociale”, divenuto dal 1946 “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” che porterà, nel 1947, all’istituzione della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, per cambiare ancora nome nel 1994 diventando “Annales. Histoire et sciences sociales“.
Attorno alla rivista ruotavano alcuni dei maggiori storici del ‘900: Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurrie e, in posizione più defilata, Ernest Labrousse, Pierre Vilar, Maurice Agulhon, Michel Voselle, Peter Burke, Roland Mousnier e Michel Focault (Burke, 2001). Vale a dire una generazione di intellettuali che hanno innescato una rivoluzione culturale paragonabile a quella provocata da Einstein con la teoria della relatività.
In Italia si sono collocati su questa scia Emilio Sereni, Massimo Montanari, Augusto Placanica, Piero Bevilacqua, Pietro Tino, Lina Scalise, Gabriella Corona e tutto il gruppo di storici che ruota attorno all’IMES e alla rivista “Meridiana”.
Senza immergersi nell’analisi approfondita di un processo che ha cambiato il modo di scrivere la storia, gli assunti fondamentali delle “Annales” sono:
-
la sostituzione della tradizionale storia narrativa concentrata sugli avvenimenti con una storia analitica orientata ai problemi;
-
la storia delle attività umane (alimentarsi, mangiare, vivere il territorio e il paesaggio), invece che una storia principalmente politica;
-
la contaminazione della storia con discipline altre (economia, sociologia, psicologia).
Se partiamo da quanto scrive Braudel che “La storia forse non è condannata a studiare soltanto giardini ben chiusi da muri” (1976), dobbiamo ammettere che per uscire dal “giardino” è necessario contaminare la storia con l’economia e con la sociologia, riprendendo in chiave storica il disegno tracciato da Durkeim con la rivista ”Année sociologique”, con cui tentava di sancire l’egemonia della sociologia tra le scienze umane.
Dalla nascita della scuola delle “Annales”, la storia non è più storia di “eventi”, epopea di eroi, narrazione di vicende ma è alimentazione (Massimo Montanari), paesaggio (Bevilacqua, Sereni), economia e territorio (Placanica, Bevilacqua), cioè è “scritta” dai cambiamenti materiali di cui gli uomini sono attori e fruitori.
In questo senso, il mondo raccontato da Anna Manna, non è “Un mondo semplice che consentiva una vita pienamente vissuta”. È, semplicemente, il mondo così come lo abbiamo vissuto, reso epico da un nuovo modo di scrivere la storia.
Raccontare quanta storia c’è in “Nonna Giovanna…rimasta vedova a ventinove anni, con cinque figli da crescere”, per esempio.
E lei lo fa, senza indugio, scrivendo la propria storia che diventa il simbolo di una possibile storia che ci appartiene.
Da un punto di vista antropologico, il libro si muove su due livelli.
Il primo è relazionale, il secondo sensoriale.
I venditori ambulanti la cui presenza contribuiva a creare circuiti relazionali, la vita nei cortili, i rapporti di vicinato, la “nevicata in tazza” e, soprattutto, i sensi che usiamo per vedere i colori e i paesaggi, sentire gli odori, avvertire i rumori, capire dal tatto la forma di un oggetto, sentire il gusto delle cose che mangiamo.
Cosa dire della rappresentazione ecologica delle “galline [che] razzolavano libere nell’aia” se non che è una critica forte al mondo globalizzato in cui siamo costretti a vivere?
E l’immagine delle “galline che deponevano le uova secondo i tempi che madre natura consentiva loro, le mucche davano il latte che era possibile”?
Sono immagini potenti di ricordi che non sono solo “ricordi” ma indicano una possibile alternativa a un modello di vita “esasperato e calcolato”.
Nell’uso dei sensi, invece, c’è un marcato etnocentrismo.
Anna Manna usa tutti i cinque sensi per ricostruire i suoi ricordi: la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto, il tatto, tutte categorie sensoriali che appartengono al mondo occidentale. La vista, per esempio, che in alcune culture tribali è considerato un senso negativo consentito solo agli sciamani, nella cultura occidentale dominata dalle immagini “ha assunto un predominio assoluto” (Gusman, l. c.). Per contro, uno sciamano, proprio perché vede, non usa l’udito (Gusman, l.c.).
Anna Manna riscatta, però, l’etnocentrismo perché gli odori che la inducono a ricordare prima che nel suo naso sono nella sua cultura.
Bibliografia
Braudel, F. (1976), Civiltà e imperi del Medierraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi.
Burke, P. (2001), Introduzione a Una rivoluzione storiografica, in Insegnare la Storia, Agrigento, Imes.
Chatman, S. (2010), Storia e discorso, Milano, Il Saggiatore.
Eco, U. (1980), Opera aperta, Milano, Bompiani.
Frank, A. (1993), Diario, Torino, Einaudi.
Furfaro, L. (2012), Giuditta Levato. La contadina di Calabricata, Cosenza, Falco Editore.
Gregory, M. (2006), Critica della ragion criminale, Torino, Einaudi.
Gusman, A. (2004), Antropologia dell’olfatto, Bari, Laterza.
Levi, P. (1977), Se questo è un uomo, Torino, Einaudi.
Levi, P. (1978), La chiave a stella, Torino, Einaudi.
Levi, P. (1986), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.
Manna, A.(2012), Il paiolo pieno di patate, Soveria M.,. Calabria Letteraria Editrice.
Mele, A. (1997), Ci trovammo bene nel futuro, Argo.
Montaldi, D. (1966), Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi
Nievo, I. (2006), Le confessioni di un italiano, Milano, RCS.
Petrusewicz, M. (1998), Come il Meridione divenne una Questione, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Rabito, V. (2007), Terra matta, Torino, Einaudi.
Revelli, N. (1977), Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi.
Revelli, N. (1985), L’anello forte, Torino, Einaudi.
Rizzari Gregorace, F. (2008), Pagine dell’Ottocento catanzarese, Catanzaro, Ursini.
Sereni, E. (1987), Storia del paesaggio agrario, Bari, Laterza.
Sinopoli, C.-Pagano, S.- Frangipane, A. (2004), La Calabria. Storia, geografia, arte, Soveria M., Rubbettino.
Talarico, R.( 1998), Labirinti ed io dispersa, Soveria M., Rubbettino.
Woolf, S. J. (1973),La storia politica e sociale, sta in Storia d’Italia, vol. III, Dal primo settecento all’Unità, Torino, Einaudi.
Rinvenimento del simulacro di Nostra Signora della Lettera
di Maria Elisabetta Curtosi
Prima che Messina, all’inizio del mese di giugno 1783, venisse colpita da un violento terremoto in cui “caddero i monumenti cittadini, furono distrutti palazzi e chiese” la scultura di N. S. della Lettera, oggi in possesso della chiesa di S. Giacomo di Corte, a santa Margherita Ligure, era esposta “a comune venerazione, sulla calata, o molo, nel porto”, della città siciliana in una nicchia, sopra la porta maggiore della Dogana ma a causa del crollo dell’edificio doganale quel sacro simulacro, rotolato in mare, nel giro di una quindicina di giorni, sospinto dalle correnti, finì con l’approssimarsi allo specchi d’acque, antistante la Chiesa di Corte, dal quale poi fu estratto da alcuni pescatori genovesi.
E che la scultura, venerata nella parrocchia di San Giacomo -fedele immagine della statua custodita nell’antico omonimo Santuario messinese- sia proprio quella, un tempo , collocata sul dirupo edificio doganale, è stato confermato, sotto giuramento, da otto messinesi, inviati nella chiesa di San Giacomo, affinché della stessa, effettuassero l’ufficiale ricognizione. E, ciò permesso ecco quello che, in merito, si legge nel Libro d’ Introito ed Esito, dal 1768 al 1806, compilato a cura della fabbrica della Chiesa di S. Giacomo ed, in essa, attualmente conservato, sotto la data del:
23 Giugno 1783
Esito in £ 13.2 pagate al Sign. Prevosto per altrettante da esso spese
Per atto rogato a 22 corrente per la miracolosa immagine di Nostra Sig.ra della Sacra Lettera stata ritrovata a 20 corrente da quattro uomini della Darsina di Genova col suo gosso vicino al piccolo seno della Torretta, poi si novo da flutti del mare gettata nell’acque, e correndo contro la corrente verso la spiaggia di Corte molto più di quello, che non faceva detto gosso, sebbene avesse sei remi, fu presa vicino al secco e poi portata da Giacomo Antonio Palmieri, ed Antonio Maria Costa nell‘oratorio di Sant Erasmo come due Massari della chiesa; indi il Sign. Evangelista Gregorio Prevosto di S. Giacomo avisato da fanciulli venne e ne fece con giubilo il trasporto nella chiesa parochiale , et indi detti uomini della Darsinia ne fecero la donazione allo Sign.ri Massari.*
E poiché il 27 luglio 1783 , la statua della n. s della lettera – il cui appellativo è ovviamente derivato da quella missiva che, secondo la tradizione, la Vergine Maria “l’anno del nostro figlio 42, cinque di luglio, luna 17°, feria 5°, da Gerusalemme” avrebbe indirizzato ai messinesi – venne esposta alla venerazione dei fedeli residenti a corte, n’ebbe origine un’annuale ricorrenza che finì con l ‘assumere, gradualmente, un rilievo sempre maggiore fino a diventare la principale e più importante festività della Parrocchia di San Giacomo. Dato poi, che, entusiasmo e devozione, attorno a tale evento, andarono prodigiosamente moltiplicandosi, sconfinando, in tema di risonanza, nell’ambito parrocchiale, il Sommo Pontefice leone XIII, con suo Breve del 5 maggio 1883, delegava l arcivescovo di Genova, Mons. salvatore Magnasco, a procedere, in data 27 luglio dello stesso anno, all’incoronazione dell’immagine di N.S. della Lettera, il cui culto – dalla fine del XVIII sec. – si era ormai, stabilmente inserito nella vita religiosa della nobile Borgata di Corte.
Da quel lontano anno, oggi, è trascorso un altro secolo e poiché in cosi significativo periodo di tempo offre sempre l’occasione di redigere, se non dei veri bilanci, almeno delle sintesi storiche, ci proponiamo di illustrare quanto frattanto gli abitanti della dinamica popolazione di questa Parrocchia, con grande tenacia, con fede e soprattutto con tanto amore, hanno saputo realizzare per cercare di accrescere – mediante l attuazione di invidiabili programmi di opere d’arte e abbellimenti vari- la dignità ed il decoro della loro gloriosissima Collegiata.
(*Davide Roscelli “ la Collegiata di San Giacomo di Corte” in S. Margherita Ligure)
Il giorno dell’Ascensione
di Maria Elisabetta Curtosi
Il recupero e la valorizzazione della storia di una comunità deve costituire un obiettivo irrinunciabile per qualunque comunità che voglia privilegiare il rapporto dialettico passato-presente al fine di guardare al futuro con maggiore consapevolezza.
La ruralità, strettamente legata e connessa da vincoli primordiali, da queste parte vuol dire identità culturale e quindi cultura popolare proprio di un mondo che non c’è più, ma che i semplici richiamano alla storia, alle leggende ed alle tradizioni,alle costumanze cristiane che si innestano con quelle pagane che durano ancora e che vede mescolarsi il sacro con il profano, il pagano antico con l’elemento cristiano venuto dopo tanto come era nelle usanze e tradizioni sacre greche. Era uso da parte dei coloni della Magna Grecia commemorare all’entrata della primavera l’ascensione di Proserpina dall’inferno che si purificava bagnandosi nelle acque del mare e pare di rivivere quei tempi antichi quando da Pannaconi si vedono discendere nelle prime ore del giorno dell’Ascensione e comunque prima del sorgere del sole ,verso la località “ Scrugli” o “ Maghija” sulla spiaggia di Safò le donne pannaconote. Dopo aver percorso tutto quel territorio, che da Pannaconi porta a “ Scrugli”,che dista in linea d’aria un paio di chilometri e dove ancora si possono ammirare vaste zone coltivate ad agrumi, olivi e piante di cereali e dove la natura, le luci, il buio, l’arcobaleno, la natura , i fiori dei capperi, le foglie di liquirizia, sembrano diversi, fuori dal tempo e dal mondo; un posto dove l’estate dura di più degli altri posti perché il mare che è a quattro passi è senza dubbio “il più bello del mondo “, come lo defini sir William Hamilton, vulcanologo e diplomatico, in occasione del terribile terremoto del 1783, che appunto distrusse il vecchio abitato di Pannaconi; rimane la Villa Romana come viene comunemente chiamata per fare da guardia nel cinquecento a difesa dei Saraceni, dei barbareschi. Da qui si può vedere nelle giornate limpide lo scoglio d’Ulisse, Punta Safò, Santa Irene, Scoglio della Catena dove si avventurarono i cercatori di oro forse attratti dal colore della rena che ha ancora oggi il colore che si avvicina all’oro. Sono solo donne,quasi tutte anziane avvolte talune ancora nei “ Jippuni” neri, allo spuntare del sole arrivano sulla spiaggia cantando e recitando preghiere e si bagnano i piedi nelle acque marine continuando a cantare e recitare preghiere invocando lo Spirito Santo per dare forza e salute.” Grolia a Vui, Patreternu,grolia a Vui, figghiolo divinu, grolia a Vui Spiritu Santu, comu a Vui sempi sarà, grolia pi tutta l’eternità”. Dietro il golfo di Pizzo il sole è quasi alto e le donne ancora nell’acqua si prendono per mano formando una lunga catena umana . Canti, suoni, colori, odori e poesia accompagnano la devozione dell’ascesa di Gesù al Cielo nella ricorrenza dell’Ascensione. Difficile risalire storicamente alla composizione dei canti che si tramandano di generazione in generazione, come non è impresa da poco raccogliere e tutelarne la memoria affinchè non si disperda l’ingente patrimonio dei sentimenti popolari. Il mare, le piccole cose, il sogno, la natura, la vita, la morte, la gioia, l’amore e la donna. Un minuto all’alba per un rapporto all’infinito. Dalle lontane colline sboccia la luna e il mare e lo Stromboli splendono di là, ma la terra è piena di “ scandalari” colore oro, profumi di ginestra ed i colori rosso accesi dei papaveri fanno da scenari ad una sorta di “ rito di passaggio”. Il sentiero del silenzio è pieno di rumori: quelli che non siamo più abituati ad ascoltare, dallo stormir di fronde degli alberi di ulivo secolari al cinguettio di fringuelli, con gli alberi di fichi e di mele selvatiche su cui arrampicarsi d’estate per cogliere i dolci frutti, e con i merli a fare compagnia, insieme al battere a martello dei picchi fino al rumore del mare racchiuso in una vecchia conchiglia. Le vecchie donne raccolgono sui sentieri, sulla strada del ritorno “ l’erba dell’Ascensione” una pianta succulenta che viene messa al capezzale del letto per quaranta giorni e cioè per il tempo della fioritura. Mentre ne percorri il sentiero l’unica voce che senti è la voce umana di Gustina, la donna più anziana,si risale sulla collina ed ogni fermata mette poi a disposizione dei camminatori silenziosi e ci si trova a star bene con qualcuno anche senza parlare e capisci che quelle sono le persone giuste. Da piccolo mi piaceva andare perché c’era tutto quel silenzio . Se fiorisce è indice di salute, in caso contrario è da attendersi giorni nefasti . Dimenticavo di evidenziare che questa erba deve essere raccolta in un luogo che lo sguardo esclude la vista del mare ed al pellegrino laico, il sentiero del silenzio lascia due possibilità: si può scegliere il percorso breve ( 35 minuti, senza contare quelli dedicati ad eventuali riflessioni) e con salite alla portata anche dei polmoni di un fumatore . O quello lungo che di minuti ne richiede almeno 55, pendii mozzafiato e panorami degli dell’Infinito leopardiano. Il tutto, dalle 4 di mattino allo spuntare del sole.
E dunque, perché non riscoprirla,lungo u due- tre chilometri che costituiscono il percorso dell’”Ascensione”, partendo proprio dai resti della Villa romana, con un viaggio “ al rallentatore” per conoscere la cultura, il territorio, le persone, a ritmi lenti, fermandosi qua e là per osservare il verde fitto dei limoneti ai lati della strada, le greggi di pecore al pascolo, le rovine di vecchie “ pinnate” e costruzioni padronali che emergono tra gli arbusti sempre verdi e le perenni gramigne, l’eco della parrata pannaconota di Gustina e le altre donne e lo scenario spettacolare del golfo di Santa Venere e quello di Pizzo. Da queste parte Cicerone era di casa quando veniva a trovare il suo amico Sicca. Qui nessuno suona il clacson, nessuno va di corsa. Ma ciò che rende magico il percorso è un originale sole con il volto umano e lunghi raggi gemmati, quello dell’Ascensione, appunto.” A Santa Venere, ov’io sono, mi riposo del mio lungo viaggio”, cosi diceva Cicerone.
“Fimmani e omani”.
di Maria Elisabetta Curtosi
Se verrà un giorno in cui smetteremo di chiederci se Vincenzo Ammirà, monteleonese, classe 1821, sia o no il più grande poeta calabrese,riconoscimento del quale l’interessato stesso non farebbe salti di gioia, vista anche l’amarezza con cui il poeta del Carmine-ex rione del paradiso terrestre vibonese che tanto decisivo nei suoi versi appare, oggi definitivamente deturpato da un progresso senza sviluppo. Fimmani, omini, natura, cultura e mondo: i temi della poesia ammiriana sono spesso risolvibili in tensioni irrisolvibili che hanno accompagnato lo scorrere dell’ultimo decennio dell’ 800 poetico esplorandone quella che sarebbe troppo facile definire una società profondamente corrotta. Le due leggendarie figure della poesia calabrese hanno plasmato con entusiasmo l’anima della gente, non solo in Calabria,ma la loro opera si è appannata, nel tempo. “L’atmosfera romantica che stupì il mondo della letteratura meridionale con le sensuali poesie si fa fatica a ritrovarla là dove la poesia è artificio, retorica, buona soprattutto nei salotti della domenica. La pratica diffusa oggi è una non celata forma di prostituzione che offenderebbe una come Cecia: qui da noi, e forse anche altrove, una signora desiderosa di occupare alacremente la propria vacanza può comprare in un comune un incarico qualunque. La nostra coscienza è molto sporca”.
Quale dunque l’interesse di queste raccolte, a parte il gusto per lo scandalo. Solo e semplicemente per amore della verità della conoscenza a tutto tondo come direbbe qualcuno ,nel senso che la conoscenza di qualcuno o di qualcosa non può nascondere o escludere nessuna parte di se o della sua opera. Se vogliamo per davvero prendere le misure del Monteleonese Vincenzo Amnmirà e dell’apriglianese Domenico Piro alias Donnu Pantu, accanto ai versi sonori, cantabili, sfumati e sfuggenti, gioiosi e dilettevoli e rispettabili delle loro liriche note, si deve, appunto per amore di verità e di conoscenza.