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CHIESA, MAFIA E VERITÀ

Dall’agone pastorale una riflessione che ne raccoglie tante

di Filippo Ramondino

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Che cos’è la verità? Dov’è la verità? La domanda del potere istituzionale, rappresentato da Pilato, ora si rovescia. È Cristo che la rivolge al potere di turno nella storia, a tutti noi! Si! È veramente un problema di verità, di essere veri, prima ancora di essere giudicatori e giustizieri, maestri di diritto, pastori d’anime e cronisti delle umane vicende. Che cos’è allora la Verità?
Davanti a Cristo è insopprimibile questa urgenza di chiarezza, di trasparenza, di verità. Il desiderio di verità emerge in modo imperioso. La coscienza stessa di Pilato si ribella, sa in cuor suo di non essere nel vero, lui che detiene il potere. Ma la verità è una persona, è nella persona davanti a lui. Quando non riconosciamo questa verità, dobbiamo amaramente constatare che la mafia, la bestia, la piovra satanica, è iscritta nella menzogna del potere, nell’abuso dell’autorità, nella perversione del diritto, negli apparati senza anima e senza fede della religiosità.
La lotta alla mafia non si fa con gli artifici della retorica e della semantica, ma con atti concreti e visibili, con la verità della propria esistenza, magari pagando di persona. Non facendo i vinti ma i convinti, fondamentalmente, che questi figli della Chiesa (anche questi!), degenerati e degeneranti perché mafiosi, violenti, immorali, sono gente imbevuta di mediocritas e imbecillitas, giganti di bronzo, a volte, ma con i piedi d’argilla. Meno pervasività all’inquietante fenomeno si darebbe se la smettessimo con la mitizzazione ed enfatizzazione dei mafiosi (spesso manovalanza delinquenziale), di certi nomi, di certe famiglie, di certe immagini antieducative, col vedere mafia dappertutto, fra poco pure dentro i tabernacoli delle nostre chiese!
Noi quindi, ad intra, coscientemente, vogliamo ritenerci, come “vasi di creta”, sempre fragili, dice san Paolo (2 Cor 4,7), ma portatori di questa Verità che ci supera e ci avvince meravigliosamente. Così ci poniamo davanti alle ultime vicende che hanno interessato cronaca giornalistica, autorità dello Stato, gerarchia ecclesiastica, fedeli, alla vigilia della Pasqua. La verità è fatta anche di parole, esse sono come semi o come pillole velenose, possono germogliare in grano e alimentare, o in zizzania e avvelenare, possono ferire e persino uccidere lasciando rancori e inveterati dolori. Se non si costruisce sulla parole di Cristo, si trasforma in babele. Certo, sconforta, anche irrita, l’enfasi, la risonanza manipolata e manovrata, che assumono le notizie mass-mediali. La nostra Diocesi non è questo! La Calabria non è questo! Le comunità parrocchiali non sono questo! Le confraternite non sono questo! I comitati festa non sono questo! È anche vero: ci sarà pure la “pecora nera”; ma non tutto il gregge è formato da pecore nere! Prete da quasi trenta anni, a contatto con la vita pastorale ordinaria, non riesco a credere, non ho certezze evidenti negli spazi e nei tempi in cui lavoro, di tanta pervasiva, delittuosa, criminale presenza nelle manifestazioni religiose del nostro popolo. E se così fosse, a meno che non si tratti di casi lampanti e perciò denunciabili, non tocca ai ministri della Chiesa fare gli sceriffi o gli investigatori. Sfide indubbiamente per noi, istanze per una rinnovata pastorale, che ci impone di dire decisamente no ad una certa sciatteria e improvvisazione, ad ingenuità e superficialità, richiamati dalla saggezza permanente dei nostri padri che «’na pecora rugnusa mpesta ‘na mandra». Svolte provvidenziali per liberarci risolutamente da certi comportamenti “religiosi” che vanno da un infantilismo spirituale, delizia dell’antropologia culturale, che ci fa “giocare” con bambole e bambolotti, statuette e manichini vestiti, ad un adultismo fideista, degenerazione dell’apostolato sociale, che ci fa “giocare” a guardie e ladri. E, nello stesso tempo, liberi da un puritanesimo pastorale, come se non fossimo inviati in un campo dove col grano cresce pure la zizzania (cf Mt 13,24), dove dobbiamo accettare che il giudizio definitivo non appartiene alla nostra storia, ma alla pazienza di Dio, di cui dobbiamo restare umili servitori e imitatori. Non dobbiamo solo essere credenti, bisogna essere credibili, diceva un santo giovane magistrato. Dobbiamo volere la santità, cioè l’amore e la verità, in ognuno di noi. Scrivono i nostri vescovi: «Dobbiamo, in Calabria, essere non euforici ma concreti, non festaioli ma festivi nel cuore, non episodici ma costanti».
Per il fatto che ci guardiamo veramente dentro possiamo avanzare legittimamente delle domande ad extra. E sono tante, anche sconcertanti, provocanti. Intorno a noi sembra aleggiare un male oscuro indecifrabile. Certo, per noi, teologicamente, questo male oscuro è il Principe di questo mondo che, sociologicamente, è un buon burattinaio! Capire chi o che cosa si trovi dietro a questo paravento, se lo chiedono in tanti! Dentro certi episodi sembra muoversi quasi una metodologia elitaria, assolutista, antipopolare, che strumentalizza persino l’informazione. Emergono intrecci fra esercizio del potere e questioni ideologiche e ideali. C’è come una difesa ostinata di teoremi, costruiti su una teoretica aprioristica. Abili cuciture semantiche per giustificare trame dialettiche.
C’è la necessità, per chiarezza, di mettere metodologie a confronto. Qualche magistrato in Calabria si sforza, sicuramente con buone intenzioni nel suo cuore, di capire «il rapporto che c’è tra la mafia e la Chiesa», perché «alcuni preti» si sono fatti avviluppare dalla ‘ndrangheta. Pertanto la Chiesa deve prendere le distanze dai mafiosi! La Chiesa! Dalla mafia la Chiesa è distante, per natura, quanto è l’eternità del Paradiso, ma dal mafioso, neanche Gesù fu distante sulla croce, l’ultimo dialogo lo ebbe con uno di loro …e gli promise il Paradiso! Come Gesù i preti sono chiamati ad essere pastori e non pecorai. Non possiamo scivolare nelle reti del fariseismo e del settarismo, in una sorta di “religione civile”, che deforma la sua costitutiva natura missionaria… «euntes ergo docete omnes gentes». La Chiesa non può perdere il volto di Chiesa “domestica, popolare”, con tutti i rischi che queste dimensioni “dal basso” comportano. La “pecorella smarrita” andiamo a ritrovarla, la mettiamo sulle spalle, desideriamo anzitutto guarirla, recuperarla e non immediatamente condannarla. Salvare le anime, curare le anime, educare le coscienze non è cosa sempre facile e documentabile. «Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca» (Gino Bartali). Prima della formazione alla legalità, c’è l’educazione alla moralità, la cura esigente di una coscienza retta. Se non c’è onestà non c’è legalità. Il più delle volte, in certi ambienti, non si tratta di lottare con la mafia (criminalità organizzata) ma, forse, peggio, più pazientemente, con comportamenti corrotti (mentalità mafiosa), contrastando ogni forma di omertà.
Ovviamente, vogliamo rigore morale, per tutti, in tutti, perché non possiamo minimizzare la gravità della questione morale, anche tra i cattolici, che postula ancor di più, nell’emergenze educativa, il giusto rapporto tra una politica repressiva e una politica dell’impegno. Convinti che «la punizione è giustizia per l’ingiusto» (Sant’Agostino). Con più legge e meno leggi.

Lo stesso Sant’Agostino ripeteva che «la speranza ha due figli bellissimi, lo sdegno per le cose come sono e il coraggio per cambiarle». E questo, ci dice la fede, non avviene per l’applicazione di una legge, ma per la forza della misericordia. D’altra parte, lo Stato non ha una legge che mi dice: perdona, riconcilia, salva, vivifica, anzi ci sono leggi che dicono: uccidi anche nel ventre della madre, separa e dividi anche nella famiglia, scombina la natura, sopprimi la vita. La legge, ce lo dice San Paolo, non può salvare quando «si oppone all’ordine stabilito da Dio» (Rm 13,2). È il paradosso evangelico. Non siamo tecnocrati. Il ministro dei trasporti del Terzo Reich, ragionando da tecnocrate, – sosteneva un pensatore – avrebbe potuto cavarsela dicendo che il suo compito era quello di fare arrivare in orario i treni a destinazione, indipendentemente dal fatto che fossero diretti a Vienna o ad Auschwitz. «Ma questa risposta non è ragionevole, umana», ovviamente, per nulla cristiana.

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UN GIORNO, DUE RICORDI PER NON DIMENTICARE: DON GALLO E PADRE PUGLISI.

di Maria Elisabetta Curtosi
Genova e Palermo due città di mare, apparentemente molto distinte e lontane geograficamente e culturamente parlando, in un solo giorno, sabato scorso per la precisione, si sono quanto mai avvicinate.
Il comune denominatore è stato un ricordo, o meglio due.
Don Gallo e padre Puglisi. Uno amatissimo e conosciuto dai giovani, soprattutto, l’altro dai bambini.
Il primo beatificato e acclamato dal popolo, l’altro beatificato dalla Chiesa.
Coincidenze, a volte, che rievocano il profumo della storia, laica e religiosa. Il fiume del ricordo porta via tante cose, tocca argini impetuosi, bollenti, mafia e droga con cui hanno combattuto molto i nostri due protagonisti dei diritti dei più deboli e non.
Dello scorso sabato a Genova si ricorderanno soprattutto i fischi della folla che si è riunita fuori la chiesa, almeno diecimila persone hanno partecipato al corteo funebre di don Andrea Gallo che dalla comunità di san Benedetto al Porto si è snodato fino alla chiesa del Carmine. I fischi della contestazione che come un lava bollente si è riversata contro la gerarchia e la dottrina cattolica, rappresentata sull’altare dal cardinale Bagnasco, che rischiando molto, ha pronunciato parole che sembrano diffondersi come scintille in una stanza piena di gas.
Ecco le anime di Don Gallo che lui sapeva far convivere, pur senza compromessi. Non un eretico, come da qualcuno è stato descritto, ma l’opposto, un cristiano allo stato puro, il padre degli ultimi e dimenticati dalla chiesa cosiddetta ufficiale.
Fanno male a pensare che ora in fondo se ne è andato un rompiscatole un “agitatore di poveri cristi” perché senza più quella mano d’aiuto che serviva ad arginare il fiume in piena del non-lavoro e della povertà, il fiume può straripare da un momento all’ altro, portando con sè tutto ciò che incontra.
Importante è, allora, che ci siano ancora persone come il “nostro Don” che stanno << non dalla parte di chi fa la storia, ma di chi la subisce>> (don Ciotti).
Di sicuro è difficile trovare esempi negli uomini di partito che sabato scorso nella chiesa del Carmine latitavano, salve rare eccezione che confermano la regola.
Ecco cosa serve, veramente, ad un paese in cui convivano santi laici che si sbattono in silenzio per i loro simili.
“L’Italia dei don Gallo e dei padri Puglisi che, porca miseria, devono morire per essere celebrati.”

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Storie di uomini e santi

di Maria Elisabetta Curtosi

Migliaia di “fedeli” tanto tempo fa accorrevano a Pannàconi, in Calabria, dove un uomo aveva scoperto una “fonte miracolosa” e affermava di parlare con la Vergine.

“ LA MADONNA MI HA DETTO: DAI, FAMMI UNA CHIESA”.

Racconta Domenico Bucci: “Ho costruito il tempio accanto a una sorgente di acqua benedetta, proprio dove voleva la Madonna quando mi apparve per la prima volta.  Sono un guaritore e un veggente”.  Per capire le malattie spiega che ha come suggeritori i Santi Cosma e Damiano: “Senza il loro aiuto non potrei fare nulla perché non conosco il corpo umano”. Mette  in contatto  i vivi con i defunti e ha anche scritto un “vangelo” perché, dice, ha “un filo diretto” col cielo.

Il “tempio dei miracoli”, sorge a un limitare di un sentiero che scende impervio,tra olivi secolari e cespugli di rovi. E’ un edificio di gusto grossolano, moderno, inadeguato ai colori sommessi di questa campagna dallo spirito persistentemente antico. Ma il suo instancabile costruttore ne parla con fierezza.” L’ho realizzato accanto a una sorgente d’acqua benedetta, proprio dove voleva la madonna” ci spiega in un dialetto difficile da comprendere.” E’ stata lei stessa, quando mi è apparsa per la prima volta, suggerire le indicazioni necessarie. Al resto ho pensato io. Lavorando da solo e tra mille ostacoli”. L’uomo a questo punto s’interrompe bruscamente per indicare i preliminari cui dobbiamo sottoporci prima di dialogare con lui. Si tratta di un semplice rituale, obbligatorio per chiunque si accosti a questo luogo “sacro”: una breve sosta di preghiera in chiesa, la bevuta purificatrice presso la fonte, infine l’incontro con lui. Domenico Antonio Bucci, inviato del Signore. Se sia un veggente, un guaritore o più semplicemente un impostore è difficile stabilirlo, perché si tratta di un “fenomeno” troppo recente. Ma è un fatto indiscutibile oramai,che la fama di quest’uomo sta dilagando nelle città e campagne della Calabria e sta già rimbalzando oltre i confini della regione. I suoi” fedeli” non si contano più. Vengono da ogni parte per sottoporgli quesiti di ordine medico e problemi di carattere personale, per cercare conferme e conforto.

E lui risponde a tutti, senza stancarsi di ripetere che ogni parola gli viene suggerita dall’alto, dalla Madonna e dai santi con cui entra di volta in volta in contatto. Anche la nostra visita gli era stata preannunciata, dice. Cosi, mentre ci apprestiamo a dialogare con lui,riusciamo a studiare da vicino questo personaggio carismatico. Una figura comune, nell’aspetto, a tante altre dell’universo contadino della Calabria. Un uomo piccolo, asciutto, vestito in modo dimesso e con il volto segnato dall’età e dalla sofferenza. Pure la storia della sua vita non sembra discostarsi dalle vicissitudini di tanti altri che da questa regione sono stati costretti a emigrare per sfuggire agli stenti. E lui stesso a raccontarla. “Ho sessantasette anni, sono di origine molisana ma ho trascorso la mia infanzia qui, a Pannàconi. La miseria mi ha spinto, quando già ero sposato e con un figlio, a tentare la fortuna in Brasile. Sono partito solo e senza soldi. Anche laggiù ho dovuto penare per essere assunto come operaio. Il lavoro era massacrante e cosi,quando la mia salute è andata peggiorando, sono stato licenziato. Nel frattempo, qualche mese dopo il mio arrivo, anche mia moglie si è ammalata gravemente. Ho passato dei mesi interminabili ad accudirla in ospedale e a piangere sulla nostra situazione. Un giorno poi ero particolarmente depresso e mi sono trovato a sfogliare la Bibbia e a cercare di leggerla, tra mille difficoltà. Improvvisamente una luce accecante ha inondato la stanza. L’episodio si è ripetuto per tre giorni consecutivi e qualcosa che non so definire mi ha portato a credere che si trattasse di una manifestazione dello Spirito Santo. Da quel momento ho cominciato a dedicarmi al prossimo”.

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Chiesa: “istituzione anacronistica”. Lo scisma è qui?

recensione di Alessandro Litta Modignani

Il viaggio di Chiaberge fra i cattolici adulti

Lo Scisma. Il libro di Riccardo Chiaberge
Lo Scisma. Il libro di Riccardo Chiaberge

Nel suo lungo viaggio fra i cattolici adulti (“Lo scisma – Cattolici senza Papa”, 300 pagine, Longanesi) Riccardo Chiaberge si reca in visita a una cospicua lista di quei credenti, quasi tutti cattolici praticanti, che mandano puntualmente il cibo di traverso alle gerarchie vaticane. Sono personaggi noti e meno noti, laici ed ecclesiastici, storie di vita e di fede che non rientrano nello stereotipo che vorrebbe il “buon cristiano” ligio ai dettami della Chiesa.

La carrellata parte dal frate eremita che si oppone “alla concezione anticristiana della vita e della famiglia diffusa dal berlusconismo”, non risparmia Radio Maria (“Per me è un veleno…. Un fanatismo lontano anni luce dal messaggio evangelico”) e osserva acutamente: “Celibe dev’essere il monaco, non il prete”. Poi è la volta della cosiddetta “secessione viennese”, con il suo cupo corollario di scandali a sfondo pedofilo. Sfilano i parroci di base, le suore comboniane, i gesuiti non allineati, i “missionari in Padania” – e naturalmente quelli in Africa, che distribuiscono preservativi per limitare la diffusione dell’Aids. Un apposito capitolo è dedicato ai “Preti in amore”, i vari Bollettin, Milingo, don Sante e molti altri.

Particolarmente ricco il fronte dei cattolici impegnati nella ricerca scientifica e nelle nuove frontiere della medicina, da Giorgio Lambertenghi Deliliers a Elisa Nicolosi, a Elena Cattaneo e naturalmente a quel don Luigi Verzé che ha ammesso di avere “staccato” su richiesta, dalla macchina che lo teneva in vita, un suo amico paziente terminale. Lambertenghi alza gli occhi al cielo commentando l’accanimento di chi vuole nutrire forzatamente un corpo dopo 17 anni di vita vegetativa: “Lo so, cosa vuole, i bioeticisti…. Oggi sono molto di moda. Molti di loro non conoscono gli ospedali, non sono mai stati in una corsia…. Persino Papa Giovanni Paolo II ha detto: lasciatemi tornare alla casa del Padre”.

Commovente e significativo il panorama degli “ex voto” affissi nelle bacheche del Regina Elena, a Milano, da quanti sono riusciti ad avere un figlio grazie alla fecondazione assistita, nonostante i veti della Chiesa: “Ci avete dato amore e speranza…. Avete compiuto il miracolo…. Il nostro sogno si è realizzato… Bisogna credere fino in fondo, sperare e pregare che il miracolo si realizzi…. C’è un angelo in cielo che non aspetta altro che di diventare un bambino….” e così via.

Il libro di Chiaberge conia un neologismo: “dolorismo”, termine con il quale il gesuita Padre Carlo Casalone descrive una visione arcaica e un po’ sadica del cristianesimo: “Non è stato il dolore a salvarci, ma l’amore”. Purtroppo di “doloristi” se ne sono radunati un po’ più del necessario al capezzale di Piergiorgio Welby, commenta l’autore.

La donna ? Nel ’95 la Congregazione per la dottrina della fede, presieduta da Joseph Ratzinger, dice che la sua esclusione “è fondata sulla parola di Dio, scritta e costantemente conservata e applicata nella tradizione della Chiesa”; che “è stata proposta infallibilmente” dal pontefice; e che dunque “si deve tenere sempre e ovunque da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede”. Chiaro, no?

Chiaberge parla di un “crescente distacco dei vertici romani dal popolo di Dio” e di una Chiesa “istituzione anacronistica, l’ultima monarchia assoluta in Europa dopo il crollo dell’Ancien Règime, una piramide tutta al maschile in un mondo dove le donne hanno ormai raggiunto quasi dappertutto ruoli di comando”. Per contro, il mondo cattolico seguita a esprimere quella “creatività cristiana che nessuna gerarchia, per quanto ottusa, potrà soffocare”, per usare le parole di Jean Delumeau. Quest’ultimo aggiunge: “Oggi i progressi dell’embriologia ci dicono che la fecondazione dura più di venti ore, e che solo un ovulo fecondato su tre arriva a impiantarsi nell’utero. Soltanto a partire dal 14° giorno è certo che l’ovulo non darà vita a due gemelli. E allora perchè non decidere che la persona umana comincia solo quando appaiono i primi rudimenti del cervello?”. Già, perché?

Monsignor Sergio Pagano si spinge a dire: “Le cellule staminali, la genetica, qualche volta ho l’impressione che siano condannate con gli stessi preconcetti che si avevano verso le teorie di Copernico e Galileo”, ma il genetista Bruno Della Piccola, presidente di Scienza & Vita, subito lo bacchetta: “Fermare la ricerca sulle staminali embrionali non è affatto oscurantismo”. A volte, almeno in Italia, gli scienziati arrivano a essere più clericali del clero, chiosa Chiaberge.

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