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Generoso cuore, ferro e libertà: la via calabrese verso l’Italia Unita

a cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Pubblicato su “Abolire la miseria della Calabria” – Anno VI n°1-2-3 G/F/M 2011

Calatafimi, Salemi, Alcamo, Monreale, Palermo passando per il Piano di Renda. Poi lo sbarco a Milazzo dove si combatté per le strade cittadine finché i “regi borbonici preferirono ritirarsi nella fortezza dove furono poi costretti alla resa”. Dopo essere sbarcato a Marsala l’11 maggio del 1860, in due mesi e mezzo Garibaldi si era impadronito dell’Isola. Aveva ripetutamente sconfitto forze di gran lunga superiori alle sue per numero e per armamento; aveva provocato una serie di insurrezioni in tutta la Sicilia rendendola ribelle alla dinastia borbonica ed offrendo ad essa la libertà. Sbarcato a Marsala con soli mille uomini, Garibaldi disponeva ora di una forza decuplicata, ancora numericamente inferiore all’esercito borbonico ma con una consistenza sufficiente per affrontare la nuova impresa: il passaggio dello Stretto di Messina e l’avanzata nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie.

 

Da Melito Porto Salvo a Soveria Mannelli

Un nuovo contingente di ottomila volontari, raccolti da Agostino Bertani, era destinato a sbarcare nello Stato pontificio. Ma il Cavour si mostrò ostile all’iniziativa e riuscì ad ottenere dal Bertani che i volontari venissero condotti in Sardegna e di là in Sicilia da dove sarebbero stati liberi di muovere verso lo Stato romano. Lo stesso Bertani, raggiunse Garibaldi a Messina per invitarlo a recarsi in Sardegna ad assumere il comando della spedizione contro lo Stato pontificio. Mentre il Generale si trovava in navigazione verso la Sardegna, la notte dell’otto agosto del 1860 ci fu il primo sbarco sulla costa calabra: seguendo le disposizioni impartite da Garibaldi, duecento uomini tra i più provati e ardimentosi furono inviati con agili scialuppe ad occupare il fortino di Altafiumara a Villa San Giovanni. Il calabrese Benedetto Musolino aveva garantito di essersi accordato coi sottufficiali del fortino; il drappello era comandato dal Racchetti e tra i componenti vi erano il Missori, il Nullo e Alberto Mario, che da poco aveva raggiunto il Garibaldi in Sicilia. Ma il tentativo non ebbe buona riuscita; i sottufficiali non dettero alcuna collaborazione ed il gruppo dovette desistere e ritirarsi sull’Aspromonte dove riuscì ad ottenere l’appoggio di quattrocento volontari calabresi. Nascevano così i Cacciatori della Sila.

Lo sbarco in Calabria a Mélito Porto Salvo

Rientrato dalla Sardegna, Garibaldi sostò a Palermo da dove ripartì compiendo il periplo dell’Isola e raggiungendo il 18 agosto le coste di Taormina dove ad attenderlo c’era il Generale Bixio con quasi quattromila uomini già pronti per la partenza che avvenne la sera dello stesso giorno; all’alba del 19 agosto la spedizione giungeva sulla costa ionica della Calabria approdando a Mélito Porto Salvo dove lo sbarco ebbe luogo senza conflitti: le navi borboniche arrivarono ad operazioni concluse accontentandosi di affondare una delle due navi ch’erano servite per lo sbarco.

Reggio Di Calabria

La strada costiera da Mélito a Reggio fu il primo tragitto calabrese dei garibaldini che intanto si erano ricongiunti con il gruppo del Racchetti e del Missori discesi dall’Aspromonte a Mélito appena furono avvertiti dell’arrivo di Garibaldi in Calabria. Reggio, d’altronde, era stata la prima città della Calabria che, alla notizia dello sbarco dei Mille a Marsala, aveva proclamato decaduto il dominio borbonico.

Sbarcato all’alba del 19 agosto a Mélito Porto Salvo, Garibaldi ordinò subito la marcia su Reggio presidiata da una nutrita guarnigione sotto il comando del generale borbonico Gallotti, il quale, venuto a conoscenza dell’avvicinarsi di Garibaldi, aveva ordinato al Colonnello Dusmet di apprestare una linea di difesa lungo la cerchia esterna della città. La sera del 20 agosto le camicie rosse aggirarono i Borboni e penetrarono nell’abitato di Reggio Calabria dove si accese una sanguinosa battaglia. Lo stesso comandante borbonico cadde colpito a morte mentre conduceva i suoi all’attacco; la forza degli attacchi dei garibaldini e la morte del Dusmet costrinsero i borbonici a rifugiarsi dentro il castello della città dove aveva preferito restare il Generale Gallotti. Il castello però venne stretto d’assedio da una squadra della colonna Missori capitanata da Alberto Mario e, il 22 d’agosto, il Gallotti fu costretto anche lui “ad alzare bandiera bianca”. Per aiutare i Borboni di Reggio era sopravvenuto, a resa però già avvenuta, anche il generale Briganti; il Garibaldi gli andò incontro a Gallico, un paesino a cinque chilometri a nord di Reggio, disperdendone le truppe dopo una breve mischia.

Il secondo sbarco: Favazzina

Contemporaneamente, durante la notte tra il 21 e il 22 agosto il generale Cosenz portava in territorio calabrese la brigata Assanti e la compagnia dei volontari francesi; la nuova spedizione sbarcava a Favazzina, un paesino di 400 anime, tra Scilla e Bagnara, a Nord Est di Villa San Giovanni. Avanzando verso l’interno la spedizione sosteneva alcuni scontri contro i reparti borbonici dispiegati a presidio di alcune località calabresi. Dopo aver ributtato alcune truppe borboniche a Favazzina si dirigeva per Bagnara verso Solano. Durate uno di questi scontri con cariche “alla baionetta” cadeva pure il comandante dei volontari francesi De Flotte, “uno di quegli esseri privilegiati – scriveva Garibaldi – cui un solo paese non ha diritto di appropriarsi. Così il Garibaldi teneva le posizioni di Reggio e Villa San Giovanni mentre il Cosenz quelle dispiegate tra Villa e Bagnara Calabra.

I corpi borbonici del generale Melendez e quelle del generale Briganti, in vista d’essere accerchiati, si arresero; ma la vera ragione della mancata resistenza delle truppe di Francesco II fu il fenomeno della diserzione che assunse proporzioni enormi e che, quotidianamente, intaccò i contingenti borbonici, togliendo ai comandanti la fiducia delle loro truppe.

Da Reggio di Calabria e Bagnara Calabra a Monteleone e Soveria Mannelli

Dopo la resa di Reggio (21 agosto), dispersi i novemila uomini del Melendez e del Briganti, Garibaldi proseguì lungo la costa del Golfo di Gioia Tauro ed intraprese la sua rapida marcia verso Nord: il 25 agosto arrivò a Palmi, il 26 a Nicotera, e il 27 giunse a Monteleone di Calabria (dal 1928 Vibo Valentia) dove venne accolto trionfalmente dalla popolazione che aveva visto il generale Ghio abbandonare la città con la sua colonna decimata dalle diserzioni. A Monteleone molti patrioti calabresi si aggiunsero alle fila di Garibaldi: Michele Morelli, Luigi Bruzzano, Vincenzo Ammirà sono soltanto alcuni dei nomi di intellettuali che seguirono l’eroe dei due Mondi.

Proveniente da Monteleone, Garibaldi giunse a Maida (CZ) il 29 agosto venendo accolto, anche qui, da una popolazione acclamante: <<Non è tempo di feste>>, disse alla folla da un balcone. <<I dodicimila uomini comandati dal trucidatore di Pisacane, il generale Ghio, ci aspettano sull’altopiano di Soveria>>. E così fu: Garibaldi il 29 sera era arrivato a Tiriolo. Ghio tentò la ritirata verso Napoli ma, proprio a Soveria Mannelli, fu raggiunto da Garibaldi. All’alba del 30 agosto i calabresi garibaldini, “Cacciatori della Sila”, comandati dal barone Francesco Stocco e inviati da Garibaldi avevano preso posizione attorno al paese mentre, da Tiriolo, giungeva l’avanguardia del Cosenz seguito da Garibaldi e dal suo stato maggiore.

Dopo un accenno di resistenza, considerato che i suoi soldati rinunciavano a combattere dandosi alla fuga, il 30 agosto del 1860 Ghio accettò la resa. All’ingresso dei Soveria Mannelli, all’epoca dei fatti cittadina con poco più di duemilacinquecento abitanti, sorge oggi un monumento detto “Colonna Garibaldi” eretto in ricordo della capitolazione del corpo borbonico comandato dal generale Ghio. Esso è realizzato da un obelisco di bella fattura con trofei bronzei e posato su un basamento a gradini

Tre giorni prima, il 27 d’agosto anche il generale borbonico Caldarelli aveva lasciato Cosenza dove la popolazione, appresa la notizia della caduta di Reggio di Calabria (21 agosto), aveva costituito un governo provvisorio. E pure a Catanzaro un governo provvisorio era stato istituito in città dopo la notizia della presa della città dello Stretto.

Così, alla fine dell’agosto 1860, Garibaldi aveva liberato completamente la Calabria dai Borboni: l’esercito del generale Vial, comandante supremo delle forze borboniche in Calabria, forte di trentamila uomini, era completamente disfatto. Una piccola parte di esso aveva ripiegato su Napoli, ma la maggior parte si era dispersa con la diserzione e casi di interi reparti borbonici calabresi che chiesero di essere arruolati nell’esercito garibaldino.

La situazione era profondamente mutata: <<Italiani! Il momento è supremo. Già i fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore dell’Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare di là insieme alle venete terre. Tutto ciò che è dover nostro e diritto, potremo fare se forti. Armi, dunque, ed armati. Generoso cuore, ferro e libertà>>.

 
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Nel 150° dell’Italia Unita … il nuovo numero di ALM per un buon 2011

Care amiche e cari amici di Abolire la miseria della Calabria,

a nome della redazione auguro a tutti voi, nel 150° dell’Italia Unita, un felice 2011 ricco di cultura e culturalmente ricco. E lo faccio con il nuovo numero. Ancora una volta in “copia omaggio” grazie anche al contributo della Provincia di Catanzaro offerto all’associazione di volontariato culturale Non Mollare e da noi interamente dedicato all’Unità d’Italia ed al ruolo che per essa ebbe il Mezzogiorno d’Italia e la Calabria in particolare. A breve pubblicheremo anche l’inserto speciale. Intanto buona lettura a tutti con “otto pagine di cultura” ed AUGURI!

Uno speciale ringraziamento al Presidente Napolitano che dà ascolto ai giovani e che, lo scorso 8 giugno 2010 con nota ufficiale del Segretario Generale Pasquale Cascella (Prot. SGPR del 11/06/2010 n°0062663 P), nel renderci nota la possibilità di utilizzare il testo dell’Intervento del Presidente tenuto all’Accademia Nazionale dei Lincei, ci ha ufficialmente <<Rappresentato i sensi della considerazione del Presidente Giorgio Napolitano per l’iniziativa di dedicare un numero del periodico “Abolire la miseria della Calabria” al tema del Mezzogiorno nel centocinquantenario dell’Unità d’Italia>>. Ovviamente siamo orgogliosi di tutto ciò e, nello stesso tempo, increduli e lusingati di questo riconoscimento. Grazie davvero Presidente Napolitano, garante della nostra costituzione, e un augurio per un buon 2011 con meno suicidi nelle carceri.

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Continuità e attualità del Risorgimento

di Vittorio Emanuele Esposito

Giuseppe Garibaldi 1870 Nadar

La proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) segnò la fine di una lunga attesa, la ‘realizzazione di un sogno’, avvenuta in tempi e modi in gran parte fortunosi e largamente imprevisti, ma fortemente voluta da quelli che ne furono i più diretti promotori e ne prepararono le condizioni: il mazziniano Partito d’Azione, la Società Nazionale di Manin, Garibaldi, La Farina, e il conte di Cavour, che ne fu il segreto ispiratore.

La rivoluzione italiana, il processo cui fu dato il nome di ‘Risorgimento’, era, in realtà, iniziata molto prima, alla fine del Settecento, quando i ‘giacobini italiani’, infiammati dalle idee e dai radicali cambiamenti politici e sociali introdotti dalla Rivoluzione Francese, si resero conto dei limiti del riformismo dei principi ‘illuminati’ e compresero che il presupposto necessario della libertà e del progresso, nella penisola, erano l’unità e l’indipendenza del popolo italiano dal dominio straniero: fosse quello dell’Impero austriaco o quello della Repubblica francese.

Il ‘popolo’ italiano, la nazione, l’Italia come idea e sentimento esistevano già da secoli e avevano la loro radice nell’unità di lingua, di cultura e di vita, nella condivisione di un territorio, in una storia comune. Ciò, nonostante la molteplicità e la divisione politica che, per secoli, fu la caratteristica negativa degli italiani e fu avvertita come tale in quanto causa principale di rivalità e di lotte incessanti tra i diversi Stati e della conseguente caduta della penisola sotto il dominio delle potenze nazionali straniere: gli spagnoli, i francesi, gli austriaci.

Fu Machiavelli, nel XVI secolo, a porre il problema della creazione di un unico Stato italiano, che egli voleva modellato sulla Costituzione della repubblica romana e dotato di un esercito di popolo in grado di difenderne i confini, anche se ne affidava la realizzazione ad un “Principe” demiurgo, dotato di eccezionali virtù politiche. Ma si trattava, per il momento, solo di un’ipotesi generosa, nata dalla sua acuta mente di studioso di fatti politici, che si scontrava, tuttavia, con tre forze avverse: le oligarchie politiche, sociali ed economiche dei diversi Stati italiani, le ideologie particolaristiche, la Chiesa, che da quella divisione traeva vantaggio per le sue ambizioni di assoluto dominio sulle coscienze e le sue pretese temporalistiche, fondate sull’inganno della falsa ‘donazione di Costantino’, e, per questo, le alimentava, stabilendo organiche alleanze con il potere politico a danno della libertà.

Fu la Rivoluzione Francese, che, scardinando l’assetto feudale e il regime del privilegio della nobiltà e del clero, all’insegna del trinomio ‘libertà, uguaglianza, fratellanza’ (idee guida di ogni civiltà degna del nome), diede ai giovani ‘giacobini’ italiani l’impulso e la fede in un possibile riscatto e ‘risorgimento’ della nazione. L’unità e l’indipendenza dell’Italia passarono, appunto, dalla sfera del puro desiderio al terreno concreto dei fatti e della lotta politica nel triennio rivoluzionario 1796-99, aiutate in parte e insieme ostacolate dalla presenza delle armi francesi in Italia.
I patrioti di tutti gli Stati italiani, si ritrovarono sotto l’unica bandiera tricolore, che quell’unità spirituale simboleggiava e che fu inaugurata il 7 gennaio 1976 a Reggio Emilia, dove, con l’unione delle quattro città di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara, affrancatesi dal dominio ducale e papale, era sorta la Repubblica Cispadana: ‘il primo stato democratico repubblicano della nuova Italia’ (Luigi Salvatorelli).

Contro i luoghi comuni, oggi prevalenti, mentre si prepara una celebrazione dei 150 anni dello Stato italiano, ambigua, epidermica e dai toni populistici – quasi un festeggiamento da mondiali di calcio- il sentimento unitario era, fin da allora diffuso in tutti i ceti e non conosceva limiti regionalistici. La Lombardia, dove si instaurarono prima la Repubblica Cisalpina e poi la Repubblica italiana e il successivo Regno napoleonico d’Italia, fu la regione in cui le aspirazioni nazionali trovarono uno dei principali terreni di cultura. A Milano Melchiorre Gioia vinse il concorso bandito dall’amministrazione lombarda con una dissertazione in cui dimostrava che i tempi erano maturi per la formazione di un solo Stato italiano, indipendente, libero, repubblicano e unitario. E Venezia, dove oggi sembrano prevalere le nostalgie filo- asburgiche, subì un vero e proprio trauma per il tradimento di Napoleone in seguito alla pace di Campoformio, come Ugo Foscolo ci testimonia.

Quanto al Sud, vano e fuorviante è il tentativo di una storiografia giornalistica, tendenziosa e scopertamente strumentale, di accreditare le insorgenze antifrancesi delle popolazioni meridionali come rivolte contro lo straniero. Essere, allora, contro i francesi, significava favorire l’egemonia austriaca. Per uscire dal dilemma l’unica via era quella imboccata dai giacobini, che con i francesi intrattennero un rapporto dialettico, visto che il loro intento principale era quello di rompere il dominio feudale e che, nella breve vita della Repubblica partenopea, impostarono quella eversione del sistema feudale, che non riuscirono a realizzare e che fu poi attuato nel 1806, appunto, dai francesi. Il sanfedismo fu e rimane una reazione oscurantista e retrograda, nonostante l’opinione contraria dei ‘revisionisti’.

Il revisionismo storico, nelle sue espressioni più serie, ha il merito di portare al centro dell’attenzione le ragioni di quanti vengono scavalcati dall’incessante moto di cambiamento della storia. E, nel caso specifico, oggi sappiamo che nella rivolta dei lazzari napoletani e delle popolazioni calabresi, subornate dal cardinale Ruffo, così come nel cosiddetto ‘brigantaggio’ post-unitario, vi erano esigenze di sopravvivenza, di giustizia, di emancipazione, che non possono minimamente essere sottovalutate e conosciamo i limiti intrinseci dei processi innovativi che si svilupparono nel corso dell’Ottocento. Ma le coordinate fondamentali della storia non possono essere oscurate e messe in cantina.
Nessun revisionismo può farci dimenticare che il Risorgimento fu il processo storico attraverso cui, in Italia, venne superato il sistema politico-sociale del feudalesimo con tutto il suo corredo di oppressione morale e materiale delle popolazioni e che il nuovo Stato unitario – che ne fu il maggiore risultato- con tutti i compromessi che furono necessari per realizzarlo, con tutte le insufficienze che hanno condizionato pesantemente, fino ai nostri giorni, la vita della nazione, ha trasformato gli italiani da sudditi in liberi cittadini, uguali di fronte alla legge. Certo l’uguaglianza civile fu solo la prima importante tappa di un cammino che è ancora in gran parte da compiere e che ha ancora, come meta da raggiungere, l’uguaglianza economico-sociale, quella ‘libertà giusta’, cioè, che era nelle aspirazioni di Mazzini e dei democratici realizzare. Ma, intanto, è bene marcare il discrimine tra Risorgimento e l’ Antirisorgimento perenne, che oggi riacquista vigore attraverso il blocco delle forze tradizionali della conservazione mentale e sociale.

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Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Presagi e moniti di Benedetto Musolino

E’ ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”

Un calabrese dalla “costante fede italiana” che “amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria”

Per una riforma radicale: l’imposta progressiva per combattere la lussuria irrompente del capitale

di Giuseppe Candido e  Filippo Curtosi

Quando la politica, anche quella calabrese, sembra perdere il suo senso d’Unità e pensa a secessioni e a partiti “meridionali” per competere con la La Lega del Nord, forse non è davvero tempo sprecato guardarci indietro, non per commemorare, ma per trarre, dai migliori, l’esempio.

In una piazza di Pizzo di Calabria, la bella epigrafe dettata da Ferdinando Martini fa ammenda dell’aspro giudizio di taluni contemporanei, e dice in sintesi della vita e delle gesta di Benedetto Musolino (Pizzo, 1808-1885), patriota e politico Senatore del Regno d’Italia nella XIII legislatura. A ricordarlo era Alfredo Gigliotti, direttore di una vecchia rivista di “Rassegna Calabrese”. Un mensile di vita, cultura, informazioni che, nel numero unico di novembre e dicembre del 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, ne ripercorreva la vita e le gesta per consentire ai posteri di “correggere le sentenze ingiuste”. Perché, scriveva il Gigliotti, “E’ ben vero che i posteri sono quasi fatti apposta per correggere le sentenze ingiuste dei predecessori”. La famiglia Musolino occupa uno dei cospicui posti della storia del Risorgimento: lo zio e il Padre di Benedetto erano stati patrioti del novantanove ed avevano dovuto emigrare a causa della persecuzione delle bande del Cardinale Ruffo; lo zio Domenico e il figlio primogenito Saverio, erano stati poi uccisi durante la reazione del ’48; una sorella del giovane Benedetto fu madre di Giovanni Nicotera. Ma tutte le virtù familiari e patriottiche sembrarono riassumersi in Benedetto Musolino, nato l’8 febbraio 1809.

Giovanissimo, visitò l’Impero Ottomano; studente a Napoli fondò con Settembrini una “Giovine Italia”, una setta conosciuta come “Figlioli della Giovine Italia”, men fortunata di quella del Mazzini; cospiratore soffrì il carcere, combattente all’Angitola, nel ’49 promosso Colonnello di Stato Maggiore, ritornò dall’esilio di Francia per raggiungere Garibaldi in Sicilia. Fu quindi capo dell’insurrezione calabrese del 1860 e “deputato garibaldino al parlamento fino alla XIII Legislatura, ove portò alta e generosa l’affermazione della sua costante fede italiana”.

L’8 maggio del 1839 venne arrestato e assieme a lui presero la via del carcere anche il fratello Pasquale, Saverio Bianchi, Raffaele Anastasio e Luigi Settembrini. Liberato tre anni più tardi gli venne imposto di raggiungere il proprio paese dove viveva sotto stretta sorveglianza con l’obbligo di non allontanarsi dall’abitato anche di giorno e il divieto di rimanere fuori casa dopo il tramonto.

Un sorvegliato molto speciale che anche in quelle condizioni ebbe però il coraggio di cospirare ancora, assieme ad Eugenio De Riso e altri, per preparare i moti che poi sfociarono nella rivoluzione del 1848.

Musolino, scriveva il Gigliotti, “aveva il fervore della fede e delle idee, talvolta senza conoscere il freno, onde fu spesso ritenuto piuttosto uno spirito bizzarro che sapeva dire stravaganze brutali e verità”. Un uomo di pensiero e azione, un patriota che “Amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria e dimostrò averne il senso e la perspicacia negli anni avanzati, così come, nei tempi della giovinezza, aveva avuto l’ardore dell’azione”.

Per un decennio si batté alla Camera quasi solo per la preparazione nazionale, lanciando proposte, illustrando progetti che ammiriamo ancora oggi.

Radicale nell’animo. In un discorso pronunciato alla Camera il 30 giugno del 1861, Benedetto Musolino domandava se la Francia avesse mai pronunciato una sola parola relativa all’unità italiana. E rispondeva: “No. E dunque come fondate voi la vostra speranza nell’aiuto di questa alleata? Io dico – continuava Musolino – che l’alleanza della Francia non esiste più. Questa è un’altra illusione che ci facciamo: pretendiamo o fingiamo pretendere di penetrare a forza di fantasia là dove ci vogliono cannoni e baionette. (…) L’Italia diverrà grande alla sua volta con saviezza delle sue istituzioni, con la sua industria e con la sua forza: allora essa darà alla Francia la sua libertà”. Considerando, inoltre, l’infido atteggiamento francese nei confronti di Roma dimostrava quanto fossero illusi coloro che avevano sempre predicato Napoleone III il più sincero promotore ed amico dell’Unità italiana ed ammoniva: “Bisogna fare causa comune con la Germania, armarsi poderosamente, prendere da una parte Roma e dall’altra invadere il territorio francese incominciando con l’occupazione di Nizza e Savoia”.

Più oltre, nello stesso discorso, Musolino, pensando di aver dinnanzi i francesi, dichiarava la volontà italiana: “Non temete, l’Italia non aspirerà a conquiste, siamo contenti della nostra terra, del nostro cielo, della nostra eredità: in Italia non abbiamo razze diverse, diversa lingua, istinti diversi: una è la lingua, una è la razza. La base della nazionalità sta nella razza e nella lingua”. Ancora ignaro – su questo – quante sciagure, proprio quei nazionalismi basati su razza e identità linguistiche, avrebbero a breve causato.

Dura la critica al socialismo che si andava profilando. Si intese di economia e il 18 marzo del 1863, quando alla Camera si prendeva in esame il fabbisogno finanziario della Nazione, Benedetto Musolino, “che ad ogni problema apportava competenza dotta e sicura”, pone all’ordine del giorno dei suoi colleghi deputati “una riforma radicale” del sistema contributivo proponendo “l’imposta progressiva”. Nel corso della sua esposizione sollevava, senza assumere atteggiamenti demagogici, le sue accuse contro l’ingiustizia sociale della distribuzione della ricchezza e precisa i rapporti tra capitale e lavoro criticando aspramente le “malsane deviazioni dell’incipiente nostro socialismo”: “Il lavoro è mal ripartito, afferma Musolino; il capitale assorbe tutto. L’operaio lavora quando il capitalista lo vuol far lavorare e, quando questi non ci trova più la convenienza, lo getta sulla via”. E se ciò non bastasse afferma parole di straordinaria attualità anche oggi: “Signori, la pretesa civiltà moderna tende a sostituire il feudalesimo economico all’antico soppresso feudalesimo civile e politico. Tutt’oggi è capitale, e noi tendiamo ad una radicale trasformazione sociale. Se vogliamo costruire il nuovo Stato, la nuova società, su basi incrollabili, atteniamoci alla giustizia distributiva. Di fronte a questa lussuria sempre irrompente del capitale, io credo che per ora non c’è nessun altro rimedio se non l’imposta progressiva. Dacché il capitale è tanto favorito, è ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”. Personaggio polivalente e poliedrico dedicò “studi diligenti” ai problemi di politica nazionale ed internazionale. Capì che per avere e mantenere la sicurezza in Patria e nell’Europa delle nazioni di allora, era necessaria una forza armata nazionale di professionisti “allenati”. In occasione della discussione sul riordino e sull’armamento della Guardia Nazionale proposti da Garibaldi si espresse affermando che: “Bisogna che il cittadino acquisti le attitudini che all’occorrenza lo facciano essere soldato, e perché diventi soldato bisogna che sia istruito in tutte quelle pratiche che costituiscono l’arte militare. Perché si ottenga un’istruzione solida da avere, al bisogno, tanti soldati quanti sono i cittadini capaci di tenere un fucile, è d’uopo che ogni cittadino sia abituato alle pratiche della milizia”. A tale fine prevedeva periodiche “esercitazioni” che avrebbero conferito “un’idea precisa di come guerreggiare in campo” per cui, “in breve tratto di tempo si potrà vedere il nostro popolo armato ed esercitato, ed in caso di bisogno non avremo più dei corpi di truppa incomposta, ma dei soldati d’ordinanza”.

Attento ai problemi internazionali nel novembre del 1872, Musolino prende la parola alla Camera per esporre il suo pensiero netto e chiaro sui rapporti tra la Russia, la Prussia e l’Austria, i cui imperatori si erano incontrati in un convegno a Berlino nell’ottobre precedente: “La razza slavo moscovita si ritiene come predestinata al compimento di una grande missione, al rinnovamento dell’umanità accasciata sotto il peso della decrepitezza e della corruzione, mediante l’assorbimento delle altre razze, nazioni e credenze allo stesso centro politico e religioso. E’ un’utopia, escalamo taluni. Ed io rispondo che diventerà realtà se l’Europa non vi provvede in tempo. Se l’Europa le permetterà, non dico di fare, ma di sviluppare gli immensi elementi di potenza e di espansione che in sé racchiude, prima di mezzo secolo il vecchio continente di Europa e di Asia sarà invaso e dominato dalla razza slavo-moscovita (…). Per analoghi motivi la Prussia, avendo innalzata la bandiera della nazionalità, deve necessariamente osteggiare ogni ingrandimento della Russia e perché non può lasciarsi assorbire in Europa e perché non può permettere che quella estenda la sua dominazione nell’Asia minore. Il giorno che l’Europa permetterà alla Russia di sboccare e avere possessi nel Mediterraneo, sia avanzando dalla parte del Bosforo sia discendendo dall’Armenia in Siria e in Anatolia, l’Europa avrà segnato il decreto della sua servitù, giacché avrà concesso alla Russia il mezzo di come avere quei marinai che non può avere con le sue gelate contrade: marinai senza cui non potrà mai mettere in piedi delle grandi flotte che le sono indispensabili per girare le nazioni di occidente, onde neutralizzare la loro azione e il loro concorso quando sarà arrivato il momento di operare contro tutta l’Europa, invadendola da lato della Germania con enormi masse che potrà avere al più tardi fra due generazioni a causa dello sviluppo naturale e prodigioso della sua popolazione. E la Germania si trova nella stessa nostra condizione come quella che, essendo confinante con la Russia, sarebbe esposta elle prime invasioni dalle orde settentrionali, che per essere le prime, sarebbero accompagnate dal maggiore accanimento e seguite dalle più desolanti rovine.

I sapienti uomini politici del nuovo Impero Germanico non possono né debbono chiudere gli occhi di fronte all’avvenire che è riservato a tutte le Nazioni del vecchio continente dallo spirito di cosmopolitismo moscovita. E se non pensiamo fin da ora a mettere quest’ultimo nell’impotenza di continuare la sua espansione, essi avranno fabbricato sull’arena. Potranno ben costituire una Germania sapiente, splendida, gloriosa, ma sarà una Germania che non durerà più di cinquant’anni”.

Sorprendono ancora l’attualità e la veridicità dei presagi di quest’eroico garibaldino e dovrebbero destare ammirazione sincera. Crediamo giusto che quello spirito, quei suoi discorsi, quel suo ardore, quelle di idee e quelle azioni di rivoluzionario, patriota e politico di “fede italiana” fossero meditati anche oggi in questo cento cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale Musolino, assieme a tanti altri di Calabria, sacrificò la vita e ogni bene di fortuna. Sarebbe sicuramente un bell’esempio per vecchie e nuove generazioni.

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I 150 anni dell’unità d’Italia e Giuseppe Mazzini, precursore del nuovo diritto pubblico europeo

L’apostolo che ci ha mostrato il cammino verso un nuovo mondo

Uno di quegli eroici veggenti. “Mentre l’Italia dormiva, egli vegliava pensava e agiva

Per l’Unione dei partiti radicali. Per “la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante”

per cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

“Foste schiavi un tempo,
poi servi,
poi salariati:
sareste fra non molto,
purché lo vogliate,
liberi produttori e fratelli nell’associazione.”

Prima l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna, la fusione con l’Emilia, la Romagna e la Toscana sino al loro congiungimento alla Sicilia, al Mezzogiorno, alle Marche e all’Umbria e, nel 1861, venne proclamato il Regno d’Italia. L’embrione era stato generato. “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiano sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”. Il 21 aprile 1861 quella legge diventa la n. 1 del Regno d’Italia. Mancavano però, ancora, il Veneto che vi si aggiunse nel 1866, Roma e il Lazio sotto al dominio papalino sino al 1870, la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia per le quali si dovette aspettare sino al 1918. E’ la storia è più bella che il secolo XIX offre all’Europa nel campo delle unificazioni nazionali. Un grande esempio che il Risorgimento italiano ha donato al mondo intero realizzando l’unità attraverso la libertà.
Il 17 marzo del 2011 l’Italia compirà 150 anni. Il Paese del “bel canto”, acciaccato ma ancora in piedi, ne ha fatta di strada dal lontano 17 marzo 1861 in cui il neonato Parlamento (con sede a Torino presso il famoso “Palazzo Carignano”) sancì la proclamazione del Regno d’Italia. Ma spesso gli anniversari, le ricorrenze, si accavallano e, il prossimo 10 marzo, sarà pure il 139mo anniversario dalla morte di uno degli uomini considerato, assieme a Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso, uno dei padri della patria. Con Giuseppe Mazzini, il più grande degli esuli dopo Dante, “il pensiero vola allo scoglio di Caprera, a quel Pantheon dell’umanità, ove riposa l’eroe leggendario – l’uno rappresentante il pensiero della patria, l’altro esprimente l’azione popolare, mentre l’Italia giaceva sotto il giogo dei preti e dei tiranni”. Qualcuno oggi polemizza se l’Unità d’Italia sia stata un bene oppure una fregatura, soprattutto per il mezzogiorno. Noi non vogliamo entrare in queste considerazioni e vorremo invece concentrare l’attenzione su una delle figure cardini della Giovine Italia. Nato a Genova il 22 giugno del 1805 Giuseppe Mazzini, politico e patriota, si presenta ai giovani, ancora adesso, come una figura “luminosa”.

Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini

La repubblica, come necessità storica sorgerà dai cento errori governativi che terranno dietro ai cento commessi; sorgerà, dal convincimento degli animi, che la guerra ogni giorno alla libertà degli italiani, alle associazioni, alla stampa, al voto, è conseguenza inevitabile del sistema, non d’uno o d’altro ministero; sorgerà dal senso di pericolo mortale e di disonorare che lo spettacolo di corruzione dato da un governo senza dignità e senza amore, susciterà presto o tardi, onnipotente negli uomini che hanno a cuore l’avvenire della Patria”.
Tutti gli uomini, per quanto di nazionalità diversa, già separati dal tempo, e aventi concetti filosofici opposti, vedute contraddittorie sul modo di considerare molti particolari dell’organizzazione sociale, possono nondimeno sentirsi collegati insieme da un vincolo supremo.

Il vincolo che ci unisce a Mazzini, secondo Yves Guyot, direttore de “La Siécle”, quotidiano francese stampato come “giornale politico, letterario e d’economia sociale” tra il 1836 e il 1932, è il seguente: “Al veder mio v’hanno, al di sopra di tutte le questioni secondarie, due grandi dottrine: la dottrina del regresso e la dottrina del progresso: La prima si riconosce da’ eguenti sintomi: predominio dei più sopra i pochi: strumento di si fatto predominio, la menzogna e la forza: oppressione dell’uomo che si riflette sulla donna: annullamento del fanciullo mercé quelle due oppressioni in accordo fra loro: quindi atonia intellettuale, morale e fisica: spoliazione de’ deboli a beneplacito di tutti. In sì fatto ambiente: l’ira d’individuo ad individuo, da religione a religione, da credenza a credenza, da città a città, da favela a favela, da razza a razza: la guerra, fine supremo dell’umana attività!
La seconda, all’incontro, ha per intento: il rispetto della personalità, quale che ne sia il sesso o l’età, la patria e il colore: l’eguaglianza di tutti dinnanzi al Diritto: la protezione dei deboli, la distruzione dei privilegi usurpati dai forti; la libertà per tutti; libertà di disporre della propria persona sotto la propria responsabilità; libertà d’andare, di venire, di operare; libertà di pensiero, di parola, di scritto; libertà di associarsi pel compimento di tutti quegli atti, che, se commessi da individui isolati, non sarebbero considerati criminosi: fusione di tutti i componenti la famiglia umana, nella progressiva evoluzione.
E questa dottrina fu quella che Mazzini insegnò: al suo trionfo Ei consacrò l’intera sua vita: e la profonda traccia da Lui lasciata nell’animo di quanti lo conobbero, è prova inconfutabile dell’efficacia dell’opera sua. L’umanità mi appare quale immenso ammasso di tronchi mutilati, inconsci, ciascuno dei quali si va piegando e ripiegando in dolorose convulsioni; tutti urtandosi, dilaniandosi, divorandosi gli uni gli altri ne’ loro perenni sforzi per riunirsi e costituire un Essere guidato da un’intelligenza e da un’unica volontà. E stimo suoi più grandi benefattori coloro che, afferrando i tronchi del mostro, gettandosi fra quelle ritorte, immergendo il braccio nelle fauci divoratrici per strappar loro la preda, senza timore di esserne soffocati, lacerati, o contaminate dalle loro brutture hanno lavorato a ricostruire le vertebre affiacchite, affinché, al ridestarsi della coscienza che era venuta meno, l’Umanità scoprisse il suo ideale di perfettibilità, e lo attuasse. Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti. Quanti credono nel Progresso, conclude il giornalista, gli debbono il tributo del loro rispetto e della loro ammirazione. Ed io vi sono riconoscente di avermi offerto l’occasione di deporre il mio”.
Le idee di Mazzini e la sua azione politica, senza dubbio contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano, la cui polizia lo costrinse però alla latitanza fino alla morte, a Pisa nel 1872. “Il corpo a Genova, il Nome ai Secoli, l’Anima all’Umanità”. Idee che furono di grande importanza, anche successivamente all’Unità, nella definizione dei moderni movimenti europei e per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato. “X MARZO” era il titolo di un foglio stampato a Napoli – il 10 marzo ovviamente – nel 1889, presso lo stabilimento tipografico dell’Iride. Ritrovarlo assieme alle “antiche riviste calabresi” di un facoltoso signore deceduto è stato un caso davvero fortunoso poiché lo stesso veniva spedito al “Distinto Giovane Signor Ferdinando Grano” in Monteleone di Calabria. Non solo il Guyot. Sul foglio sono riportati scritti del Mazzini stesso alternati a fantastici editoriali di scrittori.
Mazzini “Si presenterà luminoso al secolo venturo per queste ragioni chiare: Fu araldo dell’Idea nazionale e fondò la Giovine Italia; Fu precursore del nuovo diritto pubblico europeo e fondò la Giovine Europa; Derivò l’azione dal pensiero ed ordinò la filosofia e le lettere ad alto fine politico; Intese l’inutilità di parlare ai poteri costituiti ed alle generazioni vecchie e si rivolse alle generazioni nuove ed al popolo con lingua di popolo. Fu inteso. Il suo pensiero fu convincimento, carattere, vita sua e vita di nazione. Tanto s’ingrandisce di anno in anno quanto s’impiccolisce la distanza fra lui ed il suo ideale” scriveva Giovanni Bovio.
Il pensiero politico e sociale dimostrano che Giuseppe Mazzini fu davvero una di quelle “grandi anime che visitano d’epoca in epoca, l’Umanità per annunciare un nuovo ordine di cose
”.

Così Cajo Renzetti nel ricostruirne il pensiero politico e sociale per quel numero Unico del 1889 a diciassette anni dalla morte. “Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti”. “Queste potenti individualità sorgono, confusamente presentite da molti, sul morire di una fede religiosa allo spirare di un periodo storico filosofico. Sorgono potenti della sintesi del passato e forti dell’intuito divinatore dell’avvenire. Ardentemente amano, e però nella lotta contro l’errore si scagliano cavalieri della morte. La loro virtù atterra e suscita, abbatte ed edifica. L’epoca li deride li calunnia li perseguita, ed essi perseguono immutati, paghi della riconoscenza del futuro”. Giuseppe Mazzini patriota cospiratore legislatore filosofo e letterato, “Siffattamente agitò redarguì ammaestrò e risospinse per oltre quarant’anni la vecchia Europa, che fondò una patria, l’Italia, e gittò le prime pietre di una civiltà”. Tra la chiesa cattolica ed il secolo, egli evocò la libertà di pensiero e di coscienza. Tra la libertà ibridamente sposata al principato, la democrazia. Tra i capitalista e il salariato, il libero produttore”. La missione di Giuseppe Mazzini è essenzialmente “Rigeneratrice morale umanitaria, e questa si estende a tutti i popoli ed abbraccia tutte le nazioni.” “Senonché egli nasce in un paese decaduto da tanti secoli, fra un popolo diviso e oppresso per molti despoti, e deve consacrare anzi tutto le proprie facoltà a ridestarlo a sospingerla alla conquista dell’unità e della libertà , le due prime basi le due prime leve potenti d’ogni durevole e salda conquista sociale”. Eccolo quindi dalle carceri di Savona, al triumvirato della Repubblica Romana del 1849; e dalla Giovine Italia, alla Alleanza universale dei popoli”. Egli è l’uomo dei politici ardimenti che col fervore di un antico ascende la gloriosa tribuna dei Gracchi, e più fortunato e più innovatore di Crescenzio di Arnaldo di Stefano Porcari e di Cola da Rienzo, decreta la fine del Papa e del re, proclamando la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante, sciolto d’ogni tirannide di mediazione spirituale o temporale. Egli è l’uomo delle redentrici aspirazioni che detta il libro dei Doveri dell’Uomo, dove con sapienza mirabile tenta armonizzare la libertà colla legge, l’individuo coll’aggregazione, la proprietà col lavoro, la donna coll’uomo. E in tutto questo suo processo filosofico umanitario, due grandi e belle figure spiccano luminosamente, i due primi ed ultimi esseri della creazione, i due tipi eternamente giovani della società, la Donna e l’Operaio. Proprio nelle ultime linee dei Doveri dell’Uomo, quasi estremo legato ai posteri, egli ha scritto: “L’emancipazione della donna dovrebbe essere costantemente accoppiata per voi, coll’emancipazione dell’operaio, e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale.” Mazzini è cultore altissimo dell’arte, ma, continua il Renzetti, “l’arte per l’arte non costituisce il suo ideale. Per lui arte significa missione, missione morale e sociale. L’arte gli si presenta come l’insegnamento del bene mercé gli allettamenti e le attrattive del bello. Mazzini è amante della patria, ma resta assai lontano da quel patriottismo pel patriottismo per il quale oggi molti, repubblicani un giorno, riposano stanchi sugli allori dell’unità, carichi il petto di ciondoli regi. La patria per lui corrisponde, prosegue, ad una delle tante specie di quella divisione di lavoro così utile alle produzioni. Come nelle grandi fabbriche meccaniche vi sono diversi opifici, ciascuno dedicato a lavori diversi di una macchina stessa, così nel grande arsenale del mondo vi sono parecchie officine, le patrie, concorrenti ad elaborare gli elementi della macchina comune, l’umanità. Ma essa patria può anche sparire col tempo, appunto perché ci educa alla fratellanza cosmopolita.” Tant’è vero che, nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini afferma la possibilità che “La patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’Umanità”. Mazzini è fautore della libertà, della libertà la più ampia, la più sconfinata, ma, il liberalismo per il liberalismo non costituisce il suo ideale. “La libertà senza l’uguaglianza è una pianta sterile, uniforma vuota di sostanza”. Per Mazzini, scrive egli stesso nelle Opere, “La libertà non è un principio, ma quello stato in cui lo sviluppo di un principio è concesso ad un popolo. Non è il fine, ma il mezzo per raggiungerlo.” Qual’è dunque l’ideale degli ideali di Giuseppe Mazzini? “L’Umanità, lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e morali di quanti vivono, il miglioramento di tutti, la redenzione di quanti ha tipi manchevoli irregolari e deformi la natura, di quante ha vittime la società, di quanti ha martire la vita; la felicità massima e possibile della creatura, il benessere morale e materiale di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale, la progressiva divinizzazione dell’uomo”. Così rispondeva, nella prima pagina di quel X Marzo, foglio unico del 1889 per ricordare il padre della patria scomparso diciassette anni prima, il giornalista Cajo Renzetti. “E per ascendere a questa città futura, egli accenna a due principi fondamentali, la nozione del dovere e la virtù del sacrificio; avvegnanché per lui la vita significa missione, compito di trasformare le cose a favore di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale”. Da queste considerazioni emergono i concetti i concetti di famiglia, di legge, di stato, di proprietà, di popolo, quali, purtroppo, ancora oggi molto spesso non sono. “La famiglia è appunto la cellula embrionale di ogni umano consorzio. Essa col suo magistero di amore e a mezzo della prossimità, prepara ed educa i cittadini alla patria, come la patria li educa e li prepara all’umanità. La legge scritta non può essere che un riflesso, una fotografia, per così dire, della legge morale e naturale. Gli uomini nulla creano, ma scoprono; essi dunque debbono investigarla nel loro tempo ed attraverso la tradizione. Nessuno quindi può dettarla a capriccio, ed essa deve venire liberamente discussa e unanimemente accettata”. Lo stato, secondo il concetto mazziniano, non decapita i delinquenti, perché “il suo codice penale protegge la società, e ne educa gli individui; non legalizza la prostituzione, perché ripudia il lenocinio; non sparge le locuste della burocrazia, perché fa pochissime leggi e buone; non si circonda di baionette permanenti, perché tutti i suoi cittadini militano; non tiene gabellieri alle porte o alle dogane, perché non ha corte, né lista civile, né balli diplomatici, né livree di ministri, né galloni di generali: non compra coi fondi segreti , perché non ha spie, e non ha spie, perché tutto si può dire e stampare intorno ai problemi sociali, e l’interesse della sussistenza dello stato è comune; ivi i migliori per ingegno e virtù hanno dovere e diritto al raggiungimento dei pubblici negozi, e vengono eletti da tutti, rimanendo sindacabili, amovibili, responsabili.”
Lo stato mazziniano “rinuncia al carnefice, al gabelliere o al delatore, e, senza atteggiarsi a grande impresario della pubblica felicità, si riserva due sole ed uniche funzioni, la funzione esemplare e quella e la completiva. Dove manca l’esempio, lo stato promuove; dove difettano le facoltà dei privati in opere di pubblica utilità, esso concorre, disponendo, naturalmente, di mezzi maggiori a quelli de’ privati.
Questa specie di stato favoreggia, stimola, inizia a proteggere le tendenze e le spontaneità collettive. Esso può dirsi uno stato patriarcale che invece di perpetuare sé stesso ed allargare la propria sfera d’azione, tende mano mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà, cancellando, ogni giorno che passa, una riga della propria legge. Tale stato, infine, a guisa del buon padre di famiglia, scende lieto nel sepolcro, vedendo adulti e felici i suoi figliuoli.” La proprietà, secondo quanto la intese Giuseppe Mazzini non è, e non può essere il risultato della frode, dell’usura della fortuna. La proprietà deve avere un ben “più giusto fondamento, più onesta origine, il lavoro”. Nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini ha scritto chiaramente che la proprietà “è il segno, la rappresentazione della quantità di lavoro, col quale l’individuo ha trasformato sviluppato accresciuto le forze produttrici della natura”. Essa dunque è il frutto di un lavoro compiuto, e siccome in una società fondata sulla eguaglianza tutti hanno dovere e diritto al lavoro, ne consegue che “la proprietà non può, né deve agglomerarsi nelle mani di pochi e tiranneggiare il lavoro”. “La proprietà, mutabile e trasformabile in virtù della legge di progresso, deve continuamente scindersi e frantumarsi così che torni accessibile a tutti, e tutti possano, meritando col lavoro, appropriarsela”.
Forse non è l’utopia pura, forse è il modello cui uno stato dovrebbe tendere, ma sappiamo bene, a distanza di 150 anni, che non è andata precisamente così. Questo Stato, in cui viviamo l’oggi, non tende mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà. Non favoreggia, non stimola, non protegge le tendenze e le spontaneità collettive dei suoi cittadini. Non educa e, soprattutto, non rieduca i cittadini con carceri da paese incivile e che rendono, per la loro inumanità, 15 volte maggiore il tesso dei suicidi al loro interno. E’ uno stato che spesso “sparge locuste burocratiche” per non semplificare la vita dei suoi cittadini e per compromettere la vita stessa democratica scegliendo, per legge, la via partitocratica della nomina al posto dell’elezione, dell’insindacabilità e dell’inamovibilità invece della responsabilità. Proprio per questo, forse, ricordare oggi il pensiero di Giuseppe Mazzini, di uno di quei padri fondatori dell’Italia, della tanto festeggiata Unità d’Italia, non serve ad un suo tripudio storico ma può essere utile per sottolinearne la rivoluzione necessaria e il lungo cammino che non è ancora stato sufficiente a renderlo, questo Stato, davvero democratico. D’altronde, lo ricorda nei suoi scritti* il genovese, “tutte le rivoluzioni sono nella loro essenza sociali , che l’ordinamento politico è la forma e non altro dei mutamenti, e che non si ha diritto di chiamare i milioni al sacrificio della quiete e della vita, se non proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale comune a tutti.”
Ciò che Giuseppe Mazzini scriveva nel 1862 allo scrittore socialista spagnolo Ferdinando Garrido sul manifesto, che esisteva fra i democratici ed i socialisti spagnoli, noi, senza tema di errore, possiamo oggi ripeterlo e ricordarlo a tutti i democratici a proposito delle cause che tengono disuniti le diverse gradazioni del nostro partito. La sola differenza sta in questo che nel 1862 in Spagna il manifesto era fra pochi socialisti e tutto il partito repubblicano, mentre ora in Italia il dissidio è grande, perché il “partito radicale” è diviso in tatti piccoli gruppi, per quanti il progresso delle scienze sociali, l’attuale regime costituzionale, la miseria invadente ed in proporzione di questa, il malcontento, ne hanno formati. “Ai repubblicani, ai socialisti, agli anarchici, ai “comunardi” e via dicendo a tutti i radicali in generale”, noi ripetiamo, come ripeteva in quel foglio M. Florenzano, le parole di Giuseppe Mazzini: “Havvi un terreno comune abbastanza vasto perché vi possiamo stare tutti uniti. Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo sulle condizioni morali, intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo progresso, essendo più urgente per le classi operaie, ad esse anzitutto devono essere rivolti i benefici della Rivoluzione. E neppure può esserci una rivoluzione puramente Sociale. La quistione politica, cioè a dire l’organizzazione del potere, in un senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del popolo, è tale che rende impossibile l’antagonismo della causa del progresso, è una condizione necessaria alla Rivoluzione Sociale. E’ necessario all’operaio la sua dignità di cittadino, ed è garanzia per la conquista della liberà. (…) Riuniamoci dunque, compatti sotto un vessillo comune, che dica: Libertà per tutti, Progresso per tutti. Associazione di tutti per poter perseguire il fine unico che tutti ci proponiamo”.
Per ciò ci piace brindare a questo X Marzo, pure noi, colle parole che in suo onore pronunciò Giuseppe Garibaldi a Londra, nel 1864, in casa del grande agitatore russo Herzen: “Bravo Mazzini che, mentre tutta Italia taceva, parlava di Patria agli italiani; quest’Uomo che, mentre Italia dormiva, vegliava, pensava e agiva; bravo al mio Maestro, il Maestro di noi tutti.” D’altronde i Farisei, per dirla alla Kaiser, gridarono la croce al cospiratore; ma “quando dai due emisferi i Popoli avranno imparato a conoscerlo”, lo chiameranno col suo vero nome e “saluteranno in Giuseppe Mazzini l’apostolo, che ci ha mostrato il cammino in un nuovo mondo”.

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