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Generoso cuore, ferro e libertà: la via calabrese verso l’Italia Unita

a cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Pubblicato su “Abolire la miseria della Calabria” – Anno VI n°1-2-3 G/F/M 2011

Calatafimi, Salemi, Alcamo, Monreale, Palermo passando per il Piano di Renda. Poi lo sbarco a Milazzo dove si combatté per le strade cittadine finché i “regi borbonici preferirono ritirarsi nella fortezza dove furono poi costretti alla resa”. Dopo essere sbarcato a Marsala l’11 maggio del 1860, in due mesi e mezzo Garibaldi si era impadronito dell’Isola. Aveva ripetutamente sconfitto forze di gran lunga superiori alle sue per numero e per armamento; aveva provocato una serie di insurrezioni in tutta la Sicilia rendendola ribelle alla dinastia borbonica ed offrendo ad essa la libertà. Sbarcato a Marsala con soli mille uomini, Garibaldi disponeva ora di una forza decuplicata, ancora numericamente inferiore all’esercito borbonico ma con una consistenza sufficiente per affrontare la nuova impresa: il passaggio dello Stretto di Messina e l’avanzata nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie.

 

Da Melito Porto Salvo a Soveria Mannelli

Un nuovo contingente di ottomila volontari, raccolti da Agostino Bertani, era destinato a sbarcare nello Stato pontificio. Ma il Cavour si mostrò ostile all’iniziativa e riuscì ad ottenere dal Bertani che i volontari venissero condotti in Sardegna e di là in Sicilia da dove sarebbero stati liberi di muovere verso lo Stato romano. Lo stesso Bertani, raggiunse Garibaldi a Messina per invitarlo a recarsi in Sardegna ad assumere il comando della spedizione contro lo Stato pontificio. Mentre il Generale si trovava in navigazione verso la Sardegna, la notte dell’otto agosto del 1860 ci fu il primo sbarco sulla costa calabra: seguendo le disposizioni impartite da Garibaldi, duecento uomini tra i più provati e ardimentosi furono inviati con agili scialuppe ad occupare il fortino di Altafiumara a Villa San Giovanni. Il calabrese Benedetto Musolino aveva garantito di essersi accordato coi sottufficiali del fortino; il drappello era comandato dal Racchetti e tra i componenti vi erano il Missori, il Nullo e Alberto Mario, che da poco aveva raggiunto il Garibaldi in Sicilia. Ma il tentativo non ebbe buona riuscita; i sottufficiali non dettero alcuna collaborazione ed il gruppo dovette desistere e ritirarsi sull’Aspromonte dove riuscì ad ottenere l’appoggio di quattrocento volontari calabresi. Nascevano così i Cacciatori della Sila.

Lo sbarco in Calabria a Mélito Porto Salvo

Rientrato dalla Sardegna, Garibaldi sostò a Palermo da dove ripartì compiendo il periplo dell’Isola e raggiungendo il 18 agosto le coste di Taormina dove ad attenderlo c’era il Generale Bixio con quasi quattromila uomini già pronti per la partenza che avvenne la sera dello stesso giorno; all’alba del 19 agosto la spedizione giungeva sulla costa ionica della Calabria approdando a Mélito Porto Salvo dove lo sbarco ebbe luogo senza conflitti: le navi borboniche arrivarono ad operazioni concluse accontentandosi di affondare una delle due navi ch’erano servite per lo sbarco.

Reggio Di Calabria

La strada costiera da Mélito a Reggio fu il primo tragitto calabrese dei garibaldini che intanto si erano ricongiunti con il gruppo del Racchetti e del Missori discesi dall’Aspromonte a Mélito appena furono avvertiti dell’arrivo di Garibaldi in Calabria. Reggio, d’altronde, era stata la prima città della Calabria che, alla notizia dello sbarco dei Mille a Marsala, aveva proclamato decaduto il dominio borbonico.

Sbarcato all’alba del 19 agosto a Mélito Porto Salvo, Garibaldi ordinò subito la marcia su Reggio presidiata da una nutrita guarnigione sotto il comando del generale borbonico Gallotti, il quale, venuto a conoscenza dell’avvicinarsi di Garibaldi, aveva ordinato al Colonnello Dusmet di apprestare una linea di difesa lungo la cerchia esterna della città. La sera del 20 agosto le camicie rosse aggirarono i Borboni e penetrarono nell’abitato di Reggio Calabria dove si accese una sanguinosa battaglia. Lo stesso comandante borbonico cadde colpito a morte mentre conduceva i suoi all’attacco; la forza degli attacchi dei garibaldini e la morte del Dusmet costrinsero i borbonici a rifugiarsi dentro il castello della città dove aveva preferito restare il Generale Gallotti. Il castello però venne stretto d’assedio da una squadra della colonna Missori capitanata da Alberto Mario e, il 22 d’agosto, il Gallotti fu costretto anche lui “ad alzare bandiera bianca”. Per aiutare i Borboni di Reggio era sopravvenuto, a resa però già avvenuta, anche il generale Briganti; il Garibaldi gli andò incontro a Gallico, un paesino a cinque chilometri a nord di Reggio, disperdendone le truppe dopo una breve mischia.

Il secondo sbarco: Favazzina

Contemporaneamente, durante la notte tra il 21 e il 22 agosto il generale Cosenz portava in territorio calabrese la brigata Assanti e la compagnia dei volontari francesi; la nuova spedizione sbarcava a Favazzina, un paesino di 400 anime, tra Scilla e Bagnara, a Nord Est di Villa San Giovanni. Avanzando verso l’interno la spedizione sosteneva alcuni scontri contro i reparti borbonici dispiegati a presidio di alcune località calabresi. Dopo aver ributtato alcune truppe borboniche a Favazzina si dirigeva per Bagnara verso Solano. Durate uno di questi scontri con cariche “alla baionetta” cadeva pure il comandante dei volontari francesi De Flotte, “uno di quegli esseri privilegiati – scriveva Garibaldi – cui un solo paese non ha diritto di appropriarsi. Così il Garibaldi teneva le posizioni di Reggio e Villa San Giovanni mentre il Cosenz quelle dispiegate tra Villa e Bagnara Calabra.

I corpi borbonici del generale Melendez e quelle del generale Briganti, in vista d’essere accerchiati, si arresero; ma la vera ragione della mancata resistenza delle truppe di Francesco II fu il fenomeno della diserzione che assunse proporzioni enormi e che, quotidianamente, intaccò i contingenti borbonici, togliendo ai comandanti la fiducia delle loro truppe.

Da Reggio di Calabria e Bagnara Calabra a Monteleone e Soveria Mannelli

Dopo la resa di Reggio (21 agosto), dispersi i novemila uomini del Melendez e del Briganti, Garibaldi proseguì lungo la costa del Golfo di Gioia Tauro ed intraprese la sua rapida marcia verso Nord: il 25 agosto arrivò a Palmi, il 26 a Nicotera, e il 27 giunse a Monteleone di Calabria (dal 1928 Vibo Valentia) dove venne accolto trionfalmente dalla popolazione che aveva visto il generale Ghio abbandonare la città con la sua colonna decimata dalle diserzioni. A Monteleone molti patrioti calabresi si aggiunsero alle fila di Garibaldi: Michele Morelli, Luigi Bruzzano, Vincenzo Ammirà sono soltanto alcuni dei nomi di intellettuali che seguirono l’eroe dei due Mondi.

Proveniente da Monteleone, Garibaldi giunse a Maida (CZ) il 29 agosto venendo accolto, anche qui, da una popolazione acclamante: <<Non è tempo di feste>>, disse alla folla da un balcone. <<I dodicimila uomini comandati dal trucidatore di Pisacane, il generale Ghio, ci aspettano sull’altopiano di Soveria>>. E così fu: Garibaldi il 29 sera era arrivato a Tiriolo. Ghio tentò la ritirata verso Napoli ma, proprio a Soveria Mannelli, fu raggiunto da Garibaldi. All’alba del 30 agosto i calabresi garibaldini, “Cacciatori della Sila”, comandati dal barone Francesco Stocco e inviati da Garibaldi avevano preso posizione attorno al paese mentre, da Tiriolo, giungeva l’avanguardia del Cosenz seguito da Garibaldi e dal suo stato maggiore.

Dopo un accenno di resistenza, considerato che i suoi soldati rinunciavano a combattere dandosi alla fuga, il 30 agosto del 1860 Ghio accettò la resa. All’ingresso dei Soveria Mannelli, all’epoca dei fatti cittadina con poco più di duemilacinquecento abitanti, sorge oggi un monumento detto “Colonna Garibaldi” eretto in ricordo della capitolazione del corpo borbonico comandato dal generale Ghio. Esso è realizzato da un obelisco di bella fattura con trofei bronzei e posato su un basamento a gradini

Tre giorni prima, il 27 d’agosto anche il generale borbonico Caldarelli aveva lasciato Cosenza dove la popolazione, appresa la notizia della caduta di Reggio di Calabria (21 agosto), aveva costituito un governo provvisorio. E pure a Catanzaro un governo provvisorio era stato istituito in città dopo la notizia della presa della città dello Stretto.

Così, alla fine dell’agosto 1860, Garibaldi aveva liberato completamente la Calabria dai Borboni: l’esercito del generale Vial, comandante supremo delle forze borboniche in Calabria, forte di trentamila uomini, era completamente disfatto. Una piccola parte di esso aveva ripiegato su Napoli, ma la maggior parte si era dispersa con la diserzione e casi di interi reparti borbonici calabresi che chiesero di essere arruolati nell’esercito garibaldino.

La situazione era profondamente mutata: <<Italiani! Il momento è supremo. Già i fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore dell’Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare di là insieme alle venete terre. Tutto ciò che è dover nostro e diritto, potremo fare se forti. Armi, dunque, ed armati. Generoso cuore, ferro e libertà>>.

 
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IL FOLK COME SCIENZA: “Credere in ciò che fu significa credere in ciò che si è”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Luigi bruzzano
Luigi bruzzano

Luigi Bruzzano, Giuseppe Pitrè e Giuseppe Cocchiara: nasce l’Etnografia


Sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni

La nascita dell’etnologia come scienza, la critica degli illuministi sull’idea di superstizione, il malinconico trasporto per la natura primitiva, la poesia degli umili ed in genere la problematica delle tradizioni popolari largamente intese è insieme la scienza e la coscienza dell’anima collettiva. Una sorta di enciclopedia piena di amore per il documento culturale e filologico questo rappresenta, secondo noi, “La Calabria”, Rivista di Letteratura Popolare” diretta da Luigi Bruzzano, uno dei maggiori demopsicologi italiani dell’Ottocento e stampata a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) dal 1888 al 1902. La rivista del prof. Bruzzano contribuisce a creare l’odierno concetto di folklore che, per usare le parole di Antonio Gramsci, presuppone che non venga studiato come “elemento pittoresco” ma in veste di “una concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o, nel senso più largo, delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico”.

Lo storico, che volesse indagare l’origine e lo sviluppo del folklore italiano, indagarlo nel suo aspetto concreto e puro, dovrebbe usare un metodo semplice e considerarlo, per usare le parole del maggiore folclorista del secolo scorso, Giuseppe Cocchiara, “una somma di esperienze e di interpretazioni personali”. Nel suo libro “Storia del folclore in Europa”, Cocchiara, di scuola del Pitrè, sottolinea che: “se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non solo la conservazione, ma quella continua e direi naturale rielaborazione, dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un eterno rivivere”.

Quindi lo studio etnografico del folklore non per compiere esercizi di paragoni tra varie culture egemoni e subalterne come dice Nadel o proporre l’esaltazione acritica della tradizione in se ma, piuttosto, per una necessità conoscitiva che serve, è necessaria, a riappropriarsi delle radici della nostra Storia.

In una lettera del novembre 1929 Raffaele Pettazzoni, già famoso ed affermato storico delle religioni, scriveva una lettera a Giuseppe Cocchiara che a lui si rivolgeva con l’appellativo di “Illustre maestro” chiedendo di “Parlargli come un padre può parlare ad un figlio…per rendermi degno di Lei, della sua stima e della sua fiducia. Ella deve acquistare quella cultura e quel metodo etnologico che in Italia dovrebbe farsi faticosamente da sé e che per lo studio del folklore è essenziale. Ella vedrà che per gli inglesi il folklore è essenzialmente etnologia: in Italia il folklore è sempre stato altra cosa e lo stesso Pitrè non ha realizzato completamente il concetto moderno di folklore in questo senso. Ella, dunque, sarà mi auguro, il pioniere di un nuovo indirizzo di studi folklorici in Italia, l’indirizzo “antropologico” cioè etnologico”. Giuseppe Cocchiara fu allievo del Pitrè e fu lui a riordinare, a partire dal 1935, le collezioni del museo etnografico siciliano intestato allo studioso, ispirandosi sempre al principio che “credere in ciò che fù significa credere in ciò che si è”. Per Cocchiara fu fondamentale il contatto con Pettazzoni che gli consigliò di recarsi in Inghilterra per un perfezionamento dove, lo stesso, andò a prendere lezioni da Robert Marett, esponente di una scuola antropologica sociale molto avanzata e sviluppata vista la necessità di acquisire conoscenze di antropologia applicata per la gestione delle colonie. Cocchiara in un primo momento ha poca simpatia per Pettazzoni e se ne capisce la ragione. Storico, letterato non meno che filologo, uomo di sapere sterminato in cui la quantità non va mai a detrimento della qualità e del gusto, Raffaele Pettezzoni, rappresenta per Cocchiara la negazione di tutto ciò che in qualche modo si rifà all’ipotesi del collettivo. La sua teoria sulla formazione delle “chansons de geste” che sarebbero state in origine leggende, “leggende locali, leggende di chiesa” e si sarebbero trasmesse oralmente dai monaci ai giullari che percorrevano i grandi itinerari sacri, le vie dei pellegrinaggi, dando così vita ad una tradizione colta e popolare insieme, ad una collaborazione tra strati inferiori e superiori della società, questa sua teoria è perfettamente antitetica allo studioso siculo. Ma dal carteggio che i due studiosi si scambiarono tra il 1928 ed il 1959 si rileva come l’allievo siciliano considerasse una “guida spirituale” Pettazzoni. “Dalle lettere, dice Eliana Calandra, direttore del museo Pitrè, emergono due persone diverse da quelle che apparivano in pubblico. Assai più affine e congeniale al Cocchiara fu il Pitrè e l’elemento tipico di questa rassomiglianza e la fiducia che entrambi nutrivano nella “naturale grandezza e poeticità del popolo”. “Fede nel popolo” è infatti intitolato il primo dei capitoli che sono dedicati al Pitrè nella “Storia del Folklore in Europa” e nel terzo sono riferite le seguenti parole dell’illustre studioso siciliano scritte nel suo “Studio critico sui canti popolari siciliani: La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori….della sua storia è voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tenere presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e si da quelli degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggi mai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motto, nelle parole. Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni”. Il Pitrè il 16 ottobre 1888 scrive: “La Calabria” di Luigi Bruzzano è utile per conoscere i popoli dell’Italia meridionale, il bravo e dotto prof. Bruzzano ha fatto opera buona, voglia il cielo che i suoi sforzi vengono coronati dal buon successo che meritano perché fanno opera doppiamente utile alla filologia e alla etnografia”. Luigi Bruzzano allo studio del mondo classico trasmesso dal suocero Ferdinando Santacatarina, fine letterato, latinista di fama nazionale, aggiunge un nuovo ed umano “Umanesimo”: lo studio della civiltà del popolo calabrese, civiltà che viene da lontano, dalla natura primitiva, barbara e selvaggia del popolo calabro. I professorini da caffè, così chiamava il Bruzzano le persone di cultura ufficiale, abbagliati da una pseudo cultura umanista, “ebbero davanti ai loro occhi una splendida visione spiegando davanti al loro sguardo un campo di lavoro inesplorato”. Esploratore audace e intelligente Bruzzano fu pioniere indiscusso dello studio dell’etnografia. Crediamo che, l’aver riproposto un’ampia antologia di testi folklorici pubblicati dalla rivista di Letteratura Popolare “La Calabria” debba essere considerato piuttosto come sforzo conoscitivo volto al riappropriarsi della nostra Storia, della nostra lingua. Un patrimonio al quale, le giovani generazioni soprattutto ma non solo, dovrebbero avere accesso facilmente.

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