di Giovanna Canigiula
Nel primo pomeriggio del 5 aprile scorso Rita Bernardini e Sergio d’Elia, rispettivamente Presidente onorario e Segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, hanno proiettato nella casa circondariale di Catanzaro, alla presenza della direttrice, dott.ssa Paravati, e di un nutrito gruppo di detenuti, il docufilm Spes contra spem. Liberi dentro di Ambrogio Crespi. Il titolo dell’opera riprende un’espressione usata da Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani con riferimento alla fede incrollabile di Abramo e, per esteso, impiegata prima dal sindaco fiorentino G. La Pira, che ne fece il suo motto contro gli avversari politici in generale e contro chi opponeva lar durezza della realtà ad ogni possibilità di speranza in un futuro migliore in particolare, e poi da M. Pannella nella lettera indirizzata il 22 aprile 2015 a papa Francesco, in cui invitava gli uomini a farsi processo attivo di cambiamento: essere speranza piuttosto che avere speranza.
Il film è stato girato nella casa circondariale di Opera, a Roma, dove il regista ha vissuto l’esperienza del carcerato per un caso di malagiustizia. Come da lui stesso ricordato in altre occasioni, Crespi ha deciso di allestire una cella come un tempio, sfruttando tre luci e tre telecamere e affidando il compito di intervistatore discreto a S. D’Elia: davanti a noi sfilano, senza stancare, volti immersi in una sorta di tenebra, che raccontano percorsi che si assomigliano e che, incredibilmente, anche dopo ventidue anni di isolamento, trasmettono un messaggio di speranza. Forse un’illusione, come dice uno degli intervistati. Il progetto, nato dal desiderio di compiere un ‘viaggio nel buio profondo’ dei condannati con ‘fine pena mai’, ha l’ambizione di far conoscere alle persone cosiddette normali quel mondo di assassini, criminali, mafiosi che scopriamo vicini a noi quando spiegano le ragioni per cui, spesso giovanissimi, hanno sbagliato: un fratello assassinato che spinge ad ‘agire’ se non trovi una spiegazione all’accaduto che attenui il dolore; un ambiente sbagliato, frequentazioni ed amicizie che hanno prodotto una devianza e tutto d’improvviso cambia.
I detenuti non raccontano nel dettaglio le loro storie, lasciano solo intuire il percorso, profondamente spirituale, che li ha condotti dal male alla consapevolezza del male: fra le quattro pareti del carcere, anno dopo anno hanno preso le distanze dalla parte nera della loro anima, hanno cercato dentro se stessi, capito, voltato pagina. Sono cambiati. Hanno lasciato figli piccoli ora adulti e a loro volta padri, hanno perso i genitori, sono stati lasciati da una moglie eppure, sembra quasi una follia, sono diventati ‘umani’. La loro anima si è fatta bianca. Molti di loro hanno scoperto dopo anni di essere stati condannati al carcere ostativo, quello da cui si esce solo quando si muore, ma continuano a coltivare la speranza contro ogni speranza e sognano magari piccole conquiste: testimoniare nelle scuole la propria esperienza, ad esempio, perché, come dice un detenuto, salvare anche un solo ragazzo vale tutta una vita di sofferenza.
La controparte, nel docufilm, è costituita da ispettori e guardie carcerarie che, vivendo quotidianamente a contatto con i ‘mostri’, hanno anche loro recuperato una dimensione più umana e si rendono perfettamente conto del fatto che il carcere deve essere non una tomba ma un cammino di cambiamento, deve rieducare e condurre al rispetto del diritto dell’uomo ad essere un uomo. Ad Opera è così, in molte altre carceri italiane no.
Alla proiezione sono seguiti gli interventi della Bernardini, di D’Elia e della Paravati. La prima ha anzitutto ricordato le infinite battaglie di Pannella contro le inaccettabili condizioni di vita all’interno delle carceri, istituzioni oscure in cui non si facevano ispezioni e non c’erano garanti, gironi infernali in cui anche l’attesa del giudizio sembra non avere fine. L’esponente radicale si è poi soffermata sul problema dell’affettività, del quale da tempo si interessa; ha espresso rammarico per la condizione di stallo delle carceri calabresi; ha rammentato che il sistema Giustizia deve obbedire ai dettami della Costituzione italiana ed europea e comunicato che il provvedimento per la riforma del penale è alla Camera. D’Elia, dopo essersi soffermato sul messaggio del film, ha proposto alla dott.ssa Paravati di collaborare per la realizzazione di quelli che ha chiamato ‘laboratori del cambiamento’, sperimentati già con successo in diverse realtà carcerarie italiane, con la promessa di scendere a Catanzaro una volta al mese. Proposta che la direttrice ha accolto con entusiasmo. Gli interventi dei detenuti, a chiusura dell’incontro, hanno posto al centro questioni varie: il sovraffollamento, l’inadempienza degli organi governativi, i permessi di necessità non applicati in tutti i tribunali, i problemi che sorgono con l’Ufficio di sorveglianza.
Bellissimo il docufilm, soprattutto per il taglio, assolutamente non scontato, che è stato dato e che consente di guardare da uomini ad altri uomini, toccarne gli errori senza paura, scoprirli non incattiviti ma migliorati. Si esce dal carcere, se si ha la fortuna di partecipare alla proiezione e al dibattito, arricchiti e con la consapevolezza che ai radicali il sistema penitenziario in tutte le sue componenti deve molto e molto dobbiamo loro i cosiddetti ‘liberi’, che tendiamo a dimenticare, come ha sottolineato all’inizio del suo intervento la Bernardini, di avere tutti un carcere da cui evadere. Del resto, il filo che lega questo mondo sepolto alla vita negata è evidente: molti detenuti si sono tesserati e detti pronti a partecipare a un eventuale sciopero della fame.
A questo LINK la presentazione del documentario film nella casa circondariale di Catanzaro