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Era un grande poeta civile e non ne nascono tanti in un secolo

di Filippo Curtosi

Giuseppe Zigaina è un pittore che abita a Cervignano del Friuli in una bella villa bianca ad un solo piano che si trova in ogni guida che si rispetti dell’architettura italiana contemporanea,opera dell’architetto Giancarlo De Carlo, padre dello scrittore Andrea. Zigaina è stato intimo amico di Pier Paolo Pasolini e 40 anni fa si faceva cinquanta chilometri in bicicletta per venire dall’amico a parlare di Freud. Si erano conosciuti ad Udine nel 1946 a una mostra collettiva di pittura. Pasolini, dice Zingania a Camillo Langone che lo intervista per “Il Foglio” dipingeva molto bene. Nel 1950 Pasolini se la passava malissimo, disoccupato a Roma con la pena della madre costretta a fare la donna di servizio, lei che in Friuli era maestra e soprattutto moglie di un ufficiale di sangue blu. Fu proprio davanti al prato verde della villa di Zigania che Pasolini regalò a Maria callas un anello che lei credette di fidanzamento.

Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975
Pierpaolo Pasolini

Dozzine di biografi, continua Langone non sono riusciti a scrivere nemmeno una riga sulla questione araldica del regista che avrebbe potuto atteggiarsi a conte Pasolini Dall’Onda, patrizio di Ravenna. Se evitò di farlo è perché doveva vendere libri e non bottiglie di vino. Nel mondo del vino lo stemma tira sempre molto,in quello letterario costituisce un passaporto per il ridicolo. Langone poi chiede con insistenza al vecchio pittore: Pasolini c’è stato o non c’è stato con la Callas? Cosa successe su questo prato 50 anni fa? Zigaina però tende a divagare. In verità al vecchio amico dello scrittore interessa più la morte. Secondo lui Pasolini scelse, l’anno, il mese, il giorno ed il luogo della propria morte. Pasolini non è più quello degli anni 50-60 che faceva contorsionismi per non tradire la memoria del fratello partigiano ucciso dai comunisti. Il Pasolini del ’74 scrive Langone è ormai apertamente di destra. Lo scrive lui stesso, ma nessuno lo legge.

Il tempo corre davvero in fretta, se è vero che sono già trascorsi trentacinque anni dalla morte che il 2 novembre del 1975 colpi Pasolini e l’intera cultura italiana. Lo scrittore venne trovato ucciso in uno spazio periferico presso Fiumicino tra baracche e rifiuti.

Nel suo correre in fretta il tempo rischia di portarsi via anche i fatti più rilevanti permettendo, a chi si cimenta con le ricorrenze, di fornire una versione in parte distorta e in parte oleografica di un uomo che meriterebbe invece ben altra considerazione.

E’ stato così purtroppo per quasi tutti coloro che hanno scritto su Pasolini e su quella tragica giornata riproponendoci tante favole. Lui, ne “Il romanzo delle stragi” diceva:

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”.

La scomparsa di Pier Paolo Pasolini, non è la scomparsa di un intellettuale, di uno scrittore qualsiasi, ma la scomparsa di una storia, di una generazione di uomini e di Poeti militanti che, con il proprio operato hanno segnato un pezzo importante di storia politica e culturale del nostro Paese. Se ne è andato davvero un pezzo importante del Novecento democratico di questo paese.

Certo si rischia di essere retorici ricordando una stagione che adesso sentiamo davvero tramontata con Pier Paolo Pasolini, specialmente chi come noi giovani studenti hanno avuto la fortuna di ascoltarlo in qualche bar di Monteverde assieme a Ninetto Davoli. Poeta, scrittore, regista, giornalista prestigioso ed inquieto. Molte cose sono state scritte e saranno scritte in futuro su di lui. La cultura del secolo scorso è stata notevolmente influenzata dal pensiero di Pier Paolo Pasolini: dallo scontro tra passione e ideologia, tra neocapitalismo corruttore e desistenza rivoluzionaria, queste sono le battaglie contro e senza speranza in quanto sosteneva che il dissidio tra religiosità e marxisismo porta alla separazione.

Con Pasolini si poteva discutere tutto e si poteva dire tutto perché era un uomo di grande statura morale. Certa stampa lo ha voluto trascinare da una parte all’altra e quasi sempre lo ha classificato di sinistra e questo per la verità è falso perché fu severo con la sinistra ufficiale del tempo: raccontava storie di miserie che al senso della pietà cristiana affiancava la dimensione della tragedia esistenziale, questo si: una penna libera e sapiente come quella di Barbara Spinelli ricorda di Pasolini molte virtù: “i lavori poetici e cinematografici, la libertà, i pensieri profondi sulla guerra, sulla crisi delle democrazie, sull’imprescindibile dialettica fra destra e sinistra. Ancora i giudizi rigorosi sulla peculiare decadenza delle istituzioni repubblicane: decadenza appunto che a parere di Pasolini era cominciata negli anni ‘60 con l’avvento di quel nuovo centrosinistra, che si alimentava di “ democrazia” dell’applauso.

PASOLINI IN CALABRIA

Verso la metà degli anni Settanta, Pasolini si mise di buona lena a lavorare alla realizzazione di un film liberamente ispirato a “Il Vangelo”. Cominciò a viaggiare per i paesi più sperduti dello stivale alla ricerca di “facce” primitive, giovani, insomma quei volti di attori non professionisti che poi diventavano protagonisti nei suoi memorabili film. Così lo scrittore, giungendo verso l’autunno del ’73 nel meridione d’Italia, passa per la Calabria, prima di approdare in Sicilia alla ricerca di attori e di luoghi per ambientarvi qualche scena,osserva una regione a pezzi.” Giovani impazziti, o ebeti o nevrotici-annota il regista-poeta e scrittore nel suo diario di lavoro-vagano per le strade del Sud coi capelli irti, le sagome deformate dei calzoni che stanno bene solo agli americani: vagano con aria soddisfatta, provocatoria, come se fossero depositari del nuovo sapere. Sono in realtà, paghi dell’imitazione perfetta del modello di un’altra cultura. Hanno perso la propria morale e la loro arcaica ferocia si manifesta senza forma. Un mutamento antropologico arrivato a rilento ha traviato la sana cultura popolare, tollerante e rispettosa della socialità e della diversità, inoculandole il virus dell’egoismo individualista e del perbenismo ipocrita..quel piccolo mondo di Sodomia è stato distrutto da una Gomorra feroce ricalcata su Milano…il modello del centro-propagato dalla televisione-non è raggiungibile da un ragazzo calabrese che vede cosi aumentare il suo tratto di inferiorità, facendolo precipitare nell’ignoranza sino alla ebetitudine”. A Vibo Valentia ebbe la dimostrazione pratica di queste convinzioni.

Parlando con gli studenti del Liceo Classico “Morelli”, un gruppetto di studenti tentò di aggredire il regista, così come al “Circolo del Cinema”, inventato dal mio amico regista Andrea Frezza che all’epoca frequentava il centro sperimentale di cinematografia a Roma o ancora nella libreria di Pino Mobilio – lo ricordo come se fosse ora presente – lo faceva scandalizzando. L’avevo conosciuto alla facoltà di Lettere della “Sapienza”, dove teneva una “Lectio magistralis” assieme ad Alberto Moravia. Gli regalai “la Ceceide” di Vincenzo Ammirà che lui già conosceva. Mi ringrazio’ aggiungendo che di Ammirà gli interessava il suo profilo morale dell’uomo, perché oltre ad essere un grande poeta dialettale, fu uno spirito inquieto e rivoluzionario vero come lo sanno essere solo i veri calabresi”. Racconta Nando Scarmozzino sulla rivista “Rogerius: “tra i presenti nella libreria c’era anche Mimmo Mobilio in quel periodo insegnante a Piani di Acquaro che informò lo scrittore di un fatto successo ad Ariola in quei giorni: durante un funerale era caduta la bara e la salma era finita in un burrone dove passava una fiumara. Fu anche detto a Pasolini che gli abitanti di Ariola, quasi tutti contadini erano costretti a vivere in condizioni umilianti in uno stato di isolamento drammatico. Pasolini ascoltò con attenzione e accettò di fare visita in quel posto. Ci fu un incontro pubblico ed il poeta promise che avrebbe mandato un contributo per costruire un ponte. I soldi arrivarono e furono affidati a Bruno Mamone, oggi emigrato in Australia per fare qualcosa. Di questa visita vibonese ha scritto Sharo Gambino su “Quaderni Calabresi” un pezzo dal titolo: “I Marcusiani dell’Ariola”. Dopo Ariola, Pasolini raggiunse Serra San Bruno e si intrattenne “ferocemente” con i certosini del luogo in uno scambio di vedute senza esclusioni di colpi. Ma il vero colpo giornalistico lo mette a segno Franco Santopolo direttore de “Il Manifesto”, con una intervista esclusiva nel numero unico dell’Aprile del 1964, in redazione tra gli altri figuravano Marcello Furriolo, Nuccio Marullo, Franco Presterà e Nicola Ventura. L’occasione fu la consegna del premio letterario “Città di Crotone”, allorché gli venne revocato il premio precedentemente assegnatogli per il Romanzo “Ragazzi di vita” in seguito ad alcune dichiarazioni che vennero ritenute offensive per la nostra terra. “Dopo averci presentato la sua illustre compagna, la scrittrice Elsa Morante, scrive Marcello Furriolo, ci dichiara: “Sono in Calabria per trovare dei volti nuovi per il mio prossimo film Il VANGELO, di cui inizierò le riprese a Roma e a Tivoli, per poi trasferirmi in Puglia, Lucania e quindi verso la fine di Maggio in Calabria nelle zone di Cutro, Crotone e nel vibonese. Il paesaggio calabrese con i suoi meravigliosi contrasti naturali in cui a dolci pendii si contrappongono violenti sbalzi rocciosi penso che sia determinante e quindi essenziale per il mio film”. Non avrà, incalza Furriolo, anche dei motivi di carattere sociale? “Penso che le folle colorite e varie che si incontrano in queste zone,difficilmente si trovino altrove.Ecco,è proprio il senso dei luoghi:la bellezza di queste masse che io voglio sfruttare per il mio film”. Cosa pensa, domanda il giornalista de “Il Manifesto” della città di Catanzaro? “Sono stato più volte a Catanzaro ed ho avuto sempre la stessa sensazione. Catanzaro come tutte le città burocratiche è una città un po’ triste e deprimente. Infatti malgrado si trovi in un posto molto bello e piacevole, la carenza di uno sviluppo urbanistico organico, per la mancanza di un Piano regolatore le conferisce un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo, cosa che del resto avviene in moltissime città italiane. Non credo che possa considerarsi vita e quindi vivacità un certo tipo di società medio borghese, in cui i problemi, le ansie, le attività nascono dalle preoccupazioni individuali egoistiche di una grigia classe impiegatizia che purtroppo per voi costituisce il nervo di questa enorme impalcatura burocratica. Penso che si possa parlare di vivacità e quindi di vita, in quelle città marinare, mercantili, laddove si sente palpitare il cuore delle masse popolari. Quello che Pasolini diceva, lo si poteva stampare, rigo per rigo; la sua cultura e la sua dirittura politica, poetica e filosofica, erano tali che ognuno doveva fare conti con lui. Non vi è dubbio che nel multiforme complesso della produzione di Pasolini la sua “dottrina” politica segna nel modo più spiccato l’originalità non solo dello scrittore ma dell’uomo.

Poesie, lettere, polemiche, interventi nel dibattito politico e culturale di quegli anni. Nico Naldini, suo cugino scrittore, nella sua biografia cosi scriveva: “La figura pubblica di Pasolini che si è andata via via costruendo, anche contro i suoi desideri, continua ad esporlo ad ogni sorta di attacchi, dai quali non si ripara mai, anzi egli stesso li provoca con insistenza. Sia che si tratti di un dibattito su un libro o della presentazione di un film, scende dalla cattedra per controbattere con lucidità ossessiva le provocazioni di quella parte del pubblico che lo confuta con un delirio di tensioni e di violenza. Qualsiasi occasione basta scatenare l’aggressività di questo pubblico”.

Nel suo diario di venticinquenne, Naldini annota: “La mia mostruosità nell’amare T”.

T., stava per Tonuti Antonio. “L’omosessualità è un’orrenda malattia” dice Zingania.

Lo diceva anche lui.

Gian Carlo Ferretti, curatore dei “Dialoghi 1960-65” ci parla di un intellettuale carismatico, un autore trasgressivo, un bersaglio predestinato dai suoi scritti, dai sui comportamenti pratici e dall’accettazione consapevole del rischio, lo scenario di quella notte… un delitto omosessuale o politico che rimanda ad un clima persecutorio. La morte di Pasolini diventa, conclude Ferretti, soltanto l’ultimo tragico episodio di quella lunga vicenda, nel pieno della stagione di massima sfida e di massimo rischi.

Pasolini ha concepito e organizzato la sua morte come un linguaggio destinato a incrementare di senso la sua opera. In una poesia pubblicata nel ’64: “Sul vecchio litorale/ tra ruderi di antiche civiltà/Ravenna/Ostia o Bombay- è uguale/comincerò pian piano a decompormi/ nella luce straziante di quel mare”.

Sceglierà Ostia che deriva da “ostia” vittima sacrificale, laddove in antico si compivano sacrifici umani. Scelse infine una data sacra, una Domenica dei Morti, facendone un oscure accenno nella poesia intitolata “Patmos”. La Callas riuscì a posticiparne il triste epilogo. Mori infatti il giorno dei Morti, ma non di domenica.

Il 2 Novembre la morte, poi il funerale: Campo de’ Fiori con le bandiere rosse ed il discorso di Alberto Moravia che dice: “Era un grande poeta civile e non ne nascono tanti in un secolo”.

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Perché Pannella avrebbe voluto portargli le arance

di Filippo Curtosi

Manifesto Radicale

Cossiga in tutte le salse: bizzarro, mattacchione, picconatore, imprevedibile, statista, profetico. A Marco Pannella toccherà la stessa sorte. Succede ai geni, agli eretici, agli anarchici e comunque alle persone sole. Kossiga chiama Paolo Guzzanti dall’aldilà per un suo ultimo commento e parla malissimo della stampa. “Un disastro. Mi hanno impagliato come un gatto”. A cominciare da Eugenio Scalfari che mi dà del pirandelliano. Mi hanno preso tutti sul serio, mentre io ho preso tutti per i fondelli. Il mio ultimo libro si chiama Fotti il potere. Spero che capiscano. Mo pare che manchi il vero Kossiga con la K, quello che gode ad avere la K e manca anche il Cossiga che traghetta D’Alema per fare un favore agli amerikani con la kappa. Dalla Chiesa, l’unico che mi risponde a tono. E’ trascorso tanto tempo da quei lontani anni ’70 che segnarono la data di nascita del così detto “Movimento studentesco in Italia”. “Strategia della tensione”. Piazza Fontana e piazza della Loggia, Italicus, rogo di Primavalle. Furono gli anni della morte di Giorgiana Masi, di Francesco Lo Russo, dell’agente Custrà e poi di Guido Rossa, sindacalista, di Fulvio Croce, presidente degli avvocati e delle piazze incendiate dagli estremisti. Il lancio di pietre verso il palco dove parlava Luciano Lama alla Sapienza, il ferimento di Indro Montanelli e poi I Volsci, Cl, Radio Alice, Radio Onda Rossa. La P38 era il simbolo della sinistra rivoluzionaria. Nudi dati anagrafici, dietro ai quali si celava tuttavia un lungo processo di incubazione. Le lotte operaie con pochi operai e studentesche. I non global, i movimenti ambientalisti e la sinistra radicale e libertaria non nascono dal nulla, ma hanno il loro epicentro, storicamente significativo, nel Lazio, Lombardia, Emilia, Calabria. Regioni chiave per lo sviluppo di una coscienza libera, per i diritti, per la lotta politica e ideale, per un messaggio che viene raccolto in ogni contrada del paese, dagli operai agli studenti, agli intellettuali. Numerosi intellettuali affluiscono in queste fila con un folto stuolo di giovani e di donne. Dario Fo, Felix Guattari, Alain Guillaume, Sartre. Tutto era surreale, alternativo, radicale: gli amori, gli amici, la compagnia, la scuola, il privato, la libertà prima di tutto e da tutto. Il desiderio al potere se si può sintetizzare. Ero scritto a Giurisprudenza alla “Sapienza”, mi mantenevo vendendo giornali. Partecipai al Movimento studentesco senza tanta intensità. Portavamo come dice Guccini “un eskimo innocente, dettato solo dalla povertà, non era la rivolta permanente, diciamo che non c’era e tanto fa”. Leggevo Allen Ginsberg, Kerouac, Re Nudo. Ascoltavamo Jefferson’s Airplane. Cazzo era la parola più usata a quel tempo. Il ’77 non è stato il folclore . Piuttosto a ragione Asor Rosa quando parla di “due società”. Da una parte dice lo storico della letteratura “c’erano i garantiti, coloro che avevano un reddito sicuro, dall’altra una vasta massa di giovani precari, marginali, senza prospettiva di inserimento sociale”. Si faceva di necessità virtù. Questo l’ex direttore di “Rinascita” lo scriveva nel 1977 su “l’Unità”. Poi le Br distrussero il sogno e i desideri. L’azione politica di Oreste Scalzone, Franco Piperno, Lanfranco Pace si dispiegava nella società civile con le lotte per la libertà ed il progresso dei lavoratori, per la difesa della democrazia e delle libertà, contro le repressioni autoritarie che raggiunsero la fase più acuta con il c.d. “ teorema Calogero” del 1977.

A Bologna dove si riunì il movimento per l’ultima volta ci fu una grande novità: svaniva il sogno e tutto era dissolve. Oltre a Scalzone che era stato incriminato di banda armata e condannato, anche altri conobbero in quegli anni il carcere e vennero processati e condannati. Insieme ai provvedimenti che vietavano ogni tipo di manifestazione pubblica si decretava in pratica lo stato d’assedio e la sospensione delle libertà di associazione, di espressione libera. Il giovine ministro Kossiga fece arrestare il movimento ed i loro capi, tra i quali appunto l’Oreste. Contro le misure repressive della libertà di associazione, di sciopero, insorsero solo i socialisti come Giacomo Mancini, i radicali come Marco Pannella ed i veri democratici. Si era contro il compromesso storico e come scrive Lucia Annunziata nel suo libro 1977 “Noi odiavamo i comunisti”. Il vecchio Psi assunse una politica autonomista, conferma Craxi alla guida del partito; più tardi Pertini verrà eletto presidente della Repubblica. Poi le Br, l’uccisione di Moro hanno definitivamente distrutto e cancellato il “ Movimento”. Dopo 26 anni di latitanza in Francia, l’ex leader di Potere Operaio torna in Italia. Era stato condannato dal Tribunale di Milano nel 1981 per partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata nell’ambito del processo “7 aprile” su Autonomia operaia. Nell’immaginario dell’epoca si meritò l’appellativo di “ rivoluzionario” non di mestiere. Processato in più occasioni, Scalzone trascorse in carcere alcuni anni. Costretto ad imboccare la via dell’esilio, per altri 26 anni girò in cerca di ospitalità per se e per le sue idee: Corsica, Olanda, Sud America, Francia, Parigi;il presidente socialista Mitterand diede ospitalità a tutti gli esuli ed i rifugiati politici. Si attraversava, da libertari tutte le lotte operaie degli anni settanta in Italia,partecipavamo all’occupazione di Valle Giulia con Pace e Piperno, leaders del Movimento studentesco, ci si scontra in piazza con la polizia e con i fascisti. Erano gli anni del “Potop” del potere operaio, come recitavano gli slogans di quel tempo. Erano gli anni dei cinema “d’essai”, degli scontri anche con quelli di “Lotta Continua”. Era la stagione delle assemblee permanenti, degli espropri proletari. Erano gli anni di forte e vera opposizione alla guerra, gli anni della difesa dell’internazionalismo libertario, socialista e radicale. Chi incarnava il libertario in Italia era ribelle, bandito, sovversivo. Si è sempre ritrovato contro ogni tipo di potere. Sulla fiancata della barca di Gianmaria Volontà che lo portava in Francia Scalzone c’era scritto un verso di Paul Valery: “Il vento si alza, bisogna tentare di vivere”. Lui ha sempre incarnato queste parole. Sempre sulle barricate. Scalzone oratore formidabile, lo ricordo sempre sommerso di libri, carte e giornali. Non è mai stato un comunista anche se da giovane è stato iscritto alla Fgci: nei fatti anticipa quelli che oggi si chiamano no global da Caruso in giù. A fianco degli operai che occupano le fabbriche e nelle lotte studentesche come a Roma, Napoli, Bologna, Milano. Viveva tra gli operai e con gli studenti: una sorta di icona del movimento studentesco. Poi venne sepolto vivo in esilio e continuamente sorvegliato come una bestia pericolosa.

Farà ancora paura? Adesso che farai? “farò una compagnia di giro, composta da me stesso e da chi ci vuol stare. Farò agitazione filosofica, culturale e sociale”. Farà, dice, il sindacalista dei rifugiati. Marco Pannella, destinato a diventare per molti una sorte di voce profetica che più a contribuito a distruggere gli stereotipi borghesi della morale e dell’etica in base al suo atteggiamento nei confronti della nonviolenza del potere politico e industriale, dello stato assassino. Il Partito radicale e compagnia possiamo dire che hanno sconvolto linguaggio, percezione e visione del mondo per la libertà, contro le ingiustizie, le guerre, l’odio e le incomprensioni. Andrea Casalegno dice che “per un giovane di oggi non è facile capire di che lacrime grondi e di che sangue la storia del 1977.

Quei fatti sembrano un brutto sogno: il susseguirsi delle manifestazioni che ogni volta ci scappava il morto. Ammazzare era un gioco. Il vero lavoro era uccidere”. Un esempio per tutti: l’uccisione di Giorgiana Masi. In un bel libro, abbastanza raro, elaborato dal “Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei” si raccolgono testimonianze e fotografie del fatidico 12 Maggio 1977 della morte di Giorgiana Masi, diciannovenne simpatizzante Radicale. Un proiettile nell’addome dopo un giorno passato nel centro di Roma a manifestare nonostante il ministro dell’interno Cossiga avesse vietato riunioni pubbliche. Giorgiana ed altri sfidarono il potere. In piazza c’ero anch’io. Il clima era rovente.

Giorgiana Masi

Giorgiana rimase vittima di una pallottola vagante sparata non si sa da chi, se per sbaglio o con dolo. Rimase ferito anche un carabiniere e un’altra ragazza.“La meccanica dell’assassinio di Giorgiana, si legge in questo libro, si può riassumere come “un omicidio di Stato”. E’ vostra diceva Antonello Trombadori la responsabilità della tragedia”. “Un delitto di Stato” tuonava Marco Pannella. “Vogliono criminalizzare l’opposizione democratica, parlamentare ed extraparlamentare; l’opposizione laica, libertaria, socialista, nonviolenta, alternativa; quella del progetto, del referendum. La violenza è stata solo dello stato. Disobbedire era necessario.

Il movimento femminista di Roma dice: “Giorgiana Masi è stata assassinata dal regime di Cossiga. Rivendichiamo il diritto di scendere in piazza, a riprenderci la libertà, la vita. Nessuna donna resterà in silenzio”.

A Giorgiana

…se la rivoluzione d’ottobre fosse stata di maggio

se tu vivessi ancora

se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio

se la mia penna fosse un’arma vincente

se la mia paura esplodesse nelle piazze

se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza

se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita nella nostra morte almeno diventassero ghirlande della lotta di noi tutte, donne..

se….

non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita

ma la vita stessa, senza aggiungere altro

Ecco perché ancora serve il suo esempio, da libertari, nonviolenti, laici, socialisti, liberali e radicali .

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Gli africani di Rosarno, moderni figli della gleba

di Filippo Curtosi

Richiamano alle labbra una voce in uso tra i Greci dell’età classica che significa seme e quando patteggiando col proprietario fa inserire nel contratto il suo diritto al “paraspolo”, fa ritornare al pensiero la parola dei suoi avi ellenici come pure li fa rivivere quando nella stagione propizia si reca con la zappetta nei campi seminati a “sporiare” come suol dire, il grano, il frumento. Non è vero quindi che la storia della parola “paresporium” o “parasporium” sia oscura  se erroneamente si è creduto.La sua formazione ,più che all’epoca dei monaci basiliani deve risalire tempi remoti della Magna Grecia. E’ evidente,sostiene il profes sore di Nicotera che il contratto enumera soltanto gli obblighi ai quali si sottopongono i coloni calabresi. Questi si impegnano a corrispondere al convento una giornata di lavoro alla settimana, a titolo di servitù. (angaria) e tre volte all’anno, il paresporo di tre giorni insieme al giorno settimanale di angaria. Dei tre periodi o turni di paresporo uno è destinato ai lavori di mietitura, un altro a quello pel maggese e un altro poi alla semina dei campi. Come risulta evidente            dall’esame letterale e comparativo del documento il paresporo è un tributo colonico comune nell’età media, alla quale perviene come ultimo avanzo di servitù personali, ultimo    residuo delle miserevoli imposizioni fatte agli uomini della gleba. Nel territorio di Cassano all’Ionio il bifolco, il forese annaruolo, a quanto scrive il Lanza, prende ogni mese un tomolo di grano misura rasa,mezzo rotolo di sale,undici once d’olio ,un ottavo di tomolo di legumi, un barile di vino del peso di rotoli quaranta durante il tempo della semina autunnale e altrettanto nella trebbiatura delle messi. Più il paraspolo, consistente nel prodotto di tomolo quattro grano,di un tomolo di orzo e di uno stuppello di legumi seminato in comune nella masseria, su dei quali egli paga il terratico, la falciatura e le altre spese di coltivazione soltanto per metà. Così deve praticarsi anche nel medioevo. Per concludere, aggiungiamo noi col Corso, se la storia è la rappresentazione della vita di un momento, di un’epoca, d’un mondo sociale, non possono essere trascurate in essa le indagini che nella vita presente rivelano la persistenza delle idee e dei costumi del passato e in quella dei tempi scomparsi osservano le forme vecchie o anche le forme originarie delle attuali condizioni sociali degli africani di Rosarno, novelli servi della gleba.

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Telai, fucine e folklore giuridico

di Filippo Curtosi
J. M. de PradaLa vera cultura”, sostiene lo scrittore Juan Manuel de Prada, è quella che nasce da ciò che i romantici tedeschi chiamavano Volkgeist, “lo spirito del popolo”; deve essere una emanazione naturale della gente, che canta, balla, racconta, dipinge, perché sente il bisogno di esprimere qualcosa che le appartiene nel profondo, qualcosa che è legato alla sua genealogia spirituale alla sua identità. Questa cultura, oggi come ieri, subisce però il sequestro da parte del potere; quest’ultimo si rende conto che se riesce a trasformare queste effusioni naturali in un”artefatto”, ossia in un prodotto artificiosamente creato, può ottenere una ingegneria sociale. Allo stesso tempo si osserva una casta di intellettuali gregari; persone che si sono adeguate a una determinata interpretazione della realtà auspicata dal potere, che le sovvenziona e promuove, affinché impongono una determinata cultura,che non è autentica, perché non nasce da una espressione naturale del popolo. Inoltre, all’idea di popolo si è andato sostituendo il concetto nuovo di “cittadinanza”, una massa amorfa dove l’esperienza artistica non si produce più in modo naturale.
La vera arte è comunitaria,per dirla con le parole di Manuel de Prada è come un seme che si getta e suscita il desiderio d’incorporarsi all’esperienza artistica e di comunicarla ad altri, di modo che ognuno, in un certo senso, diviene anche creatore. E’ una specie di contagio. La domanda che ci poniamo oggi è: come è possibile recuperare l’autentica cultura ed in particolare la cultura del lavoro? Solo riappropriandoci della nostra identità, di quella “pasta” che di tanta civiltà ha illuminato il mondo, potremmo evitare di “non eternare” come scriveva  Vito Capialbi al suo amico Paolo Orsi, il cattivo nome, che di Noi corre per il mondo”.
Occorre realizzare un lavoro di ricomposizione del tessuto sociale partendo dal basso, creare una specie di “controcultura” di fronte a questa “pseudocultura” stabilita dall’alto. Ma il popolo è bombardato quotidianamente dalla cultura artificiale che ci viene venduta. La Calabria possiede un ricco patrimonio di cultura materiale ed immateriale che ha influenzato il processo di trasformazione sociale ed economico di questo nostro territorio che resta ancora poco noto e documentato e che per questo necessita di un intervento di recupero e valorizzazione.
Terra di Calabria, dove sono le giogaie che     “traversano la penisola in tutta la sua lunghezza, stendendo le loro diramazioni verso spiagge fiorite, in fertili vallate,f ino ai lembi costieri,s u cui si inchinano àgavi ed ulivi bagnati dal cupo mare”. Dai monti al mare passando per le colline. Dai pini ed abeti, agli aceri, alle querce, castagni e poi più giù verso le valli coi vigneti, l’odore degli agrumi, delle zagare, ai fichi d’india, la liquirizia, i capperi. Dov’è il caolino di Parghelia, la lignite di Briatico, il ferro di Mongiana, l’arte tessile, le sete e i damaschi di cui Catanzaro ebbe il primato della tessitura,” nobile nella materia come ci racconta Alfonso Frangipane e nella impronta artistica. Da Catanzaro, continua il fondatore della rivista”Brutium” si sparse l’amore dell’arte gentile, e sorsero i primi telai lignei, con le lignee macchine rudimentali e si formarono le specialissime maestranze di tessitori e tintori. Esempio fecondo Cosenza, Taverna, Monteleone, Reggio, ebbero tessitori di seta e di cascami. E’ vanto di Catanzaro l’avere preceduto altre città italiane nel lavoro serico; è storico il progresso delle produzioni catanzaresi, pregiate nei grandi centri dell’Italia centrale e settentrionale, fino a Lione, Parigi, Tours, dove pervenivano i nostri tessuti e tessitori. Si pregiavano ovunque i panni di seta, sciamiti, zendadi, anche a fili d’oro, ed i paramenti sacri, le coperte di velluto, i fazzoletti catanzaresi di organzino colorato, e le tinte, cremisi, verdi, gialle, turchine. A Tropea la tessitura particolare di cotone e lana con carattere rustico broccato,unica in Italia è ancora viva,le coperte “ a pizzuluni” cioè a rilievo,facevano parte fino a pochi anni fa del corredo nuziale. Così a Longobucco, altro secolare e mirabile laboratorio tessile cui tutto il paese collabora appassionatamente. Non meno degne sono le ceramiche. Ecco le borracce, le cannate ed i boccali di Seminara. Botteghe importanti esistono a Gerace,S oriano, Bisignano.
Bisogna ricordare i fabbri di Serra San Bruno per lavori di applicazione, insuperabili sono le balconate ricurve indorate di flessuosi ed enormi tulipani.
Cosi come non va dimenticata l’arte lignea dei costruttori e decoratori di cassoni nuziali, di collari, di conocchie, di bastoni e borracce, nonché quelle delle lucerne rudemente forgiate;gli artigiani del giunco e della “janestra”.
http://www.legambientelaroverella.it/tessitura.html
http://www.legambientelaroverella.it/tessitura.html
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Folklore giuridico come raccolta degli usi e delle consuetudini
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Il  “comprensorium haereditarium” della famiglia:
Cu’ non d’ha casa o ortu, si po’ diri ch’eni mortu
La podestà familiare ripartita fra il marito e la moglie:
‘A casa havi quattru cantuneri: Dui u maritu e dui ‘ mugghieri;
Il rispetto ai genitori e le credenze popolari:
Cu ‘no rispetta mamma e tata,
Erramu vaci strata strata
L’età minore dei figli:
Non diri ch’hai figghoili
Si non hannu denti e moli
Il corredo da preparare fin da quando la fanciulla è in fasce:
Figghia ‘nfaccia, E dota ‘nacascia
La fascia sociale a cui la donna appartiene:
A figghia du massaru,
Dui vòi e lu vòaru;
A figghia d’ù garzuni
A vesti e dui casciuni
L’invulnerabilità della dote:
A dota passa pi subba
O focu e non si vruscia
Il grado di parentela degli sposi e l’impedimento matrimoniale:
In quattu
La chiesa li spatta;
l’”osculum interveniens”
Donna vasata
Donna spusata;
La ripartizione ed il sorteggio delle quote successorie:
U randi faci i parti
Ed u picciottu pigghia.
Gli altri nove concernono i nidi,gli sciami delle api e la selvaggina di pelo:
Sciami, nido e pilu
Undi u vidi pigliatilu;
La caccia ai volatili e la selvaggina grossa:
Caccia di pilu,
Si sparti a filu filu;
Caccia di pinna,
Cù ammazza s’à spinna;
La costruzione arbitraria su suolo altrui:
Cù frabbrica ‘nta terra strana,
Perdi a carci, a petra e a rina;
La tolleranza di raccogliere fichi e simili frutti: per “ sfamarsi”
U ficu eni cuccu
Cu’ u’mbatti s’u ‘mvuccu
La disdetta dei fondi seminativi
Quando è a Nunziata
I rani pianu a licenziata;
L’anno del garzone e i suoi diritti:
P’u bon’ annu,
U garzuni chiumpi l’annu;
E si scappa ‘nta annata
Perdi a misata;
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La sagra di Piscopio. “Sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa”.

di Filippo Curtosi

Pubblicato su Calabria Letteraria (Anno LVII N°1-2-3 Genn./Febb./Mar. 2009)

Il giovane professore Ausonio Dobelli, mandato ad insegnare nel regio liceo di Monteleone di Calabria dove insegnava pure Luigi Bruzzano direttore della rivista di letteratura popolare “La Calabria”, scrisse una lettera ad un suo amico di Milano, per fargli sapere alcune usanze osservate nei paeselli calabresi e che Luigi Bruzzano, appassionato di tradizioni popolari della Calabria, pubblicò sulla sua Rivista di letteratura popolare. Con un linguaggio un po’ arcaico e forse per questo ancor più bella e trattandosi di una lettera che ci riguarda; che riguarda la vita popolare calabrese di un tempo, una lettera che come un affresco dipinge il paesaggio colorito della nostra terra, dell’abito locale, delle feste, crediamo anche noi sia quantomai opportuno pubblicarla sul nostro periodico a distanza di oltre centodieci anni.

Filippo Curtosi

Monteleone Calabro, 2-12-1899

Caro Edoardo,

…. E davvero, oltre alla radiosa lucidezza del cielo e del mare – azzurro sorridente nell’immenso sole – oltre alle vedute mirabili che l’altopiano ci affaccia ne’ pianori e ne’ poggi folti delle morbide selve degli ulivi, e ci apre nei lenti valloni rivestiti di orti e vigne e frutteti, di quanti altri spettacoli belli o nuovi l’osservatore più superficiale pasce la mia curiosità!

Nell’ultima mia, parlando degli usi comuni, m’impegnai pure di offrirti il disegno colorito dell’abito locale e degli abbigliamenti; in questa cercherò di radunare brevemente e disporre in quadretti (di quale efficacia poi?) le memorie di alcuni episodi, che mi occorsero nelle frequenti passeggiate.

M’è presente ancora, pallido, come traverso a un velo sottile, un incontro triste, di mattina.

La nebbia, tenuissima, vestiva del suo chiarore biancastro le nubi e le distese campagne alte ai fianchi dello stradale, che io, ravvolto accuratamente nel mantello umidiccio, ripercorrevo verso la città; da lungi si svelavano a amano a mano le due file dei tronchi neri e le informi oscurità delle fronde. Ad un tratto mi apparsero lontano delle bianchezze esigue, in moto vivace; poscia, in un ciaramellìo confuso che tremava nella fumana immota, vidi avvicinarsi, disposti in processione, due file di bimbi scalzi, ricoperti di un sottil camice bianco, chiacchieroni ed allegri; dietro loro, colla croce e l’aspersorio due sacerdoti precedevano un feretro breve poggiato sulle spalle di contadini, seguito da poche donne raccolte. Nulla, che non fosse comune, nel povero cofanetto nero distinto dalle linee gialle agli orli superiori degradanti in lunghezza sino al sommo, ove si drizzava un’argentea figurina alata dalle membra grassocce; ma ai lati della piccola bara quattro donne involte nell’ammasso dei loro cenci venivan portando sul capo le anfore funerarie: alla brace salivano le volute lente dell’incenso votivo.

Qualche altra volta già avevo udito le prefiche vocianti le loro nenie dietro al lungo velo della chioma, o bisticciarsi al ritorno dal campo santo, pei pochi soldi guadagnati di fresco, ma veramente solenne m’apparve allora l’ufficio silenzioso, cinto nel pallore ampio del cielo, al quale le bocche dall’urne esalavano la prece pallida dell’incenso.

Giunto a casa, non potei soffermarmi tra le pareti malinconiche, e , terminato appena il pranzo, con un buono amico discesi a un paesello vicino.

Vanite le nebbie, sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa dell’auro pomeriggio autunnale, entrava a fiotti nelle viuzze la luce magnifica, disegnando nitidamente delle povere case e dei verdi alberelli diritti in ghirlanda nella piazzola. D’innanzi alla casa comunale s’agitava allegramente una frotta di ragazzi mal coperti da brandelli di giacche e di calzoni, in attesa dei confetti e degli sposi; noi, invitati gentilmente dal sindaco, salimmo in aula, ci affacciammo alla finestra. E alla svolta della via principale, ci apparve il breve corteo: un’iride.

Una decina di ragazze strette ai fianchi della sposa, seguite da poche donne e da tre o quattro contadini attornianti lo sposo s’avvicinavano lentamente: questo era il tutto, ma quale infinita varietà di tinte negli abiti adorni della festeggiata, e in quelli delle giovani amiche! I corsetti del color dell’indaco e della rosa, allacciati dinanzi da fettucce verdi, gialle, rosse, cilestrine, lasciavano trasparire agli orli superiori i ricami delle camicie candidissimi sui colli e sui polsi abbronzati; al basso confine delle strette maniche giravano due larghi e corti nastri, vermiglio l’uno e verde l’altro; lunghi orecchini d’oro pendevano ai lati delle larghe facce rotonde, e si aggiravano sui seni poderosi due o tre catenelle variamente intrecciate; le gonne, vergognose del solo azzurro (però di gradazioni infinite) o delle lunghe strisce grigie, si nascondevano sotto a grembiuli, ciascuno de’ quali era una festa, una miriade di tinte e sfumature: qua rosso, la turchino, più giù rosato, violaceo e che so io; lucevano a terra le scarpe, testimonio rarissimo di festa, gialle tutte e a bottoni, nuovissime alla sposa. Salirono, e dietro loro, in meraviglioso contrasto, le madri sotto la usuale tovaglia sporca, nel solito arruffio delle vesti stracciate, sui larghi piedi neri, ed i padri pure scalzi, colle camicie brune aperte sui petti bruni; più dietro e dovunque si strinse nella stanza la frotta seminuda e schifosetta dei ragazzi e delle bimbe, ammirando. Quindi, come la sposa ebbe ad occhi bassi buttato al sindaco il suo si , e questi lesse d’un fiato i precetti legali, lo sposo, tratta rapidamente di tasca la mano, gettò sull’ampio registro aperto sul tavolo un cartoccio di confetti gonfio, gualcito e sudicio; uno dei testimoni lo imitò, e la compagnia si sciolse in parte nella piazzetta, dove i fanciulli si rotolavano per terra vociando nella caccia di dolci, che piovevano dalle nostre mani aperte sul davanzale.

I Dimenticati
Foto estratta da "I Dimenticati" di Vittorio De Seta, su gentile concessione dell'autore

Pochi giorni dopo, mi fu dato di contemplare la sagra annuale dello stesso villaggio; nella processione confusa e sonora (alta saliva la laude a S. Nicola: lu grandissimu santu – che è celebratu pe tuttu lu mundu) avanzava il venerabile simulacro poggiato sopra un piedistallo di legno e su quattro spalle robuste. E vicino al santo era incastrata nel piedistallo stesso una pentola lignea, da cui parea stessero uscendo quattro rozze figure di bimbi ignudi: il miracolo maggiore del patrono, la salvazione stupenda degli innocenti immersi nel liquido bollente dalla ferina mano del padre. Avanzava l’immagine benigna nella via principale, e la lunga teoria de’ camici bianchi e de’ camici rossi cogli stendardi e le candele precedeva lentamente; dai volti rugosi, dai capelli secchi attorno alle vene sporgenti scendevano colle barbe grigie e biancastre i cordoni variopinti, terminanti in nodi, in fiocchi, in pennelli di mille colori; dietro al santo passavano mimetizzandosi le ragazze strette nell’abito festivo, sotto le tovaglie nuove bianche e ricamate agli orli, o di seta nera per alcun lutto recente, quali ben calzate, quali scalze, quali colle scarpe gialle luccicanti sulla pelle oscura del piede; quindi venivano le donne un po’ meno sucide del solito, e gli uomini nei brevi giubbetti e nei più brevi calzoni di velluto nero-azzurrino, colle mutande ancheggianti dal ginocchio sino a terra. Ma negli sbocchi numerosi dei vicoletti le compagne sostavano, solo l’effige benedetta varcava ogni mucchio di letame suino, ogni larga fossa di fango e d’immondizia, lustrato ogni angolo del paese, e da ogni angolo uscivano donne colle offerte esigue della povertà, sbucavano uomini scamiciati, curvi sotto sacchi di granturco, saltavan fuori ragazzi quasi nudi, quasi neri, con ceste di frutta sul capo: tutti attorniavano il santo, entravano confusamente nella processione.

E la sagra di Piscopio? Ah veramente qui m’ invase una meraviglia grande. Una devozione illimitata avvince questo paese all’altare dell’arcangelo trionfatore, ogni madre impone ad uno almeno dei propri nati il nome di Michele; tutti, alla ricorrenza festiva, gareggiano nelle offerte, e con tanto ardore, quale mi trasparì nelle parole di uno de’ più miseri fra loro: << La festa costò 7000 lire, ma fu eclatante, e , del resto, dovessimo torci di bocca il pane, a S. Michele bisogna rendere onore >>. E furono davvero due giorni di bagliori e di giocondo frastuono.

Disceso al villaggio, nel nitido pomeriggio della vigilia, attraversata la doppia fila degli assiti pronti per le girandole e per glia altri fuochi artificiali, m’ apparve tra le prime case il ballonzolo dei cammelli. Lo zampognaro sonava a perdifiato; ne seguiva il tempo con salti e dondoli un uomo invisibile dietro a una gualdrappa di stracci, sotto una macchina commessa d’assi e di travicelli, che nella coperta di cartone colorito somigliava poco al corpo di un cavallo; questo era il primo cammello, e vicino a lui saltellava sfrenatamente il secondo: un ragazzotto robusto, serio in volto e grave, chiuso dal petto all’ingiù in un ordigno di legno e cenci simile al primo. Doveva forse rappresentare per la piccolezza e per la rapidità dei movimenti il baldo nato dall’animale maggiore, si che talora, a qualche frase più lenta e rotonda della zampogna, si permetteva di girare attorno al genitore; il quale, dal canto suo, spinto dall’affetto paterno s’apprestava talvolta, dondolando sempre, al piccino, e , separate da un tratto di spago le mascelle, fingeva di lambirlo. Ma allora questi d’un balzo s’allontanava , e riprendeva per conto suo il trotto e il volteggio fra le risa di tutti e gli urli e le provocazioni inascoltate dei bimbi dal calzone spaccato, delle bimbe involte nella camiciuola sporca. Levando gli occhi, sfilavano ai due lati della via i pali dritti per l’illuminazione, già tutti rivestiti in varia forma de’ bicchierini variopinti, e le bacheche colme di paste, di figurine dolci colorite, di candele corte e sottili; ma dove la contrada allargandosi concedeva appena lo spazio necessario, una grossa impalcatura di legno rotondeggiava cinta di verzura e di rami ornati di fronde e di lumicini: di qui doveano il domani allargarsi pel paese tutto pei campi agli accordi e i disaccordi delle musiche e delle fanfare.

Grosso, liscio, altissimo si drizzava l’albero della cuccagna.

Entrai nella chiesa, già pomposamente addobbata, in compagnia d’una giovenca grigia, che veniva a ringraziare in persona il santo per la guarigione: la trasse all’altare con una grossa corda il contadino, quindi, porta l’offerta votata, se ne andarono benedetti. Solo lucevano nell’ombra densa sette od otto candele assai lunghe e grosse nelle mani di alcune figure femminee, che, mi si disse, doveano per voto attardar digiune, inginocchiate nel banco, sino alla consumazione della cera. Occorrevano certo tutte le ore notturne; spaventato, sbirciai il gruppetto delle devote, ed ammirandole di tutto cuore, mi incamminai a lunghi passi verso il pranzetto che m’attendeva a Monteleone. E il domani ripercorsi la strada.

Le ore antimeridiane passarono lente e quasi chete, assorte nelle cerimonie in chiesa e nella aspettativa della processione; ma allorché questa simile ad una lunga iride, preceduta dalla musica, si stese e serpeggiò per le viuzze – di tra le fronde festive dense attorno ai pali la indorava il polverio luminoso dei raggi solari – la meraviglia, la commozione, l’ansia e la gioia dell’evento proruppero irresistibilmente nella gazzarra dei bimbi, nell’allegro vocio delle donne, nel gesticolare spensierato degli uomini, che si additavano a vicenda, con una certa ammirazione soddisfatta, la spada di S. Michele. E lampeggiando il sole nelle labbra d’argento, l’arcangelo adesso pareva sorridere lieto dei numerosi biglietti da una, da due, da cinque, da dieci e fin anche di venticinque lire, che dei fili quasi invisibili di rete, legavano all’arma vittoriosa ( a me sovveniva de’ pellegrinaggi, che pochi mesi fa ho visto giungere e allungarsi nelle vie della storica Empoli, alla venerazione di un crocifisso miracoloso, e rivedeva le croci vestite da carte-valuta o disegnate con monete d’argento, che si stagliavano alte fra i pellegrini ).

Dopo uscirono in piazza, ballando a suon di musica sino a sera, il gigante e la gigantessa: due macchine alte e grosse, mal ricoperte di vestiti in forma d’uomo e di donna, e comparve infine, fra le risate degli accorrenti, la tavola dei fantocci. La portava sul dorso, avanzando a suon di zampogna un villano nascosto dietro al sudicio panneggiamento che scendeva dall’orlo sino al suolo; le due marionette alte un cubito, vestite l’una da giovinotto, l’altra da sposa si rizzavano immote; ma, quando ad ogni bivio lo zampognaro e il piffero si piantavano fermi sulle gambe aperte, la tavola poggiava sui quattro piedi, il burattinaio sempre invisibile si sedeva per terra, e, tirando o allentando gli spaghi, faceva sgambettare la coppia innamorata. Il fantoccio virile muoveva le flaccide gambe, e danzando s’inginocchiava dinnanzi alla bella, quindi con gesti bruschi pareva volesse esprimerle l’intenso ardore del suo affetto; ella, pur ballando, dichiarava il volto ridente ed allargava le braccia, ma poi, ritrattale, col moto rigido della spinta in avanti lo respingeva. Egli nella danza rizzavasi e si volgean le spalle, ma poi ritornava all’assalto, e, fatto fatto più ardito da un’accoglienza migliore, alzata d’un tratto la mano, a scatti la muoveva carezzando su e giù per le forme femminili: e qui succedeva davvero la tragedia, giacché la bella, offesa nel pudore, rispondeva botta per carezza, calcitrando, ossia buttando innanzi una gamba ad intervalli regolari, fino a che il maschio, stanco di prenderne, rompeva ogni tempo, e si sfogava con una tempesta di schiaffi e di scappellotti all’addolorata sempre ridente. E dalle bocche di tutti intorno sgorgavan le risate sincere, irrefrenabili, sonore come una grande corrente di gioia, mentre agli orecchi ormai avvezzi batteva quasi inascoltato il monotono ronzare della zampogna instancata. Più innanzi verso la chiesa, si danzava qua e là: erano soltanto giovinotti, che a die a due guidati da un organetto, muovevano a scatti, a giri saltando o piroettando, le gambe cinte dal velluto azzurrino, e s’incurvavano, guardandosi curiosamente le flessioni del ginocchio e si giravano intorno; ad un tratto un terzo si frammetteva, e, levato il berretto, fissava uno dei primi, questi cessava immediatamente, e la coppia, rinnovata in parte proseguiva la gara. Le vecchie li ammiravano, le ragazze alla finestra fingevano di non guardarli, qualche nonno, toltosi di capo il berretto verdastro, lunghissimo, vi frugava sino al fondo, ne traeva il cartoccio del tabacco, caricava tranquillamente la pipa.

Alle cinque di sera la chiesa s’era quasi empita di gente per la cerimonia grande, ed io vi entrai in mezzo ad una compagnia d’ampli toraci e d’ottoni, che, per mio meglio, si fermarono in fondo. Meraviglioso spettacolo! L’umile chiesetta era scomparsa, travestita sfarzosamente da teatro. Dietro l’altare modesto scendeva dal soffitto un ampio e greve manto di color rosso cupo, tondeggiante nei molli seni, nelle spesse concavità, e s’aggirava ai lati del vano intero, appoggiandosi alle colonne, ove si raccoglieva in addobbi gonfi, a guisa di quinte. Innumerevoli candele disposte in tre file sull’altare e a’ suoi fianchi schiarivano i fiori e gli ornamenti nuovi, ma sul primo cornicione sporgente lungo tutte le pareti dell’aula all’altezza di quattro uomini correva una fitta linea di ceri, coi lucignoli congiunti da un filo impeciato di resina. Infiammato questo in vari punti, la luce percorse rapida il giro, e piovve copiosamente dall’alto sui corpi e sui volti accesi nel rosso cupo uniforme; non bastando, s’ apersero alcuni becchi di gas acetilene e il calore cominciò a farsi insopportabile. Chi può ritrarre l’orgoglio soddisfatto, che traspariva calmo, sicuro dalle faccie di quei poveri contadini ? E l’ammirazione ineffabile delle donne sporche e stracciate, a bocca larga, ad occhi fissi, mentre al gonfio seno scoperto succhiava l’ultimo bambolone ? Ed anche il bestiame minuto dei bimbi nudi e seminudi s’era chetato … ma ad un tratto scrosciano nell’ambiente sonoro le prime battute della marcia reale e sullo sfondo appaiono dei cartelloni quadrati, mossi in leggero dondolio da una corda maneggiata dietro l’addobbo. Sui quadrati si disegnano dei busti spaventosi: gli angeli ribelli, e degli ammassi oscuri: le nuvole; da entro le quinte si proietta su loro i riflesso infernale dei bengala vermigli, ed ecco nell’orrida scena apparire in cartone intagliato la figura dell’arcangelo irradiata da bengala azzurri, minacciosa, brandente la spada. Il cozzo antico si rinnova brevemente fra i suoni italiani, e i demoni si sbandano nella rotta confusa, colle nubi, mentre un secondo S. Michele, quieto, glorioso succede al primo, nello splendore aureo di Paradiso. E gli uomini e le donne e i ragazzi si agitano nell’ammirazione irrefrenata, la marcia reale invade ormai fiocamente la chiesa rumorosa, il frastuono e il calore mi spingono al di fuori: eccomi uscito, al buio, sotto la immensa pace del cielo tempestato di stelle. Proseguo.

La cuccagna è già vinta, le osterie riboccano di gente intenta alle salsicce, pochi uomini discorrono attorno ad una fanfara disposta sulla impalcatura della piazza maggiore. Ma allora corrono gli accenditori: in breve glia angoli più riposti s’aprono alla luce variopinta e la piazza fiammeggia; ecco apparire da lungi una carrozza, nella quale brillano i bottoni di un ufficiale dell’esercito, il messo comunale, acceso di zelo, rianima il patriottismo della fanfara, risuona la marcia reale, il paese si riversa nelle vie. Stordito prendo la via del ritorno, ma il transito è impossibile, troppo folta è la turba intesa ad ammirare i fuochi artificiali che drizzano al cielo due pirotecnici in gara.

E quando, spentosi l’ultimo razzo, spero di incamminarmi nella quiete, un’ondata di gente mi rapisce, mi trascina: è la fiaccolata in onore dell’angelo una lunga fila di giovani con torce fumigginose che corrono attossicando le vie sino alla chiesa; di là soltanto posso, se Dio vuole, dilungarmi nella campagna oscura, silenziosa … .

Ausonio Dobelli

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Un decennio senza Bettino

Occorre ancora “una radicale ristrutturazione del sistema politico italiano in conformità con il modello delle grandi democrazie europee”

di Filippo Curtosi

garofano
il Garofano, simbolo del PSI

Il 19 gennaio ricorre il decimo anniversario della morte di Bettino Craxi in Tunisia, ad Hammamet. Per il mio amico Giuliano Ferrara Craxi “è stato un uomo di stato, un uomo politico enorme, leale, morto in esilio secondo la volontà farisaica dei suoi nemici. Un socialista autonomista, scrive Ferrara sul Foglio, cresciuto alla scuola disordinata e generosa di Pietro Nenni”. Insomma secondo il Direttore del Foglio e amico del leader del vecchio Psi, questi ha rappresentato come dire il genio tattico, il Socialismo garibaldino con una visione liberale. Nel 1989 in occasione del 45 congresso nazionale socialista, Bettino Craxi pubblicò l’introduzione di un volume “I socialisti verso il 2000” nella quale dichiarò che occorreva “una radicale ristrutturazione del sistema politico italiano in conformità con il modello delle grandi democrazie europee, dove i partiti socialisti sono la forza trainante dello schieramento riformatore”.

Quelle di Craxi erano affermazioni che oggi, a distanza di quasi 20 anni abbiamo trovato prima sulla bocca di Prodi (che fu ministro dell’Industria di un governo guidato dall’esule di Hammamet) da D’Alema ed anche da Fini e da Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, autore della svolta della” Bolognina”. Dice Occhetto nell’intervista alla Stampa del 6 gennaio scorso: “All’inizio della sua segreteria Craxi svolse un’azione positiva contro i rischi di consociativismo tra l’allora partito comunista e la democrazia cristiana tendente a porre le basi per una politica di alternativa, e li, poi fu colpa del Pci che non seppe cogliere quel momento felice della sua azione (…) dopo la svolta della Bolognina andai da Bettino. Gli chiesi, visto che c’erano molte tensioni se si potesse tentare di ricostruire intorno alle nostre famiglie l’unità. Gli proposi, di fare insieme opposizione. Lui mi rispose che,certo,sarebbe stata una cosa buona,ma che se andava fuori anche un solo giorno i suoi lo avrebbero fatto fuori”. Manca poco più di una settimana al decennale della morte di Bettino. Il suo oppositore più irriducibile fu Eugenio Scalari, il fondatore de “la Repubblica” di cui chi scrive è fedele lettore da sempre e che quando il segretario del vecchio Psi era l’uomo più potente d’Italia ha avuto il coraggio di criticarlo in maniera pesante e pubblica con una serie di interventi che vanno dal 1983 al 1992 ed apparsi sull’Avanti e che il direttore del giornale socialista Antonio Ghirelli pubblicava regolarmente con lo peseudonimo di Pannaconi provincia di Catanzaro. In questi giorni leggo tra le vecchie carte alcuni editoriali di Eugenio Scalari di quel periodo: “Berlinguer lo attacca come se fosse il pericolo pubblico numero uno e lui non gli risponde…Con Forlani adotta un atteggiamento di massima freddezza…Sull’aborto rintuzza Papa Wojtyla (..) Nell’anticomunismo del Psi non c’è assolutamente nulla d’illegittimo…Le tesi di Craxi testimoniano solide letture a cominciare da Proudon. Un uomo politico ed uno statista insieme. C’è ne pochi in circolazione (…) Craxi ha avuto un tono calmo,un timbro alto,un approccio non rissoso (…). Questo prima del 1993. Dopo,un po’ per calcolo un po’ per essersi trovato un nuovo padrone lo stesso Scalari tuonava: “Vergogna, assolto Craxi (…) Il latitante di Hammamet, e da ultimo gli insulti di Giorgo Bocca prima socialista pure lui assieme a tanti altri e poi scappato. Ma torniamo al congresso socialista dell’89. Gli altri passaggi dell’introduzione: “Il Psi deve assolvere al suo compito di forza riformatrice moderna, consapevole delle esigenze di stabilità e governabilità di una società avanzata, sensibile alle istanze nuove che vengono dalla società stessa al fine di favorire e salvaguardare l’ambiente, per favorire la distensione e sviluppare la cultura della pace, per fare dell’Italia un paese in cui siano ridotte le disuguaglianze sociali, la giustizia sia giusta, i servizi efficienti, le opportunità di impiego eque e coerenti con le capacità dei singoli”. Era quello il congresso che doveva consacrare alcuni valori come la meritocrazia, l’equità, la giustizia sociale.

Il segretario del Psi aveva un piano però che era a mio avviso molto precario in quanto poi alla fine presupponeva la conquista del potere in ogni angolo del paese e la riductio ad unum e cioè della riduzione totale e fatale a sé, alla sua persona ed a tutti quei craxisini imperanti per l’Italia e soprattutto in Calabria: una sorta di associazione di fedeli, una sorta di oligarchia regionale, provinciale che al primato della politica amavano il potere per il potere. Il diritto della forza e non la forza del diritto. Turatiano, Nenniano, anticomunista. Fu prima di diventare segretario del Psi nel 1976, vice di Giacomo Mancini e Francesco De Martino poi. Riesce ad imporre per la prima volta un socialista al Quirinale: Sandro Pertini. Per il tempo fu uno scandalo l’elezione del vecchio partigiano socialista. Fu in quel tempo che fece scomparire la falce ed il martello su libro e sole nascente con il garofano rosso. Craxi fu il primo socialista a diventare primo ministro in Italia.

Se oggi si può devolvere l’8 per mille e delle offerte deducibili per il clero lo si deve a lui: il 18 febbraio di 20 anni fa firma la revisione del Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede. Poi venne Sigonella, il Caf, il Referendum, Mani Pulite e la morte in esilio.

Oggi, di fronte a ripensamenti, dialettica, separazioni, insomma di fronte ad uno scheggiarsi e proporsi di spezzoni dell’ex Partito Socialista,ci sono dei compagni che lavorano da molto tempo per la riunificazione della diaspora socialista. Di positivo, c’è il fatto che la questione socialista è evidentemente sentita. Questo significa che è anche avvertita anche da altre forze politiche. Non può essere elusa.

I tanti gruppi socialisti che hanno una storia, una cultura, un linguaggio politico: quello degli anni Ottanta che cambiarono l’Italia, la fecero più libera, innovarono linguaggio ed idee anche se l’ideologia comunista e il doroteismo democristiano tiravano il freno, le oligarchie si mettevano di traverso. Poi vennero i soldi, il muro di Berlino e una certa politica . Riformisti contro rivoluzionari per professione: il risultato è sotto gli occhi di tutti. Oggi gli ex Pci affermano che “avevano ragione loro.. Vedo i socialisti frantumati in un pulviscolo di partitelli, di Club, di Associazioni in lotta tra loro. Si fanno e disfanno patti, si stipulano e si capovolgono alleanze, ci si scambia giuramenti, li si viola, ci si scanna: in pratica tutti vorrebbero comandare. Alla fine la partita è persa per tutti o quasi perché le forze si equivalgono e nessuno poi conta granché.

L’ambizioso progetto che ricreava un soggetto che copriva l’area socialista non può non fare i conti con tutta la sinistra, compreso i Democrat o quello che di questo partito resterà. La cultura socialista è una sorta di protettorato culturale e i socialisti sanno che la politica quella con la P maiuscola è Cultura. Ci vuole un nuovo progetto? Si, un nuovo progetto che si fondi sui valori della tradizione del socialismo italiano in una società, quella odierna, che cambia continuamente. Senza i socialisti questo non è possibile. Esiste quindi ancora una questione socialista? Certamente. Ormai le risposte che vengono date alla questione socialista si stanno chiarendo. Chi può negare per esempio che dal punto di vista dell’evoluzione della cultura socialista le tesi che furono sviluppate nel vecchio Partito Socialista, in particolare da Martelli restano valide ancora oggi. Certo dopo la scomparsa del Psi e dell’area laica i socialisti si sono ritirati nel loro privato o si sono sparsi da tutte le parti ed hanno finito per non contare realmente nulla. Occorre ricominciare a legare il filo rosso, avviare la rifondazione socialista, ricomporre la diaspora, ricostruire un’area di dibattito e di riflessione.

Per questo era nata, l’Associazione “Socialismo è Libertà”, che non è un partito e non è incompatibile con l’appartenenza agli attuali partiti della sinistra. In Calabria questo è ancora più importante ed uomini del calibro di Casalinuovo, Zito, Sandro Principe, Zavettieri, Olivo, Mancini ed altri rappresentano la storia del socialismo calabrese per aver inciso fortemente con una azione socialista che ha lasciato i segni più profondi ancora oggi. Oggi i problemi soprattutto economici e sociali sono più acuti ed il centro destra non è stato capace di offrire una prospettiva di sviluppo. La Calabria però possiede le forze vive, politiche, sindacali, intellettuali ed imprenditoriali e soprattutto giovanili per misurarsi con le sfide del terzo millennio. Per questo La Rosa Nel Pugno voleva avviare con tutte le forze un confronto per costruire insieme una prospettiva di crescita culturale, civile ed economica per la Calabria e per l’Italia. Certo servono alcune cose.

Primo: occorre disarticolare questo bipolarismo. Secondo: il riformismo è socialista ed è Italiano o non è: il PSI ha inventato il riformismo. Terzo: occorre andare verso la Terza Repubblica:

Occorre, infine, ridefinire il proprio ruolo, che sia un ruolo appunto riformista e socialista e che possa incidere nei processi in atto. E’ necessario però che i valori riformisti continuano a permeare la società civile ed essere elemento portante nella costruzione della Nuova Europa: oggi, c’è una forte richiesta d’autentico riformismo che resta ancora inevasa.

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Salvemini, bastian contrario e sincero democratico. Solo Commemorazione?

Meglio arruolare e mobilitare: Emergenza democrazia in Italia? Il Processo farsa di Anna Politkovskaya.
di Filippo Curtosi

Gaetano Salvemini - Wiki

La figura di Gaetano Salvemini, nel cinquantenario della sua scomparsa viene restituita alla luce grazie ad un saggio di Gaetano Quagliarello (Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007,pp 313) che ripercorre in modo organico l’intero arco della sua esistenza dal 1873 al 1975, soffermandosi su temi di scottante attualità come la morte della patria e sulla partitocrazia. Salvemini, dopo l’uscita dal Partito socialista,all’indomani della prima guerra mondiale ed in particolare di fronte al delitto Matteotti che inquieta Salvemini tanto che diventa uno dei principali propagandisti dell’antifascismo in campo internazionale e per questo fortemente osteggiato da Mussolini. Il fascismo nella lettura salveminiana non è visto come reazione al pericolo di una rivoluzione bolscevica che, come afferma lo stesso Salvemini non è mai esistito se non come” forma di agitazioni e disordini senza scopo provocati da una sinistra massimalista e inconcludente”. Il fascismo assume nella lettura dello storico pugliese i connotati di un fenomeno antiparlamentare. Antifascista de anticomunista tanto e vero che accostava fascismo italiano e comunismo sovietico e fu proprio Gaetano Salvemini a far da guastafeste nel “ Congresso internazionale antifascista degli scrittori per la difesa della cultura” che si svolge a Parigi nel 1935, presieduto da Gide e Malraux ed è li che denuncia il caso dell’arresto di Victor Serge per” trozkismo”. “Esiste una polizia segreta sovietica come la Gestapo e come l’Ovra che tiene prigioniero un intellettuale come Serge”. Scoppia il finimondo e tutta l’intellettualità è costretta a chiedere la liberazione di Serge. Togliatti nel 1945 lo ricorderà come “ un provocatore trozkista che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini”.

Il professore di Molfetta ha consegnato ai promessi sposi del Partito democratico, dice Ugo Finetti una eredità culturale che però giorno dopo giorno è sempre più vuota nel desolante deserto ideale che fa da scenario alla costruzione del nuovo soggetto politico.Siamo cresciuti negli ardori rivoluzionari giovanili e riformisti poi ed abbiamo assistito al governo di una sinistra che ha scambiato i principi in cambio di qualcosa di indecifrabile. Dovrebbero, tutti i politici vibonesi, fare proprie le frasi di Bobbio quando dice che “molte delle promesse della democrazia sono ancora promesse da marinaio”.
Norberto Bobbio nel 1975 in un bellissimo saggio dal titolo” Salvemini e la democrazia” scriveva:” Per comprendere appieno il rapporto tra Salvemini e la democrazia, non è sufficiente riferirsi all’esempio di un impegno durato tutta una vita intera e culminato nella ventennale battaglia contro il fascismo: occorre rileggere con attenzione i suoi scritti, dove è possibile rintracciare una compiuta e perfetta teoria dello Stato democratico”.
Nel 1953 Bertrand Russel pubblicò una sorta di abbecedario politico intitolato” L’alfabeto del buon cittadino e Compendio di storia del mondo( a uso delle scuole elementari di Marte). A partire dalla prima definizione( Asino: quello che pensi tu”), il premio Nobel per la letteratura disprezzava l’arroganza, l’assoluto, il dogmatico. il fanatismo. La definizione di Virtù:” sottomissione al governo” e all’opposto quella di Assurdo” Sgradito alla polizia”. O quella di Libertà” Il diritto di obbedire alla polizia”. E che dire della definizione di Saggezza” le opinioni dei nostri avi”. Per non parlare della definizione di Sacro, la cui definizione russelliana è” sostenuto per secoli da schiere di pazzi”. O di Cristiano, definito” contrario ai Vangeli”. Per non parlare di Bolscevico” chiunque abbia opinioni che non condivido”. Per tornare a Salvemini che sicuramente apparteneva a un’altra categoria di intellettuali cosi rilevava a proposito dell’essere italiani:” Quando parlano gli Italiani colti, mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco e, quello che pensa lo penserei anch’io”.” Il linguaggio storico e politico, scrive infatti Salvemini, attraversando tempi e ambienti culturali diversi, si è caricato con termini polivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuole perdere tempo discutendo di equivoci”. Liberalismo,democrazia, socialismo scrive Sergio Bucchi, sono i termini principali del lessico Salveminiano e prima ancora sono i termini fondamentali del linguaggio politico del secolo decimonono, “il più intelligente, il più umano, il più decoroso dei secoli”. Le tappe essenziali del più grande movimento di emancipazione mai realizzatosi nella storia che ebbe il suo punto d’avvio nella rivoluzione francese. Se il liberalismo si identifica in origine con la battaglia per i diritti personali e la conquista delle istituzioni parlamentari contro i privilegi feudali e i regimi dispotici, la democrazia ne è una estensione, in quanto “ ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali”, il riconoscimento per tutti, senza distinzioni di sorta di tutte le libertà personali e politiche. “Un regime libero può non essere un regime democratico, ma un regime democratico deve essere un regime libero”. In questo senso,continua Bucchi, il “metodo della libertà” costituisce la via imprescindibile di ogni rinnovamento politico o sociale. E metodo della libertà e regole della democrazia non possono non essere alla base anche di ogni tentativo di conquistare quel tanto che è possibile di giustizia sociale. La realizzazione della giustizia contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione è parte integrante non meno delle libere istituzioni, dell’ideale democratico. Istituzioni democratiche e giustizia sociale stanno tra di loro in un rapporto inscindibile di mezzo a fine,al di fuori delle istituzioni non è possibile nessuna realizzazione.
A proposito di democrazia, la casa editrice Bollati-Boringhieri ha ristampato una raccolta di memorie, lettere e saggi del grande storico Liberale e Socialista, Gaetano Salvemini. Proprio cinquant’anni anni fa moriva negli Usa lo storico pugliese. Era nato nel 1873 a Molfetta, Salvemini, precursore del liberal socialismo. Studioso della questione meridionale e maestro dei fratelli Rosselli è stato oppositore del regime fascista, aveva criticato aspramente Giolitti, accusò i rivoluzionari come Prezzolino e Godetti di disprezzare la democrazia: un sistema imperfetto ma da salvaguardare. Annotava nel 1923 sul suo diario: “E’ moda, oggi, in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la democrazia quanto e non più che facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici e anche uomini come Prezzolino, Godetti, eccetera, dimostrano per la democrazia è documento della in cultura politica (…) che è la malattia fondamentale dei “democratici italiani e non italiani”. Parole attualissime perché anche oggi ci sono plutocrazie, gerarchie, oligarchie che dicono a parole di combattere i regimi ma che poi nei fatti deridono le istituzioni democratiche. La democrazia, agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne ed ossa. Queste parole, realistiche e lungimiranti esprimono la convinzione che dietro quella parola c’è un processo di trasformazione, segnato da conquiste e da crisi forti.
Sensibile al liberalismo di sinistra di Mill e alle tesi del laburismo inglese, Salvemini ripropone l’idea del equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia dell’individuo con quella della giustizia sociale.
“La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale che un intellettuale. Se con sicurezza intendiamo un livello di vita minimo e l’uguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuole salvare la democrazia politica dal naufragio”. Attualissimo nella nostra società caratterizzata dal rischio, dalla precarietà e dall’incertezza.
In uno dei suoi ultimi scritti del 1957 dava atto dell’operato della Democrazia Cristiana di De Gasperi: “Debbo riconoscere che i democratici cristiani mi lasciano protestare, mentre prevedo che i comunisti mi taglierebbero la lingua fin dal primo giorno…il giorno in cui fosse certo che Togliatti e Nenni hanno abbandonato sinceramente ogni intenzione totalitaria starei con Nenni e Togliatti. Non volendo cadere dalla padelle nella brace sono costretto a preferire la democrazia-democrazia-democrazia di De Gasperi, alla democrazia di Togliatti”.
Oggi in Europa ed in Italia e soprattutto dalle nostre parti occorre lottare per la giustizia sociale e la libertà da ogni tipo di miseria. Le modalità della morte prima e del processo poi di Anna Politkovskaya è un chiaro esempio che esiste ed è reale una emergenza democrazia. Anna lavorava dal 1999 alla “Nuova Gazzetta” “Novaja Gazeta” per la quale aveva realizzato diversi reportage sul conflitto in Cecenia. I radicali da quelle parti hanno avuto i loro morti,non scordiamocelo mai: l’inviato di Radio Radicale Antonio Russo, torturato a Tiblisi, in Geogia; prima era toccato ad Andrea Tamburi, responsabile dei Radicali a Mosca. Le violazioni dei diritti umani sono evidenti e la società civile si deve mobilitare. “Abolire la Miseria della Calabria” lo fa perché intende contribuire a destabilizzare il sistema per rendere impossibile al potere, alla nomenklatura di destra e di sinistra di continuare a reprimere la libertà di espressione. Il dato è solo politico. Per la Calabria ci vuole una rivoluzione copernicana che non può fare certo Loiero o chi verrà dopo. Per fare questo, in Calabria ed in Italia bisogna lavorare per recuperare le tesi che furono di Gaetano Salvemini che restano ancora valide oggi. Non ci si dimentica di una esperienza socialista, libertaria, liberale e radicale, legata ai temi dello stato di diritto, delle libertà individuali, delle soggettività a partire da quella dei lavoratori. Questa è la strada maestra e la strategia dei prossimi anni e la sola via è quella di costruire un Partito democratico anche con lo spirito radicale, liberale, libertario e socialista. Pannella ci ha provato 40 anni fa e non ci è riuscito, Craxi subito dopo ed ha pure fallito. Solo così il Partito democratico che verrà sarebbe davvero tale a avrebbe l’adesione post mortem anche di Gaetano Salvemini, e modestamente anche la nostra.

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Su e giù per Monteleone

di Filippo Curtosi

caffé minerva in Monteleone Calabro, oggi Vibo Valentia
caffé minerva in Monteleone Calabro, oggi Vibo Valentia

Il giovane professore Ausonio Dobelli, mandato ad insegnare nel regio liceo di Monteleone di Calabria dove insegnava pure Luigi Bruzzano direttore della rivista di letteratura popolare “La Calabria”, scrisse una lettera ad un suo amico di Milano, per fargli sapere alcune usanze osservate nei paeselli calabresi e che Luigi Bruzzano, appassionato di tradizioni popolari della Calabria, pubblicò sulla sua Rivista di letteratura popolare. Con un linguaggio un po’ arcaico e forse per questo ancor più bella e trattandosi di una lettera che ci riguarda; che riguarda la vita popolare calabrese di un tempo, una lettera che come un affresco dipinge il paesaggio colorito della nostra terra, dell’abito locale, delle feste, crediamo anche noi sia quantomai opportuno pubblicarla sul nostro periodico a distanza di oltre centodieci anni.

Filippo Curtosi

Monteleone Calabro, 2-12-1899

Caro Edoardo,

…. E davvero, oltre alla radiosa lucidezza del cielo e del mare – azzurro sorridente nell’immenso sole – oltre alle vedute mirabili che l’altopiano ci affaccia ne’ pianori e ne’ poggi folti delle morbide selve degli ulivi, e ci apre nei lenti valloni rivestiti di orti e vigne e frutteti, di quanti altri spettacoli belli o nuovi l’osservatore più superficiale pasce la mia curiosità!

Nell’ultima mia, parlando degli usi comuni, m’impegnai pure di offrirti il disegno colorito dell’abito locale e degli abbigliamenti; in questa cercherò di radunare brevemente e disporre in quadretti (di quale efficacia poi?) le memorie di alcuni episodi, che mi occorsero nelle frequenti passeggiate.

M’è presente ancora, pallido, come traverso a un velo sottile, un incontro triste, di mattina.

La nebbia, tenuissima, vestiva del suo chiarore biancastro le nubi e le distese campagne alte ai fianchi dello stradale, che io, ravvolto accuratamente nel mantello umidiccio, ripercorrevo verso la città; da lungi si svelavano a amano a mano le due file dei tronchi neri e le informi oscurità delle fronde. Ad un tratto mi apparsero lontano delle bianchezze esigue, in moto vivace; poscia, in un ciaramellìo confuso che tremava nella fumana immota, vidi avvicinarsi, disposti in processione, due file di bimbi scalzi, ricoperti di un sottil camice bianco, chiacchieroni ed allegri; dietro loro, colla croce e l’aspersorio due sacerdoti precedevano un feretro breve poggiato sulle spalle di contadini, seguito da poche donne raccolte. Nulla, che non fosse comune, nel povero cofanetto nero distinto dalle linee gialle agli orli superiori degradanti in lunghezza sino al sommo, ove si drizzava un’argentea figurina alata dalle membra grassocce; ma ai lati della piccola bara quattro donne involte nell’ammasso dei loro cenci venivan portando sul capo le anfore funerarie: alla brace salivano le volute lente dell’incenso votivo.

Qualche altra volta già avevo udito le prefiche vocianti le loro nenie dietro al lungo velo della chioma, o bisticciarsi al ritorno dal campo santo, pei pochi soldi guadagnati di fresco, ma veramente solenne m’apparve allora l’ufficio silenzioso, cinto nel pallore ampio del cielo, al quale le bocche dall’urne esalavano la prece pallida dell’incenso.

Giunto a casa, non potei soffermarmi tra le pareti malinconiche, e , terminato appena il pranzo, con un buono amico discesi a un paesello vicino.

Vanite le nebbie, sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa dell’auro pomeriggio autunnale, entrava a fiotti nelle viuzze la luce magnifica, disegnando nitidamente delle povere case e dei verdi alberelli diritti in ghirlanda nella piazzola. D’innanzi alla casa comunale s’agitava allegramente una frotta di ragazzi mal coperti da brandelli di giacche e di calzoni, in attesa dei confetti e degli sposi; noi, invitati gentilmente dal sindaco, salimmo in aula, ci affacciammo alla finestra. E alla svolta della via principale, ci apparve il breve corteo: un’iride.

Una decina di ragazze strette ai fianchi della sposa, seguite da poche donne e da tre o quattro contadini attornianti lo sposo s’avvicinavano lentamente: questo era il tutto, ma quale infinita varietà di tinte negli abiti adorni della festeggiata, e in quelli delle giovani amiche! I corsetti del color dell’indaco e della rosa, allacciati dinanzi da fettucce verdi, gialle, rosse, cilestrine, lasciavano trasparire agli orli superiori i ricami delle camicie candidissimi sui colli e sui polsi abbronzati; al basso confine delle strette maniche giravano due larghi e corti nastri, vermiglio l’uno e verde l’altro; lunghi orecchini d’oro pendevano ai lati delle larghe facce rotonde, e si aggiravano sui seni poderosi due o tre catenelle variamente intrecciate; le gonne, vergognose del solo azzurro (però di gradazioni infinite) o delle lunghe strisce grigie, si nascondevano sotto a grembiuli, ciascuno de’ quali era una festa, una miriade di tinte e sfumature: qua rosso, la turchino, più giù rosato, violaceo e che so io; lucevano a terra le scarpe, testimonio rarissimo di festa, gialle tutte e a bottoni, nuovissime alla sposa. Salirono, e dietro loro, in meraviglioso contrasto, le madri sotto la usuale tovaglia sporca, nel solito arruffio delle vesti stracciate, sui larghi piedi neri, ed i padri pure scalzi, colle camicie brune aperte sui petti bruni; più dietro e dovunque si strinse nella stanza la frotta seminuda e schifosetta dei ragazzi e delle bimbe, ammirando. Quindi, come la sposa ebbe ad occhi bassi buttato al sindaco il suo si , e questi lesse d’un fiato i precetti legali, lo sposo, tratta rapidamente di tasca la mano, gettò sull’ampio registro aperto sul tavolo un cartoccio di confetti gonfio, gualcito e sudicio; uno dei testimoni lo imitò, e la compagnia si sciolse in parte nella piazzetta, dove i fanciulli si rotolavano per terra vociando nella caccia di dolci, che piovevano dalle nostre mani aperte sul davanzale.

Pochi giorni dopo, mi fu dato di contemplare la sagra annuale dello stesso villaggio; nella processione confusa e sonora (alta saliva la laude a S. Nicola: lu grandissimu santu – che è celebratu pe tuttu lu mundu) avanzava il venerabile simulacro poggiato sopra un piedistallo di legno e su quattro spalle robuste. E vicino al santo era incastrata nel piedistallo stesso una pentola lignea, da cui parea stessero uscendo quattro rozze figure di bimbi ignudi: il miracolo maggiore del patrono, la salvazione stupenda degli innocenti immersi nel liquido bollente dalla ferina mano del padre. Avanzava l’immagine benigna nella via principale, e la lunga teoria de’ camici bianchi e de’ camici rossi cogli stendardi e le candele precedeva lentamente; dai volti rugosi, dai capelli secchi attorno alle vene sporgenti scendevano colle barbe grigie e biancastre i cordoni variopinti, terminanti in nodi, in fiocchi, in pennelli di mille colori; dietro al santo passavano mimetizzandosi le ragazze strette nell’abito festivo, sotto le tovaglie nuove bianche e ricamate agli orli, o di seta nera per alcun lutto recente, quali ben calzate, quali scalze, quali colle scarpe gialle luccicanti sulla pelle oscura del piede; quindi venivano le donne un po’ meno sucide del solito, e gli uomini nei brevi giubbetti e nei più brevi calzoni di velluto nero-azzurrino, colle mutande ancheggianti dal ginocchio sino a terra. Ma negli sbocchi numerosi dei vicoletti le compagne sostavano, solo l’effige benedetta varcava ogni mucchio di letame suino, ogni larga fossa di fango e d’immondizia, lustrato ogni angolo del paese, e da ogni angolo uscivano donne colle offerte esigue della povertà, sbucavano uomini scamiciati, curvi sotto sacchi di granturco, saltavan fuori ragazzi quasi nudi, quasi neri, con ceste di frutta sul capo: tutti attorniavano il santo, entravano confusamente nella processione.

(continua)

E la sagra di Piscopio? Ah veramente qui m’ invase una meraviglia grande. Una devozione illimitata avvince questo paese all’altare dell’arcangelo trionfatore, ogni madre impone ad uno almeno dei propri nati il nome di Michele; tutti, alla ricorrenza festiva, gareggiano nelle offerte, e con tanto ardore, quale mi trasparì nelle parole di uno de’ più miseri fra loro: << La festa costò 7000 lire, ma fu eclatante, e , del resto, dovessimo torci di bocca il pane, a S. Michele bisogna rendere onore >>. E furono davvero due giorni di bagliori e di giocondo frastuono.

Disceso al villaggio, nel nitido pomeriggio della vigilia, attraversata la doppia fila degli assiti pronti per le girandole e per glia altri fuochi artificiali, m’ apparve tra le prime case il ballonzolo dei cammelli. Lo zampognaro sonava a perdifiato; ne seguiva il tempo con salti e dondoli un uomo invisibile dietro a una gualdrappa di stracci, sotto una macchina commessa d’assi e di travicelli, che nella coperta di cartone colorito somigliava poco al corpo di un cavallo; questo era il primo cammello, e vicino a lui saltellava sfrenatamente il secondo: un ragazzotto robusto, serio in volto e grave, chiuso dal petto all’ingiù in un ordigno di legno e cenci simile al primo. Doveva forse rappresentare per la piccolezza e per la rapidità dei movimenti il baldo nato dall’animale maggiore, si che talora, a qualche frase più lenta e rotonda della zampogna, si permetteva di girare attorno al genitore; il quale, dal canto suo, spinto dall’affetto paterno s’apprestava talvolta, dondolando sempre, al piccino, e , separate da un tratto di spago le mascelle, fingeva di lambirlo. Ma allora questi d’un balzo s’allontanava , e riprendeva per conto suo il trotto e il volteggio fra le risa di tutti e gli urli e le provocazioni inascoltate dei bimbi dal calzone spaccato, delle bimbe involte nella camiciuola sporca. Levando gli occhi, sfilavano ai due lati della via i pali dritti per l’illuminazione, già tutti rivestiti in varia forma de’ bicchierini variopinti, e le bacheche colme di paste, di figurine dolci colorite, di candele corte e sottili; ma dove la contrada allargandosi concedeva appena lo spazio necessario, una grossa impalcatura di legno rotondeggiava cinta di verzura e di rami ornati di fronde e di lumicini: di qui doveano il domani allargarsi pel paese tutto pei campi agli accordi e i disaccordi delle musiche e delle fanfare.

Grosso, liscio, altissimo si drizzava l’albero della cuccagna.

Entrai nella chiesa, già pomposamente addobbata, in compagnia d’una giovenca grigia, che veniva a ringraziare in persona il santo per la guarigione: la trasse all’altare con una grossa corda il contadino, quindi, porta l’offerta votata, se ne andarono benedetti. Solo lucevano nell’ombra densa sette od otto candele assai lunghe e grosse nelle mani di alcune figure femminee, che, mi si disse, doveano per voto attardar digiune, inginocchiate nel banco, sino alla consumazione della cera. Occorrevano certo tutte le ore notturne; spaventato, sbirciai il gruppetto delle devote, ed ammirandole di tutto cuore, mi incamminai a lunghi passi verso il pranzetto che m’attendeva a Monteleone. E il domani ripercorsi la strada.

Le ore antimeridiane passarono lente e quasi chete, assorte nelle cerimonie in chiesa e nella aspettativa della processione; ma allorché questa simile ad una lunga iride, preceduta dalla musica, si stese e serpeggiò per le viuzze – di tra le fronde festive dense attorno ai pali la indorava il polverio luminoso dei raggi solari – la meraviglia, la commozione, l’ansia e la gioia dell’evento proruppero irresistibilmente nella gazzarra dei bimbi, nell’allegro vocio delle donne, nel gesticolare spensierato degli uomini, che si additavano a vicenda, con una certa ammirazione soddisfatta, la spada di S. Michele. E lampeggiando il sole nelle labbra d’argento, l’arcangelo adesso pareva sorridere lieto dei numerosi biglietti da una, da due, da cinque, da dieci e fin anche di venticinque lire, che dei fili quasi invisibili di rete, legavano all’arma vittoriosa ( a me sovveniva de’ pellegrinaggi, che pochi mesi fa ho visto giungere e allungarsi nelle vie della storica Empoli, alla venerazione di un crocifisso miracoloso, e rivedeva le croci vestite da carte-valuta o disegnate con monete d’argento, che si stagliavano alte fra i pellegrini ).

Dopo uscirono in piazza, ballando a suon di musica sino a sera, il gigante e la gigantessa: due macchine alte e grosse, mal ricoperte di vestiti in forma d’uomo e di donna, e comparve infine, fra le risate degli accorrenti, la tavola dei fantocci. La portava sul dorso, avanzando a suon di zampogna un villano nascosto dietro al sudicio panneggiamento che scendeva dall’orlo sino al suolo; le due marionette alte un cubito, vestite l’una da giovinotto, l’altra da sposa si rizzavano immote; ma, quando ad ogni bivio lo zampognaro e il piffero si piantavano fermi sulle gambe aperte, la tavola poggiava sui quattro piedi, il burattinaio sempre invisibile si sedeva per terra, e, tirando o allentando gli spaghi, faceva sgambettare la coppia innamorata. Il fantoccio virile muoveva le flaccide gambe, e danzando s’inginocchiava dinnanzi alla bella, quindi con gesti bruschi pareva volesse esprimerle l’intenso ardore del suo affetto; ella, pur ballando, dichiarava il volto ridente ed allargava le braccia, ma poi, ritrattale, col moto rigido della spinta in avanti lo respingeva. Egli nella danza rizzavasi e si volgean le spalle, ma poi ritornava all’assalto, e, fatto fatto più ardito da un’accoglienza migliore, alzata d’un tratto la mano, a scatti la muoveva carezzando su e giù per le forme femminili: e qui succedeva davvero la tragedia, giacché la bella, offesa nel pudore, rispondeva botta per carezza, calcitrando, ossia buttando innanzi una gamba ad intervalli regolari, fino a che il maschio, stanco di prenderne, rompeva ogni tempo, e si sfogava con una tempesta di schiaffi e di scappellotti all’addolorata sempre ridente. E dalle bocche di tutti intorno sgorgavan le risate sincere, irrefrenabili, sonore come una grande corrente di gioia, mentre agli orecchi ormai avvezzi batteva quasi inascoltato il monotono ronzare della zampogna instancata. Più innanzi verso la chiesa, si danzava qua e là: erano soltanto giovinotti, che a die a due guidati da un organetto, muovevano a scatti, a giri saltando o piroettando, le gambe cinte dal velluto azzurrino, e s’incurvavano, guardandosi curiosamente le flessioni del ginocchio e si giravano intorno; ad un tratto un terzo si frammetteva, e, levato il berretto, fissava uno dei primi, questi cessava immediatamente, e la coppia, rinnovata in parte proseguiva la gara. Le vecchie li ammiravano, le ragazze alla finestra fingevano di non guardarli, qualche nonno, toltosi di capo il berretto verdastro, lunghissimo, vi frugava sino al fondo, ne traeva il cartoccio del tabacco, caricava tranquillamente la pipa.

Alle cinque di sera la chiesa s’era quasi empita di gente per la cerimonia grande, ed io vi entrai in mezzo ad una compagnia d’ampli toraci e d’ottoni, che, per mio meglio, si fermarono in fondo. Meraviglioso spettacolo! L’umile chiesetta era scomparsa, travestita sfarzosamente da teatro. Dietro l’altare modesto scendeva dal soffitto un ampio e greve manto di color rosso cupo, tondeggiante nei molli seni, nelle spesse concavità, e s’aggirava ai lati del vano intero, appoggiandosi alle colonne, ove si raccoglieva in addobbi gonfi, a guisa di quinte. Innumerevoli candele disposte in tre file sull’altare e a’ suoi fianchi schiarivano i fiori e gli ornamenti nuovi, ma sul primo cornicione sporgente lungo tutte le pareti dell’aula all’altezza di quattro uomini correva una fitta linea di ceri, coi lucignoli congiunti da un filo impeciato di resina. Infiammato questo in vari punti, la luce percorse rapida il giro, e piovve copiosamente dall’alto sui corpi e sui volti accesi nel rosso cupo uniforme; non bastando, s’ apersero alcuni becchi di gas acetilene e il calore cominciò a farsi insopportabile. Chi può ritrarre l’orgoglio soddisfatto, che traspariva calmo, sicuro dalle faccie di quei poveri contadini ? E l’ammirazione ineffabile delle donne sporche e stracciate, a bocca larga, ad occhi fissi, mentre al gonfio seno scoperto succhiava l’ultimo bambolone ? Ed anche il bestiame minuto dei bimbi nudi e seminudi s’era chetato … ma ad un tratto scrosciano nell’ambiente sonoro le prime battute della marcia reale e sullo sfondo appaiono dei cartelloni quadrati, mossi in leggero dondolio da una corda maneggiata dietro l’addobbo. Sui quadrati si disegnano dei busti spaventosi: gli angeli ribelli, e degli ammassi oscuri: le nuvole; da entro le quinte si proietta su loro i riflesso infernale dei bengala vermigli, ed ecco nell’orrida scena apparire in cartone intagliato la figura dell’arcangelo irradiata da bengala azzurri, minacciosa, brandente la spada. Il cozzo antico si rinnova brevemente fra i suoni italiani, e i demoni si sbandano nella rotta confusa, colle nubi, mentre un secondo S. Michele, quieto, glorioso succede al primo, nello splendore aureo di Paradiso. E gli uomini e le donne e i ragazzi si agitano nell’ammirazione irrefrenata, la marcia reale invade ormai fiocamente la chiesa rumorosa, il frastuono e il calore mi spingono al di fuori: eccomi uscito, al buio, sotto la immensa pace del cielo tempestato di stelle. Proseguo.

La cuccagna è già vinta, le osterie riboccano di gente intenta alle salsicce, pochi uomini discorrono attorno ad una fanfara disposta sulla impalcatura della piazza maggiore. Ma allora corrono gli accenditori: in breve glia angoli più riposti s’aprono alla luce variopinta e la piazza fiammeggia; ecco apparire da lungi una carrozza, nella quale brillano i bottoni di un ufficiale dell’esercito, il messo comunale, acceso di zelo, rianima il patriottismo della fanfara, risuona la marcia reale, il paese si riversa nelle vie. Stordito prendo la via del ritorno, ma il transito è impossibile, troppo folta è la turba intesa ad ammirare i fuochi artificiali che drizzano al cielo due pirotecnici in gara.

E quando, spentosi l’ultimo razzo, spero di incamminarmi nella quiete, un’ondata di gente mi rapisce, mi trascina: è la fiaccolata in onore dell’angelo una lunga fila di giovani con torce fumigginose che corrono attossicando le vie sino alla chiesa; di là soltanto posso, se Dio vuole, dilungarmi nella campagna oscura, silenziosa … .

Ausonio Dobelli

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IL FOLK COME SCIENZA: “Credere in ciò che fu significa credere in ciò che si è”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Luigi bruzzano
Luigi bruzzano

Luigi Bruzzano, Giuseppe Pitrè e Giuseppe Cocchiara: nasce l’Etnografia


Sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni

La nascita dell’etnologia come scienza, la critica degli illuministi sull’idea di superstizione, il malinconico trasporto per la natura primitiva, la poesia degli umili ed in genere la problematica delle tradizioni popolari largamente intese è insieme la scienza e la coscienza dell’anima collettiva. Una sorta di enciclopedia piena di amore per il documento culturale e filologico questo rappresenta, secondo noi, “La Calabria”, Rivista di Letteratura Popolare” diretta da Luigi Bruzzano, uno dei maggiori demopsicologi italiani dell’Ottocento e stampata a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) dal 1888 al 1902. La rivista del prof. Bruzzano contribuisce a creare l’odierno concetto di folklore che, per usare le parole di Antonio Gramsci, presuppone che non venga studiato come “elemento pittoresco” ma in veste di “una concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o, nel senso più largo, delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico”.

Lo storico, che volesse indagare l’origine e lo sviluppo del folklore italiano, indagarlo nel suo aspetto concreto e puro, dovrebbe usare un metodo semplice e considerarlo, per usare le parole del maggiore folclorista del secolo scorso, Giuseppe Cocchiara, “una somma di esperienze e di interpretazioni personali”. Nel suo libro “Storia del folclore in Europa”, Cocchiara, di scuola del Pitrè, sottolinea che: “se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non solo la conservazione, ma quella continua e direi naturale rielaborazione, dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un eterno rivivere”.

Quindi lo studio etnografico del folklore non per compiere esercizi di paragoni tra varie culture egemoni e subalterne come dice Nadel o proporre l’esaltazione acritica della tradizione in se ma, piuttosto, per una necessità conoscitiva che serve, è necessaria, a riappropriarsi delle radici della nostra Storia.

In una lettera del novembre 1929 Raffaele Pettazzoni, già famoso ed affermato storico delle religioni, scriveva una lettera a Giuseppe Cocchiara che a lui si rivolgeva con l’appellativo di “Illustre maestro” chiedendo di “Parlargli come un padre può parlare ad un figlio…per rendermi degno di Lei, della sua stima e della sua fiducia. Ella deve acquistare quella cultura e quel metodo etnologico che in Italia dovrebbe farsi faticosamente da sé e che per lo studio del folklore è essenziale. Ella vedrà che per gli inglesi il folklore è essenzialmente etnologia: in Italia il folklore è sempre stato altra cosa e lo stesso Pitrè non ha realizzato completamente il concetto moderno di folklore in questo senso. Ella, dunque, sarà mi auguro, il pioniere di un nuovo indirizzo di studi folklorici in Italia, l’indirizzo “antropologico” cioè etnologico”. Giuseppe Cocchiara fu allievo del Pitrè e fu lui a riordinare, a partire dal 1935, le collezioni del museo etnografico siciliano intestato allo studioso, ispirandosi sempre al principio che “credere in ciò che fù significa credere in ciò che si è”. Per Cocchiara fu fondamentale il contatto con Pettazzoni che gli consigliò di recarsi in Inghilterra per un perfezionamento dove, lo stesso, andò a prendere lezioni da Robert Marett, esponente di una scuola antropologica sociale molto avanzata e sviluppata vista la necessità di acquisire conoscenze di antropologia applicata per la gestione delle colonie. Cocchiara in un primo momento ha poca simpatia per Pettazzoni e se ne capisce la ragione. Storico, letterato non meno che filologo, uomo di sapere sterminato in cui la quantità non va mai a detrimento della qualità e del gusto, Raffaele Pettezzoni, rappresenta per Cocchiara la negazione di tutto ciò che in qualche modo si rifà all’ipotesi del collettivo. La sua teoria sulla formazione delle “chansons de geste” che sarebbero state in origine leggende, “leggende locali, leggende di chiesa” e si sarebbero trasmesse oralmente dai monaci ai giullari che percorrevano i grandi itinerari sacri, le vie dei pellegrinaggi, dando così vita ad una tradizione colta e popolare insieme, ad una collaborazione tra strati inferiori e superiori della società, questa sua teoria è perfettamente antitetica allo studioso siculo. Ma dal carteggio che i due studiosi si scambiarono tra il 1928 ed il 1959 si rileva come l’allievo siciliano considerasse una “guida spirituale” Pettazzoni. “Dalle lettere, dice Eliana Calandra, direttore del museo Pitrè, emergono due persone diverse da quelle che apparivano in pubblico. Assai più affine e congeniale al Cocchiara fu il Pitrè e l’elemento tipico di questa rassomiglianza e la fiducia che entrambi nutrivano nella “naturale grandezza e poeticità del popolo”. “Fede nel popolo” è infatti intitolato il primo dei capitoli che sono dedicati al Pitrè nella “Storia del Folklore in Europa” e nel terzo sono riferite le seguenti parole dell’illustre studioso siciliano scritte nel suo “Studio critico sui canti popolari siciliani: La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori….della sua storia è voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tenere presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e si da quelli degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggi mai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motto, nelle parole. Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni”. Il Pitrè il 16 ottobre 1888 scrive: “La Calabria” di Luigi Bruzzano è utile per conoscere i popoli dell’Italia meridionale, il bravo e dotto prof. Bruzzano ha fatto opera buona, voglia il cielo che i suoi sforzi vengono coronati dal buon successo che meritano perché fanno opera doppiamente utile alla filologia e alla etnografia”. Luigi Bruzzano allo studio del mondo classico trasmesso dal suocero Ferdinando Santacatarina, fine letterato, latinista di fama nazionale, aggiunge un nuovo ed umano “Umanesimo”: lo studio della civiltà del popolo calabrese, civiltà che viene da lontano, dalla natura primitiva, barbara e selvaggia del popolo calabro. I professorini da caffè, così chiamava il Bruzzano le persone di cultura ufficiale, abbagliati da una pseudo cultura umanista, “ebbero davanti ai loro occhi una splendida visione spiegando davanti al loro sguardo un campo di lavoro inesplorato”. Esploratore audace e intelligente Bruzzano fu pioniere indiscusso dello studio dell’etnografia. Crediamo che, l’aver riproposto un’ampia antologia di testi folklorici pubblicati dalla rivista di Letteratura Popolare “La Calabria” debba essere considerato piuttosto come sforzo conoscitivo volto al riappropriarsi della nostra Storia, della nostra lingua. Un patrimonio al quale, le giovani generazioni soprattutto ma non solo, dovrebbero avere accesso facilmente.

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Terremoto del 1908

di Filippo Curtosi

Raffigurazione dei danni del terremoto del 1908 su Le Petit Parisien
Raffigurazione dei danni del terremoto del 1908 su                    “Le Petit Parisien”

Quando il terremoto cancellò dalla faccia della terra Messina e mezza Calabria. Messina, 28 dicembre 1908, ore 5,20 e 5,25 del mattino: l’Apocalisse.
Cent’anni fa il terremoto fece 150 mila morti in Sicilia e Calabria e scatenò uno tsumani con onde fino a quindici metri.” Vidi una fascia rossa in cielo,verso il mare e come un lampo sullo Stromboli.Ho visto una trave di fuoco che correva sul mare”.Una delle tante testimonianze. Di intensità pari al 10° grado della scala Mercalli( che ne ha 12). Il sisma uccise 150 mila persone sulle due coste dello stretto. Messina fu completamente rasa al suolo, cosi come decine e decine di paesi calabresi: case, chiese, ospedali, strade, ferrovie. Cent’anni dopo i giornali dell’epoca restituiscono oggi la voce dei testimoni; i più importanti avevano brevi servizi provenienti da Palermo, Napoli, Catanzaro. A Napoli, il Giorno di Matilde Serao titolò: “Lo spaventoso terremoto in Calabria e tutta la Sicilia”. Il Mattino di Edoardo Scarfoglio: “La catastrofe di Messina: la città distrutta, migliaia di vittime”. Gaetano Salvemini, docente all’Università di Messina, perse la moglie, i 5 figli e una sorella. Fu l’unico sopravvissuto della sua famiglia. Raccontò la sua esperienza all’Avanti!” Ero in letto allorquando senti che tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro che giungeva dal di fuori. In camicia, come ero, balzai dal letto e con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva: Feci appena in tempo a spalancarla che la casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversata come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando moriva”. Il quotidiano “Il Mattino”, raccolse il racconto del signor Manforte, telegrafista: “i muri erano sbattuti come foglie; da tutte le case e le finestre una grandine di tegole, di vasi, di parapetti, di davanzali, di cornicioni si abbatteva sulle strade con un frastuono altissimo… mi ricordo che vidi cadere le campane della cattedrale della Madonna della Lettera.
Il direttore dell’epoca della” Gazzetta di Messina”, Riccardo Vadalà : “nelle acque del porto galleggiava di tutto: cadaveri, carretti, mobili, carcasse d’animali, travi, botti, bastimenti affondati… tale era l’intensità della scossa e la violenza con cui le pareti venivano smosse e il sottosuolo si agitava, che non solo le pareti si piegavano come fogli di carta, ma io stesso, che quel mattino mi trovavo in redazione, mi senti sbalzare due o tre volte all’altezza di un metro dal pavimento. Uscito da sotto le macerie, tenendomi lungo il muro tentai di camminare per le strade. Il rumore delle case crollanti mi assordava… non vi era che un lungo, lugubre, immenso strillo da tutti i punti della città: Aiuto, Aiuto!
Tra i testimoni oculari dei soccorsi c’era anche lo scrittore Maksim Gor‘kij, che da Capri dove si trovava per cambiamento d’aria, apprese dalla lettura del Mattino della catastrofe calabro-sicula. Imbarcatosi fortunosamente e fortuitamente sul Duca degli Abruzzi, giunse a Messina insieme alle navi Francesi, Russe, Americane, Inglesi dirottate in soccorso. “Alle 5,20 la terra sussultò è l’incipit di ” Im zestorten Messina” nella traduzione di Fabio Mollica (Tra le macerie di Messina) introduzione di Nicola Aricò, Edizioni GMB Messina,2005). “Il mio primo spasimo durò quasi dieci secondi: i cigolii degli infissi e delle pareti, il tintinnio dei vetri, il fracasso delle scale che stavano crollando, spezzarono il sonno: la gente sbalzò in piedi percependo con tutto il corpo le scosse sismiche delle quali subito si prendeva coscienza, l’intelletto annichilito da una paura selvaggia. Alcuni correvano per le stanze cercando di fare luce nell’oscurità e di riunire i figli e la moglie, ma intorno a loro oscillavano i muri, cadevano i ripiani, le stoviglie, i quadri, gli specchi; si curvava il pavimento, mobili e tavoli sobbalzavano, mentre gli armadi movendosi per la stanza, si ribaltavano, tutto era animato dal panico, tutto, ostile agli uomini, minacciava morte. Come carta si laceravano soffitti, cadevano le stuccature, dappertutto crepitii, rovinare di pietre, sgretolarsi di muri, pianto di bambini, urla di paura, gemiti di dolore. Nessuno trovava l’uscita da questa tempesta che d’improvviso aveva reso la casa simile a un barcone, con la terra che oscillava sotto i piedi come onde del mare…”
Dopo che la terra tremò dal mare si alzò un’onda anomala alta quasi quindici metri che travolse macerie e persone.” Il mare improvvisamente si gonfiò alzandosi in un’enorme montagna ruggente dallo stretto e si rovesciò con cupo rombo furioso… un istante dopo la superficie agitata del mare apparve coperta di botti, d’imbarcazioni, di rottami, di battelli, di casse di petrolio, di frutta, d’agrumi e un nembo fittissimo copri la povera città di cui si elevavano acute strazianti urla invocanti soccorso”.
Anche il romanziere Giovanni Verga si adoperò fattivamente nella sua missione umanitaria e filantropica a soccorso dei profughi.
Scrive lo scrittore siciliano: “Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna non so: Rammento solo due occhi pazzi ed una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridio generale, era anch’essa di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti colle prime corse, che si accavallavano sul balcone del municipio all’arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi ed altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica… E l’altro, di laggiù vide lei sola in quel formicolio umano, udi, indovinò il nome…
D’altra parte, il terremoto non ha resocontisti istantanei. Furono in molti, personaggi noti e persone comuni a partire alla volta della Calabria e Sicilia per prestare il loro aiuto. L’Illustrazione Italiana mette in risalto la visita del sovrano Vittorio Emanuele III e consorte. Partirono la mattina del 30 dicembre a bordo della nave Slava. La regina approntò un ospedale dove furono ricoverate centinaia di superstiti, aiutò i terremotati diventando la sovrana più amata degli italiani. Il ” Corriere della Sera” manda la firma più autorevole, Luigi Barzini che raccoglie testimonianze dei contadini calabresi, in particolare dei paesi di Pannaconi, Triparni, Piscopio, Sant’Onofrio, Zammarò.
Cosi come il Kaiser di Prussia, Guglielmo II. Non mancarono, come sempre in questi casi, le ” visite” degli sciacalli.

(ndr) Sul terremoto del 1908 la rivista trimestrale Calabria Sconosciuta dedica un numero  monografico al tema,  uscita 119 (luglio – settembre 2008). Gli articoli sono molto interessanti e analizzano il disastro da  diversi punti di vista. Ricca la rassegna delle testimonianze e diverse le foto dell’epoca che documentano la tragedia più significativa della storia calabrese e siciliana.

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