La “Questione meridionale”: dalle origini al dibattito contemporaneo

I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca.

di Antonio Carvello (*)

Della nascita di una “Questione meridionale” propriamente detta si può parlare a partire dall’integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61: infatti, già all’inizio delle annessioni, nel momento cioè in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l’intervento regio l’ipoteca politica della dittatura di Garibaldi, Cavour ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a prendere drammatica coscienza dell’esistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativamente, ma anche in termini sociali e morali. Alla luce delle difficoltà crescenti, il Cavour reputò forse più conveniente anteporre alle ragioni dell’autonomismo e il decentramento amministrativo quelle che persuadevano a rinsaldare un forte sistema accentratore in senso decisamente unitario. Anzi, é da dire che le preoccupazioni politiche suscitate dalla questione del Mezzogiorno influenzarono strettamente tutto il dibattito successivo sulla forma politica-amministrativa da dare al nuovo stato.

Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governativa diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l’alleanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terriera del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l’iniziativa dell’opera di propaganda e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illuministicamente riluttanti a chiudere gli occhi sui problemi che la bruciante realtà meridionale (brigantaggio, fame di terra da coltivare, arretratezza economica complessiva, agricoltura arcaica clientelismo diffuso, ecc .) proponeva.

Primo di tutti fu Pasquale Villari: la sua descrizione della miseria delle plebi contadine e di quelle che affollavano, cenciose e senza mestiere, i “bassi“ dellex capitale (Napoli) infestata dalla camorra, della situazione intollerabile esistente nel latifondo siciliano, delle dimensioni del brigantaggio, procedeva col ripensamento critico delle basi sociali che erano all’origine di quei fenomeni patologici, insieme con l’appello ai ceti dominanti di tramutarsi nel nome del buongoverno, in classe effettivamente dirigente. Analogo spirito riformatore e moralismo filantropico é presente in Sonnino e Franchetti, i quali condussero avanti un discorso polemico che aveva alla base le splendide inchieste sulle condizioni delle province napoletane (1875) e della Sicilia 1876). Anche l’espansionismo coloniale era dal Sonnino giudicato come un canale di sfogo della miseria dei contadini del sud ed il campo per un pacifico svolgimento del loro lavoro in territori aperti alla civilizzazione. La linea del Villari venne altresì continuata da Giustino Fortunato, anche se sul finire del secolo, tuttavia, il Fortunato non nascose la cocente delusione patita per il venir meno di un sogno che aveva alimentato le speranze degli anni precedenti: quella di uno Stato che si facesse centro e motore attivi di rinnovamento materiale e morale nel Sud e nell’Italia intera.

Di fronte all’approfondirsi della frattura fra nord e sud – così come veniva documentata con dovizia di cifre e di fatti da Francesco Saverio Nitti nella opera capitale “Nord e Sud“ (1900) – Fortunato abbandonò gli ideali protezionistici del “socialismo di stato“ e si convertì decisamente al liberismo, convinto addirittura che 1o Stato col suo malgoverno riuscisse d’ostacolo alle sole energie individuali che avrebbero potuto operare per la rinascita del sud. Nel Nitti, al contrario, le speranze riposte nell’industrializzazione si accentuarono nella misura in cui egli pensava che le possibilità di trasformazione sciale dipendessero non soltanto da quella che egli chiamava la “ricostituzione del territorio“, ma anche dall’inserimento della regione nell’area capitalistica settentrionale ed europea, dove Napoli doveva fungere da “polo“ industrializzato propulsore per l’intero Mezzogiorno.

A differenza del Nitti, che fu sempre rigidamente unitario al pari di Fortunato, difese le ragioni di una soluzione federalistica del problema meridionale il repubblicano Napoleone Colajanmi, anche se rimase al di qua del meridionalismo borghese per quel suo privilegiare la riforma dello spirito pubblico quale pressuposto imprescindibile di un effettivo mutamento di rotta nel Sud, anziché far derivare abusi e discriminazioni dalla struttura sociale italiana quale si era storicamente formata con l’unita.

Filippo Turati
Filippo Turati

 

 

 

 

Toccò ai meridionalisti d’ispirazione socialista portare il dibattito su un piano squisitamente politico e svolgere talune conseguenze: con Ettore Ciccotti, al quale stette a cuore illuminare il rapporto che poteva intercorrere tra movimento socialista e questione del sud e che a tal fine operò polemicamente all’interno e fuori del PSI perché questi assumesse coscienza dei compiti che gli spettavano; poi, e soprattutto, con Gaetano Salvemini che quella polemica condusse con vigore ancora maggiore. Ma mentre il Ciccotti, pur sottolineando l’importanza dell’educazione per la coscienza di classe fra i contadini meridionali, ne considerò sempre la funzione politica subordinata al movimento organizzato del nord, Salvemini attaccò a fondo i compromessi palesi od occulti raggiunti, nel quadro del sistema giolittiano, dal partito socialista con la borghesia settentrionale, a spese del proletariato contadino. Per questo, ed a più riprese, Salvemini si scontrò con la linea riformista di Turati. Accantona e, anche se mai abiurato, il federalismo alla Cattaneo degli anni della milizia giovanile, Salvemini si batté dopo il ‘900 perché al centro del suo programma il PSI ponesse il suffragio universale ed una politica doganale antiprotezionistica, strumenti rispettivamente della rinascita politica ed economica del Sud. Convinto, infine, che il suo partito fosse incapace di fare propri quelle due parole d’ordine, uscito dal partito, fondò un proprio periodico per difendere le sue idee, “L’Unità”.

Guido Dorso, che nel 1914-15 si era accostato all’interventismo di Mussolini supponendo che l’evento “rivoluzionario” della guerra avrebbe infranto le fratture conservatrici del Mezzogiorno, nel suo volume “La rivoluzione meridionale“ (1925) ritenne non poco della lezione di Salvemini, battendo maggiorante l’accento sulle implicazioni interessanti tutto quanto il paese ove si fosse fatto del sud “la base della rivoluzione italiana”.

Un nuovo meridionalismo elaborò Antonio Gramsci: più che negli scritti giovanili ed in quelli del periodo ordinovista, Gramsci giunse allo sue conclusioni più maturo in un saggio rimasto incompiuto e steso nell’ottobre 1926, pochi giorni prima di essere arrestato, “Alcuni temi della questione meridionale”. In quest’opera la concezione leninista dell’alleanza fra operai e contadini, si saldava con la riflessione sui “nodi” principali della lotta politica fra democratici e moderati, sulla egemonia di questi ultimi consolidatasi, poi, storicamente, nella creazione di un “blocco storico” conservatore che nel “blocco agrario intellettualedi estrazione meridionale aveva il suo perno fondamentale. Sempre il sud offerse al maggiore meridionalista cattolico, il sacerdote di Caltagiorone Luigi Sturzo, fondatore anche del partito popolare,l e occasioni politiche per unificare, com’è stato osservato, i fili sparsi del suo pensiero e per elaborare i punti programmatici che ne sorressero la battaglia politica dal tempo della democrazia cristiana di Romolo Murri fino alla “leadership“ nel partito popolare: la richiesta della proporzionale, del decentramento regionale, la lotta per la rottura del latifondo in favore della piccola proprietà si affiancarono in lui a quella contro il trasformismo ed il clientelismo cui lo stato liberale aveva consentito di prosperare e di trovare alleati fra il clerico-moderati, soprattutto nel Sud.

Nel secondo dopoguerra si pone un nuovo meridionalismo, meno polemico e più propositivo rispetto ai “mali” antichi e nuovi del Mezzogiorno, che ha i suoi maggiori esponenti in Emilio Serni, Rosario Villari, Giuseppe Galasso, Francesco Compagna, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Mario Alicata, Augusto Graziani, ecc; intellettuali e politici di diverso orientamento,c he hanno posto all’attenzione generale del paese il problema del Mezzogiorno come “questione nazionale“, nel senso cioè che sarebbe utopia parlare di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, impensabile senza una politica d’orientamento e indirizzo da parte dello Stato di fronte a quelli che ancora oggi sono i problemi irrisolti del Sud: la mancanza d’industrie, un’agricoltura non competitiva, la cementificazione delle coste, la debolezza organica delle istituzioni, esplodere della criminalità organizzata, la crescente disoccupazione giovanile, l’assistenzialismo sempre più diffuso, ecc.

In questi ultimi tempi si va sempre più “appannando” la riflessione sui problemi del Mezzogiorno: una riflessione, quindi, per nulla comparabile, quanto ad intensità ed eco, ai dibattiti svoltisi negli anni ’50-60, quando ci si spinse ad affermare l’esistenza di un “pensiero” e di una “cultura” non solo meridionali, ma “meridionalisti”. Sembra ora, per diversi aspetti che i problemi della parte meridionale ed insulare del Paese non siano più sentiti come una “questione nazionale”, salvo che in poche dichiarazioni ufficiali, tanto inevitabili quanto spesso formali ed inutili.

Ad aprire la breccia in questa direzione, poco più di un anno fa, é stato il sen. Umberto Bossi, oggi leader incontrastato delle leghe del Nord: abile, spregiudicato, tanto incolto da raccogliere senza filtro gli umori dispersi della sua gente, ha fatto dell’antimeridionalismo una bandiera politica, ha raccolto consensi, è divenuto lo “spauracchio“ elettorale dei partiti tradizionali. Ma dopo la ricca e varia fioritura dei rozzi slogan di partenza, il fenomeno sta acquistando consistenza, la ricerca delle ragioni del successo delle leghe nordiste si sta ammantando di una “dignità” culturale: le filippiche quasi quotidiane di Giorgio Bocca – che traccia progressivamente il ritratto di un Mezzogiorno quasi irrecuperabile, vero “regno“ del male, ostaggio della criminalità organizzata e sempre più alimentato dall’assistenza statale – hanno aperto la strada a “diagnosi” meno impietose, meno totalizzanti e, per questo, più severe e pericolose.

La questione meridionale é soprattutto una questione dei meridionali” ha scritto in un editoriale sulla “Stampa” il filosofo Norberto Bobbio. Ma 1’affermazione dell’illustre studioso é stata raccolta ed interpretata al di là della sua valenza effettiva, dando il via ad analisi dure “Mentre le conseguenze del deficit pubblico – ha sottolineato Mario Pirani – sono vissute nelle regioni settentrionali come una minaccia crescente alla possibilità di concorrere alla pari all’integrazione comunitaria, nel Meridione il debito pubblico costituisce la base indispensabile del consenso e dello scambio politico”. Ed il sociologo Luciano Gallimo, riferendosi al Mezzogiorno, ha aggiunto: “Nessun paese europeo reca dentro di sé un nemico altrettanto pericoloso per tutti i progetti di sviluppo, di promozione sociale e culturale“. E Vittorio Feltri, direttore dell’“Europeo” ha avanzato “il sospetto che se i carabinieri nella provincia di Caltanissetta arrestassero tutti coloro che sono in combutta con le cosche e hanno violato il codice, la popolazione in libertà si dimezzerebbe” .

Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma ciò che é importante rilevare é che, sulla spinta di questo “nordismo democratico”,  prendono consistenza, in teoria, le ipotesi di una “secessione” del Nord. Il suo profeta è il prof. Gianfranco Miglio, ordinario di scienze della politica alla “Cattolica” di Milano: “Per accelerare il processo di secessione non c'è affatto bisogno che la Lega Nord conquisti la maggioranza assoluta nelle prossime elezioni. È  sufficiente che ottenga la maggioranza relativa nelle regioni settentrionali. E questo mi sembra probabile”. 
E sulla scia di questa previsione disegna il “modello” di uno Stato Federale, con tre macro regioni (Nord, Centro e Sud), con poteri limitati di coordinamento per il governo centrale e con la conseguenza che a restare “aggrappati” alle Alpi (e all'Europa del '93) rimarrebbero solo i fratelli “separati” del Settentrione. Queste provocatorie proposte, arricchite di nuove sviluppi, il prof. Miglio ora le ripropone in un volume pubblicato da Laterza-Bari “Una Costituzione per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica”, a cura di M. Staglieno, ove alle ipotesi di elezione popolare del primo ministro, di riduzione drastica dei poteri del Parlamento, di divisione delle funzioni tra i componenti delle assemblee rappresentative e quelle degli amministratori, di abbattimento dello stato sociale e l'applicazione integrale delle regole del mercato, sul versante istituzionale ribadisce la costituzione di tre macro regioni (la Padania, il Centro id il Sud), unite in uno Stato federale.

Una proposta che, più che giustificata da un approfondito e persuasivo approccio scientifico al problema, sembra condizionata dalla avversione del prof. Milglio ai guasti creati dalla partitocrazia; una “provocazione”, però, che si muove nella direzione contraria a quella di determinare una ripresa d’interesse e d’impegno tali da ricollocare la questione meridionale al centro del dibattito politico e culturale. E come se, durante li anni ’80, l’affermarsi – non solo a parole, ma anche negli indirizzi economici e nelle pratiche sociali – delle teorie liberiste, con il loro “corredo” di pensiero “debole”, “morte” delle ideologie, ecc. avesse fatto “rovinare” anche nelle coscienze e nella dimensione etico-politica la percezione del problema Mezzogiorno come una questione che – con la realtà drammatica dei suoi “ritardi” – interpella nel profondo la storia dell’Italia post-unitaria e la funzione di governo svolta alle classi dirigenti.

In questo senso non poco ha influito la constatazione del fallimento – oggi evidente in tutti i suoi aspetti – delle politiche d’intervento straordinario, condotte per un quarantennio nel Sud col fine di ridurre ledistanze” che lo separavano dalla parte più sviluppata del Paese. Ma le distanze sono cresciute, il divario si é approfondito e c’é chi non esita a ricordarci, quasi quotidianamente, che nel Mezzogiorno é in corso una preoccupante regressione civile, sociale ed economica: la disoccupazione nel 1988 ha raggiunto la punta del 21,6%, contro il 5% del Nord e non é solo la quantità del dato che impressiona, ma anche la sua “qualità” poiché il Sud ha il triste primato di essere la sola area di un’economia avanzata, quale quella italiana, in cui – com’é stato osservato – i disoccupati adulti e di lunga durata eguagliano quelli giovani. Nel Sud, e nella Calabria in particolare, sono poi in atto processi di vera e propria de-industrializzazione: mentre al Nord si ristruttura, nel Mezzogiorno si smantella con l’effetto di netta contrazione delle attività industriali. L’industrializzazione del Sud ed il maggiore impiego nel Mezzogiorno della sua forza-lavoro hanno rappresentato due “obiettivi” delle politiche dei governi repubblicani che sono stati, però, entrambi mancati.

E le prospettive che ora s’intravedono non sembrano migliori: si ripropone, ancora una volta ed in termini che non sono sostanzialmente cambiati, la vecchia contrapposizione fra politica dell’industrializzazione e politica delle e costruzioni, che nel secondo dopoguerra aveva trovato un punto di mediazione nella teoria di un intervento infrastrutturale che doveva consentire, e in tal senso ne costituiva una precondizione, 1’insediamento delle attività industriali. E molte analisi ritengono che oggi la linea che si viene affermando é di nuovo quella che, già all’epoca di F .S. Nitti, si chiamava delle “opere pubbliche“, delle costruzioni, degli interventi infrastrutturali: si tratta di realizzazioni viarie, di interventi nelle aree urbane, di infrastrutture idriche e fognarie, ecc. Ma almeno due fatti, sotto questo aspetto, vanno sottolineati: il primo é che gli investimenti per centri direzionali delle aree urbane (che dovrebbero rappresentare un indicatore di modernizzazione) spesso si traducono in operazioni di tipo immobiliare, che non hanno quasi nessun rapporto con la modernizzazione e l’industrializzazione (qualcuno s’è spinto ad affermare che nel Sud non vi sono città propriamente moderne, se é vero che la città moderna é definita dal fatto che incorpora una funzione fondamentale che é quella della produzione dei servizi per le imprese); il secondo é che i gruppi industriali meridionali sono prevalentemente attivi nel settore delle costruzioni e che, conseguentemente, 1’uso di capitale é di tipo speculativo”, volto cioè a conseguire rendimenti elevati e a breve termine.

È fuori discussione che il Mezzogiorno in questi ultimi 40 anni ha subìto processi di profonda trasformazione, ma in che senso? Sono cresciuti i consumi e sono diminuite l’occupazione e la produttività; si vive o si tende a vivere con uno “stile” di consumo – e anche con una relativa possibilità – simile a quello delle altre parti del Paese, ma non attraverso un’autonoma produzione di ricchezza: i trasferimenti di risorse hanno accresciuto i consumi ed i redditi, ma non la produzione l’occupazione ed il risultato che si constata oggi é questo: un Sud no povero, ma più “dipendente” o, come l’ha definita qualche studioso, “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno.

È su questa base oggettiva che si fondano i processi di disgregazione e degenerazione della vita associata, che si manifestano in fenomeni come gli “incroci” fra politica ed affarismo, la gestione clientelare dei trasferimenti di risorse, il diffondersi della piaga della criminalità organizzata. Ed é tutto ciò che porta taluni a parlare di un “futuro senza speranza” per il Sud ed altri ancora di un Mezzogiorno che sia finalmente in grado di “sbrogliarsela” da solo, ci sembra superfluo sottolineare le insidie che si nascondono sotto la “nozione” di “sviluppo endogeno” del Sud, oggi riproposta dai leghisti del Nord: essa può essere utilizzata per nascondere il tentativo di abbandonare a se stesso il Mezzogiorno, di farne un’area periferica dell’europa sviluppata con un esclusivo ruolo di “mercato interno”. E se non si può non riconoscere il fallimento delle politiche di sviluppo assistito, tuttavia non si può accettare una posizione che chiede al mezzogiorno che…faccia da solo. Ad una prospettiva di marginalità, di cultura della povertà, di mero “galleggiamento”, bisogna contrapporre, ancora una volta, la tesi di un Mezzogiorno come grande questione nazionale che non può essere risolta se non con lo sforzo concorde di tutto il Paese.

Si tratta, soprattutto per lo Stato, di riconoscere i diritti dei più deboli in un “universo – come ha scritto un filosofo francese – regolato dalla legge del più forte”, di abbandonare le politiche di disimpegno, disinteresse e latitanza nei confronti delle contrade meridionali o, nel migliore dei casi, delle cosiddette “briciole”.

Ma quest’aggressione violenta al Mezzogiorno, questa corale campagna di stampa contro un Sud palla al piede dello sviluppo nazionale, “nasconde” logiche tanto di natura economica quanto di natura politica. A dare risposte alle prime, un economista di fama, Mariano D’Antonio, con questa spiegazione: “Ci sono atteggiamenti motivati che assumono a difesa dei loro interessi, i gruppi sociali più forti, che sono quelli del Centro-nord. Le grandi imprese che sovente invocano il criterio della libera competizione, non disdegnano mai di attingere ai sussidi pubblici (le vicende della ristrutturazione negli anni dal ’79 all’84 sono eloquenti. Oggi che l’economia italiana é chiamata alla grande prova del mercato unico europeo, bisogna ridurre sussidi e trasferimenti ai meridionali per riservarli a quelle porzioni forti del nostro sistema produttivo che devono competere con l’industria e la finanza più agguerrita d’Europa”. Accanto a questa, una spiegazione ancora più inquietante:

“Nell’opinione pubblica si é fatta strada la convinzione che il mercato ed il perseguimento del tornaconto personale siano l’unico collante della i nostra organizzazione sociale. Una filosofia collettiva, un nuovo darwinismo sociale che esclude un intervento pubblico correttivo del mercato, politiche di sostegno e di promozione dei più deboli. Chi é debole deve tutto il suo danno a se stesso e non può disturbare la marcia dei più forti…”.

Più incline a spiegazioni strettamente politiche Francesco Tagliamonte: “Ormai si é soggiogati dall’effetto-mafia e dall’effetto-Leghe. Il primo fa assumere per definitivo il giudizio secondo cui gli aiuti al Mezzogiorno alimentano il malaffare e la delinquenza organizzata. Il secondo attanaglia politici e parlamentari in una sorta di timor panico secondo cui, appoggiando le buoni ragioni del Sud, si perdono voti che vanno ad impinguare le leghe nordiste”. Classico il richiamo alla ragione di un autorevole storico e politico meridionale, Giuseppe Glasso, che ha ossevato: “Vogliamo, come dice Bocca, correre a turare le falle della nostra barca? Riacquistiamo pienamente coscienza della dimensione nazionale non solo del problema meridionale e delle sua attuali caratteristiche, ma anche del problema etico e sociale, da cui l’Italia è da alcuni anni afflitta. Dimensione nazionale significa strategia nazionale, alleanze nazionali, piattaforme nazionali, atteggiamenti e decisioni nazionali, il che é più che dubbio che, al Nord ed al Sud, si possa fare con le Leghe”. Durissimo, infine, il giudizio di un esperto di problemi istituzioni, quale Antonio Maccanico:

Quale credito può venire concretamente allo sforzo di integrarsi in Europa, se il Mezzogiorno viene considerato un peso da cui liberarsi? Potrebbe accadere che la tessa Italia sia considerata dall’Europa un peso di cui liberarsi, anche se alleggerita dall’amputazione del Mezzogiorno; o, meglio, proprio per questo”.

Ma c’é un’altra considerazione da fare: ed é che in questi ultimi tempi l’andamento decrescente della spesa statale al Sud é stata inversamente proporzionale alla virulenza con la quale si é sviluppata la campagna antimeridionalista.

Ma, per completare il quadro, all’antimeridionalismo dei leghisti bisogna anche aggiungere le polemiche del novembre scorso sul Risorgimento italiano, i grossolani argomenti di Vittorio Messori contro Mazzini e Garibaldi, le farneticanti “buotades” a proposito di una…Norimberga per i protagonisti dell’Unità d’Italia: tutti “segni”, questi, di quanto oggi il senso di appartenenza alla comunità nazionale appaia in crisi (anche tra chi non condivide gli argomenti dei leghisti!), per cui un autorevole storico come Franco Della Peruta ha potuto osservare che mai oggi “il patriottismo é un valore che facilmente cade in letargo”. Anche il presidente del CENSIS, Giuseppe De Rita, in un intervento sul “Corriera della Sera” (24.XI.990) ha sottolineato quanto nella realtà italiana contemporanea stia “diventando grande l’egoismo territoriale, cioè il rifiuto di assumere impegni che travalichino gl’interessi più stretti delle singole comunità locali”, avvertendo che “purtroppo é anche un egoismo destinato a crescere visto che si intreccia con l’attuale forte spinta a radicarsi sul territorio ed a fare localismo, anche politico” e che superare tale egoismo territoriale “é un impegno che non può essere rinviato di troppo tempo” poiché “La qualità della vita e la stessa civiltà di un popolo si sono sempre misurate nella capacità di mettere a frutto comune le risorse e le responsabilità” e sarebbe triste se non ci riuscissimo noi (italiani), ormai giunti ad uno stadio avanzato di sviluppo economico complessivo”.

Queste ed altre ragioni spiegano la ripresa d’interesse, soprattutto a livello di dibattito storiografico e culturale, al periodo storico che portò nel 1860 al processo di unificazione nazionale e a riconsiderare il problema della formazione di una coscienza unitaria nelle varie regioni italiane, col superamento di quelle “differenze” caratterizzanti gli Stati italiani pre-unitari. Per quanto concerne il nostro Mezzogiorno, tra il 1815-20 lo Stato borbonico sembrava il più avanzato d’Italia. Poi, nel periodo di Ferdinando II, la svolta accentratrice aliena definitivamente la Sicilia alla monarchia borbonica e crea difficoltà alla classe dirigente meridionale. Ci fu, quindi, una evoluzione diversa dei singoli Stati: del resto, già nei primi decenni dell’800 era tramontata definitivamente l’economia mediterranea e con la rivoluzione industriale, dagli anni ’50 dell’800 in poi, si avrà la preminenza dell’Europa centro-settentrionale. È allora che il Mezzogiorno comincia ad essere tagliato fuori dai circuiti più moderni della vita economica e sociale. Nel Mezzogiorno vige la convinzione di Ferdinando II per cui tra “acqua santa ed acqua salata” il regno non abbia nulla da temere e, quindi, non abbia bisogno di una evoluzione. Ma é intorno al 1840 che nei vari stati italiani comincia a porsi il problema della formazione di una coscienza unitaria: il momento chiave é legato al dibattito sulla necessità per l’Italia di raggiungere l’unità economica per metterla al passo con le grandi potenze europee in cui si sta compiendo la rivoluzione industriale. Allora non si pensa neanche che si possa abbattere le monarchie secolari esistenti in Italia: s’immagina piuttosto una federazione di Stati, una unità doganale, con la costruzione di una grande rete ferroviaria. Tra le “voci” più autorevoli in questo dibattito ci sono personaggi poco noti come il Serristori in Toscana e Ilarione Petitti in Piemonte, che preparano un clima culturale unitario su cui si salderanno elaborazioni come quelle di Vincenzo Gioberti sull’unità morale degli italiani. E c’é anche Ludovico Bianchini, che già in quegli anni difende gl’interessi del Mezzogiorno e ancor prima dell’unificazione gli sembra che non s’identifichino con quelli del Nord. Nell’Italia del 1859-60, poi, non mancarono momenti in cui sembrò che l’unità della penisola, con la distruzione dei vecchi Stati, avrebbe realizzato un’unità culturale, politica ed economica. Ma subito dopo la proclamazione del Regno le prime delusioni. Un deputato catanzarese della Sinistra, Bendetto Musolino, in un suo discorso agli elettori aveva così decritto la situazione all’indemani dell’unificazione:

Geograficamente parlando noi siamo quasi uniti: ma le nostre province non hanno tutte le stesse leggi, le stesse istituzioni, lo stesso organismo. Sicché, animati dalla stessa idea, sorretti dallo stesso desiderio, rassomigliamo agli atomi del caos primitivo che si agitano nel vuoto eterno senza aver trovato ancora la forza di coesione da divenire corpo omogeno e compatto” (1861) .

Naturalmente, oggi i problemi non si pongono più nella stessa maniera: anche dove esistono stati nazionali, sorgono forti tendenze separatiste come in Francia, Spagna, Jugoslavia. C’é l’esigenza di affermare le “piccole patrie”, potremmo dire. E anche in Italia, dove non c’è il peso della nazionalità, si pone questa questione per cui rinascono egoismi economici e sociali, torna l’impressione che una piccola comunità avanzata come quella lombarda possa meglio badare ai propri interessi distaccandosi da quelle meno avanzate come il Mezzogiorno. Ma si tratta di tendenze senza fondamento, né futuro storico poiché é sempre più difficile vivere in comunità ristrette, credere che il progresso risieda nelle nuove “divisioni” d’Italia (proposte da Bossi) piuttosto che nella riaffermazione della sua unità. Così, le varie prospettive neo-federaliste non hanno alcuno respiro, né possibilità di attuazione. Tutt’al più potrebbe aver senso parlare di un potenziamento delle autonomie regionali, peraltro già attuate da tempo con modalità che sembrano aver prodotto più danni che vantaggi.

Anche dopo il 1860 emersero molte forze “nemiche” dello Stato unitario: una certa resistenza dei cattolici, un’opposizione dei nostalgici delle monarchie cadute, un’opposizione del movimento socialista che non si riconosceva nello stato liberale. In definitiva, una gran difficoltà per l’esigua classe dirigente unitaria di farsi davvero classe dirigente di tutta la nazione. I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca. E se c’è ancora qualcosa che rende preziosa la “lezione” dei meridionalisti (da Fortunato a Dorso, da Gramsci a Sturzo) é la loro convinzione che il problema del Sud non é un problema locale e settoriale non é una “questione” … straordinaria e territorialmente circoscritta, ma é un problema “centrale” d’indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato democratico e l’ambito entro cui la “questione” va risolta é quello della democrazia dei partiti.

(*) Antonio Carvello è docente di diritto dell’organizzazione pubblica economica e società presso l’Università degli Studi di Catanzaro “Magna Grecia”

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