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Paradiso IOR, la postfazione di Marco Pannella al libro inchiesta di Maurizio Turco

paradiso IOR
“Paradiso Ior” di Maurizio Turco, Carlo Pontesilli e Gabriele Di Battista (Castelvecchi editore, 382 pagine, 18,50 euro). Un’inchiesta condotta attraverso fatti, misfatti e misteri della Banca Vaticana…

di Marco Pannella (*)

Maurizio, maledizione! Sono ore che cerco di buttar giù qualche riga che abbia un senso, un significato, che possa servire, utilizzabile. Sono ore che ti affacci nella stanza dove lavoriamo con altri compagni, non dici nulla e quella tua espressione stampata sul viso dice tutto, dei tempi che urgono, l’editore sta già facendo degli strappi che mai ad altri avrebbe concesso, che deve mandare in stampa questo vostro lavoro che m’appare davvero comunque di straordinario valore ed anche efficacia, e che – temo – proprio per questo fatto, come tutte le altre cose radicali, sarebbe in partenza destinato a essere ignorato, nascosto, materiale pericoloso, crea conoscenza, che – come i leggendari “men in black” – temono diventi sapere comune: chi sa, chi conosce, ragiona, tira le somme del due + due, ne ricava, direbbe Leonardo Sciascia, il “giusto senso”…

Vincino, caricatura di Maurizio Turco
Maurizio Turco

Ecco: questo vostro lavoro è un lavoro di “giusto senso”. Vi basta? No? Troppo breve, troppo poco? Ma che posso dire, cosa mai posso dire che già non abbia detto, tentato di dire (o più propriamente mi si sia impedito di dire) in questo quasi secolo di “mia” vita?

I compagni più giovani, ma anche gli amici che credono di conoscermi più a fondo, si dicono stupiti su questo attuale, tornare al mio insistere su “Pietro” e “Cesare”, come evoco da tempo il mondo cattolico che storicamente stagnava attorno allo Stato Vaticano e all’altro Stato, quel mondo, insomma, che fu concepito e nacque, ma di rado crebbe, come di laica religiosità. Mi accorgo che mi guardano come si guarda il nonno che in un angolo della cucina farfuglia le sue manie: sia quando affermo oggi che Giorgio Napolitano andrebbe processato, magari per poi assolverlo, per attentato alla Costituzione… Gridano o dicono a mezza voce che i miei sono sempre più sproloqui che una piccola setta di semi-plagiati o di interessati (di chissà quale interesse) spaccia per brillanti ragionamenti. Naturalmente hanno le loro ragioni e nessuno per ora può escludere che abbiano ragione; anzi, per sgomberare subito il campo, dico che hanno senz’altro ragione, sono sempre più logorroico, mi perdo dietro i miei discorsi, sono monomaniaco…

Lasciamoli perdere, dunque, i miei ellittici e zoppicanti ragionamenti, proviamo a occuparci di cose “serie”. Un compagno cui piace nel suo poco tempo libero immergersi nelle carte ingiallite a cercare brandelli di testi che abbiano ancora un significato, che pur pensati e scritti oggi per l’oggi, abbiano un senso anche “a venire”, l’altro giorno, quando ancora non mi tormentavi per avere queste due paginette che non vengono fuori, mi ha allungato la fotocopia di un articolo che in parte riproduco:

“…Il dato è un altro: oggi non possiamo assolutamente pensare che la battaglia laica possa vivere nella stratosfera della filosofia politica individuale. Una battaglia è laica se è concretamente amministrata giorno dopo giorno e se nega al politico la proprietà sacrale della verità politica, rifiutando alla classe dirigente costituita nello Stato, come ai dignitari costituiti nella Chiesa, la tutela della libertà a cui nessuno ha rinunciato…”. 

Molto bello, molto attuale. Ho subito chiesto a questo amico chi e quando aveva scritto queste cose.

Non lo so, è anonimo”, mi ha risposto. “Dalla data del ritaglio si ricava che è roba che risale a più di quarant’anni fa”. L’infame sorrideva, e si capiva che invece sapeva bene chi era il suo autore, e che mi stava tendendo un tranello. E infatti…Guarda quest’altra fotocopia”, ha poi aggiunto, allungandomi un altro foglietto.

Leggo a voce alta:

“…La libertà non è il patrimonio di una classe che distribuisce i beni senza tener conto della realtà delle nuove indicazioni, considerando ogni proposta simile al bracconiere che invade la riserva di caccia. La lotta per la libertà deve essere una lotta di popolo, del popolo che ha riscoperto il volto di Pietro e il volto di Cesare, di gente semplice che parte da una rivendicazione della propria responsabilità, che esprime giudizi politici laici, giudizi sui fatti, non sulle persone, senza pessimismo, senza inimicizia. La verità non va riscoperta sui libri e nell’ideologia, ma in concreto, attraverso il dialogo…”.

Sorrideva, con un’aria che forse voleva essere sorniona, e invece lo rendeva ebete: “C’è chi ti ha preceduto, con questa storia di Pietro e di Cesare… e anche la gente: tu la chiami ‘comune’ contrapponendola alla ‘normale’; lui, l’autore di queste riflessioni, la chiama ‘semplice’, ma se non è zuppa è pan bagnato…”. Decido di stare al suo gioco: “Interessante. Chi ha detto o scritto queste cose ha un’aria di casa…”. Lo credo bene”, fa lui, che forse ha capito che ho capito; o forse, semplicemente, si è stancato nel vedere che non gli do molta soddisfazione. “Ti ho appena dato parte del tuo intervento al convegno “Concordato e libertà civili” al teatro AMGA di Genova del dicembre 1972…Sei noioso, Pannella, ripetitivo: dici sempre le stesse cose”, aggiunge, col tono di chi scherza, ma ridendo dice anche una cosa vera. E poi: Ascolta come concludevi:

‘…Bisogna avere la capacità di protestare, di contestare e di contrastare i volti bruti da bestia del potere, si tratti di quello di Cesare o di Pietro, certi di portare avanti la speranza e la forza della verità, non per distruggere nessuno, ma per poter essere diversi. Solo un po’ più felici, un po’ più responsabili e un po’ più liberi per noi e, soprattutto, per gli altri…”.

Però è pur vero: dico, in fondo, sempre le stesse cose da sempre. E come potrebbe essere altrimenti? Sono sessant’anni che, con le sue varie declinazioni, siamo sempre più duramente sgovernati da un Regime apparentemente multiforme, camaleontico, come Proteo assume di volta in volta mille volti, anche accattivanti, ma nell’essenza sempre uguale a se stesso; e sono più di sessant’anni che la nostra lotta, il nostro dialogo”, il nostro Satyagraha consiste nel chiedere, nell’esigere e pretendere che sia rispettata la Legge, quale che sia, a cominciare da quella che “loro” stessi si sono dati, e “loro” violano. Perché siamo contro le mille piazzali Loreto che pur tanti – in cuor loro, e non solo – invocano e giudicano auspicabili, necessarie; perché noi non abbiamo – né siamo – nemici, ma dialoganti innanzitutto con gli “avversari”, e anche con loro pensiamo sia doveroso cercare di comprendere, di compatire. Come tali quindi ci sono preziosi, anche – perfino! – con loro possiamo e dobbiamo tentare di fare quello che serve, quello che è utile e giusto…

Ma tu giustamente mi chiedi di IOR, e io invece divago… Potrei cavarmela citando quel versetto del Vangelo di Matteo che campeggiò in quel bellissimo maxi fotomontaggio realizzato da Oliviero Toscani, che mostrava un corteo di ragazzi monaci tibetani, avvolti nelle loro semplici tuniche e a piedi scalzi; e, al centro, un Joseph Ratzinger di allora appena proclamato Benedetto XVI riccamente bardato, e ai piedi le famose babbucce di Prada, con i suoi anelli e diademi… Riportando le parole del Cristo, il passo di Matteo dice: Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone…”.

E’ sempre Matteo a ricordare quel passaggio dove il Nazzareno esorta a non affannarsi troppo, nella vita:

“…Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai… E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro…”.

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Marco Pannela (Teramo, 2 maggio 1930) è un politico e giornalista italiano, che si definisce radicale, socialista, liberale, federalista europeo, anticlericale, antiproibizionista, nonviolento, e gandhiano. Leader nonviolento del Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transanzionale

Abbiamo ora il nuovo Papa Francesco venuto da “quasi la fine del mondo”, che con le sue parole semplici e “comuni”, ha subito saputo conquistare l’attenzione e la simpatia di tutti; questo Papa – gesuita, ricordiamolo – che ha voluto chiamarsi, ed è già questo un evento, un progetto, “parola” come il poverello d’Assisi, sono certo che altre “sorprese” riserverà a tanti, anche scettici; ora confido che prima o poi si avrà anche una Chiara perché i tempi stanno maturando…

Ve lo ricordate, ancora don Luigi Verzè, il “sacerdote-manager” come un po’ tutti lo definivano, ed era definizione che non amava? Su di lui si è scritto e detto molto: le inchieste, le amicizie spericolate e spesso imbarazzanti, il suicidio del suo principale collaboratore, un settimanale – come s’usa dire – “familiare” qualche giorno fa ha fatto uno scoop, mostrandolo mentre faceva il bagno in una piscina in Brasile assieme a una bella signora…

Insomma di tutto. O meglio, quasi. Ma nessuno mi pare, che ricordi un passaggio contenuto in un suo libro del 2004, “Pelle per pelle”, realizzato con Giorgio Gandola, e pubblicato da Mondadori: editore non certo di nicchia, e a cui non mancano possibilità di segnalare quello che pubblica. Eppure le recensioni a “Pelle per pelle” si contano sulle dita della mano. A parte le insistenti segnalazioni che facemmo da Radio radicale. Curioso? Non tanto, se si tiene conto che in quel libro don Verzè sillaba cose che alle gerarchie vaticane dell’epoca non devono certo essere risultate gradite. Per esempio, i “Dieci pensieri per il prossimo Papa”, immaginati e scritti quando Karol Wojtyla stava raggiungendo “il padre” e Joseph Ratzinger ancora non lo aveva sostituito. Il “settimo pensiero” è il manifesto di una rivoluzione:

Il nuovo Papa è universalmente atteso per rivedere coraggiosamente, da padre universale, le decisioni tradizionali sugli argomenti: a) celibato del clero cattolico latino; b) Attribuzione di poteri ministeriali ai laici “probati”, donne comprese; c) sacramenti ai divorziati; d) uso di anticoncezionali; e) procreazione assistita; f) non si può sonnecchiare accontentandosi di divieti contro una scienza biologica che irresistibilmente corre. Il guarire è un sacramento imperativo-cristologico; g) coinvolgimento dei fedeli nelle scelte gerarchiche, episcopato compreso”.

Chissà che Papa Francesco non faccia quello che i suoi predecessori non hanno potuto, o saputo, o voluto fare, nella direzione indicata da don Verzé. Chissà… E sempre in omaggio alla mia logorrea – ma l’hai voluta tu, Maurizio, questa prefazione”, tu mi hai istigato… – il pensiero mi corre a un altro libro, ancor meno recensito, e non meno interessante: “Siamo tutti nella stessa barca” (Editrice San Raffaele). E’ un libro del 2009, un “colloquio” di una novantina di pagine tra due personaggi che all’apparenza si direbbero agli antipodi: l’arcivescovo di Milano, cardinale emerito Carlo Maria Martini, e ancora don Verzè. A un certo punto don Verzè si domanda: “Ma Gesù, mi chiedo, andrebbe con i suoi sandali e il suo mantello anche in piazza San Pietro?”, e già il solo fatto che si ponga l’interrogativo, un interrogativo di sapore retorico, la dice lunga. Ne ricava, dal cardinale Martini una risposta franca e netta:

…Credo che andrebbe con un vestito che faccia un po’… un po’ di scalpore e produca un certo disagio nella gente… Agire controcorrente, questa sarebbe l’opera di Cristo. E senza dubbio troverebbe da ridire anche sui figli della Chiesa, perché non abbiamo creduto abbastanza e non abbiamo amato abbastanza…”.

Ma c’è anche altro.

Non le sembra sconveniente che il Santo Padre sia universalmente considerato quale capo di Stato? Il Papa per me è un grande papà; grande perché universalmente riconosciuto come tale, forte del genuino mandato di Cristo, pastore di tutte le pecore, soprattutto di quelle perdute… Il papà, senza vesti sontuose, scende tra i suoi figli, ricorda, ammonisce, predice, dona, salva, perché in sé ha il Cristo che vive nel Padre, Dio di ogni uomo…”. Non pago, insiste: “Non crede anche Lei che un Gandhi nudo sia più eloquente di un Papa mitrato? Così come un Francesco stigmatizzato fa sempre storia per tutti gli esseri umani di tutte le epoche e di tutte le fedi…”.

In Brasile don Verzè non andava solo a fare il bagno in piscina:

Ricordo che nella mia visita alle favelas del Brasile frequentemente mi incontravo con povere donne senza marito con un bimbo in seno, un altro in braccio e una sfilza di altri che le seguivano, tutti prodotti di diversi mariti. Era giocoforza concludere che la pillola anticoncezionale andava consigliata e fornita… La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate e delle feste per la dea Iemanjà, l’antica Venere alla quale tutti, compreso il prefetto cristiano, gettano tributi floreali… Penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo al celibato, perché temo che per molti il celibato sia una finzione”.

Tutto questo, Maurizio, c’entra con quello che mi chiedi, con la pompa del Vaticano, lo IOR e i suoi mille scandali, quel Paul Marcinkus colpevole di mille colpe e tuttavia impunito e protetto, i riciclaggi e le ignobili speculazioni che denunci così efficacemente da sempre, fin da quando eri parlamentare europeo, guadagnandoti stima e considerazione anche da coloro che pregiudizialmente ti avversavano, perché si rendevano poi conto che dietro ogni tua affermazione, ogni tuo gesto, ogni tua iniziativa politica c’era sempre un paziente, metodico, preciso lavoro di ricerca della verità, scavo, documentazione, raccolta di cifre, fatti, testimonianze? Non lo so, e forse neppure importa molto saperlo. Ti dico quel che mi preme.

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Marco Pannella

Perché sì, accanto alla mia “mania” e attenzione a quel che si muove e si agita nel mondo cattolico e dei credenti; accanto alle mie ricorrenti evocazioni di Lord Acton e John Henry Newman – non foss’altro perché non se ne smarrisca il ricordo -, e con loro don Romolo Murri, o – ancor più – “I quattro del Gesù”, il coraggioso, trepido bel libro di Giulio Andreotti che racconta la storia, tuttora misconosciuta, più che del modernismo, della storia cattolica italiana, attraverso quattro suoi protagonisti, che da seminaristi avevano l’abitudine, terminati i loro studi, verso le cinque del pomeriggio, di passeggiare e discutere tra loro (può dirsi: profeticamente?) in piena libera gravità: sacerdoti scomodi come Ernesto Buonaiuti e Angelo Roncalli, il primo scomunicato, l’altro che assurge a Papa col nome di Giovanni XXIII; e con loro don Giulio Belvederi, zio della moglie di Andreotti, anche lui perseguitato dalla curia romana senza però arrivare alla scomunica; e don Alfonso Manaresi, messo sotto pressione dall’Inquisizione, che preferì abbandonare lo stato sacerdotale e così proseguire con rigore e onestà intellettuale e di fede, i suoi studi storici.

Accanto a questo mondo c’è sicuramente una nuova Porta Pia da attraversare: quella economico-finanziaria dell’unico Stato al mondo che goda di tutte le impunità possibili, immaginabili ed inimmaginabili lo Stato-Città del Vaticano: ma in ciò, a rappresentare e servire la tentazione (“simoniaca”) di Simon Mago, determinante, lo Stato, il “Cesare” italiano partitocratico, delle fazioni, per un ventennio ”fascista”, un sessantennio “antifascista”, metamorfosi dello stesso male, sua “ri-vincita”. Oggi, lo ripeto, oggi è da Pietro, dalla sua sponda destra del Tevere, da quella di San Pietro, e non da quella opposta, quirinalizia, come ai tempi delle catacombe, oggi come più di allora, da laici (spiritualisti, personalisti, di religiosità senza frontiere e senza paure, aggiungo, ad esempio contemporanei capitiniana e più ancora crociana). Siamo insomma consapevoli che “Cesare” è di nuovo impazzito, un po’ ovunque nel mondo di oggi: con i quasi 200 suoi “Stati” dell’Onu. Così come le grandi tragedie, quella greca e shakespeariana, e quelle novecentesche, ci ammonirono e ci insegnano. Oggi danno energia nuova alla attuale specie umana, i profetici annunci, via via, ora del nuovo Vescovo di Roma, ora del Tibetano Dalai Lama di Dharamsala. Quindi sappiamo e dobbiamo ben sapere come siano cose vive, al di là dei singoli e gravi episodi, lo scandalo costituito dallo IOR, la colossale opera di inquinamento e riciclaggio di denaro sporco; e per andare a vicende il cui ricordo sbiadisce: la morte (certa) di Roberto Calvi, con i suoi complici, e probabili assassini impuniti, e con il cardinale Marcinkus salvato dall’articolo 11 del Concordato. E certo non ha una spiegazione o una motivazione di carattere religioso la sottrazione delle isolette Turks and Caicos e Cayman alle rispettive Diocesi di Nassau nelle Bahamas, e di Kingston in Giamaica, per proclamarle “Missio sui iuris”. Non a caso delle prime venne proclamato Superiore, il Cardinale americano Theodore Edgar McCarrick, mentre delle seconde il cardinale americano di origine polacca Adam Maida, membro della Commissione di Vigilanza dello IOR. McCarrick era amico di Marcinkus; Maida di Papa Wojtila; Turks and Caicos e Cayman, come sanno anche i neonati, sono centri finanziari offshore dove convergono capitali, diciamo averi, di ogni tipo e provenienza. 

Certo, Maurizio, fai bene, facciamo bene, a ricordare testardi che lo Stato-Città del Vaticano non ha legge antiriciclaggio; che l’unica banca operante nello Stato-Città del Vaticano, lo IOR, è anche la Banca centrale, e di conseguenza il campo d’applicazione delle normali misure antiriciclaggio che includono il sistema finanziario è limitato; che il sistema bancario, economico e finanziario dello Stato-Città del Vaticano non è mai stato oggetto di verifiche da parte di organismi internazionali; che lo IOR partecipa indirettamente, attraverso due grosse banche, una tedesca e una italiana, al sistema di pagamento dell’area euro, denominato Target, e solo le banche che partecipano direttamente al sistema Target sono sottoposte ai controlli delle autorità bancarie; che la “Convenzione monetaria tra la Repubblica italiana, per conto della Comunità europea, e lo Stato della Città del Vaticano, e per esso la Santa Sede”, autorizza lo Stato della Città del Vaticano ad emettere euro; che in questa convenzione lo “Stato della Città del Vaticano” è rappresentato dalla “Santa Sede” in virtù dell’articolo 3 del Trattato del Laterano; che questo trattato assicura agli enti centrali della Chiesa cattolica l’esenzione da “ogni ingerenza da parte dello Stato italiano”… 

Ma queste e altre cose, tu le conosci e le sai raccontare, denunciare, molto meglio di me, e lo fai da sempre; e te ne do, te ne diamo, piena, totale fiducia. E per questo tuo paziente, certosino lavoro, che spesso realizzi nell’ombra, a volte regalandolo agli altri – penso al libro “La questua” di Curzio Maltese (Feltrinelli): quanto c’è di tuo e di Carlo che ha fatto suo, col vostro consenso? Tanto, credo, e comunque l’essenziale… Ecco, lo vedi, mi son perso ancora.

La faccio finita, torno alle mie altre questioncelle legate alla barbarie imperante da noi: ad esempio la giustizia italiana allo sfascio, che potrà essere sanata solo con le indispensabili riforme strutturali, la prima delle quali è l’Amnistia, che sgomberi le scrivanie dei magistrati di milioni di fascicoli che ne seppelliscono capacità e funzioni. Vorrei, dovremmo occuparci del Diritto alle verità, al sapere, che dobbiamo incardinare alle Nazioni Unite, con il collaudato sistema che ci ha già consentito successi come l’istituzione del Tribunale Penale Internazionale, la moratoria delle esecuzioni capitali e quella contro le Mutilazioni Genitali Femminili. C’è, poi, l’altro mio e nostro chiodo fisso, la verità sull’invasione dell’Irak e l’assassinio del Saddam, perché convertito all’esilio, alla pace, alla nonviolenza. Guerra fortissimamente voluta da George W.Bush e Tony Blair, che devono essere messi in stato di accusa, perché hanno mentito ai loro popoli e al mondo intero, i principali responsabili di centinaia di migliaia di loro vittime, di morti. 

Per quanto riguarda il suo fronte italiano, il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito – Nonviolent Radical Party Transnational Transparty – ci sono il movimento da costruire attorno a quello straordinario patrimonio politico e umano che sono state le liste “Amnistia, Giustizia e Libertà”; l’aiuto che dobbiamo assicurare e garantire anche agli sciagurati che ci sgovernano (i referendum per i quali chissà se riusciremo a raccogliere in tempo utile le firme); l’iniziativa attorno ad Emma Bonino che tutti i sondaggi demoscopici indicano da quindici anni come la candidata ideale del popolo italiano per il Quirinale …

Maurizio, queste sono le mie, le nostre urgenze; e tra queste il tuo, vostro splendido lavoro… E io che pigio stancamente sui tasti di una logora macchina da scrivere queste note, che chissà se…

Buon lavoro a tutti, compagne e compagni… come si dice? Fai quel che devi, accada quel che può

(*) Postfazione di Marco Pannella pubblicata nel volume

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La “Questione meridionale”: dalle origini al dibattito contemporaneo

I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca.

di Antonio Carvello (*)

Della nascita di una “Questione meridionale” propriamente detta si può parlare a partire dall’integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61: infatti, già all’inizio delle annessioni, nel momento cioè in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l’intervento regio l’ipoteca politica della dittatura di Garibaldi, Cavour ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a prendere drammatica coscienza dell’esistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativamente, ma anche in termini sociali e morali. Alla luce delle difficoltà crescenti, il Cavour reputò forse più conveniente anteporre alle ragioni dell’autonomismo e il decentramento amministrativo quelle che persuadevano a rinsaldare un forte sistema accentratore in senso decisamente unitario. Anzi, é da dire che le preoccupazioni politiche suscitate dalla questione del Mezzogiorno influenzarono strettamente tutto il dibattito successivo sulla forma politica-amministrativa da dare al nuovo stato.

Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governativa diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l’alleanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terriera del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l’iniziativa dell’opera di propaganda e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illuministicamente riluttanti a chiudere gli occhi sui problemi che la bruciante realtà meridionale (brigantaggio, fame di terra da coltivare, arretratezza economica complessiva, agricoltura arcaica clientelismo diffuso, ecc .) proponeva.

Primo di tutti fu Pasquale Villari: la sua descrizione della miseria delle plebi contadine e di quelle che affollavano, cenciose e senza mestiere, i “bassi“ dellex capitale (Napoli) infestata dalla camorra, della situazione intollerabile esistente nel latifondo siciliano, delle dimensioni del brigantaggio, procedeva col ripensamento critico delle basi sociali che erano all’origine di quei fenomeni patologici, insieme con l’appello ai ceti dominanti di tramutarsi nel nome del buongoverno, in classe effettivamente dirigente. Analogo spirito riformatore e moralismo filantropico é presente in Sonnino e Franchetti, i quali condussero avanti un discorso polemico che aveva alla base le splendide inchieste sulle condizioni delle province napoletane (1875) e della Sicilia 1876). Anche l’espansionismo coloniale era dal Sonnino giudicato come un canale di sfogo della miseria dei contadini del sud ed il campo per un pacifico svolgimento del loro lavoro in territori aperti alla civilizzazione. La linea del Villari venne altresì continuata da Giustino Fortunato, anche se sul finire del secolo, tuttavia, il Fortunato non nascose la cocente delusione patita per il venir meno di un sogno che aveva alimentato le speranze degli anni precedenti: quella di uno Stato che si facesse centro e motore attivi di rinnovamento materiale e morale nel Sud e nell’Italia intera.

Di fronte all’approfondirsi della frattura fra nord e sud – così come veniva documentata con dovizia di cifre e di fatti da Francesco Saverio Nitti nella opera capitale “Nord e Sud“ (1900) – Fortunato abbandonò gli ideali protezionistici del “socialismo di stato“ e si convertì decisamente al liberismo, convinto addirittura che 1o Stato col suo malgoverno riuscisse d’ostacolo alle sole energie individuali che avrebbero potuto operare per la rinascita del sud. Nel Nitti, al contrario, le speranze riposte nell’industrializzazione si accentuarono nella misura in cui egli pensava che le possibilità di trasformazione sciale dipendessero non soltanto da quella che egli chiamava la “ricostituzione del territorio“, ma anche dall’inserimento della regione nell’area capitalistica settentrionale ed europea, dove Napoli doveva fungere da “polo“ industrializzato propulsore per l’intero Mezzogiorno.

A differenza del Nitti, che fu sempre rigidamente unitario al pari di Fortunato, difese le ragioni di una soluzione federalistica del problema meridionale il repubblicano Napoleone Colajanmi, anche se rimase al di qua del meridionalismo borghese per quel suo privilegiare la riforma dello spirito pubblico quale pressuposto imprescindibile di un effettivo mutamento di rotta nel Sud, anziché far derivare abusi e discriminazioni dalla struttura sociale italiana quale si era storicamente formata con l’unita.

Filippo Turati
Filippo Turati

 

 

 

 

Toccò ai meridionalisti d’ispirazione socialista portare il dibattito su un piano squisitamente politico e svolgere talune conseguenze: con Ettore Ciccotti, al quale stette a cuore illuminare il rapporto che poteva intercorrere tra movimento socialista e questione del sud e che a tal fine operò polemicamente all’interno e fuori del PSI perché questi assumesse coscienza dei compiti che gli spettavano; poi, e soprattutto, con Gaetano Salvemini che quella polemica condusse con vigore ancora maggiore. Ma mentre il Ciccotti, pur sottolineando l’importanza dell’educazione per la coscienza di classe fra i contadini meridionali, ne considerò sempre la funzione politica subordinata al movimento organizzato del nord, Salvemini attaccò a fondo i compromessi palesi od occulti raggiunti, nel quadro del sistema giolittiano, dal partito socialista con la borghesia settentrionale, a spese del proletariato contadino. Per questo, ed a più riprese, Salvemini si scontrò con la linea riformista di Turati. Accantona e, anche se mai abiurato, il federalismo alla Cattaneo degli anni della milizia giovanile, Salvemini si batté dopo il ‘900 perché al centro del suo programma il PSI ponesse il suffragio universale ed una politica doganale antiprotezionistica, strumenti rispettivamente della rinascita politica ed economica del Sud. Convinto, infine, che il suo partito fosse incapace di fare propri quelle due parole d’ordine, uscito dal partito, fondò un proprio periodico per difendere le sue idee, “L’Unità”.

Guido Dorso, che nel 1914-15 si era accostato all’interventismo di Mussolini supponendo che l’evento “rivoluzionario” della guerra avrebbe infranto le fratture conservatrici del Mezzogiorno, nel suo volume “La rivoluzione meridionale“ (1925) ritenne non poco della lezione di Salvemini, battendo maggiorante l’accento sulle implicazioni interessanti tutto quanto il paese ove si fosse fatto del sud “la base della rivoluzione italiana”.

Un nuovo meridionalismo elaborò Antonio Gramsci: più che negli scritti giovanili ed in quelli del periodo ordinovista, Gramsci giunse allo sue conclusioni più maturo in un saggio rimasto incompiuto e steso nell’ottobre 1926, pochi giorni prima di essere arrestato, “Alcuni temi della questione meridionale”. In quest’opera la concezione leninista dell’alleanza fra operai e contadini, si saldava con la riflessione sui “nodi” principali della lotta politica fra democratici e moderati, sulla egemonia di questi ultimi consolidatasi, poi, storicamente, nella creazione di un “blocco storico” conservatore che nel “blocco agrario intellettualedi estrazione meridionale aveva il suo perno fondamentale. Sempre il sud offerse al maggiore meridionalista cattolico, il sacerdote di Caltagiorone Luigi Sturzo, fondatore anche del partito popolare,l e occasioni politiche per unificare, com’è stato osservato, i fili sparsi del suo pensiero e per elaborare i punti programmatici che ne sorressero la battaglia politica dal tempo della democrazia cristiana di Romolo Murri fino alla “leadership“ nel partito popolare: la richiesta della proporzionale, del decentramento regionale, la lotta per la rottura del latifondo in favore della piccola proprietà si affiancarono in lui a quella contro il trasformismo ed il clientelismo cui lo stato liberale aveva consentito di prosperare e di trovare alleati fra il clerico-moderati, soprattutto nel Sud.

Nel secondo dopoguerra si pone un nuovo meridionalismo, meno polemico e più propositivo rispetto ai “mali” antichi e nuovi del Mezzogiorno, che ha i suoi maggiori esponenti in Emilio Serni, Rosario Villari, Giuseppe Galasso, Francesco Compagna, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Mario Alicata, Augusto Graziani, ecc; intellettuali e politici di diverso orientamento,c he hanno posto all’attenzione generale del paese il problema del Mezzogiorno come “questione nazionale“, nel senso cioè che sarebbe utopia parlare di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, impensabile senza una politica d’orientamento e indirizzo da parte dello Stato di fronte a quelli che ancora oggi sono i problemi irrisolti del Sud: la mancanza d’industrie, un’agricoltura non competitiva, la cementificazione delle coste, la debolezza organica delle istituzioni, esplodere della criminalità organizzata, la crescente disoccupazione giovanile, l’assistenzialismo sempre più diffuso, ecc.

In questi ultimi tempi si va sempre più “appannando” la riflessione sui problemi del Mezzogiorno: una riflessione, quindi, per nulla comparabile, quanto ad intensità ed eco, ai dibattiti svoltisi negli anni ’50-60, quando ci si spinse ad affermare l’esistenza di un “pensiero” e di una “cultura” non solo meridionali, ma “meridionalisti”. Sembra ora, per diversi aspetti che i problemi della parte meridionale ed insulare del Paese non siano più sentiti come una “questione nazionale”, salvo che in poche dichiarazioni ufficiali, tanto inevitabili quanto spesso formali ed inutili.

Ad aprire la breccia in questa direzione, poco più di un anno fa, é stato il sen. Umberto Bossi, oggi leader incontrastato delle leghe del Nord: abile, spregiudicato, tanto incolto da raccogliere senza filtro gli umori dispersi della sua gente, ha fatto dell’antimeridionalismo una bandiera politica, ha raccolto consensi, è divenuto lo “spauracchio“ elettorale dei partiti tradizionali. Ma dopo la ricca e varia fioritura dei rozzi slogan di partenza, il fenomeno sta acquistando consistenza, la ricerca delle ragioni del successo delle leghe nordiste si sta ammantando di una “dignità” culturale: le filippiche quasi quotidiane di Giorgio Bocca – che traccia progressivamente il ritratto di un Mezzogiorno quasi irrecuperabile, vero “regno“ del male, ostaggio della criminalità organizzata e sempre più alimentato dall’assistenza statale – hanno aperto la strada a “diagnosi” meno impietose, meno totalizzanti e, per questo, più severe e pericolose.

La questione meridionale é soprattutto una questione dei meridionali” ha scritto in un editoriale sulla “Stampa” il filosofo Norberto Bobbio. Ma 1’affermazione dell’illustre studioso é stata raccolta ed interpretata al di là della sua valenza effettiva, dando il via ad analisi dure “Mentre le conseguenze del deficit pubblico – ha sottolineato Mario Pirani – sono vissute nelle regioni settentrionali come una minaccia crescente alla possibilità di concorrere alla pari all’integrazione comunitaria, nel Meridione il debito pubblico costituisce la base indispensabile del consenso e dello scambio politico”. Ed il sociologo Luciano Gallimo, riferendosi al Mezzogiorno, ha aggiunto: “Nessun paese europeo reca dentro di sé un nemico altrettanto pericoloso per tutti i progetti di sviluppo, di promozione sociale e culturale“. E Vittorio Feltri, direttore dell’“Europeo” ha avanzato “il sospetto che se i carabinieri nella provincia di Caltanissetta arrestassero tutti coloro che sono in combutta con le cosche e hanno violato il codice, la popolazione in libertà si dimezzerebbe” .

Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma ciò che é importante rilevare é che, sulla spinta di questo “nordismo democratico”,  prendono consistenza, in teoria, le ipotesi di una “secessione” del Nord. Il suo profeta è il prof. Gianfranco Miglio, ordinario di scienze della politica alla “Cattolica” di Milano: “Per accelerare il processo di secessione non c'è affatto bisogno che la Lega Nord conquisti la maggioranza assoluta nelle prossime elezioni. È  sufficiente che ottenga la maggioranza relativa nelle regioni settentrionali. E questo mi sembra probabile”. 
E sulla scia di questa previsione disegna il “modello” di uno Stato Federale, con tre macro regioni (Nord, Centro e Sud), con poteri limitati di coordinamento per il governo centrale e con la conseguenza che a restare “aggrappati” alle Alpi (e all'Europa del '93) rimarrebbero solo i fratelli “separati” del Settentrione. Queste provocatorie proposte, arricchite di nuove sviluppi, il prof. Miglio ora le ripropone in un volume pubblicato da Laterza-Bari “Una Costituzione per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica”, a cura di M. Staglieno, ove alle ipotesi di elezione popolare del primo ministro, di riduzione drastica dei poteri del Parlamento, di divisione delle funzioni tra i componenti delle assemblee rappresentative e quelle degli amministratori, di abbattimento dello stato sociale e l'applicazione integrale delle regole del mercato, sul versante istituzionale ribadisce la costituzione di tre macro regioni (la Padania, il Centro id il Sud), unite in uno Stato federale.

Una proposta che, più che giustificata da un approfondito e persuasivo approccio scientifico al problema, sembra condizionata dalla avversione del prof. Milglio ai guasti creati dalla partitocrazia; una “provocazione”, però, che si muove nella direzione contraria a quella di determinare una ripresa d’interesse e d’impegno tali da ricollocare la questione meridionale al centro del dibattito politico e culturale. E come se, durante li anni ’80, l’affermarsi – non solo a parole, ma anche negli indirizzi economici e nelle pratiche sociali – delle teorie liberiste, con il loro “corredo” di pensiero “debole”, “morte” delle ideologie, ecc. avesse fatto “rovinare” anche nelle coscienze e nella dimensione etico-politica la percezione del problema Mezzogiorno come una questione che – con la realtà drammatica dei suoi “ritardi” – interpella nel profondo la storia dell’Italia post-unitaria e la funzione di governo svolta alle classi dirigenti.

In questo senso non poco ha influito la constatazione del fallimento – oggi evidente in tutti i suoi aspetti – delle politiche d’intervento straordinario, condotte per un quarantennio nel Sud col fine di ridurre ledistanze” che lo separavano dalla parte più sviluppata del Paese. Ma le distanze sono cresciute, il divario si é approfondito e c’é chi non esita a ricordarci, quasi quotidianamente, che nel Mezzogiorno é in corso una preoccupante regressione civile, sociale ed economica: la disoccupazione nel 1988 ha raggiunto la punta del 21,6%, contro il 5% del Nord e non é solo la quantità del dato che impressiona, ma anche la sua “qualità” poiché il Sud ha il triste primato di essere la sola area di un’economia avanzata, quale quella italiana, in cui – com’é stato osservato – i disoccupati adulti e di lunga durata eguagliano quelli giovani. Nel Sud, e nella Calabria in particolare, sono poi in atto processi di vera e propria de-industrializzazione: mentre al Nord si ristruttura, nel Mezzogiorno si smantella con l’effetto di netta contrazione delle attività industriali. L’industrializzazione del Sud ed il maggiore impiego nel Mezzogiorno della sua forza-lavoro hanno rappresentato due “obiettivi” delle politiche dei governi repubblicani che sono stati, però, entrambi mancati.

E le prospettive che ora s’intravedono non sembrano migliori: si ripropone, ancora una volta ed in termini che non sono sostanzialmente cambiati, la vecchia contrapposizione fra politica dell’industrializzazione e politica delle e costruzioni, che nel secondo dopoguerra aveva trovato un punto di mediazione nella teoria di un intervento infrastrutturale che doveva consentire, e in tal senso ne costituiva una precondizione, 1’insediamento delle attività industriali. E molte analisi ritengono che oggi la linea che si viene affermando é di nuovo quella che, già all’epoca di F .S. Nitti, si chiamava delle “opere pubbliche“, delle costruzioni, degli interventi infrastrutturali: si tratta di realizzazioni viarie, di interventi nelle aree urbane, di infrastrutture idriche e fognarie, ecc. Ma almeno due fatti, sotto questo aspetto, vanno sottolineati: il primo é che gli investimenti per centri direzionali delle aree urbane (che dovrebbero rappresentare un indicatore di modernizzazione) spesso si traducono in operazioni di tipo immobiliare, che non hanno quasi nessun rapporto con la modernizzazione e l’industrializzazione (qualcuno s’è spinto ad affermare che nel Sud non vi sono città propriamente moderne, se é vero che la città moderna é definita dal fatto che incorpora una funzione fondamentale che é quella della produzione dei servizi per le imprese); il secondo é che i gruppi industriali meridionali sono prevalentemente attivi nel settore delle costruzioni e che, conseguentemente, 1’uso di capitale é di tipo speculativo”, volto cioè a conseguire rendimenti elevati e a breve termine.

È fuori discussione che il Mezzogiorno in questi ultimi 40 anni ha subìto processi di profonda trasformazione, ma in che senso? Sono cresciuti i consumi e sono diminuite l’occupazione e la produttività; si vive o si tende a vivere con uno “stile” di consumo – e anche con una relativa possibilità – simile a quello delle altre parti del Paese, ma non attraverso un’autonoma produzione di ricchezza: i trasferimenti di risorse hanno accresciuto i consumi ed i redditi, ma non la produzione l’occupazione ed il risultato che si constata oggi é questo: un Sud no povero, ma più “dipendente” o, come l’ha definita qualche studioso, “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno.

È su questa base oggettiva che si fondano i processi di disgregazione e degenerazione della vita associata, che si manifestano in fenomeni come gli “incroci” fra politica ed affarismo, la gestione clientelare dei trasferimenti di risorse, il diffondersi della piaga della criminalità organizzata. Ed é tutto ciò che porta taluni a parlare di un “futuro senza speranza” per il Sud ed altri ancora di un Mezzogiorno che sia finalmente in grado di “sbrogliarsela” da solo, ci sembra superfluo sottolineare le insidie che si nascondono sotto la “nozione” di “sviluppo endogeno” del Sud, oggi riproposta dai leghisti del Nord: essa può essere utilizzata per nascondere il tentativo di abbandonare a se stesso il Mezzogiorno, di farne un’area periferica dell’europa sviluppata con un esclusivo ruolo di “mercato interno”. E se non si può non riconoscere il fallimento delle politiche di sviluppo assistito, tuttavia non si può accettare una posizione che chiede al mezzogiorno che…faccia da solo. Ad una prospettiva di marginalità, di cultura della povertà, di mero “galleggiamento”, bisogna contrapporre, ancora una volta, la tesi di un Mezzogiorno come grande questione nazionale che non può essere risolta se non con lo sforzo concorde di tutto il Paese.

Si tratta, soprattutto per lo Stato, di riconoscere i diritti dei più deboli in un “universo – come ha scritto un filosofo francese – regolato dalla legge del più forte”, di abbandonare le politiche di disimpegno, disinteresse e latitanza nei confronti delle contrade meridionali o, nel migliore dei casi, delle cosiddette “briciole”.

Ma quest’aggressione violenta al Mezzogiorno, questa corale campagna di stampa contro un Sud palla al piede dello sviluppo nazionale, “nasconde” logiche tanto di natura economica quanto di natura politica. A dare risposte alle prime, un economista di fama, Mariano D’Antonio, con questa spiegazione: “Ci sono atteggiamenti motivati che assumono a difesa dei loro interessi, i gruppi sociali più forti, che sono quelli del Centro-nord. Le grandi imprese che sovente invocano il criterio della libera competizione, non disdegnano mai di attingere ai sussidi pubblici (le vicende della ristrutturazione negli anni dal ’79 all’84 sono eloquenti. Oggi che l’economia italiana é chiamata alla grande prova del mercato unico europeo, bisogna ridurre sussidi e trasferimenti ai meridionali per riservarli a quelle porzioni forti del nostro sistema produttivo che devono competere con l’industria e la finanza più agguerrita d’Europa”. Accanto a questa, una spiegazione ancora più inquietante:

“Nell’opinione pubblica si é fatta strada la convinzione che il mercato ed il perseguimento del tornaconto personale siano l’unico collante della i nostra organizzazione sociale. Una filosofia collettiva, un nuovo darwinismo sociale che esclude un intervento pubblico correttivo del mercato, politiche di sostegno e di promozione dei più deboli. Chi é debole deve tutto il suo danno a se stesso e non può disturbare la marcia dei più forti…”.

Più incline a spiegazioni strettamente politiche Francesco Tagliamonte: “Ormai si é soggiogati dall’effetto-mafia e dall’effetto-Leghe. Il primo fa assumere per definitivo il giudizio secondo cui gli aiuti al Mezzogiorno alimentano il malaffare e la delinquenza organizzata. Il secondo attanaglia politici e parlamentari in una sorta di timor panico secondo cui, appoggiando le buoni ragioni del Sud, si perdono voti che vanno ad impinguare le leghe nordiste”. Classico il richiamo alla ragione di un autorevole storico e politico meridionale, Giuseppe Glasso, che ha ossevato: “Vogliamo, come dice Bocca, correre a turare le falle della nostra barca? Riacquistiamo pienamente coscienza della dimensione nazionale non solo del problema meridionale e delle sua attuali caratteristiche, ma anche del problema etico e sociale, da cui l’Italia è da alcuni anni afflitta. Dimensione nazionale significa strategia nazionale, alleanze nazionali, piattaforme nazionali, atteggiamenti e decisioni nazionali, il che é più che dubbio che, al Nord ed al Sud, si possa fare con le Leghe”. Durissimo, infine, il giudizio di un esperto di problemi istituzioni, quale Antonio Maccanico:

Quale credito può venire concretamente allo sforzo di integrarsi in Europa, se il Mezzogiorno viene considerato un peso da cui liberarsi? Potrebbe accadere che la tessa Italia sia considerata dall’Europa un peso di cui liberarsi, anche se alleggerita dall’amputazione del Mezzogiorno; o, meglio, proprio per questo”.

Ma c’é un’altra considerazione da fare: ed é che in questi ultimi tempi l’andamento decrescente della spesa statale al Sud é stata inversamente proporzionale alla virulenza con la quale si é sviluppata la campagna antimeridionalista.

Ma, per completare il quadro, all’antimeridionalismo dei leghisti bisogna anche aggiungere le polemiche del novembre scorso sul Risorgimento italiano, i grossolani argomenti di Vittorio Messori contro Mazzini e Garibaldi, le farneticanti “buotades” a proposito di una…Norimberga per i protagonisti dell’Unità d’Italia: tutti “segni”, questi, di quanto oggi il senso di appartenenza alla comunità nazionale appaia in crisi (anche tra chi non condivide gli argomenti dei leghisti!), per cui un autorevole storico come Franco Della Peruta ha potuto osservare che mai oggi “il patriottismo é un valore che facilmente cade in letargo”. Anche il presidente del CENSIS, Giuseppe De Rita, in un intervento sul “Corriera della Sera” (24.XI.990) ha sottolineato quanto nella realtà italiana contemporanea stia “diventando grande l’egoismo territoriale, cioè il rifiuto di assumere impegni che travalichino gl’interessi più stretti delle singole comunità locali”, avvertendo che “purtroppo é anche un egoismo destinato a crescere visto che si intreccia con l’attuale forte spinta a radicarsi sul territorio ed a fare localismo, anche politico” e che superare tale egoismo territoriale “é un impegno che non può essere rinviato di troppo tempo” poiché “La qualità della vita e la stessa civiltà di un popolo si sono sempre misurate nella capacità di mettere a frutto comune le risorse e le responsabilità” e sarebbe triste se non ci riuscissimo noi (italiani), ormai giunti ad uno stadio avanzato di sviluppo economico complessivo”.

Queste ed altre ragioni spiegano la ripresa d’interesse, soprattutto a livello di dibattito storiografico e culturale, al periodo storico che portò nel 1860 al processo di unificazione nazionale e a riconsiderare il problema della formazione di una coscienza unitaria nelle varie regioni italiane, col superamento di quelle “differenze” caratterizzanti gli Stati italiani pre-unitari. Per quanto concerne il nostro Mezzogiorno, tra il 1815-20 lo Stato borbonico sembrava il più avanzato d’Italia. Poi, nel periodo di Ferdinando II, la svolta accentratrice aliena definitivamente la Sicilia alla monarchia borbonica e crea difficoltà alla classe dirigente meridionale. Ci fu, quindi, una evoluzione diversa dei singoli Stati: del resto, già nei primi decenni dell’800 era tramontata definitivamente l’economia mediterranea e con la rivoluzione industriale, dagli anni ’50 dell’800 in poi, si avrà la preminenza dell’Europa centro-settentrionale. È allora che il Mezzogiorno comincia ad essere tagliato fuori dai circuiti più moderni della vita economica e sociale. Nel Mezzogiorno vige la convinzione di Ferdinando II per cui tra “acqua santa ed acqua salata” il regno non abbia nulla da temere e, quindi, non abbia bisogno di una evoluzione. Ma é intorno al 1840 che nei vari stati italiani comincia a porsi il problema della formazione di una coscienza unitaria: il momento chiave é legato al dibattito sulla necessità per l’Italia di raggiungere l’unità economica per metterla al passo con le grandi potenze europee in cui si sta compiendo la rivoluzione industriale. Allora non si pensa neanche che si possa abbattere le monarchie secolari esistenti in Italia: s’immagina piuttosto una federazione di Stati, una unità doganale, con la costruzione di una grande rete ferroviaria. Tra le “voci” più autorevoli in questo dibattito ci sono personaggi poco noti come il Serristori in Toscana e Ilarione Petitti in Piemonte, che preparano un clima culturale unitario su cui si salderanno elaborazioni come quelle di Vincenzo Gioberti sull’unità morale degli italiani. E c’é anche Ludovico Bianchini, che già in quegli anni difende gl’interessi del Mezzogiorno e ancor prima dell’unificazione gli sembra che non s’identifichino con quelli del Nord. Nell’Italia del 1859-60, poi, non mancarono momenti in cui sembrò che l’unità della penisola, con la distruzione dei vecchi Stati, avrebbe realizzato un’unità culturale, politica ed economica. Ma subito dopo la proclamazione del Regno le prime delusioni. Un deputato catanzarese della Sinistra, Bendetto Musolino, in un suo discorso agli elettori aveva così decritto la situazione all’indemani dell’unificazione:

Geograficamente parlando noi siamo quasi uniti: ma le nostre province non hanno tutte le stesse leggi, le stesse istituzioni, lo stesso organismo. Sicché, animati dalla stessa idea, sorretti dallo stesso desiderio, rassomigliamo agli atomi del caos primitivo che si agitano nel vuoto eterno senza aver trovato ancora la forza di coesione da divenire corpo omogeno e compatto” (1861) .

Naturalmente, oggi i problemi non si pongono più nella stessa maniera: anche dove esistono stati nazionali, sorgono forti tendenze separatiste come in Francia, Spagna, Jugoslavia. C’é l’esigenza di affermare le “piccole patrie”, potremmo dire. E anche in Italia, dove non c’è il peso della nazionalità, si pone questa questione per cui rinascono egoismi economici e sociali, torna l’impressione che una piccola comunità avanzata come quella lombarda possa meglio badare ai propri interessi distaccandosi da quelle meno avanzate come il Mezzogiorno. Ma si tratta di tendenze senza fondamento, né futuro storico poiché é sempre più difficile vivere in comunità ristrette, credere che il progresso risieda nelle nuove “divisioni” d’Italia (proposte da Bossi) piuttosto che nella riaffermazione della sua unità. Così, le varie prospettive neo-federaliste non hanno alcuno respiro, né possibilità di attuazione. Tutt’al più potrebbe aver senso parlare di un potenziamento delle autonomie regionali, peraltro già attuate da tempo con modalità che sembrano aver prodotto più danni che vantaggi.

Anche dopo il 1860 emersero molte forze “nemiche” dello Stato unitario: una certa resistenza dei cattolici, un’opposizione dei nostalgici delle monarchie cadute, un’opposizione del movimento socialista che non si riconosceva nello stato liberale. In definitiva, una gran difficoltà per l’esigua classe dirigente unitaria di farsi davvero classe dirigente di tutta la nazione. I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca. E se c’è ancora qualcosa che rende preziosa la “lezione” dei meridionalisti (da Fortunato a Dorso, da Gramsci a Sturzo) é la loro convinzione che il problema del Sud non é un problema locale e settoriale non é una “questione” … straordinaria e territorialmente circoscritta, ma é un problema “centrale” d’indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato democratico e l’ambito entro cui la “questione” va risolta é quello della democrazia dei partiti.

(*) Antonio Carvello è docente di diritto dell’organizzazione pubblica economica e società presso l’Università degli Studi di Catanzaro “Magna Grecia”

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