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Povertà e miseria (conseguente). Mezzogiorno e migranti i più colpiti

<<Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale>>.

Scriveva così, nel 1942, Ernesto Rossi nella sua opera “Abolire la miseria” che torna di grande attualità se, ancora oggi, questioni come povertà, miseria e lavoro restano questioni centrali.

Quel Rossi che dal confino fu autore -assieme ad Altiero Spinelli – del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita.

chiare lettere

La fotografia che oggi, 26 giugno 2017, l’ISTAT restituisce al Paese è impietosa: mai tanti poveri in Italia dal 2005.

Sono 1.778.000 le famiglie italiane (il 6,9%) che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta: cioè famiglie in cui la spesa mensile non è sufficiente ad acquistare beni e servizi considerati essenziali. Abbiamo superato i cinque milioni di individui (l’8,4%) della popolazione che vivono in tali misere condizioni.

I cittadini del Mezzogiorno (assieme ai migranti) sono i più colpiti: il 10,3% delle famiglie, l’11,4% delle persone.

Se povertà e miseria non sono la stessa cosa, ma se è dalla prima si alimenta, si rigenera la seconda, è vero che sui dati pubblicati dall’ISTAT bisogna riflettere e agire subito. Affinché la povertà dilagante non si trasformi in miseria e in imbarbarimento culturalmente. Continua la lettura di Povertà e miseria (conseguente). Mezzogiorno e migranti i più colpiti

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Abolire la miseria. Il Congresso del 26 e 27 maggio 2018

Pubblichiamo – grazie al sito di Radio Radicale che ne ospita i contenuti indicizzati per intervento – le registrazioni video delle due giornate congressuali che si sono tenute a Lamezia Terme (CZ) presso il Grand Hotel di Lamezia Terme

Prima giornata del Primo Congresso Ordinario dell’Associazione Radicale Nonviolenta “Abolire la Miseria – 19 maggio”, in programma il 26 ed 27 maggio 2018.

La FIDU si associa alla richiesta di nominare i garanti dei detenuti e della salute in Calabria.
La FIDU si associa alla richiesta di nominare i garanti dei detenuti e della salute in Calabria.

Il Convegno riguarda la legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento che necessita di esser meglio conosciuta e sul fatto che in Italia manca ancora una legge per l’eutanasia.

Inoltre, in Calabria, dopo oltre dieci anni dalla istituzione per legge, non è mai stato nominato il Garante della salute. Continua la lettura di Abolire la miseria. Il Congresso del 26 e 27 maggio 2018

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Se la povertà dilaga serve abolire la miseria

“False partenze” è il titolo del nuovo rapporto (2014) della Caritas italiana su povertà ed esclusione sociale; è stato scelto perché, è spiegato in premessa, il precedente rapporto era intitolato “I ripartenti”, ma poiché la ripresa dalla crisi non c’è stata, anzi, il titolo “false partenze” è quello che meglio esplicita la situazione, drammatica, del Paese.
Raddoppiati in un lustro i poveri. Quattro milioni e 800 mila (8% circa della popolazione) nel 2012 contro i due milioni e 400mila (4,1%) nel 2007. E anche la “povertà assoluta” è aumentata. Per l’organismo della Cei, l’incremento degli indigenti totali presenta segnali ancor più allarmanti se analizzato a livello territoriale: se al Nord i poveri assoluti passano dal 3,3% al 6,4% del totale e al Centro fra il 2,8% e il 5,7%, al Sud il dramma raggiungeva il 6% nel 2007 arrivando all’11,3% nel 2012.
Ha stramaledettamente ragione, quindi, il direttore del Garantista Piero Sansonetti a scrivere, nel suo editoriale di sabato 12 luglio, che i dati della Caritas rappresentano una “frustata in faccia” alla politica e alla classe dirigente di questo Paese e che la sua abolizione sarebbe la vera riforma.

Vivere sotto la soglia di povertà assoluta significa non avere livelli nutrizionali adeguati, non riuscire a vivere in un’abitazione dotata di acqua calda ed energia, non potersi vestire decentemente, ma anche non potersi ageguatamente curare.
La Caritas ha spiegato che, chi si trova in tale condizione, non può sostenere le spese minime necessarie per beni e servizi essenziali e quindi non ha uno standard di vita accettabile.
C’è quindi il rischio concreto che questa povertà dilaghi in miseria. Quando la crisi è a uno stadio così avanzato e quando abbiamo 4 milioni e 800mila poveri e quando l’11% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, è evidente che la riforma delle riforme, la priorità assoluta, dovrebbe essere proprio quella di abolire la miseria di così larghe fasce di popolazione.

Papa Francesco, durante il messaggio per la Quaresima aveva ricordato che «la miseria non coincide con la povertà» perché, ha detto, «la miseria è la povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza».
Il Pontefice evidenziava tre tipi di miseria: materiale, morale e spirituale.
La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana. E’ la miseria che oggi maggiormente dilaga. Poi c’è quella morale che «consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato». Molte persone, ha aggiunto, sono costrette a queste miserie da condizioni sociali ingiuste, dalla «mancanza di lavoro che le priva della dignità che dà il portare il pane a casa».
Anzi « in questi casi — scrive il Pontefice — la miseria morale può ben chiamarsi suicidio incipiente».
Ma ha ricordato che proprio questa miseria morale diventa «causa di rovina economica».

Detta differenza tra povertà e miseria veniva resa evidente nel volume Abolire la miseria (scritto nel 1942, pubblicato nel 1946), nelle cui pagine Ernesto Rossi scriveva che la cosa più intollerabile dei “regimi individiulistici” è

“La miseria di larghi strati di popolazione, in stridente contrasto con l’opulenza di pochi privilegiati, lo sperpero di tante energie umane e di tante risorse materiali per soddisfare la vanità ed i futili capricci di chi si presenta sul mercato con una maggiore capacità di acquisto, il parassitismo di chi vive senza lavorare”.
Per Ernesto Rossi, infatti, “La pecca maggiore dei regimi individualistici, quali si sono storicamente realizzati finora è, …, la miseria degli ultimi strati della popolazione. La condizione delle classi povere, anche nei paesi più progrediti economicamente, è talmente ripugnante alla nostra coscienza morale, ed è così contraria al nostro ideale di civiltà che, se ci trovassimo davanti all’alternativa di accettare tali regimi, così come sono, o di passare a regimi comunistici, in cui la regolamentazione dal centro di tutta la vita economica e il lavoro obbligatorio permettessero una distribuzione egualitaria del reddito sociale, saremmo molto incerti quale preferire, nonostante la nostra ferma convinzione che i regimi comunistici sarebbero necessariamente meno produttivi e potrebbero essere realizzati solo attraverso una tirannide burocratica”.

La povertà sconfina in miseria culturale, in rassegnazione al potente e al potere. Ne discende una società clientelare, un modello individualistico di società in cui ci dimentica l’assenza di sussidi universali. Povertà genera miseria.
E la miseria, ricordava Ernesto Rossi, è una malattia infetttiva.
La povertà, oltre a provocare conseguenze rovinose sul fisico delle persone che ne sono colpite, ha effetti ancora più disastrosi sul loro morale e sull’ambiente in cui vivono.

Fondate sul pragmatismo anglosassone del piano Baveridge, primo sistema di Stato sociale realizzato in Inghilterra e costituito sulla cultura della solidarietà, le proposte contenute nel lavoro di Ernesto Rossi scritte dal confino a Ventotene sono oggi di scottante attualità: in esse si rintracciano e si coniugano concetti di Stato sociale che non riusciamo a realizzare, di mercato del lavoro, di struttura del salario, di dinamica occupazionale e di riorganizzazione della scuola pubblica statale.
Per abolire la miseria, “l’assistenza non dovrebbe diminuire il senso di dignità e di responsabilità delle persone soccorse”.

“La carità privata”, scriveva Rossi, “può servire alle persone religiose per guadagnarsi il paradiso, ma certamente non constitusce un rimedio alla miseria”. E, val la pena ricordarlo, nel progetto per abolire la miseria, “non si deve permettere che i soccorsi vengano sperperati in consumi voluttuari o socialmente riprorevoli, lasciando insoddisfatti i più elementari diritti della vita civile”.

Il concetto centrale, quindi, era garantire a tutti coloro che ne facevano richiesta, beni e servizi alla persona necessari alla vita: lo Stato avrebbe dovuto garantire il cibo, la casa, gli abiti, il mobilio di base. E anche un minimo di salario percepito, però, non come carità, ma ricevuto come diritto, perché ciascuno lo avrebbe acquisito prestando due o tre anni di “servizio del lavoro” obligatorio per tutti, uomini e donne in età giovanile.
Un “esercito del lavoro” per fornire servizi in natura, un sistema di prestazioni gratuite a cui sarebbero stati obbligati tutti i cittadini per una frazione della loro vita.
Quando di materie prime, invece, ce ne sono e quando di persone da impiegare ce ne sono tante, rilanciare la crescita per abolire la miseria non soltanto non è impossibile, ma dovrebbe divenire la priorità per tutti la priorità.
Altro ché la riforma del Senato per trasformarlo in un carrozone di nominati.
Quel volume, abolire la miseria, rappresenta un’analisi attuale e una proposta ancora valida; parla di istruzione pubblica, parla di servizio civile e parla di reddito di sussitenza dato non a sussidio caritatevole o mantenendo aziende improduttive, ma chiedendo ai giovani, in cambio, il lavoro per progetti socialmente utili.
In pratica, i giovani terminata la loro preparazione scolastica sarebbero stati obbligati, anziché alla leva militariasta, a prestare il loro servizio in questo esercito del lavoro che, quindi, diventava anche un modo di formare i giovani alla realtà lavorativa.
E il tutto doveva essere affiancato da una scuola a tutti accessibile (all’epoca ancora non lo era ancora) ma riformata e riorganizzata nel duplice aspetto di formazione della forza lavoro e di solidarietà sociale. Gli esami, sosteneva Rossi, non si sarebbero dovuti fare all’uscita, ma all’ingresso di ogni ciclo scolastico per accertare che il candidato avesse competenze e conoscenze per trarre profitto da quel ciclo di insegnamento scelto. E, abolendo il titolo di studio, per Rossi, si sarebbe elminato l’annoso e ancora attuale equivoco per cui i giovani, molto spesso, vanno a scuola non per imparare ma per prendere il diploma, un pezzo di carta.
Altro che riforma del Sentato, altro che riforma elettorale. Bisogna ridare la speranza. Credo che se per il Paese e, in particolare, per il Mezzogiorno non si avrà il coraggio di intervenire subito il rischio è che la povertà fotografata dalla Caritas dilaghi, come già accade in Calabria da qualche lustro, in miseria culturale, trasformandosi per l’intero Paese in mancanza di una prospettiva di riscatto sociale, in quella miseria morale che, come dice Papa Francesco, non lascia spazio alla speranza.

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Sindacati e Politica in #Calabria: povertà e disagio sociale sfruttati per lucro

Guardia di Finanza (Gdf) a Matera, in Basilicata Il fatto:

(ANSA) – VIBO VALENTIA, 20 MAGNove persone, tra le quali funzionari della Regione e della Provincia di Vibo Valentia e dirigenti della società Eurocoop, sono state arrestate dalla guardia di finanza, in collaborazione con la polizia, per un truffa da 8 milioni per l’indebita percezione di incentivi per il lavoro. Indagati in stato di libertà gli ex presidenti della Provincia Gaetano Bruni e Francesco De Nisi, l’ex sindaco Franco Sammarco e il dirigente regionale Bruno Calvetta. Sequestrati beni per 30 milioni.

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Dall’articolo di Gianluca Prestia pubblicato su Il Quotidiano della Calabria il 21 maggio 2014, p.8

IL SISTEMA: Il giudice stanga la politica ma anche i sindacati. Il gip: “La povertà sfruttata”.

Dall’ordinanza: “Gente che opera per il singolo e non per la collettività”1

VIBO VALENTIA – “Povertà e disagio sociale sfruttati a fini di lucro”.

É durissimo il giudizio del gip Fabio Regolo, firmatario dell’ordinanza che ha portato all’arresto di nove persone accusate della maxitruffa dell’Eurocoop.

Una fotografia “che mette tristemente in luce circuiti viziosi che operano esclusivamente a tutela di interessi di potere, ipotecando così il futuro di una intera comunità. Si vedono pubblici amministratori e funzionari della pubblica amministrazione operare solo nell’interesse di qualche singolo, dimenticando totalmente la collettività amministrata, lasciando così milioni di euro nelle mani di faccendieri”.

E ancora:

Dirigenti sindacali che partecipano ad accordi presso la Regione con il management di alcune società interessate ai bandi pubblici senza rendersi contro che stavano assecondando elargizioni di enormi somme di denaro pubblico a favore sempre degli stessi lavoratori”.

Una situazione resa possibile, a parere del gip di Vibo, proprio in virtù di una fitta rete di complicità di funzionari e amministratori pubblici che in spregio alla salvaguardia delle reali esigenze collettive di cui avrebbero dovuto rappresentare insuperabile presidio, hanno pensato solo ad alimentare sacche di potere”.

Dalle carte emerge, dunque, “l’esistenza di una allarmante gestione e quindi una illecita captazione di fondi pubblici pensati per creare “speranza” in terre, come quella calabrese, martoriate dalla disoccupazione”. Secondo il magistrato dell’indagine preliminare, viene posto in evidenza come in questo caso vi sia “molto più che una mera disfunzione amministrativa”.

Esiste, infatti, un vero e proprio concorso nel reato da parte di funzionari compiacenti, e le erogazioni ottenute da Eurocoop sono da ricondurre a pieno titolo nella nozione di erogazioni pubblicheÈ. Non è, quindi, ammissibile la sovrapposizione (stessi lavoratori e medesimo periodo) con un altro analogo strumento di integrazione salariale avente le medesime finalità e struttura come era stato ravvisato nel bando della Regione Calabria.

In buona sostanza, in base al principio del divieto del “doppio aiuto” le singole spese, o quota parte di esse, non possono fruire completamente del sostegno di più di uno strumento finanziario nazionale o comunitario. L’indagine, come evidenziato dagli inquirenti nel corso della conferenza stampa di ieri mattina presso la procura di Vibo, scaturisce da una attività ispettiva avviata nel 2012 dalla Direzione regionale del Lavoro che aveva interessato alcune aziende, operante su territorio regionale, risultate beneficiarie della cassa integrazione in deroga per verificare la regolarità nell’utilizzo di tale ammortizzatore sociale. Nel caso dell’Eurocoop il dato di partenza che il gip definisce eclatante, da cui ha tratto origine tutta l’inchiesta “Bis in idem”, individuato dalla “profonda anomalia offerta dalla sovrapposizione di due istituti già “prima facie” di evidente incompatibilità”.

In questo contesto, la società si era “inserita riuscendo sorprendentemente ad ottenere – solo grazie alla estrema compiacenza degli organi pubblici preposti alla valutazione dei progetti ed alla effettuazione dei controlli – una cospicua erogazione di finanziamenti in realtà non dovuti. E così, da questa iniziale impostazione, le indagini coordinate dalla Procura ordinaria e condotte da Finanza e Polizia, hanno consentito “di aprire uno squarcio su un vero e proprio “sistema” integrato, da una parte, da una incredibile moltiplicazione di interventi aventi la stessa natura e finalità e da una rete di agevolazioni incompatibili con i finanziamenti ottenuti da parte del Dipartimento 10 della Regione di fondi in totale violazione dei parametri predeterminati dalla legge; dall’altra, di distorcere totalmente le procedure di appalto di diversi enti pubblici, indirizzandone le assegnazioni a favore della Eurocoop da asservire tali procedure agli interessi privati della stessa”.

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LA SCHEDA2:

Misure cautelari e avvisi di garanzia agli indagati

– IN CARCERE 1. PELLEGRINO Silvio Claudio Martino, 59 anni, di Catania; 2. GOLINO Simone José, 39 anni, di Mascalucia (Ct); 3. ROMANO Santo, 64 anni, di Catania; 4. GARRI‘ Gerardino, 38 anni, di Vibo Valentia; 5. VINCI Antonio, 62 anni, di Vibo Valentia; 6. DI GESU Concettina, 62 anni, di Vibo Valentia.

– AI DOMICILIARI: 7. BATTAGLIA Anna Maria Lucia, 54 anni, di Soverato (Cz); 8. MANNUCCI Elisa, 56 anni, di Torre di Ruggero (Cz) 9. MACRI’ Edith, 42 anni, di Tropea; dirigente della Provincia di Vibo Valentia;

– RICH. INTERDIZIONE** : 10. CALVETTA Bruno, 53 anni, di Vibo Valentia; 11. ZAPPULLA Salvatore Luciano, 51 anni, di Reggio Calabria; 12. FRANCO Antonio Michele, 53 anni, di Melito Porto Salvo (Rc); 13. NICOLINO Mario, 44 anni, di Pizzo;

– A PIEDE LIBERO: 14. RICCA Michelina, 64 anni, di Cosenza 15. VADALA’ Antonio, 61 anni, di Reggio Calabria; 16. TORCHIA Fernando, 38 anni, di Lamezia Terme (Cz); 17. ESPOSITO Raffaele, 32 anni, di Sellia Marina (Cz); 18. BRUNI Gaetano Ottavio, 70 anni, di Acquaro (VV); 19. BONO Ottavio Nazzareno, 74 anni, di Sorianello (VV); 20. SAMMARCO Francesco Maria, 66 anni, di Vibo Valentia; 21. LO IACONO Raffaele, 51 anni, di Serra San Bruno (VV); 22. DE NISI Francesco, 46 anni, di Filadelfia (VV).

**Gli indagati sono in attesa di comparire davanti al gip Fabio Regolo che deciderà sulla richiesta

di interdizione cautelare formulata dal pm Michele Sirgiovanni.

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Ecco i «furbetti» del contributo3.

La Procura di Vibo svela una presunta milionaria truffa in danno di Regione e Fondo sociale europeo

Al consigliere regionale Ottavio Bruni (UDC) è stata sequestrata la sua Mercedes

LA DECISIONEDEL GIP4 Sei in carcere, tre ai domiciliari. Nove in arresto e diversi altri indagati

VIBO VALENTIA – Il gip di Vibo Valentia Fabio Regolo – accogliendo quasi integralmente la richiesta formulata dal sostituto procuratore Michele Sirgiovanni, sulla scorta delle indagini del Nucleo di Polizia tributaria di Vibo Valentia e della Squadra mobile di Vibo Valentia – ha disposto la detenzione in carcere per il presi- dente del consiglio di amministrazione dell’Eurocoop Scarl Silvio Claudio Martino Pellegrino, per i componenti del consiglio di amministrazione Simone Golino e Santo Romano e per il dipendente Gerardino Garrì. Carcere anche per il dirigente della Provincia di Vibo Antonio Vinci, il dirigente vicario del Dipartimento 10 dell’Assessorato regionale al Lavoro Concettina Di Gesù. Hanno potuto beneficiare dei domiciliari, invece, la funzionaria del dipartimento Lavoro della Regione Anna Maria Lucia Battaglia, la dirigente della Provincia Edith Macrì, e la funzionaria del dipartimento regionale Elisa Mannucci. Nell’elenco degli indagati, infine, sono stati iscritti l’ex dirigente regionale Michelina Ricca, l’ex funzionario regionale Antonio Vadalà, gli addetti all’Autorità di Audit della Regione Fernando Torchia e Raffaele Esposito, gli ex presidenti della Provincia di Vibo, Gaetano Bruni e Francesco De Nisi, l’ex sindaco del capoluogo Franco Sammarco, e di Serra San Bruno Raffaele Loiacono, l’ex dg dell’Asp Ottavio Bono, il direttore generale del dipartimento regionale Lavoro Bruno Calvetta, Il componente della commissione di valutazione del bando e funzionario per l’unità di crisi del dipartimento Salvatore Zeppulla, e infine il collega Antonio Franco.

Ieri mattina oltre all’esecuzione delle misure cautelari personali e alla notifica degli avvisi di garanzia, finanzieri e poliziotti hanno provveduto anche ad effettuare i sequestri disposti dall’autorità giudiziaria. Al consigliere regionale e capogruppo dell’Udc a Palazzo Campanella Gaetano Ottavio Bruni sarebbe stata sequestrata, nell’ambito di un provvedimento per “equivalente” da 1.500 euro, la sua vecchia Mercedes ed una piccola proprietà ad Acquaro, suo paese d’origine.

Il quadro dei beni sigillati dalla polizia giudiziaria, d’altronde, non è stato ancora reso noto.

Note:

1 Articolo di Gianluca Prestia pubblicato su Il Quotidiano della Calabria il 21 maggio 2014, p.8

2Il Quotidiano della Calabria, ibidem, 21 maggio 2014

3Gianluca Prestia, ivi, 21 maggio 2014

4Ibidem

 

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Abolire la povertà, un dovere per l’Europa di domani

di Anthony Barnes Atkinson (*)

La Stampa 19.5.14

Il grande economista inglese Anthony Atkinson rilancia il progetto di un reddito-base per tutti

Quarantacinque anni fa pubblicai un libro, Poverty in Britain and the Reform of Social Security, in cui avanzavo proposte che puntavano a realizzare nel Regno Unito l’aspirazione del Piano Beveridge del 1942.
Ossia, di «mettere l’uomo al riparo dal bisogno assicurando sempre a ogni cittadino che voglia servire secondo le proprie energie un reddito sufficiente per far fronte alle sue responsabilità».

Antony Atkinson
Antony Atkinson, premio Nobel per l’economia nel 2012

A parte i toni un tantino maschi, questa affermazione della nostra aspirazione a garantire un reddito minimo nazionale appare importante ai nostri giorni come lo era allora.
Oggi, il problema della povertà è urgente allo stesso modo. Nel 1969, il tasso di povertà nel Regno Unito era, secondo gli standard attuali dell’Unione Europea (la quota di persone che vivono con un reddito inferiore al 60% del reddito disponibile mediano equivalente), del 14%. Nel 2011, è stata registrata al 16%. Eppure, la risposta della politica sembra camminare all’indietro.

Nel marzo del 2014, il parlamento britannico ha approvato a larga maggioranza un tetto ai sussidi della previdenza sociale. Il cosiddetto Welfare cap stabilisce un limite, suscettibile di adeguamenti solo in rapporto all’inflazione, alla spesa complessiva di tutte le prestazioni previdenziali (a parte le pensioni statali di base e certi sussidi di disoccupazione) per gli anni dal 2015-16 al 2018-2019. Questo è un provvedimento che va ad aggiungersi alla precedente legge, approvata nel 2012 dal governo di coalizione britannico, per limitare l’ammontare dei sussidi che possono essere percepiti settimanalmente da una singola famiglia. Il tetto alla spesa per il Welfare viene così messo in due modi.
La cosa sconcertante, per me, è che i tetti ai costi globali del Welfare sono stati approvati in Inghilterra avendo scarsa o nessuna considerazione delle conseguenze per gli obiettivi propri che la spesa previdenziale vuole raggiungere. Vuol dire questo che il Regno Unito ha voltato le spalle all’obiettivo di Beveridge di garantire un reddito minimo nazionale? Vuol dire che a una persona che non è in grado di lavorare – ad esempio per un incidente – dovremo dire che non ci sono più soldi nel bilancio del ministero del Lavoro e delle Pensioni? Che i sussidi per l’infanzia dovranno essere tagliati per le ristrettezze di bilancio imposte da altri programmi? […]
Delle nuove forme di previdenza sociale, la più discussa è forse l’idea di un «reddito di cittadinanza» o «reddito di base», che prevede un sussidio universale da pagarsi individualmente a tutti i cittadini, variabile da uno dei paesi membri all’altro a seconda delle loro specifiche circostanze. L’entità della somma potrebbe essere legata ad alcuni parametri determinati da caratteristiche personali, come l’età, ma non sarebbe legata al fatto di essere o no occupati.
Il reddito di cittadinanza è una vecchia idea, che però non è stata adottata come parte della protezione sociale europea. A livello nazionale, è stato in genere molto discusso in tempi di ricostruzione, come dopo la Seconda guerra mondiale, e in questo senso potrebbe essere naturale per l’Ue riprenderla come elemento di un più grande «balzo in avanti» del dopo recessione. Essa tuttavia solleva la questione del fondamento della idoneità. Il reddito di base viene spesso presentato come «incondizionato», ma deve comunque esserci una condizione qualificante. Questa viene di solito individuata nella cittadinanza, ma la cittadinanza non è la stessa cosa che la base per la tassazione e evidentemente non è la base giusta nel contesto della Ue. Il criterio della cittadinanza significherebbe che un lavoratore svedese in Francia riceverebbe il reddito di base svedese, non il reddito di base francese, il che non sarebbe coerente con la libertà di movimento della manodopera.
La razionalità di un reddito di base che varia da paese a paese dovrebbe essere nel fatto che il reddito di base vari in relazione al costo della partecipazione a una società particolare. Un approccio alternativo perciò è di rendere il reddito di base condizionato, ma non alla cittadinanza, bensì alla partecipazione nella società. […]
Proponendo un simile «reddito di partecipazione», piuttosto che un universale reddito di base, sono ben consapevole che esso presta il fianco a due obiezioni: che il suo essere condizionato rischia di escludere persone vulnerabili, e che comporta un notevole impegno amministrativo. Ma il reddito universale è una chimera. Tutti i progetti attuali prevedono una condizione di idoneità e quindi il rischio di esclusione. La cittadinanza sarebbe di tutta evidenza un criterio altamente discriminatorio, e probabilmente contrario alle leggi europee. Le regole esistenti per stabilire l’idoneità a ricevere sussidi si sono rivelate politicamente tossiche, e parecchie difficoltà nascono quando si tratta di applicare le regole a persone che vivono in un paese ma che non vi hanno domicilio per motivi fiscali. Tutti questi elementi evidenziano la necessità di un accordo esplicito sulla nozione di partecipazione a una particolare società. Una volta stabilito un accordo del genere, l’applicazione delle regole richiederebbe naturalmente un apparato amministrativo. Per esempio, la qualificazione di attività non di mercato richiede una certificazione. Ma il sistema esistente di assicurazione sociale richiede un analogo apparato se dev’essere adeguato al XXI secolo, per cui il tema dovrà essere comunque affrontato.
Lanciare un’iniziativa europea per un reddito di partecipazione sarebbe una mossa politica ardita. Proporre un’iniziativa del genere può apparire come una sfida ai decenni di incapacità dell’Ue di fare progressi nell’armonizzazione della previdenza sociale. Ma ci sono due ragioni di ottimismo. La prima è che essa offre una soluzione a problemi con cui i governi nazionali stanno oggi combattendo – esattamente come le prime istituzioni europee offrirono una soluzione a problemi nazionali di ristrutturazione economica. La seconda è che il reddito di partecipazione è – salvo un’eccezione – una forma nuova di previdenza sociale.

Non ci sarebbe il problema di imporre un modello nazionale a tutti gli Stati membri. Non sarebbe un’assicurazione sociale alla Bismarck o alla Beveridge. Sarebbe una strada del XXI secolo verso un’Europa sociale.
C’è un’eccezione all’affermazione che un reddito di base non è ancora entrato nella protezione sociale europea: l’erogazione di un sussidio universale alle famiglie per tutti i figli, magari variabile per età, può essere vista come una forma specifica di reddito di base. Erogazioni del genere sono comuni nei paesi Ue. Se la Ue vuole incamminarsi lungo la strada del reddito universale, il punto di partenza naturale è di cominciare con un reddito di base europeo per i bambini.

Una decina d’anni fa, il Gruppo ad Alto Livello sul futuro della politica sociale in un’Unione Europea allargata fece una proposta simile, come elemento di un possibile «patto intergenerazionale». In termini concreti, ciò può significare un reddito di base in tutta la Ue per bambini, fissato, diciamo, al 10% del reddito mediano pro capite in ciascuno degli Stati membri per ogni bambino. Sarebbe amministrato e finanziato, con clausole di sussidiarietà, da ciascuno degli Stati membri. Un programma del genere – rifinito nei dettagli – permetterebbe all’Europa di investire sul suo futuro.
Quarantacinque anni fa, proponevo riforme al sistema di previdenza sociale britannico che miravano a realizzare l’obiettivo di Beveridge di abolire la povertà. All’epoca credevo che il suo Piano di assicurazione sociale, portato pienamente a compimento, fosse il percorso giusto da seguire. Non è accaduto, e oggi, purtroppo, il problema della povertà rimane – in Inghilterra e in tutta l’Unione Europea.

Quali risposte possiamo dare alla ricerca di riformare il Welfare State europeo oggi?
– La prima priorità è di ri-affermare l’aspirazione a offrire previdenza sociale per tutti;
– Partire da un tetto alla spesa per il Welfare è il modo più sbagliato; abbiamo invece bisogno di partire da obiettivi sociali;
– Il Welfare State deve adattarsi ai radicali cambiamenti del mercato del lavoro e della società;
– Ciò significa ripensare tutto a fondo, e da parte mia propongo un «reddito di partecipazione» e un reddito di base in tutta l’Unione Europea per i bambini.
Sto di nuovo sognando?

Anthony Atkinson ha ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2012 – La Stampa 19.5.14 – Traduzione di Michele Sampaolo – © Eutopia

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Al di sotto della soglia di povertà. Una telenovela italiana che dura da 15 anni

di Margherita Giardino*

Il “nuovo” accordo Italia-Canada su assicurazione sociale firmato a Roma il 23 maggio 1995 e mai ratificato.

La Storia infinita
La Storia infinita                                Lorenzo De Seta, Olio su Tela, 2005

Sono stata emigrante in Canada per 26 anni ed ora sono in pensione. Ricevo dal Canada le due pensioni dovutemi : Canada Pension Plan $ 67 e Old Age Pension $ 310 mensili mentre, dal Governo Italiano, ricevo $ 8 (otto) mensili. Mio marito riceve più o meno quello che ricevo io, per cui complessivamente percepiamo in due circa 9.500,00 euro all’anno con due figli a casa di cui uno ancora all’università. Siamo al di sotto della soglia di povertà .

Mio marito ha lavorato ( onorando la nostra terra ) in Canada per ben 21 anni e , rimpatriato nel 1987, ha investito tutto quello che possedeva in una Impresa Edile la quale dopo venti anni di attività ha dovuto chiudere i battenti attanagliata e soffocata da debiti e da tanta disonestà , ingiustizia, malaffare, corruzione, imbrogli, ritardi, ecc.

Tra qualche mese ci pignoreranno la casa buttandoci in mezzo alla strada. L’INPS dichiara che la bassissima pensione italiana è dovuta al fatto che sia io che mio marito abbiamo contributi da lavoro in Italia per meno di due anni.

Esiste, come è notorio, un accordo internazionale su assicurazione sociale tra Italia e Canada in vigore fin dal 1979 , ed un Nuovo Accordo di Sicurezza Sociale firmato a Roma nel maggio 1995 e poi un Protocollo dello stesso firmato a Roma nel maggio del 2003: gli ultimi due stabiliscono che noi dovremmo avere garantito il diritto al trattamento minimo (ma non sono ratificati).

La stessa cosa stabiliscono i Regolamenti comunitari di sicurezza sociale (art.50 Regolamento n.1408/71 e le convenzioni ratificate con Argentina, Australia, Bosnia Erzegovina, Brasile, Croazia,

Macedonia, Principato di Monaco, Repubblica di Capoverde, Repubblica di San Marino, Repubblica Federale di Jugoslavia, Stati Uniti d’America, Tunisia e Uruguai .

Il Governo Canadese ha già ratificato il Nuovo Accordo ed il Protocollo dello stesso nel 2004 ; mentre il Governo Italiano ancora non lo ha fatto, sebbene siano già trascorsi 15 anni.

Come può la nostra tanto amata Italia calpestare e penalizzare solo gli emigranti dal/in Canada e Venezuela ( gli unici a non essere tutelati da convenzioni che non si vogliono ratificare) , commettendo una così tremenda ingiustizia ,anche contro la nostra Costituzione : art.3 ed art.38 e contro i figli che La hanno sempre amata e onorata per il mondo?.

Dal momento che tutti gli altri emigranti sono coperti da questo diritto, perché io ne devo essere esclusa ed a causa di una lunga e protratta e intenzionalmente posticipata Ratifica da parte del nostro Governo?

Il 26 maggio u.s. anche il Giudice ha dovuto rigettare la mia richiesta contro l’INPS :per cui ora dovrei ricorrere in appello, forse anche in Cassazione ecc., cose che io non posso proprio permettermi.

Considerato il mio diritto sancito dalla Costituzione Italiana: si può proporre un Provvedimento d’Urgenza affinché l’INPS riconsideri il caso e conceda questo mio diritto?

Ringrazio per avermi letto e che il Buon Dio illumini conducendo a verità e giustizia.

Albi, lì 03 giugno 2010

* Margherita Giardino è stata emigrante in Canada per 26 anni ed ora è in pensione e vive ad Albi, in Provincia di Catanzaro

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