Pubblicato su Cronache del Garantista, sabato 31 gennaio 2015
Mentre il Cardinale Angelo Bagnasco, in rappresentanza della Chiesa italiana, parla di “lama del disagio sociale” che, in Italia, “continua a tormentare moltissime famiglie che non arrivano da tempo alla fine del mese”, con la vittoria in Grecia di Syriza guidata da Alexis Tsipras scopriamo che in Europa è necessario creare più crescita e lavoro e che la soluzione a tali problemi deve essere una soluzione di tipo europeo se non si vuole che trionfino i populismi anti-europei più beceri. In tal senso c’è da essere d’accordo con l’analisi storica oltreché politica di Fausto Bertinotti pubblicata sulle Cronache del Garantista martedì 27 gennaio, nella quale si notava il fatto – inequivocabile – che quella di Tsipras è una vittoria di una sinistra nuova fondata non su alleanze basate sulla geografia politica, ma su di un programma chiaro, che nasce da un movimento dal basso provocato dal disagio e dai conflitti sociali subiti dal popolo greco in questi anni. Non un soggetto politico per essere più a sinistra di qualcos’altro. Nel nostro Paese, come nel resto d’Europa, non c’è certo necessità – fa bene Bertinotti a metter le mani avanti, lui che di rifondazioni se ne intende – di una “nuova sinistra” variamente e casualmente legata a quella di Tsipras, un ennesimo tentativo di rifondare non si sa bene cosa, né su quali basi. E sono d’accordo con Bertinotti quando sostiene che, in Italia, bisogna creare “un fronte di lotta concreto (e aggiungerei, unitario delle forze laiche) contro l’impoverimento e la devastazione sociale”.
Non c’è dubbio, come giustamente nota Piero Sansonetti, che quella di Syriza sia una vittoria non di un partito, ma una vittoria popolare, fondata su un voto altrettanto popolare, che ha premiato – e questo è il secondo aspetto, forse anche più interessante – “una campagna elettorale basata su un programma politico molto chiaro, netto, comprensibile”. Pragmaticamente e non ideologicamente, per governare, si “mescola” con la destra anti austerità sulla base di un programma. E se da un lato è vero che Tsipras ha riportato al centro “la questione politica” con modalità assai diverse da quelle tentate dalla sinistra nostrana, è altrettanto vero che questa “svolta” nella politica europea, questo vento di cambiamento che riscalda l’inverno greco, soffia col vento del Mezzogiorno. Viene da Sud, dal Sud dell’Europa dove più forte è stata, in questi anni, “la lama del disagio sociale”.
Ma se tutto ciò è vero, allora serve costruire un chiaro progetto politico, alternativo a quello esistente, che consenta se non di abolire del tutto come sarebbe auspicabile, quantomeno di ridurre la miseria sempre più dilagante in larghe fasce della popolazione. Nella sua bella analisi sul voto greco, Fausto Bertinotti ha ricordato “le forme di mutualismo sociale con le mense popolari, gli asili nido e le diverse forme di sanità solidale” con le quali Sinistra greca, negli ultimi anni, ha saputo insediarsi “nel popolo e nei territori costruendo una sorta di Stato sociale autogestito”. Cosa che in Italia è paragonabile, e solo lontanamente, a ciò che a fine dell’Ottocento fece il nascente movimento operaio inventando le società di mutuo soccorso, le leghe e le associazioni.
Tralasciando la “stagione di movimenti e conflitti sociali” senza la quale l’Europa sarebbe destinata a non cambiare, non v’è dubbio che tutto ciò ci spinge a una riflessione su quello che potremmo-dovremmo fare per creare, anche nel nostro Paese, non certo un altra Syriza, non un’alchimia politica “più a sinistra di”, ma un’alternativa all’alleanza partitocratica del Nazareno, e alle politiche di austerità e rigore, credibile e comprensibile.
È necessaria una proposta politica chiara, alternativa, che consenta di abolire, o quantomeno ridurre la miseria. D’altronde è questo che Syriza pone al centro. Anche in vista di un confronto elettorale, tenendo ferma la volontà di mettere al centro dell’iniziativa politica il Messaggio dell’ex Presidente delle Repubblica Napolitano inviato alle Camere l’8 ottobre 2013, come Radicali occorre avere un programma comprensibile utile ad aggregare forze laiche, socialiste e liberali, e che veda al primo punto il lavoro, il benessere umano e l’abolizione della miseria dilagante. Una proposta che vada al di là delle iniezioni di liquidità fatte dalla BCE, importantissime, ma che da sole non creano crescita né lavoro. Se si vuole davvero essere alternativi alle politiche di austerità con le idee di “una sinistra nuova”, è necessario dare risposte a quella “lama di disagio sociale” di cui parla la chiesa di Papa Francesco e che tormenta “anziani con pensioni da fame, giovani che hanno paura per il loro futuro incerto, adulti che il lavoro l’hanno perso e che hanno famiglie da mantenere”.
Sul tema del lavoro, del porre freno alla miseria, come facciamo per i diritti umani, per i diritti degli ultimi, dei migranti e dei carcerati, noi Radicali, noi Socialisti, noi laici, libertari e liberali, dovremmo impegnarci a mescolare le nostre culture ed elaborare una proposta politica che metta al centro l’Uomo, le sue libertà (anche economiche) e suoi fondamentali diritti umani. Non si tratta di fare assistenza sociale, né assistenzialismo. Come nel piano Beveridge del ’42 e come nelle idee di Ernesto Rossi pubblicate nel volume “Abolire la miseria” scritto in Svizzera dopo la prigionia e il confino, l’idea di base – per abolire la miseria – è quella di essere d’accordo quando si propongono “servizi gratuiti alla persona atti a garantire quel minimo di vita civile” come diritto di ognuno, mentre bisognerà evitare trasferimenti in danaro, come nel caso dei sussidi di disoccupazione. “Trasformare i trasferimenti in danaro, spesso causa di sprechi e parassitismi, in servizi reali”. Partendo dall’analisi di cosa sia la miseria e la conseguente crisi finanziaria che, anche allora, come oggi, attanagliava il Paese, Ernesto Rossi parte dalla riforma della scuola e dai rapporti di questa con il mondo del lavoro. Una proposta che andrebbe riletta, perché assai diversa da “La buona scuola”, che oggi esce fuori. E per i disoccupati mai stati occupati, per evitare che possano essere ingaggiati dal sistema del lavoro nero (se la miseria esiste, – sostiene Rossi – il capitalismo la sfrutta, ma ciò non autorizza a dire che la miseria sia indispensabile al capitalismo), si prevede di poterli ingaggiare in quello che Rossi chiama “esercito del lavoro”. Un esercito fatto di giovani (anche di donne) che si occupi della produzione di beni e servizi occorrenti per soddisfare i bisogni essenziali.
Per Rossi l’abolizione della miseria diventa una condizione necessaria per la sopravvivenza stessa della società capitalistica. E la collettivizzazione di settori dell’economia diventa conveniente almeno in due casi: quando regimi monopolistici di settori strategici (come le comunicazioni) determinerebbero l’eccessivo sfruttamento dei consumatori; e quando “il libero gioco delle forze economiche lascerebbe insoddisfatti i bisogni di alcune categorie di consumatori fornite di una minore capacità d’acquisto – bisogni che si vuole tutti, almeno in una certa misura, per conservare un dato livello di vita civile”. In questi casi la collettivizzazione di alcuni settori non sarebbe “un freno per la libera iniziativa”, ma, anzi, la stimolerebbe. Rossi coniuga così esigenze ed esperienze liberali con quelle socialiste-ugualitarie. La collettivizzazione necessaria a soddisfare i bisogni essenziali dovrebbe riguardare il sistema scuola-università, quello della sanità, degli alloggi essenziali, e persino del vitto e del vestiario essenziali. Rientrerebbero per cui parzialmente settori della produzione agraria, dell’industria alimentare, del vestiario e dell’edilizia popolare. A questi settori “essenziali”, oggi, potremmo aggiungere anche quelli della sicurezza del territorio, della manutenzione del territorio, della previsione dei rischi geologico-ambientali e del censimento e le bonifica dei siti inquinati. Alla produzione dei beni e dei servizi occorrenti a soddisfare bisogni essenziali, individuali e collettivi, potrebbe anche oggi provvedere quello che, come già accennato, Rossi chiamava “esercito del lavoro”, una sorta di volontariato civile cui corrispondere una indennità di cittadinanza in cambio di produzione di beni e servizi che lo stato riterrà utili per abolire la miseria. Oltre le politiche di austerità c’è una proposta ancora valida, quella di Rossi, perché capace di creare lavoro, in grado di coinvolgere dal basso le persone con i loro problemi, le loro libertà negate e i loro diritti umani violati.