<<Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale>>.
Scriveva così, nel 1942, Ernesto Rossi nella sua opera “Abolire la miseria” che torna di grande attualità se, ancora oggi, questioni come povertà, miseria e lavoro restano questioni centrali.
Quel Rossi che dal confino fu autore -assieme ad Altiero Spinelli – del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita.
La fotografia che oggi, 26 giugno 2017, l’ISTAT restituisce al Paese è impietosa: mai tanti poveri in Italia dal 2005.
Sono 1.778.000 le famiglieitaliane (il 6,9%) che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta: cioè famiglie in cui la spesa mensile non è sufficiente ad acquistare beni e servizi considerati essenziali. Abbiamo superato i cinque milioni di individui (l’8,4%) della popolazione che vivono in tali misere condizioni.
I cittadini del Mezzogiorno (assieme ai migranti) sono i più colpiti: il 10,3% delle famiglie, l’11,4% delle persone.
Il grande economista inglese Anthony Atkinson rilancia il progetto di un reddito-base per tutti
Quarantacinque anni fa pubblicai un libro, Poverty in Britainand the Reform of Social Security, in cui avanzavo proposte che puntavano a realizzare nel Regno Unito l’aspirazione del Piano Beveridge del 1942.
Ossia, di «mettere l’uomo al riparo dal bisogno assicurando sempre a ogni cittadino che voglia servire secondo le proprie energie un reddito sufficiente per far fronte alle sue responsabilità».
A parte i toni un tantino maschi, questa affermazione della nostra aspirazione a garantire un reddito minimo nazionale appare importante ai nostri giorni come lo era allora.
Oggi, il problema della povertà è urgente allo stesso modo. Nel 1969, il tasso di povertà nel Regno Unito era, secondo gli standard attuali dell’Unione Europea (la quota di persone che vivono con un reddito inferiore al 60% del reddito disponibile mediano equivalente), del 14%. Nel 2011, è stata registrata al 16%. Eppure, la risposta della politica sembra camminare all’indietro.
Nel marzo del 2014, il parlamento britannico ha approvato a larga maggioranza un tetto ai sussidi della previdenza sociale. Il cosiddetto Welfare cap stabilisce un limite, suscettibile di adeguamenti solo in rapporto all’inflazione, alla spesa complessiva di tutte le prestazioni previdenziali (a parte le pensioni statali di base e certi sussidi di disoccupazione) per gli anni dal 2015-16 al 2018-2019. Questo è un provvedimento che va ad aggiungersi alla precedente legge, approvata nel 2012 dal governo di coalizione britannico, per limitare l’ammontare dei sussidi che possono essere percepiti settimanalmente da una singola famiglia. Il tetto alla spesa per il Welfare viene così messo in due modi.
La cosa sconcertante, per me, è che i tetti ai costi globali del Welfare sono stati approvati in Inghilterra avendo scarsa o nessuna considerazione delle conseguenze per gli obiettivi propri che la spesa previdenziale vuole raggiungere. Vuol dire questo che il Regno Unito ha voltato le spalle all’obiettivo di Beveridge di garantire un reddito minimo nazionale? Vuol dire che a una persona che non è in grado di lavorare – ad esempio per un incidente – dovremo dire che non ci sono più soldi nel bilancio del ministero del Lavoro e delle Pensioni? Che i sussidi per l’infanzia dovranno essere tagliati per le ristrettezze di bilancio imposte da altri programmi? […] Delle nuove forme di previdenza sociale, la più discussa è forse l’idea di un «reddito di cittadinanza» o «reddito di base», che prevede un sussidio universale da pagarsi individualmente a tutti i cittadini, variabile da uno dei paesi membri all’altro a seconda delle loro specifiche circostanze. L’entità della somma potrebbe essere legata ad alcuni parametri determinati da caratteristiche personali, come l’età, ma non sarebbe legata al fatto di essere o no occupati. Il reddito di cittadinanza è una vecchia idea, che però non è stata adottata come parte della protezione sociale europea. A livello nazionale, è stato in genere molto discusso in tempi di ricostruzione, come dopo la Seconda guerra mondiale, e in questo senso potrebbe essere naturale per l’Ue riprenderla come elemento di un più grande «balzo in avanti» del dopo recessione. Essa tuttavia solleva la questione del fondamento della idoneità. Il reddito di base viene spesso presentato come «incondizionato», ma deve comunque esserci una condizione qualificante. Questa viene di solito individuata nella cittadinanza, ma la cittadinanza non è la stessa cosa che la base per la tassazione e evidentemente non è la base giusta nel contesto della Ue. Il criterio della cittadinanza significherebbe che un lavoratore svedese in Francia riceverebbe il reddito di base svedese, non il reddito di base francese, il che non sarebbe coerente con la libertà di movimento della manodopera.
La razionalità di un reddito di base che varia da paese a paese dovrebbe essere nel fatto che il reddito di base vari in relazione al costo della partecipazione a una società particolare. Un approccio alternativo perciò è di rendere il reddito di base condizionato, ma non alla cittadinanza, bensì alla partecipazione nella società. […] Proponendo un simile «reddito di partecipazione», piuttosto che un universale reddito di base, sono ben consapevole che esso presta il fianco a due obiezioni: che il suo essere condizionato rischia di escludere persone vulnerabili, e che comporta un notevole impegno amministrativo. Ma il reddito universale è una chimera. Tutti i progetti attuali prevedono una condizione di idoneità e quindi il rischio di esclusione. La cittadinanza sarebbe di tutta evidenza un criterio altamente discriminatorio, e probabilmente contrario alle leggi europee. Le regole esistenti per stabilire l’idoneità a ricevere sussidi si sono rivelate politicamente tossiche, e parecchie difficoltà nascono quando si tratta di applicare le regole a persone che vivono in un paese ma che non vi hanno domicilio per motivi fiscali. Tutti questi elementi evidenziano la necessità di un accordo esplicito sulla nozione di partecipazione a una particolare società. Una volta stabilito un accordo del genere, l’applicazione delle regole richiederebbe naturalmente un apparato amministrativo. Per esempio, la qualificazione di attività non di mercato richiede una certificazione. Ma il sistema esistente di assicurazione sociale richiede un analogo apparato se dev’essere adeguato al XXI secolo, per cui il tema dovrà essere comunque affrontato. Lanciare un’iniziativa europea per un reddito di partecipazione sarebbe una mossa politica ardita. Proporre un’iniziativa del genere può apparire come una sfida ai decenni di incapacità dell’Ue di fare progressi nell’armonizzazione della previdenza sociale. Ma ci sono due ragioni di ottimismo. La prima è che essa offre una soluzione a problemi con cui i governi nazionali stanno oggi combattendo – esattamente come le prime istituzioni europee offrirono una soluzione a problemi nazionali di ristrutturazione economica. La seconda è che il reddito di partecipazione è – salvo un’eccezione – una forma nuova di previdenza sociale.
Non ci sarebbe il problema di imporre un modello nazionale a tutti gli Stati membri. Non sarebbe un’assicurazione sociale alla Bismarck o alla Beveridge. Sarebbe una strada del XXI secolo verso un’Europa sociale.
C’è un’eccezione all’affermazione che un reddito di base non è ancora entrato nella protezione sociale europea: l’erogazione di un sussidio universale alle famiglie per tutti i figli, magari variabile per età, può essere vista come una forma specifica di reddito di base. Erogazioni del genere sono comuni nei paesi Ue. Se la Ue vuole incamminarsi lungo la strada del reddito universale, il punto di partenza naturale è di cominciare con un reddito di base europeo per i bambini.
Una decina d’anni fa, il Gruppo ad Alto Livello sul futuro della politica sociale in un’Unione Europea allargata fece una proposta simile, come elemento di un possibile «patto intergenerazionale». In termini concreti, ciò può significare un reddito di base in tutta la Ue per bambini, fissato, diciamo, al 10% del reddito mediano pro capite in ciascuno degli Stati membri per ogni bambino. Sarebbe amministrato e finanziato, con clausole di sussidiarietà, da ciascuno degli Stati membri. Un programma del genere – rifinito nei dettagli – permetterebbe all’Europa di investire sul suo futuro.
Quarantacinque anni fa, proponevo riforme al sistema di previdenza sociale britannico che miravano a realizzare l’obiettivo di Beveridge di abolire la povertà. All’epoca credevo che il suo Piano di assicurazione sociale, portato pienamente a compimento, fosse il percorso giusto da seguire. Non è accaduto, e oggi, purtroppo, il problema della povertà rimane – in Inghilterra e in tutta l’Unione Europea.
Quali risposte possiamo dare alla ricerca di riformare il Welfare State europeo oggi?
– La prima priorità è di ri-affermare l’aspirazione a offrire previdenza sociale per tutti;
– Partire da un tetto alla spesa per il Welfare è il modo più sbagliato; abbiamo invece bisogno di partire da obiettivi sociali;
– Il Welfare State deve adattarsi ai radicali cambiamenti del mercato del lavoro e della società;
– Ciò significa ripensare tutto a fondo, e da parte mia propongo un «reddito di partecipazione» e un reddito di base in tutta l’Unione Europea per i bambini.
Sto di nuovo sognando?
Qualche volta, nelle analisi delle notizie economiche ci si limita solamente alla presentazione dei dati senza però formulare ipotesi o tenere conto di specifiche proposte politiche che sarebbero utili per la risoluzione dei problemi che emergono. Lo scorso 24 novembre l’Imps, Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, ha presentato il bilancio preventivo relativo all’anno 2010 i cui numeri e dati venivano spulciati con dovizia da Enrico Marro sul Corriere della Sera in un articolo dal titolo: “I conti della previdenza? Salvati dai precari”. Dall’analisi dei conti della previdenza, oltre che un attivo vertiginosamente in calo da 6,8 miliardi di euro del 2008 ai 2,8 miliardi previsti per il 2010, emergeva chiaramente che l’unica gestione separata dell’Imps in attivo è quella dei lavoratori parasubordinati, cioè di quei lavoratori con contratto a progetto già meno tutelati sotto altri punti di vista. L’attivo della gestione separata dell’Imps relativa ai lavori dipendenti si ridurà dal 3,7 a 2,7 miliardi di euro mentre continueranno a sprofondare nella voragine della passività, anche per il 2010, le gestioni relative agli autonomi: artigiani, commercianti, coltivatori diretti etc. Un buco complessivo di 10 miliardi di euro. L’Imps non è costretta a dichiarare bancarotta soltanto perché 1,6 milioni di lavoratori parasubordinati pagano i contributi senza però percepire pensioni da quel fondo poiché Istituito dal ’95 con la legge Dini e, come si dice in gergo, non ancora “giunto a maturazione”. Tutte le alte voci sono in rosso ed anche la gestione separata dei lavoratori dipendenti, con un attivo vistosamente in calo, presenta dei “buchi neri” fortemente in passivo per i dirigenti d’azienda (ex Impdai) che nel 2010 chiuderà il conto con una passività di 3 miliardi di euro. Una bancarotta, quella dell’Imps, evitata soltanto dal “sacrificio” contributivo dei precari che si sono visti aumentata l’aliquota contributiva al 26 e rotti per cento senza percepire pensioni. Contributi che servono a ripianare i deficit delle altre gestioni e che delinea quello che Marro definisce, a ragione, una sorta di “solidarietà alla rovescia”. E se non si vuole mantenere questa ingiustizia le strade possibili possono essere, secondo Marro, essenzialmente quattro: aumentare le tasse per tutti, aumentare l’imposizione contributiva, tagliare le prestazioni previdenziali o aumentare i limiti dell’età pensionabile. A questo punto però l’articolo finisce e le domande restano. Come risolvere il problema? Quale strada seguire? La prima strada indicata ci sembra però improponibile vista la già elevata pressione fiscale che grava sui cittadini nel nostro Paese e anche la seconda, quella di aumentare l’aliquota contributiva sui lavoratori, visti i costi del lavoro, tra i più alti in Europa, che ci sono in Italia. E anche di tagliare le prestazioni previdenziali manco a parlarne in un periodo in cui si discute così tanto della necessità di fare riforme degli ammortizzatori sociali per dare più garanzie. Rimane quindi, unica tra le vie indicate nell’articolo, quella dell’aumento dell’età pensionabile. Al giornalista sarà sfuggito che su questo argomento esiste anche la nuova proposta di legge che porta le firme del Professor Pietro Ichino e del Professor Giuliano Cazzolla che è in corso di sperimentazione da parte dell’Imps e cui ha preso parte, nella stesura, anche Marco Pannella. Una proposta di legge che ha messo insieme, su un progetto di riforma radicale, due massimi esperti della materia del PD e del PdL. Si tratta di applicare un’idea semplice: posticipare il pensionamento dei lavoratori su base volontaria. Depositata sia alla Camera e sia al Senato lo scorso mese di agosto, il nuovo regime delineato dalla proposta di legge bilancia adeguatamente gli interessi di tutte le parti in causa e configurando un risparmio pubblico per le casse dell’Imps. Il lavoratore che, volontariamente, intende posticipare il pensionamento potrà, proseguendo nell’attività lavorativa, godere di un trattamento economico superiore a quello che percepirebbe se andasse subito in pensione. Il datore di lavoro potrà continuare ad avvalersi delle maestranze di lavoratori con un elevato livello di esperienza a costi più contenuti in virtù della diminuzione dei contributi. Per l’Imps, inoltre, il rinvio del trattamento pensionistico si risolve in un risparmio netto sul piano economico. La notizia, riportata nella relazione di tesoreria di Michele De Lucia presentata lo scorso 12 novembre al congresso di radicali italiani a Chianciano, è che la la simulazione effettuata dall’Imps sugli effetti che la l’applicazione della proposta di legge avrebbe sui conti pubblici dice che si potrebbero risparmiare fino a due miliardi di euro all’anno che, in cinque anni, consentirebbero di ripianare il buco di dieci miliardi di euro della gestione dei lavoratori autonomi. Davvero un’idea semplice ma al contempo rivoluzionaria che, mentre l’Europa continua a chiederci di aumentare l’età di pensionamento delle donne e con i conti dell’Imps, forse non sarebbe male, quantomeno, prendere considerazione.