“False partenze” è il titolo del nuovo rapporto (2014) della Caritas italiana su povertà ed esclusione sociale; è stato scelto perché, è spiegato in premessa, il precedente rapporto era intitolato “I ripartenti”, ma poiché la ripresa dalla crisi non c’è stata, anzi, il titolo “false partenze” è quello che meglio esplicita la situazione, drammatica, del Paese.
Raddoppiati in un lustro i poveri. Quattro milioni e 800 mila (8% circa della popolazione) nel 2012 contro i due milioni e 400mila (4,1%) nel 2007. E anche la “povertà assoluta” è aumentata. Per l’organismo della Cei, l’incremento degli indigenti totali presenta segnali ancor più allarmanti se analizzato a livello territoriale: se al Nord i poveri assoluti passano dal 3,3% al 6,4% del totale e al Centro fra il 2,8% e il 5,7%, al Sud il dramma raggiungeva il 6% nel 2007 arrivando all’11,3% nel 2012.
Ha stramaledettamente ragione, quindi, il direttore del Garantista Piero Sansonetti a scrivere, nel suo editoriale di sabato 12 luglio, che i dati della Caritas rappresentano una “frustata in faccia” alla politica e alla classe dirigente di questo Paese e che la sua abolizione sarebbe la vera riforma.
Vivere sotto la soglia di povertà assoluta significa non avere livelli nutrizionali adeguati, non riuscire a vivere in un’abitazione dotata di acqua calda ed energia, non potersi vestire decentemente, ma anche non potersi ageguatamente curare.
La Caritas ha spiegato che, chi si trova in tale condizione, non può sostenere le spese minime necessarie per beni e servizi essenziali e quindi non ha uno standard di vita accettabile.
C’è quindi il rischio concreto che questa povertà dilaghi in miseria. Quando la crisi è a uno stadio così avanzato e quando abbiamo 4 milioni e 800mila poveri e quando l’11% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, è evidente che la riforma delle riforme, la priorità assoluta, dovrebbe essere proprio quella di abolire la miseria di così larghe fasce di popolazione.
Papa Francesco, durante il messaggio per la Quaresima aveva ricordato che «la miseria non coincide con la povertà» perché, ha detto, «la miseria è la povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza».
Il Pontefice evidenziava tre tipi di miseria: materiale, morale e spirituale.
La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana. E’ la miseria che oggi maggiormente dilaga. Poi c’è quella morale che «consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato». Molte persone, ha aggiunto, sono costrette a queste miserie da condizioni sociali ingiuste, dalla «mancanza di lavoro che le priva della dignità che dà il portare il pane a casa».
Anzi « in questi casi — scrive il Pontefice — la miseria morale può ben chiamarsi suicidio incipiente».
Ma ha ricordato che proprio questa miseria morale diventa «causa di rovina economica».
Detta differenza tra povertà e miseria veniva resa evidente nel volume Abolire la miseria (scritto nel 1942, pubblicato nel 1946), nelle cui pagine Ernesto Rossi scriveva che la cosa più intollerabile dei “regimi individiulistici” è
“La miseria di larghi strati di popolazione, in stridente contrasto con l’opulenza di pochi privilegiati, lo sperpero di tante energie umane e di tante risorse materiali per soddisfare la vanità ed i futili capricci di chi si presenta sul mercato con una maggiore capacità di acquisto, il parassitismo di chi vive senza lavorare”.
Per Ernesto Rossi, infatti, “La pecca maggiore dei regimi individualistici, quali si sono storicamente realizzati finora è, …, la miseria degli ultimi strati della popolazione. La condizione delle classi povere, anche nei paesi più progrediti economicamente, è talmente ripugnante alla nostra coscienza morale, ed è così contraria al nostro ideale di civiltà che, se ci trovassimo davanti all’alternativa di accettare tali regimi, così come sono, o di passare a regimi comunistici, in cui la regolamentazione dal centro di tutta la vita economica e il lavoro obbligatorio permettessero una distribuzione egualitaria del reddito sociale, saremmo molto incerti quale preferire, nonostante la nostra ferma convinzione che i regimi comunistici sarebbero necessariamente meno produttivi e potrebbero essere realizzati solo attraverso una tirannide burocratica”.
La povertà sconfina in miseria culturale, in rassegnazione al potente e al potere. Ne discende una società clientelare, un modello individualistico di società in cui ci dimentica l’assenza di sussidi universali. Povertà genera miseria.
E la miseria, ricordava Ernesto Rossi, è una malattia infetttiva.
La povertà, oltre a provocare conseguenze rovinose sul fisico delle persone che ne sono colpite, ha effetti ancora più disastrosi sul loro morale e sull’ambiente in cui vivono.
Fondate sul pragmatismo anglosassone del piano Baveridge, primo sistema di Stato sociale realizzato in Inghilterra e costituito sulla cultura della solidarietà, le proposte contenute nel lavoro di Ernesto Rossi scritte dal confino a Ventotene sono oggi di scottante attualità: in esse si rintracciano e si coniugano concetti di Stato sociale che non riusciamo a realizzare, di mercato del lavoro, di struttura del salario, di dinamica occupazionale e di riorganizzazione della scuola pubblica statale.
Per abolire la miseria, “l’assistenza non dovrebbe diminuire il senso di dignità e di responsabilità delle persone soccorse”.
“La carità privata”, scriveva Rossi, “può servire alle persone religiose per guadagnarsi il paradiso, ma certamente non constitusce un rimedio alla miseria”. E, val la pena ricordarlo, nel progetto per abolire la miseria, “non si deve permettere che i soccorsi vengano sperperati in consumi voluttuari o socialmente riprorevoli, lasciando insoddisfatti i più elementari diritti della vita civile”.
Il concetto centrale, quindi, era garantire a tutti coloro che ne facevano richiesta, beni e servizi alla persona necessari alla vita: lo Stato avrebbe dovuto garantire il cibo, la casa, gli abiti, il mobilio di base. E anche un minimo di salario percepito, però, non come carità, ma ricevuto come diritto, perché ciascuno lo avrebbe acquisito prestando due o tre anni di “servizio del lavoro” obligatorio per tutti, uomini e donne in età giovanile.
Un “esercito del lavoro” per fornire servizi in natura, un sistema di prestazioni gratuite a cui sarebbero stati obbligati tutti i cittadini per una frazione della loro vita.
Quando di materie prime, invece, ce ne sono e quando di persone da impiegare ce ne sono tante, rilanciare la crescita per abolire la miseria non soltanto non è impossibile, ma dovrebbe divenire la priorità per tutti la priorità.
Altro ché la riforma del Senato per trasformarlo in un carrozone di nominati.
Quel volume, abolire la miseria, rappresenta un’analisi attuale e una proposta ancora valida; parla di istruzione pubblica, parla di servizio civile e parla di reddito di sussitenza dato non a sussidio caritatevole o mantenendo aziende improduttive, ma chiedendo ai giovani, in cambio, il lavoro per progetti socialmente utili.
In pratica, i giovani terminata la loro preparazione scolastica sarebbero stati obbligati, anziché alla leva militariasta, a prestare il loro servizio in questo esercito del lavoro che, quindi, diventava anche un modo di formare i giovani alla realtà lavorativa.
E il tutto doveva essere affiancato da una scuola a tutti accessibile (all’epoca ancora non lo era ancora) ma riformata e riorganizzata nel duplice aspetto di formazione della forza lavoro e di solidarietà sociale. Gli esami, sosteneva Rossi, non si sarebbero dovuti fare all’uscita, ma all’ingresso di ogni ciclo scolastico per accertare che il candidato avesse competenze e conoscenze per trarre profitto da quel ciclo di insegnamento scelto. E, abolendo il titolo di studio, per Rossi, si sarebbe elminato l’annoso e ancora attuale equivoco per cui i giovani, molto spesso, vanno a scuola non per imparare ma per prendere il diploma, un pezzo di carta.
Altro che riforma del Sentato, altro che riforma elettorale. Bisogna ridare la speranza. Credo che se per il Paese e, in particolare, per il Mezzogiorno non si avrà il coraggio di intervenire subito il rischio è che la povertà fotografata dalla Caritas dilaghi, come già accade in Calabria da qualche lustro, in miseria culturale, trasformandosi per l’intero Paese in mancanza di una prospettiva di riscatto sociale, in quella miseria morale che, come dice Papa Francesco, non lascia spazio alla speranza.