di Giuseppe Candido
Le considerazioni finali del governatore Mario Draghi illustrate nell’importante relazione presentata all’Assemblea annuale della Banca d’Italia hanno provocato il plauso unanime non soltanto dei partiti ma anche dei sindacati. Eppure sono proprio quei partiti e quei sindacati, che da anni si mostrano restii a fare le necessarie riforme strutturali quali l’abolizione di enti inutili e l’innalzamento dell’età pensionabile, ad essere i principali imputati della grave situazione in cui oggi versa il nostro Paese e che gli italiani dovranno pagare con i loro sacrifici.
Se è vero che “la radice della crisi che investe il mondo da quasi tre anni sta in carenze regolamentari e di vigilanza nelle piazze finanziarie più importanti” e che in Europa “negli ultimi mesi le conseguenze della crisi hanno messo alla prova la coesione dell’area” dove, “L’imponente creazione di debito pubblico, in una fase in cui arrivano a scadenza sui mercati quantità straordinarie di obbligazioni bancarie, ha improvvisamente accresciuto il premio di rischio su alcuni debitori sovrani”, è anche vero, però, che proprio l’Italia è quel Paese in cui, stando alle parole della relazione, solo nel biennio 2008-2009, “il Pil è sceso di 6 punti e mezzo”, “il reddito reale delle famiglie si è ridotto del 3,4 %” e “le esportazioni sono cadute del 22%”. Draghi ci dipinge un’Italia in cui l’occupazione, nel 2009, è diminuita dell’1,4% e in cui i fallimenti di imprese, soprattutto di piccole imprese, sono stati 9.400. E se poteva ritenersi, fino a qualche mese fa, che l’Italia “sarebbe tornata a crescere ai pur modesti ritmi registrati nel decennio precedente la crisi” oggi, ha sottolineato il governatore Draghi, “l’esplodere della crisi greca potrebbe cambiare il quadro di riferimento”. E anche se la manovra finanziaria del Governo Italiano determinerà, entro il 2012, una “riduzione del disavanzo tendenziale pari a 24,9 miliardi” mediante la riduzione delle principali voci della spesa corrente che, negli ultimi dieci anni, era invece cresciuta, secondo il governatore Draghi, la correzione dei conti pubblici va accompagnata col rilancio della crescita e con le riforme strutturali che “la crisi rende più urgenti”. Ed è proprio in questi passaggi che si leggono, nelle parole del governatore, le vere cause della nostra situazione: “la caduta del prodotto accresce l’onere per il finanziamento dell’amministrazione pubblica, i costi della corruzione divengono ancora più insopportabili, la stagnazione distrugge capitale umano soprattutto tra i giovani”. Quando si parla di “Ripensare il perimetro e l’articolazione delle amministrazioni, per razionalizzare l’allocazione delle risorse, riducendo sprechi tra enti e livelli di governo” forse Draghi intende proprio quell’abolizione di province, comunità montane, consorzi di bonifica, che servono solo a garantire poltrone. Se si vuole diminuire i costi della politica, piuttosto che le indennità, perché non si decide di mettere fine a quella vera e propria ruberia legalizzata che sono i rimborsi elettorali che, sganciati da spese effettivamente dimostrate, hanno sostituito e rimpinguato il finanziamento pubblico dei partiti abolito dagli italiani col referendum del 93?
E affermare che l’evasione dell’Iva è pari al 16% del totale e comporta un mancato gettito di 30 miliardi di euro ogni anno – pari a due punti di Pil – significa denunciare chiaramente il fardello dell’economia sommersa, che è il conto salatissimo che l’Italia non può più pagare. Dagli scontrini non battuti per un caffè alle parcelle dei medici specialistici che ti ricevono nel loro studio lussuoso ma che non ti fanno la ricevuta, passando per il lavoro nero. D’altronde, se i controlli sono scarsi e le aliquote elevate, evadere conviene. Ma è proprio l’evasione fiscale che Draghi denuncia come “freno alla crescita perché richiede tasse più elevate a chi le paga, riduce le risorse per le politiche sociali, ostacola interventi a favore dei cittadini con redditi modesti”. Solo recuperando la metà dell’Iva evasa si sarebbero potuti recuperare in due anni trenta miliardi di euro anziché i 24 di lacrime e sangue che dovranno pagare i cittadini con l’aumento delle tasse locali e con il blocco degli stipendi statali che per alcune categorie sono già al di sotto della media europea. Se le tasse le pagano tutti, le pagheremo tutti meno. Un concetto semplice ma che, ahi me, è difficile da far applicare. Questo, invece, è il Paese dove ai docenti precari si tagliano le cattedre, si bloccano gli aumenti di stipendi mentre ai furbi e ai furbetti, a coloro che hanno accumulato per anni capitali all’estero senza pagare le tasse, gli viene dato lo scudo di protezione, la possibilità di far rientrare i capitali pagando solo il 5%. Ma se nel discorso sull’evasione la politica è implicata soltanto indirettamente, tranne qualche politico evasore che staticamente pur certo lo si troverà, il vero passaggio “anti partitocratico” di Draghi lo si legge quando il governatore ha parlato della corruzione: è su questo che la platea di politici ha fatto orecchi da mercante. Le “relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, in alcuni casi favorite dalla criminalità organizzata, sono diffuse”. Nel Mezzogiorno – aveva detto in passato Draghi – queste “relazioni” diventano “pervasive”. “La corruzione frena lo sviluppo economico”. Probabile che per uscirne bisognerà dargli retta e dare retta anche a Pannella che da anni parla dello spaventoso debito pubblico italiano e oggi afferma che “La vera sfida, per l’Italia”, quella che bisogna affrontare con urgenza, sta nel “liberarsi dal regime partitocratico” prima che la povertà diventi anche miseria.