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Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

L’utopia accende una stella nel cielo della dignità umana, ma ci costringe a navigare in un mare senza porti

 

Care amiche e amici di Abolire la miseria della Calabria,

è con immensa soddisfazione che annunciamo l’uscita del volume

Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

Francesco Barbieri, l'anarchico di Briatico
Link in libreria

(Non Mollare edizioni, Agosto 2011, euro 10,00 (3,50 solo pdf), Pp 117, ISBN 9788890504013).

“Una vita rivoluzionaria. Un combattente per la libertà, la democrazia e la giustizia” sono le parole scelte per caratterizzare la prima pagina rigorosamente nera con scritte rosse per tre quarti e rossa con scritta bianca nella parte alta dove si leggono i nomi dei tre autori: Giuseppe Candido, Filippo Curtosi e Francesco Santopolo. Un lavoro a “sei mani e tre teste” che ha portato, dopo adeguate ricerche, ad un’analitica ricostruzione delle vicende storiche che coinvolsero l’anarchico calabrese antifascista e libertario, Francesco Barbieri.

Se è vero che la memoria collettiva è alla base dell’identità di un popolo, è altrettanto vero che un evento, per essere ricordato, necessita di un percorso di ricostruzione che permetta di segnare le linee di demarcazione tra ciò che vale la pena ricordare e ciò che può essere rimosso e consegnato all’oblio.

La società mediatica limita il tempo della memoria: gli eventi si accavallano con tempestività e tendono ad acquistare un’apparente neutralità che ne banalizza il significato e li priva di contenuto storico. Non è stato così per i subalterni la cui rimozione è stato un esercizio costante che il potere ha esercitato da sempre.

Così è stato per l’antifascista calabrese Francesco Barbieri (Briatico, 14 dicembre 1895- Barcellona 5 maggio 1937) detto “Cicciu u’ professuri”, schedato come “sovversivo anarchico” e, per questo, da rimuovere e cancellare e con lui il grande contributo che “i dannati della terra” (F. Fanon, 1961) hanno dato per la costruzione di una società a misura d’uomo”.

È con queste parole che si presenta ai lettori il saggio storico su Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico. Nell’ambito del progetto di valorizzazione del patrimonio storico e culturale calabrese, l’associazione di volontariato culturale Non Mollare, con la pubblicazione del volume su Francesco Barbieri, intende continuare a promuovere la conoscenza dei calabresi meno noti o, qualche volta, perlopiù ignoti ma che alla Storia hanno dato un loro personale contributo.

Nato in Calabria a San Costantino di Briatico, la storia di Francesco Barbieri, combattente antifascista, conosciuto col nomignolo di “Cicciu u’ professuri”, ha percorso i primi quarant’anni del ‘900. Partito da S. Costantino di Briatico a 26 anni, vi tornerà casualmente dopo l’estradizione dall’Argentina per riprendere subito il suo viaggio per il mondo, legando le sue vicende a quelle di grandi intellettuali come Camillo Berneri e Carlo Rosselli. Per Francesco Barbieri, l’Internazionalismo Proletario è stata una ragione di vita, fino all’estremo sacrificio consumato davanti alla canna di un mitra imbracciato da quelli che riteneva fossero della stessa parte.

Per sopravvivere, avrebbe dovuto scegliere: tra diventare ‘ndranghetista” o sbirro; Barbieri non sceglie né l’uno né l’altro: diventa libertario, socialista rivoluzionario, radicale e anarchico, con una pronta e decisa avversione al fascismo.

Un rivoluzionario libertario, assassinato da quelli che erano con lui a Barcellona per difendere la giovane repubblica, è l’evento più tragico che si consegna alla storia.

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Siamo tutti liberali?

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 16 novembre 20110

Sinistra e Libertà, il Popolo della Libertà, Futuro e Libertà. Poi ci sono anche le fondazioni come Libertiamo e i giornali come Liberamente e Liberal. L’attualità delle riflessioni sul concetto di liberalismo ci mostrano – come scrive la rivista Critica Liberale – “Un fervore intellettuale neppure immaginabile sino a qualche tempo addietro. Oggi, tutti (o quasi) si dicono liberali e come tali tutti (o quasi) si mostrano solleciti per le sorti della libertà”. Poiché c’è però davvero il rischio che, nel “siamo tutti liberali”, proprio un concetto cardine della democrazia come quello di liberalismo rimanga indefinito sembra opportuno ricordare qualche definizione per ridurre la possibilità di equivoci.

Carlo Rosselli, ne Socialismo liberale, molto di più di un’utopia ci suggerisce l’idea di Libertà come supremo fine scrivendo che “Il liberalismo può definirsi come quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza”. E spiega: “Non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà”.

Ma se per Rosselli la libertà è un fine per Piero Gobetti, giornalista, politico antifascista e promotore della rivista culturale Energie Nuove, la libertà diventa anche metodo. “Il metodo del liberalismo, lo si consideri nella sua sostanza economica o etica o costituzionale, consiste nel riconoscimento della necessità della lotta politica per la vita della società moderna. L’importanza di un’opposizione per l’opera del governo, la tutela delle minoranze, lo studio dei congegni più raffinati per le elezioni e per l’amministrazione pubblica, le conquiste costituzionali, frutto di rivoluzioni secolari sono il patrimonio comune della maturità politica e devono intendersi come problemi di costume politico propri dei liberali, come dei loro eredi o avversari che non siano ingenuamente teneri per gli anacronismi o per le esercitazioni oratorie di filosofia politica”. Già nel 1923 sulla rivista La Rivoluzione liberale, Gobetti sottolineava un particolare discriminante: “Se concediamo ai conservatori di chiamarsi liberali non sapremmo più che cosa obbiettare ai nuovissimi tiranni che parlano, per demoniache tentazioni di dialettici fantasmi, della libertà vera come libertà contenuta nei limiti della legge (mentre nel caso specifico ci accontenteremo di ricordare maliziosamente al Gentile che raramente i filosofi seppero sottrarsi al fascino dell’autorità per le stesse ragioni per cui le donnicciuole più espansive venerano il bastone)”. E ancora: “Il nostro liberalismo, che chiamammo rivoluzionario per evitare ogni equivoco, s’inspira a una inesorabile passione libertaria, vede nella realtà un contrasto di forze, capace di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione, intende l’equilibrio degli ordinamenti politici in funzione delle autonomie economiche, accetta la costituzione solo come una garanzia da ricreare e da rinnovare. Lo Stato è l’equilibrio in cui ogni giorno si compongono questi liberi contrasti: il compito della classe politica consiste nel tradurre le esigenze e gli istinti in armonie storiche e giuridiche. Lo Stato non è se non è la lotta”. L’animo liberale ha in se dunque il germe stesso della laicità e dalla libertà di religione costruisce nella sua quotidiana lotta una religione della libertà.

“La dottrina dello Stato liberale” – ci dice ancora Norberto Bobbio nel volume Dalla libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, ora pubblicato da Einaudi – “si presenta al suo sorgere come la difesa dello Stato limitato contro lo Stato assoluto. Per Stato assoluto si intende lo Stato in cui il sovrano è legibus solutus e il cui potere è quindi senza limiti, arbitrario. Lo Stato limitato è per contro lo Stato in cui il supremo potere è limitato sia dalla legge divina e naturale (i c.d. diritti naturali inalienabili e inviolabili), sia dalle leggi civili attraverso la costituzione pattuita (fondamento contrattualistico del potere). ” Per maggiore chiarezza Bobbio distingue “due forme di limitazione del potere: una limitazione materiale, che consiste nel sottrarre agli imperativi positivi e negativi del sovrano una sfera di comportamenti che sono riconosciuti per natura liberi (la c.d. sfera di liceità); e una limitazione formale che consiste nel porre tutti gli organi di potere statale al di sotto delle leggi generali dello Stato medesimo”. Non può perciò definirsi liberale colui che spera soltanto lontanamente di evadere queste limitazioni. Perché, aggiunge Bobbio, “La prima limitazione è fondata sul principio della garanzia dei diritti individuali da parte dei poteri pubblici: la seconda sul controllo dei pubblici poteri da parte degli individui. Garanzia di diritti e controllo dei poteri sono i due tratti caratteristici dello Stato liberale”.

C’è da chiedersi, volendo rispettare queste definizioni, quanti possano davvero dirsi, nei fatti, liberali.

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L’attualità del socialismo liberale di Carlo Rosselli


Attualità del socialismo liberale di Carlo Rosselli
Copertina de "L'attualità del socialismo liberale di Carlo Rosselli"

L’attualità del socialismo liberale di Carlo Rosselli”, Piero Lacaita Editore, 2006. (pag. 219) € 15,00

Autore: Luigi Rocca

PREFAZIONE di Antonio Landolfi

Gli antecedenti storici del “liberalsocialismo”, o “socialismo liberale” che dir si voglia (ai nostri tempi considerati pressoché sinonimi, anche se sul piano teorico sono state riscontrate divergenze tra le due espressioni) si fanno risalire all’incirca alla seconda metà dell’Ottocento, ed alla figura ed all’opera del pensatore inglese John Stuart Mill.

Fu infatti questi ad operare la più incisiva analisi critica del limite costituito dal liberalismo tradizionale, muovendosi però sempre da una posizione coerentemente liberale. Una posizione puramente conservatrice rischiava infatti, a suo giudizio, di annullare la coerenza con i suoi stessi presupposti.

Per Stuart Mill la sfera dei diritti di libertà realizzata grazie al pensiero ed all’azione politica liberale non poteva considerarsi completa e soddisfacente, se non si ampliava a quei diritti politici, elettorali, civili e sociali rispondenti alle esigenze di ceti e di realtà che non venivano rappresentate e realizzate dalla classe dirigente. Il liberalismo, per lui, non avrebbe dispiegato mai pienamente i suoi effetti se non accogliendo in sé queste istanze che una posizione conservatrice tendeva a negare, ed in parte consistente rappresentate dalle istanze socialiste che si andavano affermando: la richiesta di ampliamento del diritto di voto, il riconoscimento dei diritti di uguaglianza dei sessi, la libertà di associazione, un’equa distribuzione della ricchezza prodotta, ivi compresa la proposta di un’economia solidaristica, cooperativa e partecipativa aperta ai lavoratori, un’istruzione diffusa rivolta all’emancipazione delle classi più deboli.

A questo proposito, Stuart Mill non fece mancare il proprio impegno politico, con la creazione insieme a Giuseppe Garibaldi – socialista deluso dall’esperienza della Prima Internazionale di Marx – della Lega per la libertà, la pace e gli Stati uniti di Europa, che raccolse intellettuali e politici liberali e socialisti di ogni parte di Europa.

Con il trascorrere del tempo il pensiero liberalsocialista andò accompagnandosi alla verifica revisionista del marxismo, soprattutto nell’epoca a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Nella quale si può già marcare una differenza tra pensiero socialista liberale e pensiero liberalsocialista. Il primo è connotato dalla radice originaria socialista, o addirittura marxista, da cui si muove la revisione ideologica che conduce ad accogliere nell’ambito del pensiero originario le istanze profonde del liberalismo, amalgamandole con l’iniziale impianto concettuale di natura socialista. Per il secondo, sull’impianto originario liberale s’inseriscono istanze di carattere socialista. La differenza semantica marca cioè una diversità di percorso nell’elaborazione concettuale. Ma il risultato è pressoché identico.

Un ruolo decisivo per lo sviluppo del liberalsocialismo fu quello svolto dai fabiani, che per primi avvertivano il rischio di un collettivismo statalistico, e proponevano, per eliminarlo, che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione fosse gestita da cooperative di produttori agricoli, mentre i servizi dovevano andare in gestione ai municipi. I fabiani programmarono anche interessanti forme di democrazia industriale, che anticipavano quelle che in tempi successivi divennero i progetti di autogestione e di partecipazione dei lavoratori alla direzione ed alla proprietà delle imprese. Quel che però restava prioritario nel loro pensiero era la concezione che la responsabilità sociale delle istituzioni risultava indispensabile per riequilibrare le disuguaglianze sociali, e per realizzare un’equa distribuzione della ricchezza, con un sistema globale di sicurezza sociale.

La cultura Fabiana rappresentò in tal modo la premessa per la costituzione del sistema dello Stato sociale, come prodotto dell’incontro storico tra pensiero socialista riformista e la scuola del liberalismo sociale, mostrando soprattutto la compatibilità dell’economia di mercato con la scelta dell’utilitarismo marginalista propugnata da Jevons, e la progettazione di un sistema sociale avanzato ed organico, nel quale le istituzioni democratiche, dalle autorità pubbliche centrali a quelle periferiche, erano chiamate a svolgere un ruolo essenziale.

I fabiani contrapposero all’utopismo rivoluzionario marxista l’utopia di una rivoluzione “by Act of Parliament”.

L’esperienza fabiana creò quel clima di vigoroso revisionismo di cui si nutrì la vigorosa opera teorica e politica di Eduard Bernstein, il quale, nel corso del suo esilio in Gran Bretagna, aveva frequentato intimamente il vecchio Engels, che già si era orientato a riconoscere l’importanza delle istituzioni democratiche liberali, ed aveva avuto modo di frequentare i circoli fabiani ed approfondire il lavoro teorico che in essi veniva svolto. Bernstein, divenuto anche l’erede della proprietà letteraria di Marx ed Engels, sviluppò l’iniziativa revisionistica in senso socialista liberale, e si adoperò per diffonderla negli ambienti della socialdemocrazia tedesca, che era considerata a ragione la più autorevole tra le forze socialiste nel mondo. Già nel 1899 karl kautsky, riconosciuto come la guida teorica della Spd, aveva intuito che “nel socialismo democratico esistevano due indirizzi che si differenziavano per il metodo nella ricerca teorica, ma a volte anche nella tattica della pratica”. Due anni dopo, il praghese Tomas Masarik, che può essere annoverato a buon diritto tra gli antesignani del liberalsocialismo, e che sarà assassinato dai comunisti cechi nel 1947 quando era a capo della Repubblica Cecoslovacca, annunciata senza remore la crisi del marxismo.

Per Bernstein non apparve sufficiente la distinzione che ormai da più parti si avanzava nelle file del socialismo internazionale tra gradualismo riformistico e rivoluzionarismo utopistico e volontaristico. Egli vide anche il pericolo che tale distinzione alla lunga avrebbe nuociuto al socialismo riformistico, perché lo avrebbe relegato in una posizione sterile, meccanicistica ed iperrealistica, sostanzialmente trasformistica: priva di ogni spiritualità, ed incapace di astrazione. E questo avrebbe favorito quelle posizioni giacobine, rivoluzionaristiche, che assumevano impostazioni utopistiche ed addirittura messianiche, critiche di un riformismo “senz’anima”ed in grado di affascinare le masse, sia pure ingannandole.

Perciò Bernstein operò un salto di qualità di eccezionale importanza. Egli partì, certo, dalla presa di coscienza della crisi del marxismo, di cui dimostrò l’inadeguatezza dell’analisi economica e sociale. Ma andò ben oltre. Pose le premesse per superare la teoria della lotta di classe, come quella dell’inevitabilità della guerra, per auspicare l’evoluzione della socialdemocrazia da partito di classe a partito di popolo, e per assumere le posizioni ispirate all’etica kantiana della giustizia come “imperativo categorico dello spirito umano”, e dell’universalità della pace.

In tal modo Bernstein offriva alla socialdemocrazia l’occasione per recuperare quelle motivazioni spirituali ed utopistiche che la dogmatica del materialismo dialettico e del materialismo storico avevano finito per inaridire. Una posizione, la sua, che lo condusse ad assumere una posizione critica nei confronti della Spd, tanto sul piano della politica economica e sociale, in quanto rifiutava il concetto di “pace sociale”che a suo giudizio indeboliva il concetto di “giustizia sociale”ed appariva un’acquiescenza al bisogno di ordine dell’autoritarismo prussiano, quanto sul piano internazionale, perché in coerenza con l’etica kantiana egli assunse nel 1914 una posizione pacifista ad oltranza, che lo portò a votare contro la guerra in Parlamento. Il marxismo limitò per un decennio l’influenza del pensiero di Bernstein sul movimento socialista, che intanto subiva le scissioni e la lotta che contro di esso conducevano i leninisti che si erano raccolti nell’Internazionale comunista.

Alla fine degli anni Venti, la crisi economica internazionale rilanciava il tema della giustizia sociale e della necessità di interventi correttivi del capitalismo; l’espansione dell’area del totalitarismo dall’Italia alla Germania, oltre che all’Unione Sovietica, costringeva il movimento socialista a prendere consapevolezza della fondamentale esigenza di difesa della libertà e delle istituzioni democratiche; infine, l’approssimarsi degli eventi bellici, nella seconda metà degli anni Trenta, riportò in primo piano le ragioni del pacifismo, come opposizione alla guerra ed al totalitarismo, cancellando brutalmente le illusioni della Pace di Versailles.

Tutte queste condizioni offrirono un terreno per l’espansione dell’influenza del pensiero bernsteniano nei partiti dell’Internazionale operaia socialista, la cui maggioranza si orientò in senso favorevole al revisionismo bernsteniano, che offriva tra l’altro motivazioni più incisive da contrapporre alle accuse deliranti di “socialfascismo”e di tradimento, portate contro la socialdemocrazia dal Comintern.

Soprattutto il diffondersi nell’area socialista – specie nel Nord dell’Europa ed in Gran Bretagna – delle idee di Bernstein di tolleranza, di giustizia sociale, di difesa della libertà, di superamento del materialismo filosofico e storico del marxismo, rappresentò un’apertura sempre più ampia a quelle correnti di pensiero liberale non conservatore, che pur non provenendo dall’esperienza socialista, trovavano punti di contatto sempre più intensi con questa nuova fisionomia che la socialdemocrazia andava assumendo, grazie alla metabolizzazione delle idee di Bernstein.

In questo clima rinnovato, in molti paesi correnti e personalità liberali progressiste (come correnti cristiane ed anche cattoliche avanzate) si avvicinarono o confluirono nei partiti socialdemocratici, creando in esse una sintesi felice tra socialismo e liberalismo. Ed operarono insieme per la costruzione di quelle fondamenta dello Stato sociale, che andrà a compimento subito dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale. Emblematica resterà la figura di Lord Beveridge, come quella di Bertrand Russell, o anche dello stesso Karl Popper, che non fecero mai mistero della loro scelta politica, pur ovviamente non essendo uomini di partito, né intellettuali di “accompagnamento”, ma offrendo un contributo essenziale allo sviluppo delle idee liberali e socialiste. Oppure, negli Usa, degli intellettuali impegnati nel new deal, roosveltiano, che sostanzialmente rappresentò la versione statunitense della congiunzione tra socialismo e liberalismo.

La positività dell’intervento pubblico nell’economia per correggere gli effetti negativi degli eccessi di liberismo messi in evidenza nella crisi economica cominciata nel 1929, fu dimostrata dal new deal e dalle proposte dell’economia keynesiana, del tutto compatibile con l’economia di mercato. Si trattava, almeno per quel periodo, di proposte molto più positive rispetto alle politiche iperliberistiche che erano state praticate con effetti disastrosi. I sistemi di “economia mista”che andavano nascendo un po’dappertutto costituivano il punto d’incontro tra le due forme di politica economica, per lungo tempo considerate antitetiche.

In questo quadro emerge una componente nuova, che più propriamente si avvicina anche semanticamente al concetto di “liberalsocialismo”, in quanto è promossa da personalità che provengono dal mondo liberale e non da quello socialista, e che quindi non sono state partecipi di quel moto revisionistico interno alla cultura del socialismo, che aveva trovato il suo massimo epigono in Bernstein.

Tra queste personalità spicca quella di Carlo Rosselli, che nella sua opera, Socialismo liberale, traccia le linee di fondo di una scelta decisiva tra il socialismo materialistico e deterministico (in cui includeva forse ingiustamente lo stesso riformismo italiano) foriero di tentazioni statalistiche ed autoritarie, responsabile della crisi della democrazia in Italia ed in altre Nazioni europee, ed un socialismo impregnato di etica kantiana, aperto ad una visione anche spirituale della lotta politica e quindi escatologico, con finalità rivolte al perseguimento della giustizia in ogni campo della vita della comunità, e con la libertà ritenuta inscindibile dalla giustizia. Un socialismo che accetta il libero mercato come fattore di sviluppo, ma che vede nello strumento dell’intervento pubblico un fattore di crescita e di lotta alle disuguaglianze sociali (Rosselli era stato uno dei primi convinti sostenitori delle idee di Keynes) e sostenitore di un’organizzazione dello Stato fortemente fondato sulle autonomie locali (un’idea ereditata dal socialismo fabiano).

Carlo Rosselli diede vita al movimento di Giustizia e Libertà in piena autonomia rispetto al movimento socialista italiano ed internazionale, anche perché le sue idee furono accolte in modo a dir poco ingeneroso (soprattutto per incomprensione) da molti. Con il suo pensiero e con la sua azione, conclusasi con la spietata esecuzione insieme con il fratello Nello da parte dei “cagilarsds”francesi su mandato del governo fascista, Carlo Rosselli si staglia come uno dei grandi protagonisti della sinistra italiana ed europea del secolo ventesimo.

Con lui nasce quel “socialismo liberale”che può essere considerato come la “rivoluzione antieconomicistica”del socialismo, cioè una riscoperta delle sue radici culturali ed etiche appannate dal materialismo deterministico. Un’autentica “riforma protestante”liberatrice dal dogmatismo marxista, imperante sia nella tragica versione leninista e poi stalinista, sia dall’interpretazione della stessa socialdemocrazia tradizionale, che era ormai anch’essa tutta da rinnovare dopo la crisi della prima guerra mondiale.

Rosselli fu accusato di volontarismo per la sua duplice contrapposizione sia al tatticismo del “tanto peggio, tanto meglio”che portava i partiti del komintern ad una neutralità che era un sostanziale favoreggiamento del nazifascismo; ed allo stucchevole pacifismo nei confronti del pericolo hitleriano e mussoliniano dell’Internazionale Operaia e Socialista, che obbligava le democrazie al disarmo imbelle nei confronti della minaccia della guerra, concretizzatasi con il conflitto in Spagna. Macchiato o meno di volontarismo, l’intervento antifascista nella penisola iberica fu un successo della filosofia politica di Rosselli, anche se si concluse con una sconfitta repubblicana. E l’autore di “Socialismo liberale”smentì sul piano della lotta ad oltranza per la libertà la vulgata secondo la quale il tipo di azione per la giustizia e per la libertà da lui propugnato fosse una progressiva capitolazione agli interessi della borghesia capitalistica e reazionaria. Come sostenevano i rivoluzionari ed estremisti, od anche qualche riformista. La stoffa di cui erano fatti i Rosselli era dello stesso tessuto ideale di quella di Giacomo Matteotti, o un Piero Gobetti. Con il loro sacrificio mostrarono che non si può essere autentici socialisti se l’impegno per la giustizia sociale non si accompagna ad un’intransigente difesa della libertà, anche con l’uso, quando inevitabile, delle armi, e con lo sprezzo della morte. Ed è da loro dunque che proviene l’insegnamento per cui non si può essere socialisti se non si è liberali, e non si può essere liberali se non si è anche socialisti.

E’ sia sul piano teorico e pratico insieme che Rosselli pone con forza il tema della sintesi del socialismo e del liberalismo: una sintesi che si rintraccia con evidenza nell’esperienza del Risorgimento, nel corso del quale le correnti democratiche, laiche, liberali e socialiste si ricongiunsero nell’obiettivo comune dell’unità nazionale, così come agli inizi del secolo ventunesimo si ricongiungono nell’unità europea come traguardo federalista. Perché il socialismo altro non è che il compimento alto della rivoluzione liberale.

Tutto il cammino compiuto da Rosselli nella sua elaborazione intellettuale procedette di pari passo con le sue esperienze di lotta politica ed umane. Un cammino che è il tracciato stesso di quel ricongiungimento, già avviato nel secolo diciannovesimo tra i valori del liberalismo classico ed i principi che ispiravano la propaganda e l’azione del movimento socialista: vale a dire quello che già s’iniziava a denominare come liberalsocialismo.

Luigi Rocca coglie perfettamente tutte le ragioni dell’ingresso sulla scena della sinistra italiana ed europea di questa radicale novità rappresentata da un movimento destinato a mutare la fisionomia del socialismo ed insieme ad offrire un futuro ad un liberalismo ormai anchilosato dalle sue sopravvivenze conservatrici, quando non addirittura reazionarie.

Dall’opera di Rocca risulta evidente che il socialismo liberale ha radici antiche e che Rosselli, e Calogero, seppero fondere una visione modernizzatrice che proiettano, oggi più che mai, questo movimento verso il futuro. E ciò lungo un arco temporale che va dall’Ottocento all’era della globalizzazione.

Se agli inizi il pensiero liberalsocialista potè apparire antagonistico nei confronti dello stesso pensiero socialdemocratico, oltre che ovviamente nei confronti di quello del socialismo massimalistico e del comunismo (cui lo assimilava esclusivamente un analogo piglio volontaristico) col passare del tempo e con il volgere degli eventi tali differenze andarono attenuandosi, ed oggigiorno appaiono pressoché cancellate.

Un avvicinamento fu dovuto – a ben guardare – già al tempo del primo conflitto mondiale. Lo spirito dell’interventismo democratico che animò Rosselli si avvicinava non soltanto alla tradizione mazziniana e soprattutto garibaldina ben presente nelle origini del socialismo italiano, ma presentò punti di indubbia convergenza con le posizioni assunte dalle socialdemocrazie europee che vincolate come erano ai processi di nazionalizzazione delle masse, finirono per emarginare le pulsioni pacifistiche e le proposte rivoluzionarie non soltanto bolsceviche, ma anche quelle emerse nelle conferenze di Zimmerwald e di Kienthal.

Due fondamentali affinità emersero tra liberalsocialismo e socialismo riformista nei decenni successivi, che diradarono le diffidenze che si registrano alla rilettura dei giudizi critici espressi su il “Socialismo Liberale”all’atto della sua pubblicazione non soltanto da Togliatti (il che era ovvio) anche di riformisti come Saragat.

Queste affinità che divennero decisive riguardavano in primo luogo l’adesione ai valori dello Stato liberale ed alla dimensione universale della democrazia da parte delle socialdemocrazie prima e durante il secondo conflitto mondiale, quando si dimostrò evidente l’imprescindibilità di tali valori nella lotta contro il totalitarismo nazifascista. Essi trovarono successivamente la loro sacralizzazione nel congresso di Francoforte del 1951, in cui si ricostituì l’Internazionale Socialista, nel quale si riaffermarono i principi antitotalitari ed il legame indissolubile tra democrazia e socialismo anche contro il totalitarismo comunista e l’espansionismo imperiale sovietico.

Il secondo grande punto di riferimento è stato (e si è consolidato) il percorso di impegno economico e sociale rappresentato dall’insorgere dello Stato Sociale e del sistema dell’economia mista, ben presente sia nell’opera rosselliana – fortemente ispirata dal pensiero keynesiano – e dalle esperienze dei paesi scandinavi, e che si espansero nell’opera di ricostruzione dell’Europa, a partire dal “piano Beveridge”che segnò la confluenza tra socialismo riformista e liberalismo progressista nella comune risposta sia all’ideologia collettivista della statizzazione dell’economia, sia al liberismo sfrenato ed irresponsabile delle classi dirigenti conservatrici.

Su questi due pilastri si è formato, infatti, quel modello di cultura socialista, che accoglie in sé, in una grande sinergia storica sia il riformismo socialista, sia la corrente liberalsocialista.

Si può dire che oramai socialismo democratico, riformismo socialista, socialismo liberale e liberalsocialismo siano tra di loro sinonimi. Rappresentano in forme verbali diverse sostanzialmente la medesima cosa: la realtà attuale del movimento socialista nella sua vasta gamma, differenziato secondo le varie caratterizzazioni nazionali e continentali. Un movimento vastissimo, su scala globale, allo stesso tempo rappresentativo delle singole società in cui sono sorti, si sono sviluppati i vari partiti che compongono l’Internazionale socialista.

In tal modo, nel loro complesso essi hanno compiuto un passo storico in direzione del passaggio da una rivoluzione liberale, da cui hanno ereditato i valori di libertà per completarli in una rivoluzione sociale che ha di mira l’affermazione dei diritti umani, dell’uguaglianza e dell’emancipazione dei Poli e delle classi più deboli.

Il socialismo, nella fase attuale, è dunque il compimento di un processo di trasformazione liberale della società, che presenta sempre di più segni tangibili di tale trasformazione, sia pure in forme diverse e contraddittorie, pacifiche o altamente drammatiche.

Una trasformazione significativa è quella che riscontriamo nella struttura economica e sociale, specie delle aree storicamente più evolute del mondo. In esse si registra infatti una crescente socializzazione delle risorse, nel senso che dapperttutto la quantità delle risorse che vengono trasferite alla collettività è crescente.

Il riformismo praticato dalle forze socialiste, che appariva minimalistico ed inconsistente a rivoluzionari ed intransigenti, ha alla lunga dato luogo ad un cambiamento epocale. Qualcuno, come Karl Popper, l’aveva definito “riformismo a spizzico”, oppure “riformismo d’accompagnamento”. Che era stato contrapposto ad un “riformismo di struttura”non meglio identificato.

Invece questi “programmi minimi”ma corrispondenti ad esigenze reali della società e dei cittadini hanno finito nel loro complesso per cambiare alle radici i rapporti di vita reale in senso fortemente solidaristico. Hanno socializzato la previdenza; la sanità, i trasporti; l’istruzione. Hanno spostato quote imponenti di risorse dagli individui che le producevano alle istituzioni pubbliche, dal governo centrale agli enti locali chiamati a gestirle.

All’inizio del 900’il volume dei trasferimenti era in media il 4%. Keynes pronosticava nel 1924 che sarebbero saliti al 20%, non di più. Alla fine del secolo essi si aggirano tra il 40 ed il 50%, cioè quasi metà della ricchezza prodotta dai singoli viene affidata alle istituzioni pubbliche per provvedere ai bisogni della comunità. E nonostante ciò i bilanci pubblici sono costantemente in rosso: una trasformazione così radicale è stata determinata dall’azione riformistica, trasformando il volto della società attuale.

L’ineluttabilità di un riformismo socialista liberale transnazionale conferma la piena identificazione che si è realizzata tra l’origine liberale e quella socialdemocratica delle correnti storiche che sono in essa convenute.

L’opera di Luigi Rocca ne offre un’ulteriore prova. A conclusione della sua lettura, potremmo affermare che il dilemma inestricabile che molti in passato hanno voluto rinvenire nel concetto di liberalsocialismo deve considerarsi largamente superato. E che l’ “ircocervo”di cui parlò Benedetto Croce in polemica con Calogero per significare il carattere meticcio del liberalsocialismo è pura fantasia.

Semmai, si dovrebbe parlare dell’incrocio felicemente riuscito tra due purosangue che ha dato vita ad un autentico cavallo di razza.

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QUEI RIVOLTOSI DI “NON MOLLARE”


di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’acqua distillata è il laicismo, il credo socialista liberale. Il cantiere è la continuità Salveminiana”

“Non ci è concessa la libertà di stampa? Ce la prendiamo”. Da ottant’anni, questo giornale e questo monito sono leggenda.

Marco Pannella ha dato un giudizio assolutamente positivo del congresso dello Sdi . Si vuole fare l’Unità socialista che non è riuscita prima. “Sembra che le cose vanno benissimo dice Pannella rispetto ad un offensiva vetero clericale”.

imageLa Rosa nel Pugno vive nello spirito. Pannella ha una storia socialista .

Il segretario dei giovani socialisti, quarta componente della Rosa dice: “Il progetto laico, liberale, radicale e socialista non muore. Vogliamo un cantiere più grosso. Volevamo farlo prima e non ci siamo riusciti, adesso dicono si può fare”. Noi vi applaudiamo continua Pannella. Questa sera è una sera di festa perché c’è un canto nel congresso dello Sdi della laicità come alternativa ad un sistema politico italiano che possiamo definire come una cosa traditrice e bastarda. Ringraziamo Enrico conclude Pannella, perché l’Unità socialista è un percorso non craxiano ma che si richiama a Zapatero, Blair e Loris Fortuna. L’acqua distillata è il laicismo, il credo socialista liberale. Il cantiere è la continuità Salveminiana” . Cosa significa ciò? Per comprendere questo passaggio bisogna andare indietro nel tempo.

Anno 1925: La pattuglia dei “salveminiani” che comprende Ernesto Rossi, i fratelli Rosselli, Carlo e Nello, Traquandi, da vita ad un giornale: “Non Mollare”.

Il titolo del giornale lo trova Nello Rosselli che, racconterà Salvemini, ha la meglio su chi propone “Il Crepuscolo”.

Ernesto Rossi di cui quest’anno si celebrano i 110 anni dalla nascita, studioso di economia e insegnante nelle scuole statali, mutilato dalla grande guerra, si professa subito “liberista”; i fratelli Rosselli, ebrei,di famiglia ricca; Tramandi di professione faceva il ferroviere. Si trattava di distinti borghesi dalle radici culturali “risorgimentali” che avevano partecipato al conflitto della grande guerra del 15-18.

Erano rivoltosi perché si mettevano contro il fascismo che aveva soppresso la libertà di stampa. “Volete che sparisca la stampa clandestina”? era la parola d’ordine che questo giornale fiorentino diffondeva. “Rispettate la libertà di stampa”. “Non ci è concessa la libertà di stampa? Ce la prendiamo”.

Da ottant’anni, questo giornale e questo monito sono leggenda. Qualunque semplificazione sta stretta, anche se, come ogni storia complessa come quella di cui “Non Mollare” si fece strada per 22 numeri clandestinamente (usciva quando poteva).

Ernesto Rossi aveva il compito di far recapitare il foglio clandestino a gente che si chiamava Camillo Berneri, Umberto Zanotti Bianco attraverso il ferroviere Traquandi.

Il bersaglio preferito era Vittorio Emanuele III, colluso con Mussolini.

La tiratura era di trentamila copie. Un giornale irriverente, di forte denuncia che veniva definito “Bollettino d’informazione durante il regimee fascista”. Simbolo autentico di resistenza al fascismo. Ernesto Rossi divenne cosi nemico giurato di Mussolini e dovette riparare in Francia in seguito al tradimento di un tipografo, Gaetano Salvemini venne arrestato a Roma prima di andare in esilio per oltre venti anni. I fascisti volevano ammazzare i fratelli Rosselli ma non li trovarono. Li avrebbero trovati dodici anni dopo.

Il “ Socialismo liberale” di Rosselli.

Scriveva Aldo Garosci nel 1967:

“L’anno 1937 si apriva sullo scenario europeo di una guerra civile che, a cinque mesi dal suo inizio, di giorno in giorno appariva come il dissidio tra due civiltà: la guerra di Spagna. In molti tra gli esuli antifascisti italiani, avevano fatto la loro scelta di campo, e tutto nell’animo e nella volontà di Carlo Rosselli lo disponeva all’intervento in questa guerra”.

Settant’anni fa venivano uccisi in Francia i due fratelli antifascisti, socialisti e liberali da tempo sotto stretta sorveglianza.

“Il maggior pericolo viene da Rosselli e, a mio modo di vedere, è assolutamente necessario sopprimerlo” cosi si esprimeva nel 1934 il capo della polizia politica che viene riportato nel volume di Mimmoo Franzinelli: “Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidi politico”.

Attraverso di esso, scrive lo storico Lucio Villari, l’autore ricostruisce la preparazione in Italia e l’esecuzione per mano francese dell’assassinio dei fratelli Rosselli. Nella prima metà del volume si seguono le trame italiane e le complicità francesi della rete dentro la quale cadrà Carlo Rosselli. “Tenga presente – scriveva Michelangelo Di Stefano numero due del capo della polizia Arturo Bocchini – che il movimento più importante, più pericoloso, più attivo è, per ora Giustizia e Libertà. Ho dovuto persuadermi che il Rosselli è, senza dubbio, l’uomo più pericoloso di tutto il fuorisciutismo (nel lingiaggio fascista si preferiva qualificare con un termine dispregiativo “fuorusciti” gli esuli antifascisti).

Egli è un “piccolo Lenin, figlio di papà” ma crede sul serio al suo ruolo rivoluzionario ed è totalmente sprovvisto di quel minimum di misticismo che spinge il rivoluzionario idealista a non imbruttire mai la propria opera. Per Rosselli tutti i mezzi sono buoni”.

I servizi segreti, scrive ancora Villari,” sapevano anche che la posizione di Rosselli era critica nei confronti dell’antifascismo all’estero e delle sue varie componenti: socialiste, comuniste, liberali, repubblicane, anarchiche, cattoliche.

Gli informatori sapevano che la lotta al fascismo condotta da Rosselli, voleva essere, rispetto a queste componenti, più profonda, più incisiva, più strategica. In una lettera, intercettata, di Rosselli al repubblicano Fernando Schiavetti era detto: “Non occorre che spieghi a te che la nostra concezione non ha nulla a che fare con il vecchio massimalismo. Siamo pronti alla lotta concreta e a tutte le concessioni tattiche, purchè resti energicamente perseguito il fine”. La guerra di Spagna, conclude lo storico” metteva alla prova queste idee. Per il regime fascista occorreva dunque agire al più presto.

Chi sapeva, se non le spie e gli intercettatori italiani del fatto che Carlo Rosselli, tornato dalla Spagna con una grave flebite alla gamba doveva curarsi ai primi di Giugno presso le terme di Bagnoles-del’Orme in Normandia?

Chi altri l’avrebbe potuto chiedere ai “cagoulards” di portare a termine l’eliminazione di Rosselli se non i massimi vertici del fascismo internazionale?

Dopo la morte di Rosselli, un altro grande antifascista italiano assunse compiti impegnativi di carattere politico e organizzativo nell’ambito di “ Giustizia e Libertà”: Bruno Trentin, padre dell’ex segretario generale della Cgil. Scrive Hans Werner Tobler:” Dall’esame del contributo teorico- sociale del Trentin negli anni trenta, visto come una delle componenti del quadro politico di “ Giustizia e Libertà”, proprio in confronto alle concezioni politiche di Carlo Rosselli, emerge la vasta gamma di opinioni che caratterizzava questo movimento.

Per quanto, nel loro tentativo di definire una propria posizione politica, sia Trentin sia Rosselli partano dalla polemica con il marxismo e col socialismo e tendono ad una nuova concezione della società, determinata anche in forma decisiva dall’esperienza del fascismo, e per quanto riconoscano entrambi la realizzazione sociale dei postulati liberali di autonomia come un’esigenza centrale, differiscono poi nel loro orientamento politico.

Le idee di Rosselli che, data la sua leaderschip nell’ambito di “Giustizia e Libertà”, vanno intese anche come espressione fondamentale dell’orientamento di questo movimento, vennero elaborate soprattutto in “ Socialismo liberale” apparso nel 1930. Per Rosselli che aveva fatto parte del partito socialista di Matteotti, Socialismo liberale aveva il significato di un distacco dal socialismo italiano tradizionale e soprattutto dal rifiuto della sua base marxista. Nella prassi politica, Socialismo liberale significava una svolta in direzione della pratica politica della socialdemocrazia europea occidentale e soprattutto inglese.

Socialismo liberale va inteso come critica fondamentale del marxismo.

“Oggi sono in causa” scrive Rosselli nella prefazione, “Le basi fondamentali della dottrina e non più soltanto della sua applicazione pratica. E’ la filosofia, è la morale, è la stessa concezione della politica marxista che non basta più a soddisfarci e ci spinge verso altre sponde, verso orizzonti più vasti”.

Influenzato dall’interpretazione di don Benedetto Croce del marxismo, Rosselli respinge soprattutto la base materialista e l’interpretazione deterministica del processo di sviluppo storico del marxismo. Rosselli critica con Croce “L’assurdo relativismo morale professato dai socialisti”, sente nel marxismo la mancanza delle “integrazioni etiche e sentimentali”, lo trova privo di “giudizi morali, entusiasmo e fede”.

Rosselli interpreta il marxismo in quanto determinismo dogmaticamente cristallizzato, non come una teoria che riesca a ispirare l’attività politica pratica, ma che, al contrario, in determinate circostanze storiche( come al tempo della presa del potere del fascismo) addirittura la paralizza. Marxismo e socialismo non gli appaiono pertanto identici, ma anzi il marxismo può rivelarsi un impedimento per il socialismo. Bisogna dunque- secondo Rosselli – liberare il socialismo dalla sua incrostazione dogmatica- marxista.

La critica del marxismo di Rosselli non è tanto una critica del marxismo genuino quale risulta dalle opere di Marx ed Engels, quanto piuttosto una polemica con la concezione del socialismo e della sua realizzazione adottata dai marxisti italiani. Socialismo non significa più per Rosselli essenzialmente una struttura socialista di produzione. Il socialismo si rivela nel concetto di Rosselli piuttosto un ideale:” Il socialismo non è né la socializzazione, né il proletariato al potere, e neppure l’uguaglianza materiale(…) Il socialismo, più che uno stato esteriore da raggiungere, è per l’individuo, la realizzazione di un programma di vita…Rosselli arriva alla sintesi di socialismo e liberalismo nel suo Socialismo liberale interpretando il nuovo socialismo come l’autentico proseguimento del liberalismo idealista ch’egli contrappone al liberalismo borghese del suo tempo, ridotto a liberalismo economico. Per “Socialismo liberale” intende quindi “una teoria politica che, partendo dal postulato della libertà dello spirito umano, afferma la libertà suo fine supremo, suo mezzo supremo, regola suprema della convivenza umana”.

In definitiva la concezione di Rosselli di un socialismo liberale corrisponde ad una politica di integrazione dell’individuo nello stato di tipo democratico occidentale, basata sui principi del liberalismo politico.

La libertà personale dell’individuo deve essere integrata da una politica di giustizia sociale fino alla compenetrazione dei postulati di socialismo e liberalismo, “giustizia e libertà”.

Quello di cui oggi l’Italia ha bisogno. Per ritornare al congresso dello Sdi possiamo dire che è rinato il Psi ed è nelle cose che Marco Pannella avrà una delle prime tessere, quella che Bettino Craxi gli ha sempre rifiutato. Il 12 maggio a Piazza Navona c’è una festa: “Rosa nel Pugno Pride”. Roma è aperta ai nuovi Garibaldi, ai nuovi laici, liberali, socialisti e radicali.

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