di Giovanna Canigiula
Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia
Vite tra tenute è una testimonianza sulla vita in carcere realizzata dai detenuti dell’Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Imputati o condannati per tipi di reati previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, vivono al primo piano di un padiglione inaugurato nel 1997 in condizioni di sovraffollamento: in venticinque celle, che potrebbero ospitare 50 detenuti, sono rinchiuse circa 70/80 persone, con una media di tre per cella, senza nessuna osservanza, al momento dell’assegnazione, degli artt. 27 reg. esec. (osservazione della personalità), 14 e 64 o. p. (separazione imputati- condannati, separazione giovani- adulti, necessità di trattamento individuale o di gruppo). Meno della metà dei carcerati sono definitivi, i più sono giudicabili ed appellanti.
La testimonianza è figlia dell’adesione, da parte dei detenuti, al progetto sperimentale ATHENA, elaborato nel 2004 dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria con lo scopo di favorire la socializzazione, la partecipazione attiva dei soggetti alla “gestione” del carcere e la costruzione di un sistema sociale migliore. L’assunzione dell’impegno ha dovuto vincere molte resistenze dal momento che, come i detenuti scrivono, il carcere controlla un ampio ventaglio di benefici e di oneri essenziali, a volte decisivi e nessuno è disposto a rischiare il trasferimento in altri istituti e l’allontanamento dai propri familiari per avere protestato contro limitazioni e privazioni.
L’aspetto più doloroso della vita in carcere è, senza dubbio, l’essere privati della libertà e, quindi, della possibilità di intrecciare o conservare relazioni con parenti e amici. Tra le testimonianze, infatti, significativa è quella di un detenuto che rimpiange il carcere di Palermo perché, anche se vecchio e “rigoroso”, gli consentiva di usufruire della visita settimanale dei familiari, essenziale per chi è costretto, per anni o per la vita, a vivere tra le quattro pareti di una cella in cui, all’essere socialmente morto, si aggiunge la sofferenza di dovere quotidianamente alternare la branda allo sgabello per la mancanza di spazio, dividere un vano bagno di un metro quadrato con altre persone, scambiare forzate conversazioni, temere per la propria sicurezza personale a causa di detenuti violenti ed aggressivi o dell’azione repressiva del personale carcerario, subire continui controlli. L’elenco dei danni psico- fisici è lungo: danneggiamento della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo, perdita di valori e attitudini, isolamento, perdita di stimoli dovuta all’adattamento a un ambiente povero e al ritmo lento e monotono della vita istituzionale, estraniamento, diminuzione della stima in se stessi e conseguente dipendenza dalla struttura, anestesia emotiva, ansia e depressione che possono portare ad episodi di autolesionismo, suicidi e violenza. E poi danni visivi e all’apparato digerente e dentario, patologie dermatologiche, compromissione del sistema respiratorio, disturbi del sonno. Ammalarsi in carcere è una vera tragedia perché, nel luogo in cui si può morire ma non guarire, si è come orsi feriti che nulla possono fare a tutela della propria salute,terminali di un apparato sanitario già mal funzionante all’esterno, inceppato dietro le sbarre, dove si paga lo scotto di carenti risorse finanziarie, di personale che è, quindi, costretto ad operare per tamponare la malattia più che per curarla, di un apparato che non interviene per prevenire, quanto invece per accertare e tenere sotto controllo, il tutto con i tempi consentiti in un carcere. Il carcere diventa, così, un’“istituzione totale” che annienta, anche se vi sono momenti in cui urge il bisogno dianimare le vigilie; vivere nell’esistente, dare un senso alle cose, al tempo, alle ricorrenze; attivare sentimenti, ricordi, emozioni; collegarsi con la mente ed il cuore ai personali legami forti che sono fuori, lontani quanto dentro, e vicini in ognuno nella prospettiva. La speranza prende allora i colori della creatività: è l’albero di Natale realizzato con bottiglie di plastica, carte colorate e mezzi di fortuna; sono i dolcetti tradizionali che si preparano a Pasqua con ciò di cui si dispone; sono le trombette e le maschere appese a Carnevale alle pareti della cella. E’ il caffè che si fa trovare ai familiari nel giorno delle visite.
L’arte di arrangiarsi è una di quelle cose che si impara abbastanza presto. L’Ordinamento Penitenziario prevede la somministrazione quotidiana di tre pasti, preparati nelle apposite cucine degli Istituti ad opera di detenuti e internati che svolgono la mansione per tre mesi. A tutti è però consentito di tenere, in cella, fornelli di dimensioni e caratteristiche conformi alle prescrizioni ministeriali e di ricevere quattro pacchi al mese, di peso complessivo non superiore ai venti chili, contenenti abbigliamento e generi di consumo comune tassativamente indicati in tabelle fissate dalla direzione dei singoli Istituti. Ogni anno il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stabilisce i limiti delle somme che possono essere spese per gli acquisti e la corrispondenza e questa è una voce importante perché i detenuti preferiscono, anche quando il servizio cucina è accettabile, preparare da sé ciò che consumano. Scatta, infatti, una sorta di rifiuto nei confronti dell’istituzione che porta a vivere come imposizione ciò che ti viene somministrato: l’affermazione della propria identità passa attraverso la preparazione dei piatti, centro motore di un’esistenza altrimenti immobile.
Ogni detenuto, al momento dell’ingresso in cella, ha in dotazione dall’Istituto un cucchiaio, una forchetta, due piatti e un bicchiere di plastica dura, Niente coltelli. In due metri quadrati, inoltre, deve organizzare una cucina. Che fa? Nella parete sopra il tavolino attacca ganci adesivi, resi più resistenti con accorgimenti particolari, per appendervi le pentole. Queste, una volta usate e lavate, vengono lasciate asciugare su scolapiatti di manifattura artigianale: sulla parete sopra il lavandino si mettono tre ganci a forma di triangolo, ai due ganci che costituiscono la base si aggancia un lato di un cestello, all’altro si lega un laccio di plastica ricavato dai sacchetti della spazzatura e vi si lega il centro della parte opposta del cestello. Cestelli variamente sovrapposti servono a contenere frutta, conserve e stoviglie. Con cartoni, bottiglie di plastica, pezzi di legno, vinavil, strisce di plastica si realizzano tavolini, leggii, vasi, soprammobili, portariviste, portaritratti, portalettere, portacenere, porta bicchieri, sturalavandini, pattini per le brande. Con un appendiabiti di plastica è possibile ottenere una bilancia: basta appendere, alle due estremità, quattro lacci che sorreggono due piatti di carta. I pesi, da cento cinquanta e dieci grammi, si possono realizzare inserendo del sale in dei contenitori di plastica. Per stirare si usa la caffettiera con acqua bollente. Acqua e candeggina servono da deodorante. Tra i sistemi di fabbricazione di un forno, ve n’è uno ingegnoso: si appoggia su uno sgabello un fornello da campeggio smontato della base d’appoggio e del bruciatore, poi rimontato dalla parte interna dello sgabello medesimo, se ne copre il tronco con un lenzuolo o una coperta o un asciugamano inumiditi; si capovolge quindi lo sgabello e lo si poggia su una base, si incastra o si appende una pentola avendo cura che non tocchi la fiamma e se ne ricopre la parte superiore. Basta accendere e il forno funziona. Le bevande, invece, si tengono al fresco mettendo le bottiglie dentro calze bagnate o in secchi d’acqua in cui si svuota una bomboletta di gas. Le grattugie si ottengono da coperti o da scatole di latta bucherellati. Con una penna, tre astucci e tre pezzi di filo interdentale si fabbrica un telecomando; con tubicini in pvc e cestelli da frutta un comodo stendibiancheria da attaccare alle grate.
Nel bagno, a forma di trapezio con basi di due metri per uno, vi sono un lavandino con specchio, tazza e bidet. Anche qui, visto il numero di ospiti per cella, l’organizzazione è fondamentale. Alla destra del lavandino scatole di pasta e pacchetti di sigarette rivestiti di carta argentana o fazzoletti decorati ospitano gli effetti personali di ciascun detenuto. Un palo di scopa incastrato all’altezza del rivestimento delle mattonelle serve per agganciare gli appendiabiti e tenere in ordine vestiti, accappatoi e la busta con i panni sporchi. Il porta scarpe è realizzato con i cilindri di cartone dei rotoli di carta igienica, tagliati in otto punti su un’estremità: le frange si piegano verso l’esterno a 90° e si incollano su un cartoncino rotondo. Appendini di plastica riscaldati e tagliati a forma di gancio diventano, invece, porta rotoli. Progressi enormi: negli anni ’70 i bisogni fisiologici si facevano, senza privacy ad eccezione della coperta con cui ci si avvolgeva, dentro un buiolo, cioè un bidoncino, che veniva ritirato due volte al giorno e nel quale si bruciava un foglio di giornale per coprire gli odori; non c’era lavandino; la doccia si faceva una volta a settimana e ci si asciugava con un lenzuolo; ci si cambiava una volta a settimana.
Com’è la giornata tipo di un detenuto nel carcere di Vibo? Il buongiorno, alle sette, è dato dallo scricchiolio del giro di chiavi nella serratura del blindo esterno dell’ingresso della cella. Dopo circa un quarto d’ora lasciano le celle i detenuti addetti alla preparazione della prima colazione (latte, the, caffè) e, intorno alle 7.50, viene aperta la cella del vivandiere che provvede alla distribuzione. Alle otto un agente passa per le celle e chiede se qualcuno vuole iscriversi per avere contatti con l’ufficio di matricola o con l’infermeria. A giorni alterni, dalle 8.30 alle 11.00 e dalle 15.30 alle 18.00, è consentito fare la doccia. Dalle 9.00 alle 11.00 ci sono le classiche due ore d’aria in cui si osservano regole codificate: ci si divide in gruppi, gli anziani stanno al centro e non bisogna voltare loro le spalle quando si raggiunge l’estremità del cortile che non va mai attraversato trasversalmente. Se si preferisce frequentare la scuola, le lezioni durano fino alle 12.00, ora in cui viene servito il pranzo in cella. Per ingannare il tempo, il regolamento prevede l’uso della carte napoletane ma non di quelle francesi. Per realizzarle, allora, i detenuti comprano 55 cartoline plastificate, le tagliano a metà, le rifiniscono e le disegnano. Due volte a settimana, per gruppi di quindici e per un’ora e mezza, si può andare in una sala a giocare a biliardo, ping- pong, dama e carte. Una volta a settimana si può utilizzare il campo di calcio. La palestra è in cella: con bottiglie, pali e strisce di maglia si realizzano i pesi.
L’ordinamento penitenziario attribuisce al detenuto il diritto all’istruzione e lo Stato è obbligato, in base all’art. 33 comma 2, a garantire la fruizione dei corsi scolastici, soprattutto di quelli obbligatori. La scelta di frequentare una scuola non è dettata dall’interesse per l’istruzione ma dalla possibilità di evadere dalla monotonia di una giornata segnata da due possibilità: stare in cella o uscire all’aria aperta. Con in più il piacere di sentire e vedere persone che vengono dal mondo esterno, assaporare la sensazione di respirare una boccata di libertà, provare il gusto di conversare con “altri” di altro. Il detenuto ha pochi stimoli per programmi ideati per ragazzi di 6- 18 anni, frequenta magari le lezioni per guadagnarsi possibilità da spendere una volta fuori, si rapporta però all’istituzione scolastica come a un corpo rigido, quasi estraneo ai suoi interessi e alle sue prospettive. Studiare non è facile: come si fa se uno cucina, un altro ascolta musica, un altro guarda la TV? Non si hanno contatti con altri studenti e, se c’è un intoppo ad esempio nella soluzione di un problema, non si dispone che di se stessi di fronte al testo. Scoraggiante. Tuttavia il D.A.P. Calabrese ha stipulato anche un protocollo d’intesa con l’Università della Calabria per coloro che ambiscono a un titolo superiore ed in alcuni istituti penitenziari, come quello di Catanzaro, sono stati avviati corsi della facoltà di giurisprudenza, con docenti che tengono lezione in carcere e studenti che dispongono di celle singole per poter studiare. Vibo ha seguito a ruota l’iniziativa.
Il sistema carcere tende a essere conservatore e refrattario ai cambiamenti. Le tecniche usate dal personale sono consolidate: rimandare richieste, ordini, disposizioni a un’autorità responsabile esterna, seguendo il principio del “lavarsene le mani”; svuotare di significato le proposte in conflitto con gli interessi dominanti; rendere impraticabili le proposte innovative; dilatare fino a “nuovo ordine” l’attuazione di una proposta; sminuire un’idea o un’iniziativa senza osteggiarla apertamente; appropriarsi di un’idea apportandole sottili cambiamenti.
Anche la comunicazione segue delle direttrici. Relazioni di tipo orizzontale sono quelle fra detenuti, per i quali vale anzitutto la regola secondo cui a megghiu parola esti chidda chi nun nesci e ciò per la convinzione di essere continuamente controllati e intercettati, il che favorisce un dialogo per parabole o per gesti. Comunicare tra persone che vivono lo stesso disagio porta, però, a parlare sempre delle stesse cose e se all’inizio è consolante, col passare del tempo intristisce, l’interesse si spegne e si diventa taciturni. Di tipo verticale è la comunicazione tra detenuto e staff dirigenziale che avviene secondo regole precise. Al mattino l’agente di sezione annota la richiesta di colloquio avanzata dal detenuto, viene stilato un elenco, generalmente il colloquio arriva quando ormai le ragioni della richiesta sono state superate dagli eventi. Il sistema di relazioni spesso è tale che, per evitare ritorsioni, il detenuto è indotto a comportamenti remissivi e furbeschi e ciò porta a sviluppare personalità asociali, genera rabbia e rafforza la solidarietà del sottosistema in cui ci si rifugia. Quando avviene, il colloquio del detenuto col direttore si svolge in una stanza che resta aperta e alla presenza di un assistente: viene così annotato tutto ciò che dice stando in piedi di fronte alla scrivania. Il rapporto con l’agente penitenziario è, invece, complesso. Molti agenti criminalizzano il detenuto in quanto responsabile del loro “odiato” lavoro e lo guardano con gli occhi omologanti, svogliati e veloci della società di cui fanno parte: il detenuto è il “diverso” che va rinchiuso, isolato, ibernato, eliminato dal corpo sociale. Spesso utilizzano espressioni e atteggiamenti che vengono percepiti come vessatori, provocatori e prevaricatori e si innesca un rapporto conflittuale che rende l’agente guardiano e, al tempo stesso, ladro di dignità e di umanità. Per contro vi sono agenti professionali che, pur rigorosi, sanno operare un approccio differenziato e individualizzato, non hanno pregiudizi, non sono razzisti, basano il sistema relazionale su regole chiare, fondate su diritti e doveri e ispirate ai principi della cultura del rispetto. Non esercitano un potere, ma prestano un servizio.
Scioperare in carcere è un modo per dare voce alla sofferenza dei detenuti. Se, poi, la protesta è nazionale e fa notizia sui quotidiani, è il modo per denunciare le condizioni d invivibilità, per sollecitare l’intervento delle istituzioni, per interloquire con quella parte della società cinica che considera il carcere una discarica sociale. A Vibo, i detenuti dell’Alta Sicurezza hanno dato vita aSpazio Ristretto, un giornale nato dalla collaborazione con l’I.T.C. “G. Galilei”, in cui si affrontano i problemi della vita dentro, si promuove la cultura dei Diritti e della Solidarietà, si discute di giustizia e legalità: giustizia è rispondere con progetti di bene al male ed agire con giustizia significa attuare l’opera dei diritti umani, architrave della democrazia a prescindere da tutte le condizioni o status.Sanzione penale e pena detentiva, scrivono i detenuti, non sono l’unica risposta possibile per difendere i cittadini e la società da delitti e violenze. Nel 90 % dei casi, chi sta in carcere ha una storia di emarginazione sociale alle spalle, percorsi educativi insufficienti, povertà materiali e culturali. Al termine della pena, il “rientro” in società fa scontare una doppia emarginazione e l’impossibilità di reinserimento lavorativo e sociale determina quel circolo vizioso che dal carcere riconduce al carcere. Tendere al recupero sociale del condannato significa preoccuparsi di quale soggetto rientrerà nella società una volta scontata la pena: è meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza?
I detenuti, attivissimi, hanno curato e promosso anche una pubblicazione, dal titolo Ogni società ha il carcere che si merita, in cui non solo hanno raccolto riflessioni sul mondo- carcere, ma indicato una serie di proposte di modifica legislative del sistema sanzionatorio, evidenziandone le incongruità sotto il profilo politico- criminale e l’inefficienza delle pene che trasforma il carcere in una entitàcriminogena. Hanno scritto a tutti: ai Magistrati di Sorveglianza dei Tribunali della Calabria, agli Ordini degli Avvocati e alle Camere Penali della Calabria, ai candidati alla Presidenza della Regione Calabria, agli operatori del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Catanzaro, ai parlamentari calabresi, ai sindaci delle 11 città sedi di carceri, agli assessori comunali dei servizi sociali, ai presidenti delle Amministrazioni provinciali, agli assessori provinciali dei servizi sociali.
In Vite tra tenute la parola che ricorre più di frequente è “uomini”. I detenuti che si cimentano a fare i giornalisti si rivolgono, infatti, alla copia dell’uomo che in ognuno di loro c’è. Alunni adulti che considerano la libertà un dono speciale, che vogliono far riflettere sul fatto che diversi sono coloro che li considerano tali, che vivono il loro giornale come la pedagogia evangelica che l’uomo mette in atto con altri uomini, che superano col lavoro il senso di soffocamento insopportabile che dà l’amara realtà della cella, della gabbia, del chiuso, del dolore per il dolore, della sofferenza per la sofferenza. Che recuperano anche la loro calabresità attraverso raccolte di poesie, filastrocche, proverbi.
Uomini che, se viene loro data un’opportunità, svolgono attività teatrali, realizzano cortometraggi, si improvvisano attori. E che, nel luogo della sofferenza, ritrovano le condizioni ideali per parlare alle proprie anime. Citano E. Dickinson: L’anima è per se stessa/ Un imperiale amico/ O la più angosciante spia/ Che un nemico possa mandare. Per legge la pratica spirituale è considerata uno strumento di rieducazione del recluso. Tale attività è però vissuta come vuoto cerimoniale: la messa settimanale, spesso con il rito abbreviato per esigenze di servizio, la presenza del vescovo nelle ricorrenze annuali solenni, l’incontro periodico con il cappellano sono visti come distrazioni che non sollecitano l’animo alla riflessione sulle proprie modalità di essere o al ripensamento del proprio passato. Ciò che chiedono è altro: la possibilità di avviare processi di riflessione sui temi esistenziali, sui valori, sui principi che costituiscono il motore portante delle dinamiche dei rapporti sociali, parlare all’interiorità di ognuno e farla parlare.
Esseri deprivati, maschere che reprimono o dissimulano le sensazioni che provano, affidano alla scrittura i desideri di libertà, amore, gioia, prospettiva, futuro, normalità, serenità. Voci dal Silenzio è una raccolta di poesie curata sempre dall’I.T.C. di Vibo, pensieri in libertà dedicati a genitori mogli e figli, al cielo alla luna e alle stelle ai quali si è detto arrivederci, ai fratelli fuori dai cancelli, agli amici alla scuola all’amore, alla voglia di vivere e alla paura di vivere, alla rabbia alla pazienza ai sogni, alle mosche che fanno compagnia, ai sogni e alle attese. Tutto ciò che per Te…è inutile…/ Per noi è…bisogno;/ Tutto ciò che per Te è… insignificante…/ Per Noi è…importante;/ Tutto ciò che per Te è…superfluo…/ Per Noi è…necessario;/ Tutto ciò che per Te è…complicato…/ Per Noi è…semplice;/ Tutto ciò che per Te è…tempo perso…/ Per Noi è…vita;/ Tutto ciò che per Te è…da buttare…/ Per Noi è…da salvare;/ Tutto ciò che per Te è…ignoranza…/ Per Noi è…scuola;/ Tutto ciò che per Te è…cemento…/ Per Noi è…panorama; /Tutto ciò che per Te è…fatica…/ Per Noi è un…sollievo;/ Tutto ciò che per Te è…uffa…/ Per Noi è…libertà.