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Stefano Cucchi, a distanza di un anno ancora poche verità

di Giuseppe Candido

Stefano Cucchi stato ucciso un anno fa. Un manifesto lo ricorda su internet con un scritta agghiacciante: assassinato dallo Stato. Un anno ci separa dalla notte del 15 ottobre 2009 quando Stefano venne fermato, arrestato e picchiato. Strappato all’affetto di quelli che lo amano da una giustizia troppo ingiusta che lo restituire senza vita dopo 7 giorni, il 22 ottobre 2009. Giovanni Cucchi, il papà di Stefano, durante la conferenza stampa in cui venivano date alla stampa le foto e la notizia, chiedeva “Vogliamo sapere perché alla richiesta precisa di Stefano non stato chiamato, dai militari la sera dell’arresto, il suo avvocato di fiducia, vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come stato possibile che abbia subito le lesioni, vogliamo sapere chi glie le ha prodotte e quando, vogliamo sapere dalle strutture carcerarie perché non c’è stato consentito il colloquio con i medici, vogliamo sapere, dalle strutture sanitarie, perché non gli sono state effettuate le cure mediche necessarie, vogliamo sapere, (sempre) dalle strutture sanitarie, perché sia stata consentita, in sei giorni di ricovero, una tale debilitazione fisica, vogliamo sapere perché è stato lasciato in solitudine senza un conforto morale e religioso, vogliamo sapere, infine, la natura e le circostanze precise della morte, vorremmo sapere altresì se ci sono motivi validi di tale accanimento su una giovane vita. Immaginiamo che una famiglia distrutta dal dolore per la morte atroce del proprio figlio di, trentuno anni, abbia il diritto di urlare con tutte le sue forze, per chiederne conto”.

Ma, a distanza di un anno, le risposte a queste domande ancora non ci sono. La giustizia ha tempi lunghi. La storia di Stefano e le immagini del corpo rese pubbliche in quella conferenza stampa colpirono l’Italia tutta suscitando sconcerto, indignazione e rabbia. Rabbia per la morte di un giovane, ma non solo. Le dichiarazioni di parte della politica giustificarono quello che era accaduto ricercando nella vita privata di Stefano e della sua famiglia i pretesti morali per giustificare la barbarie. Quello che accaduto a Stefano rappresenta lo spaccato di un paese dove troppo spesso la dignità degli esseri umani viene sacrificata in nome del giudizio morale, della punizione esemplare, della sicurezza. Ma Stefano no il solo. Qualcuno propone addirittura un’associazione Nazionale per chiedere verite giustizia per le vittime delle forze dell’ordine. Per chiedere giustizia e verità della morte di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Gabriele Sandri, Carlo Giuliani e molti, troppi altri ancora. Il 5 ottobre ripartito il processo sulla vicenda di Stefano che vede alla sbarra un intero sistema costruito su abusi di poteri, negligenze, violenza, menzogne. Oggi invece c’è bisogno di verità. E c’è bisogno di verità su quello che nelle carceri continua ad avvenire. La pena alla morte e i suicidi di liberazione da un trattamento anticostituzionale e disumano. Dopo il bluff del ddl svuota carceri, le carceri illegali, anticostituzionali, continuano a causare maltrattamenti, torture e morte. Lultimo suicidio avvenuto nel carcere di Reggio Calabria dove, lo scorso 23 settembre, Bruno si tolto la vita impiccandosi nel bagno della cella. Aveva 23 anni ed il 49mo detenuto suicida in carcere dall’inizio dell’anno. Forse, come ci ricorda Voltaire, anche su questo si misura la civiltà di un paese e non sufficiente ricordarsene solo a ferragosto.

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Radicali: Pasqua con sorpresa … nelle carceri

E’ ancora emegenza

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 7.4.2010

Lo ha detto chiaramente il Presidente Napolitano nel suo discorso di fine anno: non sono più tollerabili carceri in cui non ci si rieduca e dove troppo spesso si muore. Lo ha fatto notare “Ristretti Orizzonti”, il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto di Pena Femminile della Giudecca: “Con la morte del detenuto Emanuele Carbone salgono a 50 i detenuti morti nelle carceri italiane, di cui 15 per suicidio”. Lo scorso anno – ricorda sempre il mensile – i decessi furono 175 di cui 72 per suicidio. Spesso parliamo di abolire la pena di morte nel mondo ma è la pena, così disumana, così afflittiva e insopportabile, che trasforma l’intollerabile detenzione operata in condizioni di ristrettezza disumana, nel suicidio, suicidio di liberazione. La notizia di qualche tempo addietro di due morti nel carcere di Castrovillari non fece grande scalpore sulla stampa. Fu confermata alla parlamentare Rita Bernardini dal Direttore, dottor Fedele Rizzo: “negli ultimi venti giorni, nel carcere di Castrovillari, sono morti due giovani” disse. “Si sono tolti la vita entrambi impiccandosi. Il primo era un un ragazzo cileno di 19 anni, il secondo un calabrese di Morano Calabro di 39 anni”. Oggi l’attualità dei giornali ci riporta di nuovo il caso di un tentativo (per fortuna rimasto tale) di suicidio di un detenuto del carcere di Reggio Calabria: “Lo salva un agente penitenziario”. E’ ancora drammaticamente emergenza carceri: gli agenti di polizia penitenziaria sono in organico sottodimensionato e con un sovra affollamento di detenuti senza precedenti. Oltre 64mila detenuti nelle nostre carceri a fronte di una capienza di 43 mila. Senza contare che il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio e si sa, statisticamente, che un terzo di questi risulterà innocente. Un sovraffollamento perlopiù causato dai detenuti per reati connessi ai piccoli traffici legati al consumo di sostanze illegali ed aumentato dopo l’introduzione, come ce ne fosse stato bisogno, del reato d’immigrazione clandestina. Un sovraffollamento per cui l’Italia viene sistematicamente condannata dalla giustizia europea: nel mese di Giugno 2009, nel processo Sulejmanovic contro Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha infatti condannato l’Italia sanzionandola a risarcire, col pagamento di mille euro, il detenuto bosniaco rinchiuso nel carcere di Rebibbia in condizioni incivili per un periodo di tre mesi. Se gli oltre sessantaquattro mila detenuti nelle carceri italiane facessero lo stesso sarebbero da sborsare, per le casse dello Stato, oltre 60 milioni di euro per ogni tre mesi di detenzione in condizioni di ristrettezza di spazi. Se vuoi conoscere il grado di civiltà di un Paese – scriveva Voltaire – visitane le sue carceri. Marco Pannella e i Radicali tutti lo sanno bene questo, lo praticano da sempre e, dopo la grande mobilitazione dello scorso ferragosto con visite ispettive non preannunciate in quasi tutte le carceri d’Italia e che ebbe grande eco sulla stampa nazionale provocando amplia discussione, a Pasqua, i Radicali, ci rifanno. Una delegazione composta da Marco Pannella e dai parlamentari radicali eletti nel PD, Rita Bernardini e Matteo Mecacci, si è recata in visita ispettiva, nel giorno di Pasqua, nel carcere napoletano di Poggio Reale. A darne notizia sono gli stessi deputati Radicali intervenuti, con Marco Pannella pure lui in collegamento telefonico da Napoli, alla consueta conversazione settimanale con Massimo Bordin su radio radicale: “Ogni volta che ritorniamo li – spiega Rita Bernardini – troviamo la situazione peggiorata. Mi auguro, anzi dobbiamo fare in modo perché qui gli auguri bisogna darseli facendo le cose, che il Ministro della Giustizia e il Governo si rendano conto, ormai, che non è più possibile aspettare”. Poi la Bernardini ricorda la situazione generale: “Siamo arrivati, in tutta Italia quasi a 70.000 detenuti e oggi abbiamo trovato una situazione impossibile”.

Dai 9 ai 12 detenuti per cella che, normalmente, ne potrebbero contenere 4: “Generalmente quando andiamo a visitare aprono le celle. Oggi (nel giorno della Santa Pasqua ndr) c’era pochissimo personale per cui abbiamo dovuto salutare i detenuti attraverso le sbarre. Dai 9 ai 12 detenuti in celle che ne potrebbero contenere 4” … “Detenuti molto frustrati, consapevoli che, purtroppo, non c’è, almeno al momento, qualcosa che li possa far tornare a sperare”. Poi la Bernardini snocciola i dati: a Poggio Reale che è un carcere con capienza di 1200 detenuti ce ne erano, nel giorno di Pasqua, 2.737. Oltre 1500 la capienza massima e con una situazione di organico carente degli agenti: “Centinaia in meno rispetto alla pianta organica”. Per non parlare della sanità che “non esiste”: “Ho trovato – spiega ancora l’Onorevole Rita Bernardini – finalmente ricoverato in centro clinico un detenuto che, durante la visita fatta in campagna elettorale, avevamo incontrato in cella col catetere”. “Se Alfano vedesse con i suoi occhi si renderebbe conto che deve varare in fretta quel provvedimento” riferendosi esplicitamente al decreto che, se varato, consentirebbe, ai detenuti con pene inferiori ad un anno, di scontare ai domiciliari il resto della pena. Matteo Mecacci racconta di una situazione tremenda e il particolare dell’applauso strappato ai detenuti da Marco Pannella a sostegno degli agenti che, con sacrificio, avevano consentito l’incontro coi detenuti in condizioni così difficili. E, per la Pasquetta ovviamente sempre a sorpresa, si preannuncia la visita nel carcere siciliano dell’Ucciardone a Palermo o, forse, in quello di Reggio Calabria nel quale, comunque, sarebbe il caso di farla una visita per capire perché si tenta di liberarsi con la morte.

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Stefano Cucchi, un caso su cui riflettere

di Mario Patrono (*)

Chianciano 13 nov. 2009. Il testo dell’intervento del Professor Mario Patrono a Chianciano sul caso del giovane Stefano Cucchi, in cui si ritrovano anche alcune rilevanti osservazioni sul mercato del lavoro nel Sud.

Cari compagni radicali, Cari compagni socialisti,

abbiamo oggi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni morto di morte violenta dopo essere “transitato” nelle celle di sicurezza di Piazzale Clodio.

Osservo di sfuggita, per chi non lo sapesse, che qui parliamo delle celle di sicurezza del Tribunale penale di Roma, parliamo cioè del luogo dove lo Stato garantisce per antonomasia il rispetto della legalità; e lo garantisce nei confronti di chiunque, privati cittadini e pubblici funzionari.

Abbiamo quindi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi.

Una è di immediata evidenza. Persiste in Italia una concezione autoritaria dello Stato, che usa il distacco e la prepotenza – e a buon bisogno usa anche la violenza – come strumento per esercitare il controllo sociale. Una concezione autoritaria dello Stato che non accenna a venir meno, malgrado siano trascorsi ben più di 60 anni dalla caduta del fascismo. Una concezione autoritaria dello Stato che sembra anzi essersi rafforzata in questi ultimi anni e mesi.

Questa concezione autoritaria dello Stato si manifesta in forma individuale e in forma sistemica. La morte violenta di Stefano Cucchi, quella altrettanto violenta di Federico Aldrovandi, che la rubrica “Un giorno in Pretura” ha fatto rivivere in questi giorni, e poi la registrazione avvenuta nel carcere di Castrogno a Teramo su pestaggi a detenuti come pratica di contenzione: <<…abbiamo rischiato la rivolta…non si può massacrare un detenuto…si massacra sotto…>>, sono esempi di uso illegale della forza in relazione a casi singoli. Un uso illegale della forza da parte di agenti e funzionari della Polizia, penitenziaria e non, selezionati male, addestrati male, educati male, controllati male, pagati peggio che male e comunque all’interno di una mentalità autoritaria dello Stato. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che accetta e consente l’interminabile durata delle procedure giudiziarie che significa disprezzo per i diritti dei cittadini. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che sopporta senza batter ciglio il fatto che dentro una cella di 3 metri per 2, cesso compreso, possano ammassarsi per mesi e per anni 7 detenuti i quali hanno a disposizione 2 sole ore di “aria” al giorno; e tutto ciò avviene, malgrado che l’articolo 27, III comma, della Costituzione proibisca perentoriamente quei trattamenti di pena che appaiono contrari al senso di umanità.

A livello sistemico cioè delle istituzioni pubbliche, la presenza nello Stato di un forte residuo autoritario si manifesta in modo particolare nella giustizia, nella burocrazia, nella dirigenza politica sotto il profilo del loro rapporto con i cittadini.

La prima evidenza di una concezione autoritaria dello Stato si manifesta nel campo della giustizia e segnatamente nel processo penale. La giustizia penale è diseguale. La diseguaglianza è di vario tipo. Per cominciare, l’accusa ha nel processo penale facoltà sconfinate rispetto a quelle di cui dispone la difesa. E questo ha un peso negativo in particolare per il cittadino economicamente debole, nei confronti del quale questa situazione di disparità è semplicemente insostenibile. Si pensi al processo accusatorio che si fonda spesso su perizie costosissime. L’accusa non paga le perizie, mentre il costo delle perizie finisce sempre e comunque sulle spalle della difesa, non importa se la sentenza dichiarerà alla fine l’imputato colpevole o innocente. Vi sono persone che per sostenere le spese relative alle perizie, si sono rovinate economicamente. In altre parole, l’accusa esercita poteri investigativi e processuali larghissimi, e nel contempo può disporre di risorse finanziarie illimitate e del cui uso in relazione ai singoli processi nessuno è chiamato a rispondere.

C’è poi il potere della pubblica accusa di “selezionare” l’esercizio dell’azione penale, che è un potere vastissimo ed esorbitante. Ancora. L’esercizio dell’azione penale non è contenuto entro tempi definiti, là dove la civiltà giuridica moderna – viceversa – impone che l’azione penale debba esercitarsi entro limiti di decadenza molto brevi. Non è possibile che il cittadino abbia sospesa sul collo la mannaia dell’accusa penale a tempo indeterminato.

Né vi è in Italia una regolazione precisa della facoltà dell’imputato di ricusare il giudice. Nei Paesi anglosassoni la possibilità di ricusare i membri della giuria popolare, dalla quale dipende il verdetto, è larghissima. Il giudice popolare può essere ricusato anche solo se ha notizie relative al processo. In Italia il giudice non è ricusabile a causa di un capovolgimento, operato dalla Corte costituzionale, dei valori da bilanciare in questa materia: si è posto l’articolo 21 della Costituzione, libertà di manifestazione del pensiero, al di sopra del diritto alla vita e alla libertà personale. All’evidenza, è vero il contrario: la libertà di non finire in galera e magari di non morirvi va considerata senz’altro prevalente, e di gran lunga, rispetto alla libertà del giudice come privato cittadino di manifestare pubblicamente apprezzamenti e giudizi nei confronti dell’imputato. Questo è ovvio.

Infine, non è garantita nel nostro Paese l’imparzialità del giudice e la sua alterità strutturale, e non solamente funzionale, di fronte all’accusa. Giudice e pubblico ministero sono entrambi magistrati dell’ordine giudiziario, svolgono la stessa carriera, sono tra loro “colleghi”. Questo non va bene. Al riguardo, nessun effetto sembra aver avuto finora la norma sul giusto processo, entrata a far parte della Costituzione nel 2001. La quale norma si è dovuta scontrare in questi anni con l’atteggiamento ultraconservatore della Corte costituzionale e che comunque ha avuto vita applicativa assai modesta.

Un altro aspetto dove si manifesta in Italia una concezione autoritaria dello Stato è nel rapporto burocrazia/cittadini. Vi è stata negli ultimi venti anni una crescita dimensionale della burocrazia, e vi è stata di pari passo una crescita nel numero degli alti burocrati i quali sono venuti di fatto assumendo un ruolo di decisori politici. Si è verificata cioè negli anni scorsi una crescita di potere politico della burocrazia nei confronti dell’autorità politica e partitica. A ciò si aggiunge la circostanza dello spoil system all’italiana, per cui ogni governo che approda a Palazzo Chigi si affretta a nominare con contratti “a termine” i dirigenti generali che retribuisce secondo criteri di larga discrezionalità.

Tutto ciò determina una forte disparità tra cittadino e burocrazia nella misura in cui il cittadino è posto di fronte ad un ceto che di fatto è irresponsabile. Non si può cioè nei loro confronti esercitare quel giudizio di responsabilità politica “diffusa”, teorizzato a suo tempo da Giuseppe Ugo Rescigno, per cui il cittadino al momento e per mezzo del voto riesce “a sfiduciare” il “cattivo” politico. Da questo punto di vista la burocrazia gode anzi della più totale inamovibilità, accompagnata da un crescente peso politico. E anche questo non va bene. Negli Stati Uniti, che qui assumo come termine di paragone, tutti i poteri pubblici sono elettivi e tutti rispondono quindi ad una logica democratica. Perfino la Corte suprema (un misto tra la nostra Corte di Cassazione e la nostra Corte costituzionale) è eletta su base democratica: dal Presidente in contraddittorio con il Senato. In Italia, vi sono poteri pubblici eletti accanto a poteri pubblici non eletti: e questi ultimi rispondono ad una logica loro tutta “interna”. È questa una delle grandi debolezze della democrazia italiana.

A completare il quadro vi sono poi gli scarsi poteri del cittadino rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative: perché le norme sulla trasparenza si bloccano di fronte alla discrezionalità del decidere cosa “ammettere” alla trasparenza, e cosa no. Ancora. Non c’è un regolamento sulle priorità e sui tempi delle varie procedure, e qui ha origine l’arbitrio della burocrazia che si alimenta della oscurità e della complessità della legislazione italiana, tessuta di rimandi e contro rimandi a commi e sottocommi di leggi e leggine di varia epoca.

Una terza evidenza della concezione autoritaria dello Stato chiama in causa la dirigenza politica. Questa tende in Italia a nascondersi in aree segrete disseminate da cartelli <<vietato l’ingresso>>. Raramente i frammenti della catena accessibili alla vista formano un sistema coeso con punti d’ingresso chiaramente contrassegnati.

Al contrario gli ostacoli a un efficace controllo a vasto raggio dei cittadini sono numerosi e molti di essi sono invalicabili.

In Paesi meglio civilizzati del nostro una funzione di vigilanza continua, penetrante e a vasto raggio sul potere pubblico e chi lo detiene è esercitata dai mezzi di informazione. In Italia, però, i grandi giornali, quelli che “fanno opinione”, sono nelle mani di potenti gruppi industriali variamente intrecciati alla dirigenza politica, o sono collegati direttamente a partiti politici. La televisione pubblica, la sola di cui merita di parlare, è lottizzata “a tappeto” dai partiti politici: i quali, rotti finalmente gli indugi, la usano ormai anche come strumento al fine di difendere, per interposta persona, gli interessi personali del loro leader: l’editoriale “in video” di Augusto Minzolini, direttore del Tg1, di lunedì scorso, non saprei definirlo in altro modo che come uno spot a favore di Berlusconi. Una cosa mai vista in un Paese di democrazia accettabile.

D’altra parte, il referendum abrogativo delle leggi, voluto dal Costituente quale tipico mezzo di controllo popolare sulle scelte legislative operate in Parlamento dalle dirigenze politiche, è stato ben presto soffocato e reso ormai quasi inservibile, a seguito dell’affermarsi dell’idea di sottrarre a <<plebisciti>> e a <<voti popolari>> quelle che sono state definite <<le complesse, inscindibili scelte politiche dei partiti>> (Corte cost., sent. n. 16 del 1978). Si aggiunga, dulcis in fundo, che la legge elettorale in vigore consente alle dirigenze politiche di designare uomini e donne che andranno a sedere in Parlamento accanto e allo stesso titolo dei rappresentanti eletti dai cittadini.

Tutto ciò significa che si è spezzato in Italia il rapporto, che sussiste in qualunque democrazia consolidata, tra alcuni elementi fisiologicamente correlati: rappresentanza, controllo, responsabilità e giudizio politico al momento del voto.

Una dirigenza politica che può contare sull’indifferenza o sulla non/interferenza dei cittadini è fuori di un sistema democratico.

Naturalmente la causa di questa debolezza della democrazia italiana deriva in ultima analisi dal fatto che in Italia non c’è il primato della società civile sullo Stato, non c’è il primato del cittadino sullo Stato, a cui si accompagna una insufficiente coscienza sociale dei propri diritti.

Sta di fatto che il degrado del costume democratico nel nostro Paese è ormai intollerabile. Suscita indignazione in ciascuno di noi.

La domanda di oggi è: cosa dobbiamo fare per rimettere in moto la democrazia italiana? Io penso che abbiamo tutti del lavoro da fare, del gran lavoro: nelle Università, nelle scuole, dovunque possiamo esercitare la nostra influenza. Ma sono fiducioso che riusciremo, attraverso una pedagogia “mirata”, a creare una svolta attitudinale verso la politica; che riusciremo a suscitare nei cittadini un’attenzione permanente nei confronti del potere pubblico e le sue modalità di esercizio. Bisogna che si formi a livello di coscienza collettiva l’idea dell’obbligo per le istituzioni pubbliche di dare conto nei dettagli ai cittadini del loro operato. A partire da un punto. Ciascuno di noi ha diritto di sapere l’uso che si fa del denaro pubblico. Di sapere se il denaro pubblico è stato speso bene; se è stato sperperato; se è stato illegalmente sottratto. L’uso del denaro pubblico deve diventare un uso trasparente. Io come contribuente ho il dovere di partecipare alle spese pubbliche. Ma io come contribuente ho il diritto di sapere come il mio denaro è stato speso dagli amministratori pubblici. Per qualunque istituzione pubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Camera dei Deputati al Senato, dalla Corte di Conti agli uffici giudiziari grandi e piccoli fino ai minimi enti pubblici, il contribuente ha il diritto di sapere la quantità di denaro che serve per pagare gli stipendi del personale interno e per procurarsi e gestire i mezzi con cui erogare i servizi. Perciò il contribuente ha il diritto di sapere, ad esempio, chi sono i fornitori di qualunque istituzione pubblica, dalle maggiori alle minori; a quale prezzo – in relazione al prezzo corrente di mercato – la singola istituzione pubblica paga le forniture che acquista o prende in uso; e chi gestisce per la singola istituzione pubblica l’acquisto e la dismissione dei beni di proprietà o in uso all’ente. Si dovrà arrivare a tanto, facendo cadere uno ad uno i tanti “segreti di Stato” che oggi coprono – legalmente o illegalmente – questa materia.

A quel punto, diventerà allora chiaro anche il diritto dei cittadini di saperne di più circa la vita privata degli amministratori pubblici. Se il presidente della Regione X ha le emorroidi, o è gay, o fa uso di sostanze stupefacenti, a me contribuente non interessa né deve interessare. Ma se quel presidente (dico cose a caso) subisce ricatti a causa delle sue peculiari abitudini, o se ha sul groppone debiti ingenti e riesce malgrado ciò a sostenerli; se possiede ville a Capri, yacht, terreni a Cortina d’Ampezzo o discoteche a San Babila, io contribuente ho il diritto sacrosanto di sapere quale è la fonte di quelle ricchezze: se i risparmi di una vita certosina, se lo zio d’America che lo ha lasciato unico erede dei suoi beni, se l’appropriazione indebita di denaro pubblico (e quindi anche del mio denaro), se la corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Questo i cittadini hanno il diritto di saperlo. L’appello alla privacy, che oggi si fa da parte di amministratori pubblici e che riempie i giornali e le trasmissioni televisive, altro non è che l’ultima trincea del tentativo di sottrarsi al controllo dei cittadini. Questa trincea dovrà finalmente essere abbattuta. Una concezione davvero liberale e democratica dello Stato e della politica non può consentirne la sopravvivenza.

Sono utili le riforme istituzionali per cambiare dal profondo questo stato di cose? Certo, lo sono senz’altro: a patto, naturalmente, che si tratti di riforme giuste cioè di riforme necessarie ed appropriate. A patto che si tratti di riforme che mettano il cittadino al centro della politica e costruiscano l’ordinamento dello Stato, e dell’Unione europea, e delle autonomie locali a misura del cittadino e dei suoi diritti, allo stesso modo di come il sarto confeziona l’abito sulla misura del cliente.

Tuttavia, prim’ancora di qualunque riforma del quadro istituzionale, la possibilità stessa di aprire un varco nella fortezza chiusa della politica è legata, secondo me, ad una riforma in senso democratico dei partiti politici. Aprire i partiti politici a libere discussioni e votazioni sull’intero territorio nazionale; rendere elettiva la scelta delle rappresentanze politiche a tutti i livelli di governo e in ogni sede istituzionale; trasformare i partiti politici in ciò che essi sono per loro stessa natura e cioè articolazioni del sociale. A me sembra che questa debba essere la prima delle riforme da fare. Questa riforma, è chiaro, non basta. Ma almeno sarebbe (per usare la memorabile frase di Winston Churchill) <<la fine dell’inizio>>.

Vi è poi almeno un’altra ragione per occuparsi del caso di Stefano Cucchi.

Hanno scritto i giornali che Stefano Cucchi era uno spacciatore, e come tale fu arrestato. Non ho elementi per sapere se ciò fosse vero, o no. Quello che so per certo è che la vita di Stefano Cucchi sarebbe stata diversa se egli avesse trovato sulla sua strada una chance di lavoro dignitoso. Questo vale per lui come vale per i tanti giovani che conducono una vita grama, come lo era per lui. Questo però pone il problema dei giovani e del loro accesso ad un mercato chiuso del lavoro, dove ormai il solo lasciapassare che conta è la “raccomandazione”. Questa è una piaga italiana. Lo è soprattutto al Sud, dove l’economia privata è variamente intrecciata con l’economia pubblica. Qui la raccomandazione è la risorsa indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Risulta così contraddetto uno dei principi base della civiltà moderna, vale a dire il diritto al lavoro. Il diritto al lavoro significa che chiunque può competere sul mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri. Questa condizione di parità nel Sud non esiste. C’è una specie di forca caudina che molti giovani devono passare per accedere ad un posto di lavoro. Si ha quindi una stortura rispetto alle regole della libera ed eguale competizione nel mondo del lavoro. Un principio di giustizia proclamato dalla Rivoluzione francese è quello che lo status di cittadino, che l’ingresso verso una carriera professionale non deve dipendere né dalla condizione sociale né da quella economica, ma solamente dalle capacità personali. Del resto, il sistema della “raccomandazione” non è soltanto ingiusto. Esso crea condizionamento, dipendenza; crea umiliazione. Negli esclusi, uccide la speranza di una vita migliore.

Questa situazione chiama in causa il ruolo dei sindacati. Negli ultimi anni i sindacati si limitano a tutelare i lavoratori e i pensionati. Cioè si limitano a tutelare il diritto di lavorare e di godersi la pensione dopo aver lavorato. Quello che i sindacati, per difetto di cultura e a causa della loro stessa struttura oligarchica, invece non fanno è la difesa del diritto dei giovani al lavoro cioè il loro diritto di accedere al lavoro. Anche qui, un grande passo avanti sarebbe quello di dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che i sindacati debbano avere <<un ordinamento interno a base democratica>>. Questo determinerebbe una svolta attitudinale dei sindacati nei confronti del lavoro. Il percorso su questa strada è però ancora lungo.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

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Vite tra(t)tenute

di Giovanna Canigiula

Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia

Vite tra tenute è una testimonianza sulla vita in carcere realizzata dai detenuti dell’Alta Sicurezza  della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Imputati o condannati per tipi di reati previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, vivono al primo piano di un padiglione inaugurato nel 1997 in condizioni di sovraffollamento: in venticinque celle, che potrebbero ospitare 50 detenuti,  sono rinchiuse circa 70/80 persone, con una media di tre per cella, senza nessuna osservanza, al momento dell’assegnazione, degli artt. 27 reg. esec. (osservazione della personalità), 14 e 64 o. p. (separazione imputati- condannati, separazione giovani- adulti, necessità di trattamento individuale o di gruppo).  Meno della metà dei carcerati sono definitivi, i più sono giudicabili ed appellanti.

La testimonianza è figlia dell’adesione, da parte dei detenuti, al progetto sperimentale ATHENA, elaborato nel 2004 dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria con lo scopo di favorire la socializzazione, la partecipazione attiva dei soggetti alla “gestione” del carcere e la costruzione di un sistema sociale migliore. L’assunzione dell’impegno ha dovuto vincere molte resistenze dal momento che, come i detenuti scrivono, il carcere controlla un ampio ventaglio di benefici e di oneri essenziali, a volte decisivi e nessuno è disposto a rischiare il trasferimento in altri istituti e l’allontanamento dai propri familiari per avere protestato contro limitazioni e privazioni.

L’aspetto più doloroso della vita in carcere è, senza dubbio, l’essere privati della libertà e, quindi, della possibilità di intrecciare o conservare relazioni con parenti e amici. Tra le testimonianze, infatti, significativa è quella di un detenuto che rimpiange il carcere di Palermo perché, anche se vecchio e “rigoroso”, gli consentiva di usufruire della visita settimanale dei familiari, essenziale per chi è costretto, per anni o per la vita, a vivere tra le quattro pareti di una cella in cui, all’essere socialmente morto, si aggiunge la sofferenza di dovere quotidianamente alternare la branda allo sgabello per la mancanza di spazio, dividere un vano bagno di un metro quadrato con altre persone, scambiare forzate conversazioni, temere per la propria sicurezza personale a causa di detenuti violenti ed aggressivi o dell’azione repressiva del  personale carcerario, subire continui controlli. L’elenco dei danni psico- fisici è lungo: danneggiamento della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo, perdita di valori e attitudini, isolamento, perdita di stimoli dovuta all’adattamento a un ambiente povero e al ritmo lento e monotono della vita istituzionale, estraniamento, diminuzione della stima in se stessi e conseguente dipendenza dalla struttura, anestesia emotiva, ansia e depressione che possono portare ad episodi di autolesionismo, suicidi e violenza. E poi danni visivi e all’apparato digerente e dentario, patologie dermatologiche, compromissione del sistema respiratorio, disturbi del sonno. Ammalarsi in carcere è una vera tragedia perché, nel luogo in cui si può morire ma non guarire, si è come orsi feriti che nulla possono fare a tutela della propria salute,terminali di un apparato sanitario già mal funzionante all’esterno, inceppato dietro le sbarre, dove si paga lo scotto di carenti risorse finanziarie, di personale che è, quindi, costretto ad operare per tamponare la malattia più che per curarla, di un apparato che non interviene per prevenire, quanto invece per accertare e tenere sotto controllo, il tutto con i tempi consentiti in un carcere. Il carcere diventa, così, un’“istituzione totale” che annienta, anche se vi sono momenti in cui urge il bisogno dianimare le vigilie; vivere nell’esistente, dare un senso alle cose, al tempo, alle ricorrenze;  attivare sentimenti, ricordi, emozioni; collegarsi con la mente ed il cuore ai personali legami forti che sono fuori, lontani quanto dentro, e vicini in ognuno nella prospettiva. La speranza prende allora i colori della creatività: è l’albero di Natale realizzato con bottiglie di plastica, carte colorate e mezzi di fortuna; sono i dolcetti tradizionali che si preparano a Pasqua con ciò di cui si dispone; sono le trombette e le maschere appese a Carnevale alle pareti della cella. E’ il caffè che si fa trovare ai familiari nel giorno delle visite.

L’arte di arrangiarsi è una di quelle cose che si impara abbastanza presto. L’Ordinamento Penitenziario prevede la somministrazione quotidiana di tre pasti, preparati nelle apposite cucine degli Istituti ad opera di detenuti e internati che svolgono la mansione per tre mesi. A tutti è però consentito di tenere, in cella, fornelli di dimensioni e caratteristiche conformi alle prescrizioni ministeriali e di ricevere quattro pacchi al mese, di peso complessivo non superiore ai venti chili, contenenti abbigliamento e generi di consumo comune tassativamente indicati in tabelle fissate dalla direzione dei singoli Istituti. Ogni anno il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stabilisce i limiti delle somme che possono essere spese per gli acquisti e la corrispondenza e questa è una voce importante perché i detenuti preferiscono, anche quando il servizio cucina è accettabile, preparare da sé ciò che consumano. Scatta, infatti, una sorta di rifiuto nei confronti dell’istituzione che porta a vivere come imposizione ciò che ti viene somministrato: l’affermazione della propria identità passa attraverso la preparazione dei piatti, centro motore di un’esistenza altrimenti immobile.

Ogni detenuto, al momento dell’ingresso in cella, ha in dotazione dall’Istituto un cucchiaio, una forchetta, due piatti e un bicchiere di plastica dura, Niente coltelli. In due metri quadrati, inoltre, deve organizzare una cucina. Che fa? Nella parete sopra il tavolino attacca ganci adesivi, resi più resistenti con accorgimenti particolari, per appendervi le pentole. Queste, una volta usate e lavate, vengono lasciate asciugare su scolapiatti di manifattura artigianale: sulla parete sopra il lavandino si mettono tre ganci a forma di triangolo, ai due ganci che costituiscono la base si aggancia un lato di un cestello, all’altro si lega un laccio di plastica ricavato dai sacchetti della spazzatura e vi si lega il centro della parte opposta del cestello. Cestelli variamente sovrapposti servono a contenere frutta, conserve e stoviglie. Con cartoni, bottiglie di plastica, pezzi di legno, vinavil, strisce di plastica  si realizzano tavolini, leggii, vasi, soprammobili, portariviste, portaritratti, portalettere, portacenere, porta bicchieri, sturalavandini, pattini per le brande. Con un appendiabiti di plastica è possibile ottenere una bilancia: basta appendere, alle due estremità, quattro lacci che sorreggono due piatti di carta. I pesi, da cento cinquanta e dieci grammi, si possono realizzare inserendo del sale in dei contenitori di plastica. Per stirare si usa la caffettiera con acqua bollente. Acqua e candeggina servono da deodorante. Tra i sistemi di fabbricazione di un forno, ve n’è uno ingegnoso: si appoggia su uno sgabello un fornello da campeggio smontato della base d’appoggio e del bruciatore, poi rimontato dalla parte interna dello sgabello medesimo,  se ne copre il tronco con un lenzuolo o una coperta o un asciugamano inumiditi; si capovolge quindi lo sgabello e lo si poggia su una base, si incastra o si appende una pentola avendo cura che non tocchi la fiamma e se ne ricopre la parte superiore. Basta accendere e il forno funziona. Le bevande, invece, si tengono al fresco mettendo le bottiglie dentro calze bagnate o in secchi d’acqua in cui si svuota una bomboletta di gas. Le grattugie si ottengono da coperti o da scatole di latta bucherellati. Con una penna, tre astucci e tre pezzi di filo interdentale si fabbrica un telecomando; con tubicini in pvc e cestelli da frutta un comodo stendibiancheria da attaccare alle grate.

Nel bagno, a forma di trapezio con basi di due metri per uno, vi sono un lavandino con specchio, tazza e bidet. Anche qui, visto il numero di ospiti per cella, l’organizzazione è fondamentale. Alla destra del lavandino scatole di pasta e pacchetti di sigarette rivestiti di carta argentana o fazzoletti decorati ospitano gli effetti personali di ciascun detenuto. Un palo di scopa incastrato all’altezza del rivestimento delle mattonelle serve per agganciare gli appendiabiti e tenere in ordine vestiti, accappatoi e la busta con i panni sporchi. Il porta scarpe è realizzato con i cilindri di cartone dei rotoli di carta igienica, tagliati in otto punti su un’estremità: le frange si piegano verso l’esterno a 90° e si incollano su un cartoncino rotondo. Appendini di plastica riscaldati e tagliati a forma di gancio diventano, invece, porta rotoli. Progressi enormi: negli anni ’70 i bisogni fisiologici si facevano, senza privacy ad eccezione della coperta con cui ci si avvolgeva, dentro un buiolo, cioè un bidoncino, che veniva ritirato due volte al giorno e nel quale si bruciava un foglio di giornale per coprire gli odori; non c’era lavandino; la doccia si faceva una volta a settimana e ci si asciugava con un lenzuolo; ci si cambiava una volta a settimana.

Com’è la giornata tipo di un detenuto nel carcere di Vibo? Il buongiorno, alle sette, è dato dallo scricchiolio del giro di chiavi nella serratura del blindo esterno dell’ingresso della cella. Dopo circa un quarto d’ora lasciano le celle i detenuti addetti alla preparazione della prima colazione (latte, the, caffè) e, intorno alle 7.50, viene aperta la cella del vivandiere che provvede alla distribuzione. Alle otto un agente passa per le celle e chiede se qualcuno vuole iscriversi per avere contatti con l’ufficio di matricola o con l’infermeria. A giorni alterni, dalle 8.30 alle 11.00 e dalle 15.30 alle 18.00, è consentito fare la doccia.  Dalle 9.00 alle 11.00 ci sono le classiche due ore d’aria in cui si osservano regole codificate: ci si divide in gruppi, gli anziani stanno al centro e non bisogna voltare loro le spalle quando si raggiunge l’estremità del cortile che non va mai attraversato trasversalmente. Se si preferisce frequentare la scuola, le lezioni durano fino alle 12.00, ora in cui viene servito il pranzo in cella. Per ingannare il tempo, il regolamento prevede l’uso della carte napoletane ma non di quelle francesi. Per realizzarle, allora, i detenuti comprano 55 cartoline plastificate, le tagliano a metà, le rifiniscono e le disegnano. Due volte a settimana, per gruppi di quindici e per un’ora e mezza, si può andare in una sala a giocare a biliardo, ping- pong, dama e carte. Una volta a settimana si può utilizzare il campo di calcio. La palestra è in cella: con bottiglie, pali e strisce di maglia si realizzano i pesi.

L’ordinamento penitenziario attribuisce al detenuto il diritto all’istruzione e lo Stato è obbligato, in base all’art. 33 comma 2, a garantire la fruizione dei corsi scolastici, soprattutto di quelli obbligatori. La scelta di frequentare una scuola non è dettata dall’interesse per l’istruzione ma dalla possibilità di evadere dalla monotonia di una giornata segnata da due possibilità: stare in cella o uscire all’aria aperta.  Con in più il piacere di sentire e vedere persone che vengono dal mondo esterno, assaporare la sensazione di respirare una boccata di libertà, provare il gusto di conversare con “altri” di altro. Il detenuto ha pochi stimoli per programmi ideati per ragazzi di 6- 18 anni, frequenta magari le lezioni per guadagnarsi possibilità da spendere una volta fuori, si rapporta però all’istituzione scolastica come a un corpo rigido, quasi estraneo ai suoi interessi e alle sue prospettive. Studiare non è facile: come si fa se uno cucina, un altro ascolta musica, un altro guarda la TV? Non si hanno contatti con altri studenti e, se c’è un intoppo ad esempio nella soluzione di un problema, non si dispone che di se stessi di fronte al testo. Scoraggiante. Tuttavia il D.A.P. Calabrese ha stipulato anche un protocollo d’intesa con l’Università della Calabria per coloro che ambiscono a un titolo superiore ed in alcuni istituti penitenziari, come quello di Catanzaro, sono stati avviati corsi della facoltà di giurisprudenza, con docenti che tengono lezione in carcere e studenti che dispongono di celle singole per poter studiare. Vibo ha seguito a ruota l’iniziativa.

Il sistema carcere tende a essere conservatore e refrattario ai cambiamenti. Le tecniche usate dal personale sono consolidate:  rimandare richieste, ordini, disposizioni a un’autorità responsabile esterna, seguendo il principio del “lavarsene le mani”; svuotare di significato le proposte in conflitto con gli interessi dominanti; rendere impraticabili le proposte innovative; dilatare fino a “nuovo ordine” l’attuazione di una proposta; sminuire un’idea o un’iniziativa senza osteggiarla apertamente; appropriarsi di un’idea apportandole sottili cambiamenti.

Anche la comunicazione segue delle direttrici. Relazioni di tipo orizzontale sono quelle fra detenuti, per i quali vale anzitutto la regola secondo cui a megghiu  parola esti chidda chi nun nesci e ciò per la convinzione di essere continuamente controllati e intercettati, il che favorisce un dialogo per parabole o per gesti. Comunicare tra persone che vivono lo stesso disagio porta, però, a parlare sempre delle stesse cose e se all’inizio è consolante, col passare del tempo intristisce, l’interesse si spegne e si diventa taciturni. Di tipo verticale è la comunicazione tra detenuto e staff dirigenziale che avviene secondo regole precise. Al mattino l’agente di sezione annota la richiesta di colloquio avanzata dal detenuto, viene stilato un elenco, generalmente il colloquio arriva quando ormai le ragioni della richiesta sono state superate dagli eventi. Il sistema di relazioni spesso è tale che, per evitare ritorsioni, il detenuto è indotto a comportamenti remissivi e furbeschi e ciò porta a sviluppare personalità asociali, genera rabbia e rafforza la solidarietà del sottosistema in cui ci si rifugia. Quando avviene, il colloquio del detenuto col direttore si svolge in una stanza che resta aperta e alla presenza di un assistente: viene così annotato tutto ciò che dice stando in piedi di fronte alla scrivania. Il rapporto con l’agente penitenziario è, invece, complesso. Molti agenti criminalizzano il detenuto in quanto responsabile del loro “odiato” lavoro e lo guardano con gli occhi omologanti, svogliati e veloci della società di cui fanno parte: il detenuto è il “diverso” che va rinchiuso, isolato, ibernato, eliminato dal corpo sociale. Spesso utilizzano espressioni e atteggiamenti che vengono percepiti come vessatori, provocatori e prevaricatori e si innesca un rapporto conflittuale che rende l’agente guardiano e, al tempo stesso, ladro di dignità e di umanità. Per contro vi sono agenti professionali che, pur rigorosi, sanno operare un approccio differenziato e individualizzato, non hanno pregiudizi, non sono razzisti, basano il sistema relazionale su regole chiare, fondate su diritti e doveri e ispirate ai principi della cultura del rispetto. Non esercitano un potere, ma prestano un servizio.

Scioperare in carcere è un modo per dare voce alla sofferenza dei detenuti. Se, poi, la protesta è nazionale e fa notizia sui quotidiani, è il modo per denunciare le condizioni d invivibilità, per sollecitare l’intervento delle istituzioni, per interloquire con quella parte della società cinica che considera il carcere una discarica sociale. A Vibo, i detenuti dell’Alta Sicurezza hanno dato vita aSpazio Ristretto, un giornale nato dalla collaborazione con l’I.T.C. “G. Galilei”, in cui si affrontano i problemi della vita dentro, si promuove la cultura dei Diritti e della Solidarietà, si discute di giustizia e legalità: giustizia è rispondere con progetti di bene al male ed agire con giustizia significa attuare l’opera dei diritti umani, architrave della democrazia a prescindere da tutte le condizioni o status.Sanzione penale e pena detentiva, scrivono i detenuti, non sono l’unica risposta possibile per difendere i cittadini e la società da delitti e violenze. Nel 90 % dei casi, chi sta in carcere ha una storia di emarginazione sociale alle spalle, percorsi educativi insufficienti, povertà materiali e culturali. Al termine della pena, il “rientro” in società fa scontare una doppia emarginazione e l’impossibilità di reinserimento lavorativo e sociale determina quel circolo vizioso che dal carcere riconduce al carcere. Tendere al recupero sociale del condannato significa preoccuparsi di quale soggetto rientrerà nella società una volta scontata la pena: è meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza?

I detenuti, attivissimi, hanno curato e promosso anche una pubblicazione, dal titolo Ogni società ha il carcere che si merita, in cui non solo hanno raccolto riflessioni sul mondo- carcere, ma indicato una serie di proposte di modifica legislative del sistema sanzionatorio, evidenziandone le incongruità sotto il profilo politico- criminale e l’inefficienza delle pene che trasforma il carcere in una entitàcriminogena. Hanno scritto a tutti: ai Magistrati di  Sorveglianza dei Tribunali della Calabria, agli Ordini degli Avvocati e alle Camere Penali della Calabria, ai candidati alla Presidenza della Regione Calabria, agli operatori del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Catanzaro, ai parlamentari calabresi, ai sindaci delle 11 città sedi di carceri, agli assessori comunali dei servizi sociali, ai presidenti delle Amministrazioni provinciali, agli assessori provinciali dei servizi sociali.

In Vite tra tenute la parola che ricorre più di frequente è “uomini”. I detenuti che si cimentano a fare i giornalisti si rivolgono, infatti, alla copia dell’uomo che in ognuno di loro c’è. Alunni adulti che considerano la libertà un dono speciale, che vogliono far riflettere sul fatto che diversi sono coloro che li considerano tali, che vivono il loro giornale come la pedagogia evangelica che l’uomo mette in atto con altri uomini, che superano col lavoro il senso di soffocamento insopportabile che dà l’amara realtà della cella, della gabbia, del chiuso, del dolore per il dolore, della sofferenza per la sofferenza. Che recuperano anche la loro calabresità attraverso raccolte di poesie, filastrocche, proverbi.

Uomini che, se viene loro data un’opportunità, svolgono attività teatrali, realizzano cortometraggi, si improvvisano attori. E che, nel luogo della sofferenza, ritrovano le condizioni ideali per parlare alle proprie anime. Citano E. Dickinson: L’anima è per se stessa/ Un imperiale amico/ O la più angosciante spia/ Che un nemico possa mandare. Per legge la pratica spirituale è considerata uno strumento di rieducazione del recluso. Tale attività è però vissuta come vuoto cerimoniale: la messa settimanale, spesso con il rito abbreviato per esigenze di servizio, la presenza del vescovo nelle ricorrenze annuali solenni, l’incontro periodico con il cappellano sono visti come distrazioni che non sollecitano l’animo alla riflessione sulle proprie modalità di essere o al ripensamento del proprio passato. Ciò che chiedono è altro: la possibilità di avviare processi di riflessione sui temi esistenziali, sui valori, sui principi che costituiscono il motore portante delle dinamiche dei rapporti sociali, parlare all’interiorità di ognuno e farla parlare.

Esseri deprivati, maschere che reprimono o dissimulano le sensazioni che provano, affidano alla scrittura i desideri  di libertà, amore, gioia, prospettiva, futuro, normalità, serenità. Voci dal Silenzio è una raccolta di poesie curata sempre dall’I.T.C. di Vibo, pensieri in libertà dedicati a genitori mogli e figli,  al cielo alla luna e alle stelle ai quali si è detto arrivederci, ai fratelli fuori dai cancelli, agli amici alla scuola all’amore, alla voglia di vivere e alla paura di vivere, alla rabbia alla pazienza ai sogni, alle mosche che fanno compagnia, ai sogni e alle attese. Tutto ciò che per Te…è inutile…/ Per noi è…bisogno;/ Tutto ciò che per Te è… insignificante…/ Per Noi è…importante;/ Tutto ciò che per Te è…superfluo…/ Per Noi è…necessario;/ Tutto ciò che per Te è…complicato…/ Per Noi è…semplice;/ Tutto ciò che per Te è…tempo perso…/ Per Noi è…vita;/ Tutto ciò che per Te è…da buttare…/ Per Noi è…da salvare;/ Tutto ciò che per Te è…ignoranza…/ Per Noi è…scuola;/ Tutto ciò che per Te è…cemento…/ Per Noi è…panorama; /Tutto ciò che per Te è…fatica…/ Per Noi è un…sollievo;/ Tutto ciò che per Te è…uffa…/ Per Noi è…libertà.

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Un silenzio pieno di rumore

di Giovanna Canigiula

Manuel Eliantonio è morto il 25 luglio di quest’anno nel carcere Marassi di Genova. La morte è stata etichettata sotto la voce “suicidio”. Le foto scattate all’obitorio del San Martino evidenziano ferite ed ecchimosi che il ragazzo difficilmente avrebbe potuto procurarsi da solo.

Sulla vicenda:

– 20 ottobre 2008: il parlamentare Pdl Cassinelli, che si occupa di carceri, annuncia un’interrogazione parlamentare al ministro Alfano perché si faccia chiarezza su quanto accaduto a Marassi;

– 27 ottobre 2008: il consiglio regionale della Liguria approva all’unanimità (primo firmatario V. Nesci di Rifondazione comunista) un ordine del giorno che impegna Presidente e Giunta ad intervenire presso le autorità di governo affinché sia avviata una commissione d’inchiesta parlamentare per fare chiarezza “sulle cause della morte di Manuel e sulle eventuali responsabilità delle strutture circondariali della direzione dei dipartimenti di grazia e giustizia e sulle conoscenze dei fatti da parte del ministro e del governo”;

– 31 ottobre 2008: il Provveditorato regionale per la Liguria del Dipartimento della Giustizia respinge ogni illazione “in ordine a comportamenti meno che professionali da parte del personale penitenziario” in relazione al decesso di Manuel, precisa di avere da subito avviato una propria inchiesta amministrativa e di voler collaborare con l’autorità giudiziaria;

– 17 novembre 2008: la parlamentare radicale R. Bernardini avvia un’interrogazione parlamentare sulla morte di Manuel e di un marocchino di venti anni, Hamid Driss, morto l’11 novembre nel carcere Le Vallette di Torino.

Di Manuel ha parlato la madre il 21 settembre in una trasmissione Rai e diversi blogger hanno denunciato il caso. Il suo nome è fra quelli che compaiono nel dossier “Morire di carcere 2000- 2008” da cui  risulta che, dal 1° gennaio al 12 settembre 2008, nelle carceri italiane sono morti  85 detenuti,  33 dei quali per suicidio, con un incremento, rispetto al 2007, dell’11%. Nel dossier si precisa che diversi sono i casi sospetti e che quelli riportati non sono rappresentativi della totalità ma sono quelli di cui si sono ricostruite le vicende sulla base di notizie tratte da giornali, agenzie stampa, internet, lettere di detenuti e parenti. Di seguito l’elenco dei casi raccolti nel 2008, in ordine cronologico, di cui si riportano nome e cognome, età, data della morte, causa della morte, istituto nella quale è avvenuta:
Fabrizio P.
26 anni
04 gennaio 2008
Suicidio
Opg Aversa (CE)

Andrea Mongelli
32 anni
13 gennaio 2008
Suicidio
Trani (BA)

Claudio Tomaino
31 anni
18 gennaio 2008
Suicidio
Viterbo

Walid M. El Manawhlx
39 anni
20 gennaio 2008
Da accertare
Padova (permesso)

Dimitri Feraresso
37 anni
20 gennaio 2008
Da accertare
Padova (permesso)

Vincenzo Romano
35 anni
29 gennaio 2008
Suicidio
Opg Aversa (CE)

Mija D., serbo
40 anni
29 gennaio 2008
Malattia
Regina Coeli (Roma)

Daniele Foti
42 anni
02 febbraio 2008
Da accertare
Siracusa

Gianfranco Buschini
50 anni
03 febbraio 2008
Da accertare
Venezia

Andrea Brigida
29 anni
04 febbraio 2008
Da accertare
Imperia

Giovanni Rondinelli
71 anni
04 febbraio 2008
Da accertare
Catanzaro (domicil.)

Sandro Di Nisio
35 anni
05 febbraio 2008
Da accertare
Vasto

Giovanni Cataldo
36 anni
10 febbraio 2008
Suicidio
Palermo

Michele Greco
84 anni
13 febbraio 2008
Malattia
Rebibbia (RM)

Vincenzo Parlato
54 anni
24 febbraio 2008
Malattia
Salerno

Detenuto cinese
35 anni
2 marzo 2008
Malattia
Venezia

Giuseppe Romano
48 anni
20 marzo 2008
Suicidio
Siracusa

Davide Folli
27 anni
25 marzo 2008
Suicidio
Opera (MI)

Said Mouaaouia
36 anni
28 marzo 2008
Suicidio
Opg Aversa (CE)

Valentino Atzori
32 anni
09 aprile 2008
Da accertare
Torino

N.D.B., italiano
25 anni
11 aprile 2008
Suicidio
Larino (CB)

Orazio Cannata
60 anni
13 aprile 2008
Suicidio
Catania (domiciliari)

Antonio Marchesani
57 anni
20 aprile 2008
Suicidio
Torino (domiciliari)

Stefano M.
40 anni
23 aprile 2008
Da accertare
Roma Regina Coeli

Detenuto italiano
60 anni
25 aprile 2008
Suicidio
Verona

Giuseppe Clemente
44 anni
27 aprile 2008
Suicidio
Torino

Orazio Joanna
35 anni
30 aprile 2008
Da accertare
Frosinone

Mihai, rumeno
20 anni
30 aprile 2008
Suicidio
Viterbo

Marco Pes
42 anni
1 maggio 2008
Malattia
Oristano

Flor Castillo
33 anni
4 maggio 2008
Malattia
Giudecca (VE)

Vincenzo
66 anni
17 maggio 2008
Da accertare
Milano San Vittore

Detenuto marocchino
28 anni
21 maggio 2008
Suicidio
Prato

Rose Ayough
33 anni
22 maggio 2008
Da accertare
Cagliari

Hassan Nejl
38 anni
24 maggio 2008
Malattia
Cpt Torino

Antonello Desogus
43 anni
25 maggio 2008
Da accertare
Cagliari

Massimo, italiano
23 anni
30 maggio 2008
Suicidio
Roma Rebibbia

Fabrizia Germanese
44 anni
31 maggio 2008
Suicidio
Cosenza

Rolando Pagliarulo
55 anni
04 giugno 2008
Da accertare
Siracusa

Ignazio Romano
34 anni
06 giugno 2008
Malattia
Avellino

Francesco Russo
30 anni
11 giugno 2008
Da accertare
Catania (domicil.)

Sangare Samba
28 anni
11 giugno 2008
Da accertare
Caserta

Niki Aprile Gatti
26 anni
24 giugno 2008
Suicidio
Firenze

Tamara Selli
34 anni
24 giugno 2008
Suicidio
Salerno

Detenuto ghanese
33 anni
29 giugno 2008
Malattia
Cpt Caltanissetta

Elvisa Bescagic
32 anni
04 luglio 2008
Suicidio
Roma Rebibbia

Giuseppe Pistorino
47 anni
16 luglio 2008
Suicidio
San Gimignano (SI)

Giuseppe Mercuri
59 anni
19 luglio 2008
Suicidio
Lecce (domicil.)

Sophie Chaffurin
43 anni
19 luglio 2008
Suicidio
Lecce (domicil.)

Detenuto italiano
50 anni
21 luglio 2008
Malattia
Spoleto

Mustafà, francese
41 anni
22 luglio 2008
Malattia
Verona

Manuel Eliantonio
22 anni
25 luglio 2008
Suicidio
Genova

Dule G., albanese
41 anni
08 agosto 2008
Malattia
Regina Coeli (Roma)

Antonio Serra
45 anni
11 agosto 2008
Suicidio
Nuoro

Ali Jubury
40 anni
15 agosto 2008
Sciopero fame
L’Aquila

Nicola G., italiano
47 anni
21 agosto 2008
Malattia
Rebibbia (Roma)

Okyere Nana Mensah
35 anni
23 agosto 2008
Malattia
San Vittore (Milano)

Rachid Basiz
29 anni
25 agosto 2008
Malattia
Trento

Franco Paglioni
44 anni
25 agosto 2008
Malattia
Forlì

Detenuto tunisino
28 anni
09 agosto 2008
Da accertare
Nuoro

Jonny Montenegrini
32 anni
11 settembre 2008
Suicidio
Opera (Milano)

Il Dossier riporta, inoltre, la serie storica delle “morti da carcere” dal 2000 al 2008, sempre sottolineando la parzialità dei dati. Sono presi in considerazione l’anno, il numero dei suicidi e il totale dei morti. Per il 2008 i dati sono fermi al 12 settembre:

2000     2001     2002    2003     2004    2005   2006    2007     2008
56         69         52        57         52        57       50        45         33
160       177       160      157       156      172     134      123       85

Il totale dei morti è 1.298. I suicidi sono 468. Troppi per continuare a ignorarli.

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Vite sospese: sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto

di Giovanna Canigiula

Nel pomeriggio del 15 novembre, mentre la popolazione di Cropani si preparava a manifestare contro il nuovo Cpa, i radicali calabresi hanno promosso un sit in a sostegno dei richiedenti asilo e invitato le parlamentari Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti a visitare la struttura. Il diluvio ha impedito lo svolgimento della manifestazione, la visita invece si è svolta. Il giorno successivo, da infiltrata ben accolta, sono andata con la Bernardini e con Giuseppe Candido, del Direttivo nazionale, nel Cda- Cara di Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, il più grande d’Europa, a vedere da vicino come stanno le cose. Già informati, ci hanno accolto la direttrice e il suo vice con i quali la parlamentare si è a lungo intrattenuta.

Il centro, che potrebbe ospitare poco più di mille persone, da metà giugno soffre di sovraffollamento e non scende mai al di sotto delle 1800 unità. Le provenienze degli ospiti sono disparate ma, attualmente, la maggioranza è costituita da nigeriani, eritrei, afghani e somali. Molti, anche, coloro che provengono dal Ghana e dalla Costa d’Avorio. Trentasette, in tutto, le nazionalità contate, il che comporta convivenze forzate tra gruppi provenienti da aree in reciproco conflitto. Appena 198 le donne e 33 i bambini.

La Prefettura di Crotone ha stipulato varie convenzioni per la gestione del centro: al comune di Isola è affidata la manutenzione –subito data in subappalto- mentre l’Asl 5 si occupa del servizio sanitario e una confederazione di Misericordie, con la Caritas diocesana di Crotone- Santa Severina,  dei pasti, dell’orientamento e dell’assistenza, compresa quella legale. Per ogni ospite è prevista un’indennità giornaliera di 30 euro. L’emergenza, fronteggiata per come si può, è sotto gli occhi. Solo da maggio è aperta una sezione con piccoli appartamenti in muratura destinati ai nuclei familiari, per un totale di 256 posti: ogni appartamento ha due stanze (una con un tavolo e quattro sedie e una con reti e materassi) più il bagno. Gli altri richiedenti asilo sono ospitati in circa 30 tende inviate dal Ministero degli Interni, in cui si dorme su materassini di gommapiuma senza lenzuola,  e in circa 160 container distribuiti nelle sezioni A, B, C e D del campo, con 10- 12 persone per container. Pochissimi i bagni, insufficienti le docce, spesso intasate le vecchie tubature con conseguente fuoriuscita dai tombini di liquame puzzolente, assente per giorni o a partire dall’una di tutti i giorni l’acqua.

La normativa prevede che il tempo di permanenza non sia superiore ai trenta giorni, dal momento della formalizzazione della richiesta d’asilo. In realtà, le cose non stanno proprio così e i tempi si allungano fino a sei mesi. Incerta, ad esempio, è la situazione dei nigeriani, poiché provengono da una regione in cui non v’è conflitto manifesto, per cui la loro domanda è automaticamente respinta. Senza contare che, chi è transitato in altri stati dell’UE, si vede bloccato l’iter della domanda d’asilo dal Regolamento Dublino II e rischia di essere spedito in Grecia, dove il riconoscimento dello status di rifugiato è bassissimo. La Commissione territoriale di Crotone, che ha sede all’interno del campo unitamente all’Ufficio immigrazione della polizia, non riesce ad accorciare i tempi della burocrazia. A complicare le cose si è aggiunta, inoltre,  la legge 25 del 2008, che ha spostato le competenze  in materia al Tribunale di Catanzaro dove, a dispetto di quanto avviene nel resto d’Italia, si rifiuta il gratuito patrocinio. I legali che fanno capo al centro, 10 o 11 in tutto, quindi chiaramente insufficienti e  con il compito delicato di mediare tra l’attività di informazione e l’assistenza, hanno scelto la via dei ricorsi per arrivare ai gradi più alti. Il rischio reale è che gli ospiti finiscano nelle mani di avvocati esterni senza scrupoli che, per pochi soldi, promettono di seguire i singoli casi. Procurarsi i soldi significa, per chi non è in regola, lavorare al nero, indebitarsi o prostituirsi: sulla statale che da Sant’Anna porta  a Crotone non è infrequente vedere giovani donne in attesa di clienti o ragazzi che, suscitando l’ira dei contadini del posto, vendono le lumache raccolte nei campi limitrofi. L’arte di arrangiarsi, del resto, è resa obbligatoria dalla lunga permanenza: il kit di primo intervento, infatti, è bastevole per un solo mese, quello previsto dalla legge e negato dall’elefantiaca burocrazia. Di questo gravissimo problema ha comunque  promesso di farsi carico la Bernardini, che ha preannunciato un’interrogazione parlamentare allo scopo di verificare se è legale rifiutare il patrocinio.

Come si vive nel centro? La maggior parte dei richiedenti asilo -tutti giovani perché sui giovani si investe nei paesi da cui si fugge, talvolta col dramma di scegliere quale figlio portare con sé e quale abbandonare- è sbarcata a Lampedusa, dove è stato effettuato un primo riconoscimento. Arrivati al Sant’Anna, sono accolti nell’Ufficio immigrazione in cui si prendono di nuovo le generalità –il più delle volte fasulle- quindi si riceve il kit di primo intervento e si è accompagnati dagli operatori nel luogo destinato alla residenza. Il giorno dopo è fornito un tesserino di identificazione, col quale si conquista il permesso di uscire dalle 8.00 alle 22.00. Ogni giorno vengono fornite sigarette e ogni dieci giorni una scheda telefonica. I pasti sono gratuiti e preparati, a detta dei gestori, sulla base di una dieta calorica: gli ospiti generalmente preferiscono il pollo, lasciano le verdure, amano la frutta. Abituati al riso, che non viene fornito, mangiano molto pane. Poiché la sala in cui dovrebbero consumare i pasti riesce a garantire solo 50 posti a sedere, si preferisce consegnare il cibo imbustato e lasciarlo mangiare fuori. Il centro ha cercato di attivare forme di studio e di intrattenimento, anche per evitare eventuali tensioni tra gli ospiti. E’ domenica e ci viene fatta visitare una scuola in cui si insegna a parlare l’italiano, aperta di certo per l’occasione, allo scopo di far vedere come vanno normalmente le cose. In un’aula si guarda la televisione. Esistono laboratori musicali e teatrali, una ludoteca, una sala TV, corsi per parrucchiere, una cappella e una moschea. E’ garantita la quotidiana distribuzione di tre giornali, in francese, inglese e arabo. L’ambulatorio conta sul turnover di 12- 13 medici, non più in grado di garantire un efficace servizio. Il medico di turno  spiega che, fra le patologie più frequenti, ci sono le ferite di guerra e lamenta una scarsa collaborazione degli ospiti, che si aspettano interventi miracolistici e richiedono continuamente medicinali per i problemi più disparati, dal mal di pancia ai dolori articolari alle escoriazioni che si procurano giocando a pallone, salvo poi sospendere la terapia antibiotica dopo tre giorni. E’ difficile, dice, fare educazione sanitaria a gente che mal sopporta il dolore. Non si registrano, comunque, malattie infettive tranne un caso, al mattino, di sospetta varicella. Si paventano, inoltre, giorni duri in vista di un’influenza che si prospetta terribile per la presenza di due o tre virus particolarmente violenti: chi reggerà all’aggressività degli afghani? Influenza che, del resto, sarà inevitabile, considerando il gelo della vita in tenda e nei container.  Durante il percorso, però, incontriamo un eritreo, che denuncia la mancanza di assistenza: si cala i pantaloni e ci fa vedere un’infezione alle gambe che si trascina da tre mesi e per la quale nessuno, sostiene, è intervenuto, nel campo come a Crotone. Non sono nuove le denunce esterne degli ospiti riguardo alla mancata assistenza sanitaria o ai maltrattamenti subiti o alle scarse delucidazioni ottenute circa l’iter legale da seguire per il riconoscimento dei propri diritti: non siamo in grado, tuttavia, di darne conto, giacché per tutto il tempo della visita siamo in esclusiva compagnia degli organizzatori. Andrea, un altro eritreo, fa in tempo a lamentarsi per il sovraffollamento nei container, le carenze igieniche  e la mancanza d’acqua che, giustamente, trova insopportabile.

Molte le donne che chiedono test di gravidanza o incinte e con l’idea di abortire. Tra le emergenze, spiega la direttrice, c’è quella di garantire un rapporto col consultorio e la presenza di una ginecologa, un’ostetrica e un pediatra per evitare di intasare la struttura ospedaliera di Crotone. Uno dei più gravi problemi è quello della tratta e l’attività di informazione è, evidentemente, insufficiente: sottoposte a violenza o costrette alla prostituzione già durante il viaggio che le porta in Italia, le ragazze non trovano altra scelta per sopravvivere una volta giunte qua. Convincerle a denunciare è impresa non da poco e, del resto, una volta sporta la denuncia non c’è garanzia di una seconda e sicura assistenza in altri luoghi.

Pochi, si sa, sono quelli che ottengono il riconoscimento di rifugiati o una protezione umanitaria, anche perché lo Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) è appena in grado di garantire la seconda accoglienza ai casi più delicati. Tutti gli altri finiscono con l’essere lasciati a se stessi, sfruttati in agricoltura dai caporali e nell’edilizia dagli imprenditori, costretti a vivere di espedienti, disperati al punto da chiedere di poter restare nel centro. Quale l’idea che ci si è fatti? Non abbiamo parlato con gli ospiti, ma solo con gli operatori che hanno ringraziato la Bernardini per essere giunta in visita senza preconcetti ed avere pazientemente ascoltato il racconto delle loro fatiche. Che ci sia un problema di sovraffollamento difficile da gestire è innegabile. Che le condizioni di vita siano assai poco dignitose lo è altrettanto. Ma c’è anche un senso come di impotenza, che rende normale la prostituzione immediatamente fuori dai cancelli o il vivere di espedienti: troveranno del lavoro in nero là fuori, dicono, se hanno in tasca un cellulare e riescono in qualche modo a provvedere ai beni di prima necessità. Cosa facciano di preciso, sembrano volerlo ignorare. Le porte sono aperte, chiunque è libero di disporre della propria vita. Sono previste anche sette corse al giorno fino a Crotone, dove gli ospiti trascorrono come meglio credono le loro mattinate, molti per abitudine camminano e questo disturba, ma a questo non si può porre rimedio. Punto. Ritorniamo alla domanda di prima: quale idea ci si è fatti? La mia idea è che, affrontato un costosissimo viaggio di andata dall’inferno, giunti incolumi in terra straniera, schedati ma di fatto senza vero nome e pochi con possibilità di riconoscimento, questi uomini continuino a viaggiare in un cerchio che, dall’inferno, li rimanda all’inferno. Tutto qui.

Salutiamo la gentilissima Rita Bernardini, che prosegue con altri la sua visita nelle carceri calabresi. Saliamo in macchina ed eccoli: chi cammina in fila indiana, chi sta seduto ai bordi della strada, chi agita buste con lumache rubacchiate da vendere. Giuseppe Candido si ferma: dieci euro una busta. Quindi si ferma di nuovo: cinque euro ma niente lumache. Non gli piacciono tanto. I fortunati gli sorridono grati e scompaiono. Camminano in tondo e  sanno di farlo, eppure continua lo sforzo tutto umano di trovare una via d’uscita.

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