La mala educatión … e la scuola delle lamentele che non c’è

Scorretto verso i Prof l’articolo di Gurrado che parla della scuola come “mondo della lamentela”. Sicuramente non può essere considerato un’inchiesta.

Lunedì 9 gennaio il Foglio ha pubblicato quella che nell’occhiello viene definita “inchiesta” sulla scuola. In realtà di inchiesta l’articolo di Antonio Gurrado ha ben poco. Pubblichiamo di seguito la replica inviata al Foglio dal nostro direttore editoriale (che sulla scuola ne ha scritte tante), con la speranza che la pubblichino con stessa evidenza.


di Giuseppe Candido

Gentile direttore Claudio Cerasa,

Stando al vocabolario Treccani, la parola “inchèsta”, dovrebbe essere generalmente riferita a un’indagine “svolta oralmente o per iscritto per determinare lo stato oggettivo di fatti, situazioni”; in particolare un’inchiesta giornalistica, dovrebbe esser “condotta da giornalisti su aspetti o fatti particolari della vita pubblica, a scopo di informazione dei lettori e spesso anche con intenti di polemica politica o sociale”.
La polemica, dunque ci sta tutta. E non dimentichiamo che quando si pecca, si può farlo con parole, opere, ma anche con “semplici” omissioni.
Ciò premesso mi consenta di dissentire con quanto riportato nella “inchiesta” di Antonio Gurrado pubblicata su Il Foglio lunedì 9 gennaio col titolo (in prima) “La mala educatiòn” con cui l’autore, insegnante fresco di conferma in ruolo, – “marziano nel sistema d’istruzione” – come lui stesso afferma di essere, pretende di spiegarci -da Candido- “i” “perché la nostra scuola è diventata il più grande incubatore di delegittimazione sociale”: battaglia contro il merito (dei prof che non vogliono farsi valutare da nessuno, ndr ma fortemente sottinteso), presidi senza poteri (poverini, ndr) e riforme impossibili”.
Per screditare il mondo della Scuola reo di lamentarsi troppo, l’“inchiesta” di Gurrado parte dal corpo del Ministro dell’Istruzione che – a suo dire – sarebbe usato “come volgare metodo di valutazione ma efficace nel convogliare rimostranze confuse e pregiudiziali mei confronti della Fedeli”, ricostruisce la storia dei vari ministri dell’istruzione (ma non le riforme che ognuno di questi ha voluto imporre senza un minimo di visione e di condivisione). Dirigo un periodico nonviolento perciò su questo punto nemmeno mi soffermo: se qualcuno lo fa sbaglia. Punto.

Gurrado si definisce il “Candido” della scuola ma, candidamente, dimentica lo stato di diritto e la sentenza della Corte di Giustizia europea che, il 26 novembre del 2014 ha condannato l’Italia per abuso – nel settore scolastico soprattutto ma non solo – di contratti a tempo determinato sui posti vacanti e disponibili oltre i tre anni.
Non dice che l’intera riforma della Buona Scuola è partita da questo. Da un piano di assunzioni straordinario per ottemperare alla sentenza della C.G.E. che limitava e limita il rinnovo di contratti a tempo determinato oltre trentasei mesi, anche per i lavoratori della scuola; un piano straordinario, straordinariamente mal congegnato da chi di scuola non ci capisce nulla e che – dati alla mano – ha provocato l’anno peggiore che la scuola italiana ricordi con il carosello di insegnanti trasferiti da Sud a Nord e poi assegnati altrove – i più fortunati di nuovo a Sud – ad inizio d’anno che tutti, – dirigenti, genitori, insegnanti e persino alunni – hanno criticato.
E si dimentica di dire che – dati alla mano – proprio nelle scuole dove si verifica una forte rotazione degli insegnanti aumenta il rischio di bocciature e di abbandono scolastico.

Non è possibile liquidare la questione dei trasferimenti come fa Gurrado. Se è vero che fino a qualche decennio fa i concorsi per le pubbliche amministrazioni (e anche quelli per insegnare e/o dirigere una scuola) erano rigorosamente nazionali, è pur vero che – da oltre trent’anni ormai – i concorsi per insegnare si effettuano su base regionale.

Un tempo, come nota – sempre lunedì 9 gennaio – Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera facendo esplicito riferimento a un rapporto pubblicato dal sito TuttoScuola.com, “era un’altra Italia” in cui “era considerato normale raggiungere la sede di destinazione ovunque fosse”; aggiungendo che “lo accettarono il romagnolo Giovanni Pascoli trasferito a Matera, il salernitano Nicola Abbagnano mandato a Torino, il toscano Sestilio Montanelli smistato con moglie e figli a Nuoro”. Ma, appunto, era un’altra Italia.

Il richiamo in prima dell’inchiesta di Gian Antonio Stella e dell’articolo Educare non solo istruire contro il buonismo di Stato di Susanna Tamaro. Stralcio prima pagina del Corriere della Sera di lunedì 9 gennaio 2017.

Come spiega il rapporto della rivista TuttoScuola, “La forte resistenza di molti assegnati di oggi è dovuta probabilmente alla loro età mediamente superiore e all’ulteriore crescita della componente femminile tra i docenti”, aggiungendo che, “un conto è vincere un concorso a trent’anni e costruirsi un percorso di vita anche a mille chilometri di distanza dal luogo di nascita o residenza, ben altra cosa è essere un’insegnante quarantenne (magari con dieci anni di servizio da precario sulle spalle, ndr) sposata e con figli, e doversi spostare lontano da casa senza avere troppe speranze di ottenere un trasferimento o un avvicinamento in tempi ragionevolmente brevi”.  In tutto ciò, non è corretto liquidare la cosa stigmatizzando colleghe e colleghi che “non apprezzano il pane che lo stato gli dà” e vogliono solo il posto sotto casa.

Andrebbe ricordato, che la sentenza della Corte europea non chiedeva di assumere tutti i docenti abilitati, non chiedeva di fare piazza pulita delle graduatorie istituendo le ore di potenziamento, né chiedeva un piano di assunzioni a livello nazionale quando i concorsi – per legge e non per volontà dei docenti – lo Stato aveva deciso di farli a livello regionale e con graduatorie provinciali. La sentenza chiedeva semplicemente di stabilizzare con contratto a tempo indeterminato chi avesse già insegnato con contratto a tempo determinato oltre i trentasei mesi. Non è colpa della docente siciliana se – a quarant’anni – viene costretta a spostarsi ad insegnare a Milano o a Pavia. Poi è naturale che tenterà di riavvicinarsi alla famiglia.

Nell’inchiesta si dimentica di dire, cosa non da poco al fine dell’informazione che si dà ai lettori, che – per anni, decenni – concorsi e assunzioni nella scuola sono stati tenuti fermi. Il ricambio generazionale impedito. I posti si sono così accumulati e, per anni, migliaia di docenti hanno svolto il servizio su cattedre vacanti lasciate da coloro che andavano in pensione senza essere rimpiazzati. Contratti a tempo determinato usati oltre ogni limite e che la Corte di Giustizia europea ha – ricordiamolo ancora – dichiarato illegittimi se reiterati oltre i trentasei mesi. Pratica che, in Italia, era praticamente la regola.

Il Candido della Buona S(cu)ola non lo dice, ma – candidamente – ci dice, lui stesso, che il piano straordinario di assunzioni della riforma lo ha “catapultato” nella scuola malgrado, “nei precedenti anni”, avesse svolto tutt’altro mestiere e non avesse pertanto “mai considerato l’insegnamento come meta decisiva o anche solo prospettiva verosimile all’orizzonte della propria vita”.

Concordo con lui su un aspetto: università e scuola sono due cose completamente diverse; e sicuramente un docente universitario è messo in condizioni assai migliori per svolgere il proprio lavoro, e anche la considerazione sociale che se ne ha è assai diversa.

Gentile direttore, pure io sono Candido; mi chiamo Giuseppe Candido e sono Candido di nome e di fatto. Mi presento: sono laureato in geologia, abilitato dal ’94 alla professione di geologo e, dal 1999, insegno matematica e scienze nella scuola secondaria di I grado ma – mi perdoni – non mi sento appartenere al mondo della “lamentela”.

No, appartengo alla scuola dei sacrifici quotidiani, alla scuola dove spesso manca la fotocopiatrice oltre che la carta per fotocopiare, la scuola in cui tantissimi docenti fanno il proprio lavoro nel silenzio dei media e non sempre in condizioni e in strutture idonee. Non parliamo della vulnerabilità sismica degli edifici scolastici tra le tante “scuole belle”.

Anch’io – appena laureato ed entusiasta della professione di geologo – non pensavo all’insegnamento come prospettiva di vita. Poi però, un po’ deluso dalla professione troppo condizionata dalla partitocrazia in una regione come la Calabria, dopo aver vinto il concorso ordinario nel 1999, mi sono ritrovato ad insegnare ed amare questo lavoro più del precedente. Insegnare nei paesi della Calabria, i più disparati, dove spesso la scuola è l’unico presidio sociale oltre alla Chiesa, perché ill comune è sciolto per mafia. Prima da supplente, dal 1999/2000 fino al 2006/07 e poi come docente di ruolo dall’anno successivo. La soddisfazione di aver fatto capire a un ragazzo che può farcela è un qualcosa che ripaga di tutti i sacrifici e che – al contrario – non si ripaga con nessuno stipendio.
Quando fui immesso in ruolo svolsi il mio anno di prova a Milano, ad oltre mille chilometri da casa: ma in quel caso fu una mia scelta. Fui io che, producendo domanda, scelsi quella provincia lombarda dove c’erano più posti per l’immissione in ruolo. Dopo tre anni ottenni il riavvicinamento a casa ricongiungendomi alla mia convivente e al resto della mia famiglia; e questo anche perché insegno una disciplina per la quale i docenti abilitati erano e sono ancora pochi: matematica e scienze nella scuola media, appunto.

Mi consenta di dissentire pure su quando nell’inchiesta si afferma che “il ministro dell’Istruzione non dovrebbe essere per forza più istruito dei suoi sottoposti” e che, piuttosto, “sarebbe più saggio considerarlo un funzionario”, un burocrate. Niente di più sbagliato. Niente di più falso. E lo testimoniano non solo le pessime riforme fatte o tentate. Anche Einaudi aveva capito che può sembrar logico aumentare le ore di lavoro degli insegnanti solo a chi si occupa di un lavoro d’ufficio; un funzionario dello stato, appunto. E inizialmente gli scienziati che hanno partorito la buona scuola avevano pensato anche a questo: aumentare le ore di lavoro degli insegnanti. Ricordate? Poi si lasciò stare. E il sottosegretario di turno si dimise.

Ma quello che di più dà il quadro della situazione sono i dati internazionali Ocse che ci dicono che siamo al 34° posto su 70 Paesi e che cala il numero di persone capaci di leggere un testo (e di capirlo) soprattutto se lungo e articolato. Ci difendiamo a stento in matematica, mi si consenta un pizzico d’onore; in quella tanto bistrattata scuola media lo si deve all’impegno e alla perseveranza samaritana di insegnati che, innamorate/i del proprio lavoro, e stante i tagli fatti al sistema dell’istruzione nei decenni (di cui nemmeno l’inchiesta approfondisce, non so perché) da tutti i governi che si sono susseguiti, con stipendi da fame, continuano ad “educare” e a insegnare conoscenze, abilità e competenze. Cosa diversa dal “semplice” istruire. O dallo scrivere una monografia.

L’articolo di Susanna Tamaro “Educare non solo istruire contro il buonismo di Stato” pubblicato sul Corriere della Sera lunedì 9 gennaio 2017 a pagina 26

Educare non è far apprendere a qualcuno una disciplina; secondo il dizionario educare significa “formare con l’insegnamento delle discipline sì, ma anche e soprattutto con l’esempio autorevole, il carattere e la personalità dei giovani, sviluppando le facoltà intellettuali e le qualità morali secondo determinati principi”.

Nell’inchiesta Gurrado non parla nemmeno di quel consueto “vietato vietare” che oggi è penetrato ovunque e che, pure Susanna Tamaro, tiene in conto nella sua attenta analisi pubblicata, combinazione, lo stesso giorno sul Corriere della Sera: “Tutto il nostro sistema educativo è una grande Caporetto. Agli insegnanti validi – e ce ne sono tanti – viene pressoché impedito, anche per l’aureo principio, tipicamente italiano, per cui un eccellente ombreggia i mediocri che non vogliono essere messi in discussione”. Educare, aggiunge Susanna Tamaro, “richiede l’esistenza di un principio di autorità” (direi meglio se condito di autorevolezza, ndr), aggiungendo che si tratta di “un principio ormai scomparso da ogni ambito della vita civile”.

Un’altra cosa che si omette di dire è che i docenti, con i propri rappresentanti sindacali (strumento legittimo e paragonabile, come fonte costituzionale, ai partiti intesi come rappresentanti dei cittadini), hanno più volte cercato di far capire che non è vero che non vogliono esser valutati per il merito. C’è una proposta di legge su questo. Ma nello stesso tempo vogliono poter dire che è illegittimo tenere bloccato un contratto collettivo di lavoro per sette anni, e che gli scatti di anzianità previsti dallo stesso contratto sono un diritto. Poi ben venga la valorizzazione del merito, ma tutto dipende da come la si fa. Come pure diritto è quello ad avere una titolarità su cattedra (e non su ambito) quando – vinto un concorso – si viene immessi in ruolo. Il potenziamento, poi, detto così, chi può dirsi contrario. Ma è l’idea che un docente venga assunto in ruolo oltre ai posti delle cattedre per fare supplenze (perché questo succede se si vieta di nominare un supplente il primo giorno di assenza) quando, prima, intere cattedre, vacanti e disponibili, venivano lasciate scoperte, è ridicola. Certo, col potenziamento ci si può anche divertire (e non so quanto però) facendo corsi monografici durante l’ora in cui si è chiamati a supplire il collega assente, ma non è la stessa cosa rispetto a quella di avere una propria cattedra, una propria classe di alunni da seguire individualizzando gli insegnamenti in base ai tipi di apprendimento e, soprattuto, non ha il sapore né il significato di educare sopra richiamato.

Per anni sono state tagliate risorse ai fondi per il miglioramento dell’offerta formativa, i fondi delle istituzioni scolastiche sono stati decimati, e ora si pensa di risolvere tutto con uno slogan accattivante, con qualche slide, col bonus del merito e l’attacco ai brutti e cattivi sindacati. Non è possibile, definendola inchiesta, ricapitolare riassumendo che contro la Buona Scuola, “le principali proteste si sono fissate su tre effetti chiave: la chiamata diretta da parte dei presidi, la tornata eccezionale dei trasferimenti e l’introduzione di un monte ore di potenziamento”. Punto. Non è la verità ed ha come effetto quello di alimentare la disinformazione: la chiamata diretta nel pubblico impiego non è possibile perché – per costituzione – ai pubblici impieghi vi si accede per concorso.
Non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti e si dovrebbe concedere a un dirigente scolastico, assunto con concorso, di assumere senza concorso chi meglio crede.

E’ strumentale affermare che “il sospetto aprioristico sull’onestà dei presidi era lesivo dell’immagine di funzionari pubblici selezionati dallo stato e lesivo dello stesso stato da cui i docenti vengono pagati”. Strumentale perché serve da clava per denigrare ottocentomila insegnanti che, prima che Gurrado e agli altri 100mila docenti come lui fossero assunti, già protestavano e scioperavano in modo legittimo e civile contro una riforma che ritenevano e tutt’ora ritengono lesiva della dignità professionale e del principio garantito costituzionalmente della libertà di insegnamento; anche un bambino capisce che viene compromessa quando si può esser riconfermati o meno non in base a un curriculum o a un punteggio, ma in base alla discrezionalità più totale.
Il paragone con l’azienda con la Scuola di Stato non regge; e non regge perché nella scuola c’è bisogno di condivisione e perché non si producono beni né servizi. Il Preside, figura didattica di primus inter pares -diversa da quella di un manager o di CT della nazionale-, ha il compito istituzionale di promuovere un’offerta formativa sulla base di un progetto educativo condiviso. Invece anche la corsa per il bonus del merito che la Buona scuola incentiva (e che personalmente mi son visto riconoscere quest’anno dalla mia preside), risulta controproducente perché – di fatto – innesca meccanismi di competizione piuttosto che di condivisione.
Scorretto liquidare la questione della “tornata eccezionale di trasferimenti che questa estate ha riempito i giornali sotto il nome di deportazione”, spiegando che “il ministro ha dovuto condurre la transizione dalla tradizionale mobilità dei docenti, che sceglievano un singolo istituto, alla nuova mobilità dei docenti assegnati a un ambito territoriale, facendo fronte a centomila domande complessive dall’asilo alle superiori”. Non è corretto perché si addossa ai docenti che hanno chiesto di avvicinarsi a casa, il fatto che l’anno scolastico in corso ha visto due milioni e mezzo di studenti che hanno cambiato professore e 250mila insegnanti (di cui 207 mila di ruolo e 130 mila del Sud) hanno cambiato sede. Tutta colpa dei docenti che non sono più disposti alla mobilità su base nazionale? E’ forse strano che un’insegnante con i figli e la famiglia a Caltanissetta, e quarant’anni sulle spalle di cui dieci di precariato, non per colpa sua trasferita a Pavia da un oscuro e mai pubblicato algoritmo, chieda di rientrare in sede utilizzando gli strumenti che la legge e il diritto le danno? Non mi pare. Scorretto parlare dei colleghi dicendo che il registro elettronico è obbligatorio ma che chi non sa usarlo argomenta che non funziona. Scorretto perché conosco tantissime/i brave/i colleghe/i che, con quasi quarant’anni di servizio, si stanno adoperando per impararlo spesso senza corsi di aggiornamento. Ed è scorretto perché si omette di dire che questo benedetto registro elettronico si dovrebbe fare in una scuola dove ci sono computer e collegamento a internet efficiente e che il tutto deve esser fornito dal datore di lavoro e non acquistato dai docenti samaritani. La paralisi, nella scuola pubblica non sta nel motore immobile che è la lamentela.
Sta nel fatto che si è tagliato per anni. E chiunque si sia avvicinato alla poltrona del ministro dell’Istruzione ha preteso di lasciare indelebile firma con l’ennesima riforma da fare però a costo zero. Leggendo il DEF della Legge di Stabilità2016 anche un bambino capiva che ‘La Buona Scuola’, non era un investimento nella Scuola. Si capiva che il “fondo la buona scuola” era destinato al piano di assunzioni (per il quale il governo era obbligato ad adempiere alla sentenza della Corte di Giustizia Europea non potendo ulteriormente rinnovare contratti a tempo indeterminato) e che la spesa reale in istruzione del Paese in rapporto al PIL (3,9% nel 2010, 3,7% nel 2015) data per stabile fino al 2016, negli anni successivi – secondo le previsioni stesse del Governo – sarebbe addirittura diminuita fino a stabilizzarsi al 3,5% del PIL.  La media europea – andrebbe ricordato in un’inchiesta – è al 5,9% ma ci sono Paesi come la Finlandia che spendono in istruzione quasi l’8% del PIL.
Nonostante ciò, la vera buona scuola c’è: docenti e dirigenti impegnati quotidianamente per farla funzionare bene, anche quando le condizioni a contorno tanto buone non sono. Un esempio? L’Open Night (al posto del consueto Open Day) organizzato dal dirigente scolastico dell’Istituto Tecnico per Geometri di Soverato, dottor Mimmo Servello. Il dirigente, i docenti e il personale ATA, tutti coinvolti ed impegnati fuori dall’orario di servizio per invogliare alunni (e genitori) a presentare il percorso scolastico e l’offerta formativa della scuola.

Mi permetta direttore di ringraziarla per l’ospitalità e di ringraziare il dottor Ferrara (credo sia il suo l’elefantino che firma l’articolo “I cittadini e lo Stato”), per quando afferma che “(la scuola, ndr) è stata ricostruita nel tempo, e il tempo ha dettato certe sue caratteristiche: poca autonomia, separazione dalla società e dalla sua evoluzione, scarsa autorità pedagogica, mezzi poveri, troppo scientismo generico, ideologico, e poca religione”; e concordo sul fatto che “non esiste altro luogo (al di fuori della scuola, ndr) per la socializzazione del cittadino e la sua formazione”. Ma lo ringrazio soprattutto per aver detto chiaramente di essere “contento” – come cittadino – “di pagare le tasse per mantenerla in vita”.


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