@RitaBernardini visita le #carceri di Catanzaro, Vibo Valentia e Palmi. Il report

Abbiamo visto persone anziane che non sapevano dirci neanche il loro nome. Abbiamo visto lo squallore dei passeggi. 20 ore in cella quattro ai passeggi. Queste condizioni non sono rieducazione. Si deve arrivare all’apertura delle celle anche dell’alta sicurezza.

Il Ministro della Giustizia dovrebbe ringraziare la direttrice del Carcere di Catanzaro. A Vibo un clima di carcere punitivo e di rapporti difficili con polizia penitenziaria e direzione.

 

Catanzaro 5/8/2016 (dalle 15:00 alle 20:10).
La prima tappa del tour “carcere d’agosto” di Rita Bernardini in Calabria è la casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro. La delegazione autorizzata dal DAP è composta da Ernesto Biondi, Gianpaolo Catanzariti, Cesare Russo, Antonio Giglio, Rocco Ruffa, Claudio Scaldaferri e Giuseppe Candido.
Fa caldo. E Rita arriva da Roma alle 14:45 con Lorenzo, l’operatore di Radio Radicale. Entriamo come da programma alle 15:00 e, ad accoglierci, c’è la dottoressa Angela Paravati, direttrice del carcere e il comandante Scalzo. Abbiamo annunciato le visite che faremo e, stranamente, c’è anche un operatore della Rai ad attenderci dentro e, al termine delle oltre cinque ore di visita, riprende le dichiarazioni di Rita Bernardini.
Quando c’eravamo stati l’ultima volta a Pasqua, il 50,7% dei 570 detenuti presenti (289) era in attesa di giudizio mentre solo 281 avevano una sentenza definitiva.
Oggi, al momento della visita, a fronte di una capienza regolamentare di 627 posti solo uno non disponibile, sono presenti 498 detenuti di cui 406 italiani e 92 stranieri (perlopiù egiziani (17), rumeni (13), ucraini (12), tunisini (10), albanesi (6) e del Gambia (6)). Il circuito di alta sicurezza (AS3 essenzialmente) ospita 224 persone detenute, mentre, nel circuito della media, sicurezza ci sono 263 detenuti.
Dei presenti, in base ai dati fornitici dalla direttrice, 303 detenuti (il 60,84%) stanno in carcere con una sentenza di condanna definitiva; tutti gli altri, 195 persone, sono in attesa di giudizio. Ben 77 persone sono in galera in custodia cautelare in attesa di un primo giudizio. Un solo detenuto è in osservazione psichiatrica (ex art.112 DPR 230/2000).

Sessanta detenuti sono tossico dipendenti e 200-250 i casi psichiatrici. Non ci sono lavoranti per cooperative esterne e soltanto 145 detenuti, a rotazione, possono lavorare facendo mestieri come lo scopino o il porta vitto.
La direttrice ci spiega che, a causa dei lavori di ristrutturazione di alcuni bracci, i posti effettivamente disponibili sono 550. Ma ci dice anche che, proprio grazie ai lavori di ristrutturazione che il carcere sta facendo, non soltanto lavorano alcuni detenuti ma è stata realizzata, per l’effettuazione dei colloqui, una “sala soggiorno” per favorire l’affettività in carcere come prevede la legge.
Gli agenti previsti in pianta organica sarebbero 401; in realtà assegnati sono solo in 285 e, effettivamente in servizio, 293 di cui, però, 48 agenti sono impegnati nel nucleo traduzioni. Dei nove educatori previsti in pianta organica, effettivamente in servizio sono solo in sette.

Escluso il nuovo padiglione della media sicurezza dotato di docce nelle celle, in tutti gli altri padiglioni dell’istituto le docce sono in comune, verdi dalle muffe, ed aperte a singhiozzo – tre giorni a settimana – solo per quattro ore (dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15).

Nelle cinque ore di visita incontriamo, praticamente, quasi tutti i detenuti presenti dell’alta sicurezza. I primi con cui parliamo, nella saletta socialità, sono i detenuti dell’alta sicurezza del primo piano. Alcuni di loro sono ergastolani ostativi. Qui, ci dicono, stanno chiusi nelle celle 20 ore al giorno, in cubicoli 4×2 metri.
Tra la trentina di detenuti che vengono a parlare con Rita alla “prima sosta” c’è Marcello (Ramirez): “Hanno ucciso la speranza”. Dice subito a Rita che tutto questo, riferendosi all’ergastolo ostativo e alla loro condizione di reclusione, “distrugge le famiglie”, che “manca il lavoro”, manca lo studio e qualsiasi altra attività.

Sull’argomento del l’ergastolo ostativo, Rita ricorda il fatto che “il Partito Radicale farà il congresso, dal 1 al 3 settembre nel carcere di Rebibbia” e del docufilm “Spes contra spem – Liberi dentro” di Ambrogio Crespi, prodotto da Nessuno Tocchi Caino che, il 7 settembre 2016, sarà presentato al festival del Cinema di Venezia. “Le voci di dentro devono uscire fuori, dobbiamo continuare la lotta”. “Per continuare la lotta di Marco Pannella sulle carceri, la giustizia e l’ergastolo ostativo che toglie la speranza”.
Rita ricorda ai detenuti ciò che diceva sempre Marco Pannella sul fatto che loro stessi devono “essere speranza” piuttosto che “avere la speranza”.
“Dopo la morte di Marco Pannella abbiamo convocato il congresso a Rebubbia”, spiega ancora Rita, “perché vogliamo proseguire le lotte di Marco: giustizia, carceri, vita del diritto e diritto umano alla conoscenza da far codificare tra i diritti dell’uomo in sede ONU”. “Il carcere deve essere conosciuto, e bisogna far conoscere il mancato rispetto dei diritti umani”.
Poi Rita aggiunge che questo è un anno particolare: è l’anno in cui è morto Marco, è l’anno del Giubileo dei carcerati e che, il partito Radicale oltre che convocare il proprio congresso in carcere, sull’ergastolo ostativo, ha intrapreso la strada dei ricorsi alla CEDU contro il “fine pena mai” sul quale, contrario alla nostra costituzione, si sono detti contrari sia il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo sia il presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick.

E ricorda anche che, per lo stesso capo del DAP, l’ergastolo ostativo che oggi in Italia ce l’hanno in circa 800, dovrebbe esser dato, al massimo, ad ottanta persone.
Ma la vita in carcere è contornata da tanti problemi; problemi che solo da fuori possono apparire piccoli ma dentro diventano giganteschi: i colloqui e le telefonate, ad esempio, spesso rappresentano esigenze primarie. Chiedono una sorveglianza dinamica o, almeno, che possano stare fuori dalle celle otto ore al giorno, anziché quattro.
“O ci portano in una casa di Reclusione”, ci dice un altro detenuto, “oppure che aprano le celle come avviene in altri istituti”.
Altro piano, altri detenuti, stessi problemi cui si aggiungono situazioni sanitarie particolari. È un Tribunale di sorveglianza che non dà risposte o che le dà troppo tardi.
La terza sosta che facciamo è al 4 piano dove ora, a causa dei lavori di ristrutturazione, sono stati trasferiti i detenuti dell’alta sicurezza AS1. Sanno che il “trasloco” che hanno recentemente subito è finalizzato a star meglio dopo. Anche con loro Rita parla del congresso a Rebibbia, del docufilm che verrà presentato a settembre al festival di Venezia col ministro della Giustizia che sarà presente.
E ricorda anche a loro che questo non solo è l’anno del giubileo dei carcerati e della morte di Marco, ma che ci sono stati anche gli “Stati generali dell’esecuzione penale” dove Rita ha coordinato proprio quello sull’affettività facendo proposte concrete e che, adesso, dobbiamo stringere (Ministro e Parlamento, ndr) affinché si arrivi alle modifiche dell’ordinamento penitenziario.
Dopo oltre cinque ore, la visita termina alle 20:10 circa. Nel cortile dell’istituto ci sta ancora aspettando, stoico, l’operatore Rai che registra una dichiarazione a caldo di Rita: “In questo carcere, dove abbiamo incontrato tante problematiche, la differenza in positivo la fa la direttrice Angela Paravati”.

Appena fuori dal carcere, ad attenderci c’è invece, solo Lorenzo Bernardini, l’operatore di Radio Radicale (che con Rita è solo omonimo e che, tra l’altro, ha fatto sette ore in macchina da Roma assieme a Rita). Gianpaolo Catanzariti nell’intervista rilasciata a margine per la radio, spiega che la cosa che l’ha colpito più di ogni carenza strutturale è che molti detenuti, soprattutto tra quelli con pene molto l’unge o con ergastolo ostativo, hanno dichiarato di non avere più la speranza, di aver perso ogni speranza.
“Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando dovrebbe ringraziare la direttrice”, ci tiene a sottolineare subito Rita Bernardini quando conclude la nostra breve conferenza stampa che facciamo per la radio radicale, “Perché, in un posto dove occorre constare come in tutta Italia, che molte delle regole previste sono violate, la dottoressa Angela Paravati è persona che conosce uno per uno i quasi cinquecento detenuti presenti. E questa direttrice, che era in ferie, ci ha tenuto ad essere con noi in questa giornata proprio in ricordo di Marco Pannella. Ce lo ha detto proprio esplicitamente e, questo, potete immaginare quanto c’ha fatto piacere”. “Alcuni detenuti,” – aggiunge ancora Rita – “ce l’ha ricordato Gianpaolo Catanzariti, c’hanno detto che hanno perso la speranza. Io ho voluto rispondere loro: beh, noi Radicali che siamo qui, anche noi, abbiamo bisogno del vostro incoraggiamento. Anche noi, per andare avanti, abbiamo bisogno di voi. Noi cerchiamo, come ci ha insegnato Marco con la sua vita, di essere speranza. Però dovete provarci anche voi, perché altrimenti non saremo in grado di farcela. Pensate, il prossimo sarà un congresso (quello del Partito Radicale Nonviolento, ndr) in cui parteciperanno degli ergastolani ostativi. Ma lo sapete che vuol dire?: Un partito come il Partito Radicale Nonviolento, che consente di partecipare a un congresso e, quindi, la possibilità che venga eletto segretario? Di poter presentare mozioni? Di poter presentare emendamenti allo statuto o alle mozioni? Di poter intervenire? È una scommessa grossa, è uno scandalo grosso quello che stiamo facendo. Perché ancora siamo convinti che dove c’è strage di legalità c’è strage di popoli. E poi le vediamo le somme delle morti che si accumulano, giorno dopo giorno”.

Vibo Valentia 6/8/2016 (dalle 10.30 alle 18.30)
La visita con Rita Bernardini al carcere di Vibo Valentia dura 8 ore. Per nulla sufficienti per comprendere come il carcere possa incattivire piuttosto che recuperare. Un ambiente criminogeno come lo ha definito il Ministro Orlando.
Con una grave conseguenza ed un costo enorme per la nostra società che vedrà i detenuti usciti da lì aggravare le proprie inclinazioni delinquenziali.

Ad accogliere Rita Bernardini e la delegazione composta da Ernesto Biondi, Gianpaolo Catanzariti, Cesare Russo, Rocco Ruffa, Claudio Scaldaferri e Giuseppe Candido ci sono il direttore del casa circondariale, dottor Antonio Galati, e il comandante dottor Domenico Montauro. A fronte di una capienza regolamentare di 407 posti, al momento della visita, nell’istituto ci sono 394 persone detenute di cui 46 stranieri. Soltanto 168 detenuti (il 42,6%) hanno una sentenza definitiva. Gli altri sono in attesa di giudizio. Ben 86 persone (il 21,6%) sono soltanto imputate in attesa, alcuni anche da un anno, di un primo giudizio.
Nonostante la condizione di non sovraffollamento, le celle da due sono di recente sono diventate da tre e, nei cubicoli, ci stanno a volte in cinque, a volte in sei.
Nella media sicurezza (140 detenuti) fanno otto ore fuori dalle celle tra passeggi, socialità ed attività ma non c’è il regime aperto. La maggior parte dei detenuti (254) sta però nell’alta sicurezza dove invece le otto ore fuori dalle celle sono una “speranza” perché per 19 ore al giorno i detenuti stanno nelle celle. C’è la sezione dei cd “sex offender” che ospita 58 persone.
Nell’istituto c’è una fabbrica per la lavorazione dell’alluminio ma è chiusa per mancanza di commesse. Solo in 67 lavorano alle dipendenze del Dap.
A fronte di una pianta organica di 140 unità, gli agenti assegnati sono 167 di cui 22 impegnati nel nucleo traduzioni. Ma il direttore ci spiega, come aveva già fatto nelle visite che abbiamo fatto con Rocco il 26 dicembre e il giorno di Pasqua, che il numero previsto in pianta organica, prima di una “riduzione ministeriale” fatta con decreto era di circa duecento agenti e che in 167 sono in realtà in pochi. Ma prima, aggiunge il direttore, “di alta sicurezza c’era una sola sezione, oggi invece ce ne sono tre”.
Dei nove educatori previsti dalla pianta organica solo in tre sono effettivamente in servizio. Ottantuno sono i casi psichiatrici, quattro tossico dipendenti e due detenuti sieropositivi.

Il direttore Galati, prima di iniziare il giro, ci spiega che nell’istituto si tengono attività scolastiche: di livello secondario di secondo grado, per l’Agro Ambientale, la ragioneria oltre alla scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado. In totale, ci dice ancora, lo scorso anno scolastico ci sono stati circa 180 iscritti. Ma ci sono tre circuiti separati e le attività scolastiche devono essere fatte separatamente. Solo nel caso di attività “ludiche” o in caso di manifestazioni teatrali, il direttore si assume la responsabilità di fargliela fare assieme.
Ma dalle segnalazioni che arrivano al partito sappiamo che il carcere di Vibo Valentia non è rose né fiori. Rita Bernardini, a questo punto è più chiara: “Questo è un carcere duro?”, “Molti detenuti stanno in isolamento?”, chiede.
La risposta del direttore è lapalissiana: “solo in caso di rischio per l’ordine nella sezione”.

Rita insiste: “ci dicono che non c’è rispetto per i diritti”, di “un detenuto, appoggiato qui per un processo, tenuto in isolamento per trenta giorni senza accappatoio”.

La sezione isolamento, che qui chiamano accoglienza, spiega il direttore, “viene utilizzata per i detenuti che sono incompatibili con altri detenuti” e per un periodo limitato alla osservazione..
Praticamente rimane chiusa ed è utilizzata solo, aggiunge il comandante, quando vengono effettuate retate numerose.
Ma per capire l’aria di “carcere punitivo”, l’aria di carcere che incattivisce e che tira in quello che è stato definito da un detenuto, davanti allo stesso direttore, il “califfato di Vibo Valentia”, dobbiamo aspettare di incontrare loro: le persone detenute.
Sono ai passeggi sotto al sole, senza docce né un punto d’acqua e senza una pensilina in grado di dare riparo dal sole o dalla pioggia.
Mai abbiamo sentito lamentele così generalizzate sulle modalità di esecuzione così differenziate rispetto ad altri istituti. Si va dal fatto che i televisori funzionano male e consentono di vedere solo 8-9 canali, al fatto che non possono fare telefonate sui cellulari, quando – ci spiegano loro stessi – nel 2016 molta gente non ha più un telefono fisso.

E a loro tocca saltare la telefonata al parente. Perché? Qual è la ratio? Burocrazia. Una vecchia circolare fatta nel 2001 che basterebbe aggiornare.

Tutti i detenuti che abbiamo incontrato ci dicono che considerano Vibo un carcere punitivo. Sentendoli ci rendiamo conto che il mondo carcerario è una vera e propria bomba sociale.

Dopo aver incontrato una prima parte dei detenuti ai passeggi ci fermiamo nella cella 10 del primo piano dove ci parlano dei problemi: dal limite del diametro delle pentole (22 cm) che possono acquistare e che è palesemente insufficiente per fare la pasta o qualsiasi altra pietanza per cinque o sei persone, al fatto che non possono andare al passeggio quando piove, a meno di volersi bagnare, viste le condizioni delle pensiline e che, sempre nei passeggi, manca un punto d’acqua. Non c’è la palestra. E l’attività fisica è limitata ad un’ora di partito nel campetto sportivo, inagibile se piove, e solo un giorno alla settimana.

Non parliamo di sanità: seppure il servizio medico H24 è presente (e molti detenuti hanno constatato esser funzionante per le urgenze), per una visita al varicocele si aspetta anche un anno senza farla. Non si consente di utilizzare il surgelatore presente sul piano per tenere il cibo e, ci dicono chiaramente, non sempre il vitto del carrello è commestibile.
Le analisi cliniche te le fanno dopo un anno di attesa e, per un intervento, ci si affida alla Madonna: ci spiega un detenuto che doveva fare un’operazione “urgente” per emorroidi, ma tutto è stato rimandato perché il chirurgo è andato in ferie. E dopo un mese che non l’hanno operato il problema si è risolto da solo.
Ma le lamentele si estendono: persino ai colloqui, gli viene impedito di portare più di una merendina per il figlio e, se il figlio ha più di dieci anni niente merendina. O, solo per dirne un’altra che abbiamo sentito: che senso ha impedire a un detenuto di consegnare lui, con le sue proprie mani, l’uovo di Pasqua o il panettone di Natale al proprio figlio. Anche questo viene impedito.

In un clima di tensione che si taglia col coltello i detenuti che via via incontriamo ci spiegano che – in questo carcere – si arriva anche a questo. “Bisogna elemosinare anche una telefonata”, ci dice un altro. La biblioteca ha libri vecchi e il vocabolario ottenuto in prestito è del 1956.
Anche i detenuti del secondo braccio che incontriamo ai passeggi ci ripetono le stesse problematiche: il frigo, i colloqui, le telefonate e le scarpe chiuse da usare anche quando fa caldo per una questione di decoro.
“Non facciamo niente: cella e aria”, ci dicono. Da sei mesi è a Vibo e – ci dice – “non conosco gli educatori: faccio le istanze, ma le domande si perdono”.

“Stavo male, mi sono iscritto a visita medica, mi ha visitato il chirurgo, l’ortopedico, ma la sola cosa che ho ottenuto”, dice un altro, “è stato il divieto di andare al campo sportivo una volta alla settimana”. Ritorsioni?

Ambrogio (Sansone) ci dice letteralmente che “il dirigente sanitario è latitante” e che lui non riesce a capire perché gli hanno sospeso la terapia che faceva prima di essere arrestato (farmaci immuno-soppressori, un anti tumorale ed un terzo farmaco per la sintesi del Calcio).
Augusto sono tre mesi che non può fare la spesa. I soldi li avrebbe ma sono a Poggioreale. È tre mesi che è stato trasferito ma i soldi sono ancora a Poggioreale.
Un altro ci dice che ha chiesto trasferimento in un altro istituto ma che la richiesta non viene esaminata perché gli educatori non hanno redatto la relazione di sintesi, sono andati in ferie, per cui se ne parlerà a settembre.
Kalil, detenuto di origini egiziane, ci dice in inglese attraverso un mediatore improvvisato, che nel carcere di Locri dove stava fino a qualche mese prima, veniva curato per il problema dei denti. A Vibo Valentia non gli trovano nessuna soluzione.
Alessio (Laganà) deve scontare 4 anni e 2 mesi: ha 72 anni, praticamente è semi infermo: affetto da glaucoma, dimagrito di sette chili, bronchite cronica, diverticoli, problemi alla prostata e persino diabetico, per i medici e tutto ok. Ma lui che ci racconta il tutto, evidentemente si regge in piedi a stento.
Salvatore (Termini), 84 anni, ammalato di tutto, sta al terzo piano con Carmelo che, in sostanza, gli fa da accompagnatore volontario: lo veste, lo lava, lo fa mangiare. Non ha una invalidità certificata, per cui neanche dei pannoloni può usufruire.
La sua richiesta, ci dice Carmelo perché Salvatore mi guarda con gli occhi lucidi e stanchi ma non parla, è quella di potersi avvicinare alla Sicilia dove ha i familiari: sono quattro mesi che non fa colloqui.
Nelle precedenti visite che avevamo fatto con Rocco a Pasqua e a Santo Stefano, i detenuti non si erano spinti a tanto e le lamentele – che pure avevamo sentito – erano rimaste circoscritte alle poche ore di acqua calda e al fatto che i pacchi arrivavano in ritardo e che, anche per questo, servivano più agenti di polizia penitenziaria.
Con Rita Bernardini, invece, si aprono, diventano loro “speranza” e parlano chiaro nonostante sia presente il direttore: “Questo è il califfato di Vibo Valentia” ci dice un detenuto della media sicurezza.
Una Guantanamo del diritto. Un carcere dove i diritti elementari agli affetti e all’affettività diventano miraggi.
Detenuti “definitivi” tenuti assieme ai “giudicabili”, un’infermeria h24 esistente ma che ad un cardiopatico non riesce a garantire una visita e non gli misura la pressione da circa un anno.
Ci dicono persino che “ai passeggi non puoi neanche togliere la maglietta e devi scendere con le scarpe chiuse per motivi di decoro”. E quando chiediamo al direttore spiegazioni ci dice, appunto, che è “una questione di decoro”.
Scopriamo che persino la messa, che si dice di lunedì per l’alta sicurezza e di giovedì per i detenuti comuni, dura al massimo un quarto d’ora, più frequentemente dieci minuti. Ed è esilarante, se non fosse tragica, la battuta che su questo fa un detenuto: “qui a Vibo anche la messa si celebra con rito abbreviato”.
Ma non la visita dei Radicali che, stavolta, dura oltre otto ore. In sei in celle con finestre con sbarre talmente fitte che non consentono l’ingresso di luce sufficiente né di aria, tant’è che a mezzogiorno stanno con la luce accesa.
La saletta della socialità, ci spiegano, la possono usare solo due volte alla settimana, per cui tutti gli altri giorni, tolte le quattro ore di passeggio (o di attività), 20 ore al giorno stanno chiusi nella cella a girarsi i pollici. E se piove neanche l’aria possono fare perché la pensilina dei passeggi è talmente piccola che è impossibile non bagnarsi. Anche per il fatto che non possono usare il frigo e le pentole che possono usare sono troppo piccole, in passato c’è stata una protesta.

Al termine della visita, sono circa le 18:30 e non c’è il tempo per la conferenza stampa: bisogna correre a Dasà (VV) dove Rita Bernardini deve intervenire in un dibattito pubblico su carceri, legalizzazione ed eutanasia assieme al Parroco del Paese e al sindaco.
Mentre siamo in macchina, però, subito mi dice la sua impressione a caldo di “un clima da carcere punitivo”, di un ambiente in cui vige la regola della discrezionalità e della vessazione, in cui i detenuti anziché educati per un futuro loro reinserimento sociale vengono, invece, resi peggiori, incattiviti nei confronti di uno Stato e delle istituzioni che violano loro i diritti.

Palmi (RC). 7/8/2016 dalle 12:40 alle 19:10 circa
Ultima tappa con Rita Bernardini del tour calabrese “carcere d’agosto”, l’ex supercarcere di Palmi, oggi Casa circondariale “Filippo Salsone”.
Durante il viaggio in macchina da Sellia Marina (CZ) a Palmi (RC), Rita chiama il dottor Santi Consolo, capo del DAP, per segnalare il caso “Vibo Valentia” dove il regime carcerario viene reso invivibile da continue vessazioni.
All’ingresso del carcere di Palmi, quando arriviamo, una giovanissima mamma, con in braccio una bimba, attende speranzosa Rita. È la moglie di un giovane che conosceremo dentro, un ragazzo accusato di crimini gravi in stato di carcerazione preventiva, arrestato poco prima della nascita della sua tenerissima bimba. Una questione sociale che, nel distruggere il presente dei ragazzi arrestati, brucia il futuro di questa terra. Un grido d’allarme che il nostro parlamento, le nostre istituzioni devono assolutamente affrontare se non si vuole assistere alla irrimediabile fine della Calabria. Una questione da affrontare a 360 gradi se non si vuole lasciare che il crimine occupi gli spazi di volta in volta abbandonati.

Sei ore e mezza sui luoghi una volta destinati ai terroristi ed oggi pieni di giovanissimi (troppi) gravati da pesanti accuse di associazione mafiosa, moltissimi, tre su quattro in attesa di giudizio.
La delegazione che accompagna Rita è composta da Ernesto Biondi, Gianpaolo Catanzariti, Rocco Ruffa, Claudio Scaldaferri e Giuseppe Candido. Alle ore 10:30 circa entriamo nel carcere e, come sempre, ad accoglierci assieme al vice comandante Paolo Cugliari c’è il direttore del carcere dottor Romolo Pani.
Ci danno subito tutte le informazioni sulle presenze dei detenuti presenti al momento della visita, degli agenti e degli educatori in servizio nella struttura.
A fronte di una capienza regolamentare di 152 posti (che scendono a 136 effettivamente disponibili perché i 14 posti dell’isolamento e uno dell’infermeria non sono utilizzati), sono 184 i detenuti presenti (ma diventano 185 durante la visita per l’arrivo di un “nuovo giunto”) con un tasso di sovraffollamento pari al 136%.
Assieme alla capienza regolamentare ci viene fornito anche il dato della capienza tollerabile (202 posti), per cui secondo quest’ultimo dato il sovraffollamento non ci sarebbe.
Nell’alta sicurezza (che occupa tre piani dell’istituto) a fronte di una capienza regolamentare di 87, al momento della visita ci sono 138 persone detenute (sovraffollamento 158%) di cui 3 sono stranieri. Nel circuito M.S., invece, a fronte di una capienza regolamentare di 49 posti i detenuti presenti sono 46 di cui 8 sono stranieri.
Hanno una sentenza definitiva, nel circuito della media sicurezza dei 46 detenuti solo 19 (41,3%) mentre nell’alta sicurezza dei 139 detenuti solo 25 (17,9%). Tutti gli altri sono in attesa di giudizio. In 76 (18 M.S. e 58 A.S) sono solo imputati, dentro in custodia cautelare.
Sette detenuti sono tossico dipendenti e sei sono i casi psichiatrici.
Per quanto riguarda gli agenti: 125 sono gli agenti assegnati da cui bisogna sottrarre 23 agenti distaccati in altra sede, 4 trasferiti e 5 in malattia da lungo tempo. Restano 93 agenti di cui 15 impegnati nel nucleo traduzioni. Per cui, al netto degli agenti impegnati nelle traduzioni, per i 185 detenuti presenti ci sono solo 78 agenti, con un rapporto di 2,37 detenuti per agente.
Gli educatori effettivamente in servizio sono 5, tanti quanti previsti dalla pianta organica e, ci dice il direttore, il Magistrato di sorveglianza visita le celle e, soprattutto, dà i permessi quando ricorrono le condizioni.
In tutto, nel carcere, possono lavorare solo in 32 alle dipendenze del DAP facendo lavori poco spendibili come scopino, porta vitto ecc. Non ci sono lavorazioni per ditte esterne al carcere. Un solo detenuto (in condizioni di art.21) lavora facendo piccoli lavoretti.
Nonostante ci sia un protocollo di intesa con il comune, ci spiega il dottor Pani durante la visita, mancano dei detenuti che, in condizioni di articolo 21, possano svolgere tali lavori.
Un’altra cosa che ci dice lo stesso direttore è che, negli ultimi mesi rispetto alle precedenti visite che abbiamo effettuato durante le festività natalizie e pasquali, è aumentato il numero dei detenuti residenti fuori regione. Al momento della visita ce ne sono dodici. Per lo più campani e pugliesi, spesso letteralmente deportati per ragioni di sovraffollamento con la conseguenza di rendere più difficili, quando non impossibili, i colloqui con le famiglie.
Molte infatti sono le richieste di trasferimento in altri istituti fatte dai detenuti ma che spesso vengono rigettate.
Quando non fanno colloqui con le famiglie, spiega il direttore, gli consentiamo di convertire i colloqui con le telefonate.
Nel carcere non c’è il regime di custodia attenuata con celle aperte: nel circuito della media sicurezza fanno 8 ore fuori dalle celle tra passeggi e socialità; nel circuito dell’alta sicurezza dove ci sono il maggior numero di detenuti, le ore fuori dalle celle si riducono a 4 più un’ora di saletta socialità che però – potendo ospitare al massimo 30 persone – deve essere fruita a turno.
Mancano ancora le docce nelle celle dove non c’è neanche l’acqua calda e le docce comuni, anche queste verdi dalla muffa, possono essere usate per sette ore al dì, dalle 8:00 alle 15:00.
Nei passeggi molto fatiscenti c’è però un punto d’acqua e mettere una doccia o uno spruzzino vaporizzatore non sarebbe un’impresa impossibile.
Anche a Palmi, nei passeggi, c’è l’obbligo di non togliersi la maglietta e di infossare scarpe chiuse durante l’ora d’aria ai passeggi. In pratica, spiega il direttore, anche in questo carcere come in quello di Vibo, i detenuti napoletani sono stati “invitati” dai detenuti calabresi a non togliersi la maglietta durante i passeggi e nelle celle quando si mangia. Addirittura, anche a Palmi si può prendere un rapporto disciplinare per essersi tolto la maglietta.
I detenuti dell’alta sicurezza oltre a fare meno ore fuori dalle celle, durante i colloqui non possono fruire dell’area verde che c’è, è anche molto bella ma è “difficile da raggiungere e da vigilare”.
Altra discriminazione tra detenuti della media e dell’alta sicurezza è che i primi possono fare le telefonate anche sui cellulari, i secondi no.
Nelle sezioni ci sono dei congelatori a pozzetto ma possono essere utilizzati solo per metterci dentro dei ghiacci che poi i detenuti utilizzano nelle borse frigo nelle celle. Sarebbe difficile installare dei piccoli frigo anche nelle celle? Bere acqua calda, d’estate, è una tortura.
Il regolamento d’Istituto non c’è: il nuovo ha un parere favorevole del Provveditore regionale ma è ancora in fase di approvazione (dal 17/4/2014, sic!) da parte del DAP. C’è un regolamento vecchio, degli anni ’80, che non si capisce se sia o meno in vigore. E, in pratica, al detenuto non viene consegnato nulla. Come dire: è meglio non dare ai detenuti un regolamento da impugnare in caso non venga rispettato. È questa la regola in molti degli istituti calabresi. Si cerca di applicare, nei limiti del possibile, il nuovo regolamento in quello che potremmo definire “diritto vivente” della nostra democrazia sempre più “democrazia reale” lontana dallo Stato di Diritto.
Ai passeggi dell’alta sicurezza con Rita seduta sulla panchina di ferro color azzurro arrugginito e sbiadito, incontriamo i detenuti del primo e del terzo piano. Sollecitati da Rita un detenuto prende la parola per primo dicendo: “Onorevole credo che il problema che più di tutti, tutti noi, sentiamo, è quello dei colloqui”. E aggiunge: “è da cinque anni che sono qui, e i bambini vengono contati, ai fini del colloquio, come adulti se hanno più di tre anni. Spiega che, come detenuti dell’alta sicurezza, non possono fare colloqui nell’area verde e da una lezione di diritto. “Il reinserimento cos’è? Dovrebbe essere la possibilità di lavorare, di studiare, di frequentare corsi con i quali imparare un mestiere per non tornare a delinquere”.
“Sull’aspetto sanitario”, dice un altro, “non ci possiamo lamentare. E anche il rapporto con le guardie è buono”.
Poi, anche qui escono fuori un po’ di problemi: le otto ore fuori dalle celle anziché quattro per l’alta sicurezza, e anche qui si parla di ergastolo ostativo e del docufilm di Ambrogio Crespi prodotto da Nessuno Tocchi Caino e che sarà presentato il prossimo 7 settembre al festival del cinema di Venezia alla presenza del Ministro della Giustizia.
Anche la scuola, c’è ma solo quella elementare e media. Nient’altro.
Ai passeggi del primo piano dell’alta sicurezza incontriamo Francesco (Giofré), la cui moglie (con bimba di due anni) attendeva Rita all’ingresso. Piove un po’. Rita si siede sulla solita panchina arrugginita e chiede: che ci dite?, quali sono i problemi?
Colloqui: in cinque non li possono fare. I passeggi sono stretti. Le docce in comune e l’acqua calda nelle celle che non c’è. Si ripete la scena. “Se uno sta venti ore in cella, è chiaro che può succedere di tutto”, dice un altro.
Il dentista c’è ma la sedia odontoiatrica non funziona. È rotta da anni. Le emergenze si risolvono con gli analgesici.
Domenico (Longo) per problemi di denti sopravvive con vitto liquido. Voleva andare a Rebibbia per curarsi presso la clinica odontoiatrica convenzionata col carcere, ma non ha ottenuto il trasferimento. Mi chiede di dire a Rita se può fare qualcosa presso il Ministro. Anche Babbakhayi, detenuto marocchino, ha lo stesso problema di denti e vorrebbe potersi curare. Ma assieme alla libertà, nelle carceri calabresi si viene privati anche del diritto alla salute.
Carmelo (Stanganelli) racconta la sua esperienza in un carcere francese: “celle aperte, telefonate libere, scuola, attività. Un altro pianeta”, dice.
Vincenzo (Carcino) ci dice che è stato a Rebibbia detenuto assieme a Sergio D’Elia e Umberto (Loffredo), blogger, dice a Rita che manderà alcuni articoli per il sito del partito radicale.
Nei passeggi osservo che le reti sono fittissime. Non consentono di vedere al di là del perimetro e due muri di cemento completano l’opera.
Antonino (Alvaro) operato due volte di condiloni quando era in libertà, necessiterebbe oggi di un terzo intervento. Lo dicono sia il chirurgo sia il dirigente sanitario del carcere. Da un anno e due mesi attende, ma ancora niente.
Poi ci dicono che domenica e festivi non possono fare la socialità, che le docce comuni dei camerati – come costatiamo pure noi – sono verdi dalla muffa e che non c’è neanche la lavanderia per cui i panni si lavano e si stendono in cella.
Un altro detenuto ci fa osservare che, quando vengono tradotti per un processo ed escono prima delle ore 8:00, non possono usare la doccia. Rocco (Mandalri) ha ottenuto gli arresti domiciliari dal 21 luglio, ma è ancora dentro per mancanza di braccialetti elettronici cui è condizionato il provvedimento. Giovanni (Pantano) ha costituto, come gli avevamo sollecitato di fare a Natale, il comitato Amnistia Giustizia Libertà con 136 firme ma, mi fa notare, da Radio Carcere cui pure ha mandato copia delle sottoscrizioni, non ha dato notizia.
Alfonso (Condino) già laureato in economia aziendale da dietro le sbarre vorrebbe continuare a studiare giurisprudenza e, per questo, ha prodotto istanza di trasferimento. Perché – viene da chiedersi – non si dà la possibilità di studiare? Non serve al reinserimento sociale?
Poi i problemi più spiccioli: la lista della spesa è cara. L’acqua del rubinetto, mano a dirlo, non è assolutamente potabile. E una cassa di acqua, sul modello 72 della lista della spesa, costa ben 3 euro. Neanche per chi studia, c’è la possibilità di avere un computer portatile nella cella.
Qualcuno ci parla anche di topi nei passeggi e nelle celle.
In una delle celle che visitiamo incontriamo Stefano (Condino), anziano di oltre 70 anni che piangeva e non è riuscito neanche a dirci il suo nome. Nella sua cella notiamo che, affianco a un letto, quasi come una immagine sacra, c’è la foto di Marco Pannella. L’ha messa Lorenzo, un altro detenuto in attesa di giudizio. Un ritaglio di giornale al quale, con amore, è stata fatta una cornice di stuzzicadenti ed una base in cartone in modo da conservarla e poterla esporre. Manca solo un vetro.
Rita spiega che spesso bisogna lottare affinché le leggi che pure ci sono vengano applicate e rispettate. E se una legge è sbagliata, aggiunge Rita, se vìola i diritti umani, allora bisogna arrivare alla CEDU per far rispettare il diritto.
“Qui, in Calabria, non c’è il diritto ad essere un detenuto comune. Criminali semplici. Quando vai in carcere subito ti riconoscono anche il 416 bis, di associazione mafiosa”. E dai numeri chi potrebbe dargli torto.
Continua il deficit strutturale dell’istituto anche se il direttore e il personale svolgono il proprio ruolo con serietà ed umanità.
Per gli spazi, abbiamo notato che, in diverse celle, l’unico lavabo si trova, piuttosto che nel bagno, vicino al letto a castello sottraendo così spazi utili per una umana detenzione (povera Torreggiani).
La lamentela più diffusa riguarda il diritto all’affettività. Infatti i detenuti del circuito “alta sicurezza” sono costretti a non poter incontrare contestualmente i familiari se i bambini hanno un’età superiore ad anni tre (vengono infatti considerati come adulti).
L’istituto è stato interessato da un caso di malasanità (omessa assistenza sanitaria, ndr) e il Direttore ha testimoniato contro il direttore dell’ASP di Reggio Calabria perché, a quanto pare, i medicinali erano scaduti e le prestazioni sanitarie non erano consone. E anche a Palmi, più di un detenuto sostiene di vedersi negato il diritto ad una risposta in tempi ragionevoli da parte della Magistratura di Sorveglianza.
La struttura poi non consente l’utilizzo dell’area verde per i colloqui con i familiari dei detenuti di alta sicurezza. Può essere utilizzata solo dai detenuti di media sicurezza. Un doppio binario che non solo colpisce i detenuti, ma anche i bambini che subiscono un trattamento differenziato a seconda che il genitore sia accusato di un reato mafioso oppure no.
Le regole interne dell’Istituto vengono applicate senza un regolamento. Infatti, nonostante un regolamento sia stato predisposto in sede locale, da oltre 2 anni si attende l’approvazione da parte del Ministero.
In conclusione, si applica la regola che si ritiene più opportuna. In barba alla certezza del diritto.
Altro problema, il tempo passa nell’ozio, senza lavoro, senza attività e soprattutto senza possibilità di socializzare mentre i corsi di studio si fermano alla scuola media.
Nei passeggi di una delle sezioni di Alta Sicurezza, le persone sono costrette a sedere su dei secchi ribaltati. Il direttore dice che presto avranno delle sedie e dei tavolini.

Al termine della visita, fuori dal carcere, teniamo una breve conferenza stampa per Radio Radicale.
Dichiarazioni a caldo di Rita Bernardini:
<<Abbiamo visitato l’alta sicurezza e, su 184 detenuti solo 32 possono lavorare e, naturalmente, fanno lavori interni perché non ci sono lavorazioni esterne in questo carcere. Lavori, quindi, non qualificanti e anche l’attività scolastica – praticamente – si ferma alle scuole medie perché non c’è altro. Qui abbiamo incontrato molti detenuti giovani. Ne abbiamo incontrato uno anche laureato, che non credo avesse più di 25-26 anni: si trova dentro, nell’alta sicurezza, con un reato di associazione di tipo mafioso. Questi giovani, di cui poi non sappiamo come andrà il processo, o condannati o innocenti, si porteranno appresso questo marchio.
Difficilmente troveranno, soprattutto se condannati, la possibilità di un lavoro all’esterno. Perché proprio c’è l’impossibilità. Perché se un’impresa ti assume e tu hai avuto una condanna e hai scontato una pena per associazione mafiosa, addirittura l’impresa rischia di essere chiusa (proprio) perché ha assunto questa persona. Quindi, è un serpente che si morde la coda. E che dimostra che qui lo Stato non c’è.
La Calabria sta diventando una regione abbandonata a se stessa. E c’è la presenza della criminalità organizzata che è l’unica presenza che ti può dare sbocchi di lavoro, possibilità.
Ce lo dobbiamo porre o no questo problema? O dobbiamo dimenticare questa regione?
Quindi, soprattuto, il trattamento rieducativo non c’è. Per quanto riguarda, poi, i rapporti dell’affetività, un detenuto ha dato la definizione che, credo, fa rabbrividire: “qui i bambini sono maggiorenni e vengono considerati adulti quando compiono tre anni”. Perché, siccome gli spazi riservati alle famiglie che si incontrano sono non più di tre o quattro, se il bambino ha superato i tre anni viene considerato alla stregua di un adulto. E quindi occupa il posto di un adulto.
Questo, credo, la dice lunga anche sul fatto che l’alta sicurezza, ad esempio, non può accedere all’area verde.
Noi l’abbiamo vista, è molto bella. Solamente quelli della media sicurezza possono andare lì, mentre l’alta sicurezza l’alta sicurezza incontra i bambini minori in luoghi angusti e, naturalmente, i bambini reagiscono, cominciano a piangere, si trovano male. Non c’è un luogo, ad esempio, con i giochi in modo che possano essere un attimo distratti mentre il padre e la madre si incontrano. Anche il luogo fa l’incontro: se avviene in un luogo, in un posto squallido possiamo immaginare tutto questo cosa vuol dire.
La chiusura delle celle. Stanno chiusi 20 ore al giorno più un’ora di socialità. Ma dove? In un’altra cella, sempre chiusi.
Abbiamo visto lo squallore dei passeggi. Quindi pensate a una giornata: un’ora dietro l’altra passate a non far niente tra mille problemi, mille preoccupazioni anche per la famiglia, per come stanno i familiari, come stanno i bambini, come sta la moglie.
Abbiamo visto anche persone anziane. Ne abbiamo incontrato uno di 72 anni che non è stato in grado nemmeno di dirci il suo nome. Ha gravi problemi alla prostata e sapeva solamente offrirci il suo volto piangente. E, questo, proveniva da Palermo.
Insomma, 20 ore in cella quattro ai passeggi. Queste condizioni non sono rieducazione. È evidente a tutti. Anche dopo il dialogo che abbiamo avuto stamattina, di domenica, lo preannuncio da Radio Radicale, con il capo del DAP Santi Consolo, ormai si deve arrivare all’apertura delle celle anche dell’alta sicurezza. Via via lo si sta facendo e non è che succederà chissà che cosa. Non succederà niente. Perché dove è stata fatta, la cosa funziona. Ed è un piccolo risultato che comunque fa sentire meno la costrizione, la privazione della libertà.
Poi c’è il problema, anche qui, del Magistrato di Sorveglianza, soprattutto per le mancate risposte. Per esempio, per sapere i giorni di liberazione anticipata (speciale, ndr) il detenuto aspetta anche anni prima di sapere se gli sono stati concessi o meno. Perché il Magistrato si fa i suoi conti: questo uscirà quando uscirà e, quindi, poi, quando sarà il momento … Ma per il detenuto è importante sapere quand’è il suo fine pena, per cui è importante sapere se i giorni (di liberazione anticipata speciale, ndr) sono stati acquisiti oppure no. Sembrano piccole cose ma per loro è tutto.
L’accesso alle pene alternative? Qui proprio non se ne parla. Non esistono. E, quindi, c’è questo grande lavoro. C’è l’urgenza.
Se posso paragonare questo istituto a quello che è stato definito – giustamente – “Guantanamo” e cioè il carcere di Vibo Valentia dove ci sono le stesse problematiche (chiusura 20 ore nelle celle, mancanza di lavoro, mancanza di studio ecc.), però lì si respirava, si tagliava con il coltello, veramente un’aria di vessazioni e di rapporti molto difficili sia con la polizia penitenziaria sia con la direzione. Qui (a Palmi, ndr) ci sono le stesse problematiche però i rapporti erano sicuramente migliori.
Occorre fare una grande riforma della giustizia, non solo dell’ordinamento penitenziario. Vogliamo sapere che fine hanno fatto le proposte avanzate dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Questa risposta la pretendiamo. Sono in discussione al Senato e vedremo cosa passerà.
Ma, a volte, non serve nemmeno modificare la legge. Abbiamo dietro le spalle anni di vecchie circolari che non si sa se siano ancora in vigore, il regolamento penitenziario non c’è, per cui ognuno fa come gli pare. Dipende dal direttore. La discrezionalità è totale. E il detenuto non può nemmeno impugnare il regolamento. Avrebbe questa possibilità se ritiene che il trattamento che gli è riservato lo sottopone a trattamenti inumani e degradanti, ma non lo può impugnare perché non c’è. C’è quello di quarant’anni fa e il nuovo che ancora non vale.
Siamo stati nelle carceri della Calabria. Sono l’immagine di una Regione, rispecchiano la regione. Come anche in Sicilia, le carceri rispecchiano il degrado istituzionale, civile e umano di una regione. Renzi dove stai? Ma, soprattuto: Parlamento dove stai? Dovete assumervi le vostre responsabilità difronte a violazioni continue di leggi fondamentali>>.

Conferenze stampa tenute a margine delle visite.

(fonte: www.RadioRadicale.it )

Carcere di Catanzaro

Carcere di Palmi (RC) (e Vibo Valentia (VV))

 

Questione carceraria.
“La questione carceraria – Intervista a Rita Bernardini” realizzata da Andrea De Angelis con Rita Bernardini (presidente d’onore di Nessuno tocchi Caino).
Nell’intervista si parla della questione carceraria a seguito della sua visita nelle carceri calabresi con una delegazione composta da Giuseppe Candido, Gianpaolo Catanzariti, Rocco Ruffa, Ernesto Biondi, Cesare Russo, Claudio Scaldaferri, Antonio Giglio e anche della convocazione del 40° Congresso straordinario del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito che si svolgerà dal 1° settembre al 3 settembre a Roma presso il penitenziario di Rebibbia.

 

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