IL NATALE DI MAKARENKO IN CASA CARIDI. Lettere e scritti dal carcere di Catanzaro curate da Luigi Siciliani de Cumis

19 agosto 2018. Riceviamo dal Prof. Luigi Siciliani de Cumis, e volentieri pubblichiamo, i testi e le lettere scritti dai detenuti nella casa circondariale di Catanzaro, Ugo Caridi.

Scritture e letture per Anton Semënovič

 

Sia all’Istruzione popolare sia in città, ma anche nella colonia stessa, la maggior parte dei discorsi sul collettivo e sull’educazione del collettivo erano condotti in modo tale da non curarsi concretamente del collettivo.

Allo sbaglio di un singolo ragazzino e a una qualsiasi manifestazione isolata, si reagiva in modo isterico o come il bambino di Natale.

Anton S. Makarenko, “Poema pedagogico”, 1925-1935

 

(Il “bambino di Natale”: riferimento al racconto di Fëdor M. Dostoevskij, “Il bambino sull’albero di Natale da Gesù” del 1876,  che allude alla complessità della situazione psicologica e istituzionale del lavoro educativo di Makarenko, che  non può contare sull’aiuto di nessuno e che  si trova a gestire se stesso e la colonia di rieducazione da lui diretta,  tra paure e speranze, illusioni e delusioni, stupore e angoscia.  Per l’appunto come il dostoevskijano “bambino di Natale”).

Rispetto a ciò che Lei è venuta talvolta dichiarando, mi chiedo:  che valore assumono  per chi sta fuori del carcere, i Suoi propositi di umanizzazione del carcere  e la richiesta  “di non essere lasciati soli” e di “gesti concreti” di collaborazione?

Nicola Siciliani de Cumis  a Angela Paravati, 2015


LETTERE PER L’UNIVERSITÁ

A cura di Nicola Siciliani de Cumis

Catanzaro/Siano, Casa Caridi,

Natale 2015/Capodanno 2016          

 

                                                                                                                      A Tatjana Fëdorovna Korablëva

Presidente dell’Associazione Makarenkiana Russa (Mosca)

e ad Agostino Bagnato

                                                                            Presidente dell’Associazione Italiana Makarenko (Roma)

Illustri Colleghi,

allo scadere del secondo anno del  mandato triennale a presiedere l’Associazione Internazionale Makarenko (Mosca, 2013-2016), mi sembra doveroso da parte mia e forse interessante per quanti  abbiano preso l’impegno a testimoniare l’eccezionale portata umanizzatrice dell’opera di Anton Semënovič Makarenko e del suo “Poema pedagogico”, di informare di un’iniziativa presa nel quadro di attività di studio e didattiche, che per l’appunto si richiamano direttamente ai principi, ai metodi e alle realizzazioni che a Makarenko si sono ispirate in un preciso luogo del mondo, in Calabria, nella Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro/Siano, diretta  dalla Dottoressa Angela Paravati. Per cui per saperne di più, per testimoniarne a mia volta e per operare comparativamente al meglio, comincerei col chiedermi: in quali e in quanti altri carceri italiani, europei (russi e ucraini in testa) e altrimenti internazionali, si viene agendo positivamente nella stessa prospettiva makarenkiana di cui il Laboratorio di scrittura e lettura di Siano intende essere una prova ? Viene o non viene tradotta – sì “tradotta”,  proprio nei diversi significati del termine, rispetto al “tradurre” verbalmente da una lingua ad un’altra e, sul piano locomotorio, da un carcere ad un altro carcere, ovvero come “tradotta” dal fronte di una guerra alla pace agognata della propria casa –, la complessiva, originalissima esperienza storica e letteraria di Makarenko? Che senso ha (posto che ne abbia qualcuno) commisurare, valutare e possibilmente migliorare il nostro lavoro educativo di qui, in Casa Caridi, alla luce dei risultati dell’altrui impegno formativo nella medesima direzione? Come accelerare tecnicamente e al tempo stesso stabilizzare interiormente e dunque   – nel ricordo di Marx-Engels, Tolstoj, Dostoevskij, Labriola, Vygotskij, Dewey, Gramsci, Don Milani, Montessori, Foucault, Dolci, Sen, Yunus ecc. – riuscire a rendere storicamente “naturale” e a valorizzare culturalmente anche e soprattutto nel carcere la parte meno caduca e più dignitosa del nostro essere umani nella società della conoscenza, tra ricerca scientifica di prima mano e conseguente, innovatività didattica?

Luigi Siciliani de Cumis
Prof. Luigi Siciliani de Cumis

Se da un lato cioè, per ciò che direttamente ci concerne,  non si può non ritenere indispensabile una permanente rilettura  filologica e una ricorrente reinterpretazione critico-testuale dell’opera  dell’educatore e scrittore Makarenko nel massimo rispetto della peculiarità delle sue idee e delle sue azioni educative, da un altro lato  occorre mettere lucidamente in evidenza gli abusi ideologici e i disusi ideali di cui è costellata la recezione dell’opera makarenkiana. Di modo che,  avendo pur sempre presenti i contesti culturali, sociali e etico-politici dei luoghi e dei tempi in cui si è situata storicamente la concreta esperienza del Makarenko direttore di colonie di rieducazione e di romanziere,  sembra permanentemente necessario – e tanto più oggi di fronte alle maggiori sfide morali-globali del nostro tempo – mettere alla prova gli eccezionali risultati dell’impegno educativo (antipedagogico!) del “pedagog” Makarenko in pur differenti situazioni e condizioni storiche, sociali e politiche. E questo,  con l’intento di mantenere ben fermo il criterio del rigore dell’adesione ai testi e alla comprensione della poetica dell’autore, alla ricchezza dell’eredità filosofica, artistica, formativa della sua “poematica” e, dunque, all’effettiva potenzialità didattica e autodidattica dell’azione dell’educatore Makarenko  e  della rappresentazione romanzesca delle sue buone pratiche scientifico-educative di eccezionale, fecondissima portata umana.

In tale ottica, dal 29 giugno 2015  alla fine dell’anno, si è venuta svolgendo nella Casa Caridi di Siano un’attività di ricerca e didattica variamente ispirata a Makarenko  (cfr. in proposito i resoconti delle lezioni pubblicati o in corso di pubblicazione sui periodici “l’albatros”, “Slavia”, “I problemi della pedagogia”, “il Quotidiano del Sud”, “il Garantista”, la “Gazzetta del Sud”, dalle riviste  on line “Calabria on web”, “Catanzaro informa”, “Corriere di Calabria”, “Il Lametino”, ecc.). Un Laboratorio di scrittura e lettura, quello di Siano (con collegamenti organicamente funzionali nel carcere di Regina Coeli), che se porta avanti una rilettura critica del “Poema pegagogico” e sta lavorando ad una nuova edizione di questo romanzo in Italia, contempla altresì la scelta di fare del “Poema” la più autorevole sede dei luoghi fisici, mentali e morali da Makarenko per l’innanzi abitati in Ukraina e in Russia con i “ragazzi senza tutela” nelle colonie di rieducazione da lui dirette. E ciò  nondimeno sul presupposto di quanto, “si parva licet”, si è venuto altrimenti operando con molte centinaia di studenti nei luoghi scientifico-educativi della “Sapienza” Università di Roma dal 1992 al 2014 (mediante elaborati scritti di esame e di laurea su Makarenko e il “Poema pedagogico”), e quindi ora, “mutatis mutandis”, nel carcere di Catanzaro/Siano e in quello romano di Regina Coeli.

Quanto alle esercitazioni di lettura e scrittura in questi ultimi ambiti, cari amici,  potrete constatare voi stessi di che cosa si tratta, osservando intanto il seguente campione di scritti brevissimamente introdotti con riferimento alla incidenza del “Poema pedagogico” nella “realtà” dell’intreccio di Natività natalizie (se così posso esprimermi) degli “uomini nuovi” del passato e del presente. Così nella Colonia Gor’kij come nella Casa Caridi.  O a Regina Coeli.

Di modo che la conclusione del semestre di attività didattica, sull’onda di uno straordinario Concerto di Natale a cura del musicista Stefano Guerra,  ha coinciso con l’invito del Direttore aggiunto della Sezione Ottava, Dottoressa Anna Angeletti, ad approntare per i tipi del carcere romano un’antologia di testi redatti dagli studenti e dai docenti del Laboratorio romano. E ne è venuto fuori  un instant book dal titolo “Facciamo che almeno qui era Natale. Parole, musiche, film, cigni e fiori di carta”,  che vi farò avere presto e consistente in una lunga lettera collettiva   indirizzata a Papa Francesco. Un librino che, a suo modo, è l’altra faccia di quanto  realizzato in parallelo nel farsi dello stesso semestre di attività del Laboratorio di scrittura e lettura nel carcere di Siano,  in occasione dell’“Obesity Day 2015” e del Concorso dei Presepi predisposti per il concorso dell’11 dicembre e ora in mostra nel Complesso monumentale San Giovanni di Catanzaro. Attività, queste ultime, variamente documentate e divulgate mediante scritti, filmati, trasmissioni radiofoniche e televisive, foto,  servizi giornalistici, diffusione nel web ecc. E di cui ho avuto modo di informarvi via via.

Vi ringrazio vivamente dell’attenzione e, nel salutarvi  cordialmente, vi faccio i migliori auguri per le prossime festività di Natale e per l’anno prossimo venturo,

Nicola Siciliani de Cumis


 C’è posta per te

Ciò che segue è la prima delle  corrispondenze di un epistolario virtuale “sui generis” degli studenti del Laboratorio di scrittura e lettura del carcere di Siano con Makarenko. Nel senso che tutti i documenti della seguente antologia sono direttamente o indirettamente la prova di un qualche rapporto dialogico-mentale  con l’autore del “Poema pedagogico”, la peculiare materia letteraria del romanzo e i contenuti formativi dell’impresa economica e educativa che vi è raccontata. Qui nella lettera di Francesco Annunziata, per esempio, si ritrovano facilmente i termini “poematici” makarenkiani dell’autobiografia come educazione, dell’individuale e del collettivo, della responsabilità e della corresponsabilità. E ancora: i temi degli handicap sociali che si fanno risorsa per se stessi e non solo, i problemi  della prospettiva di un mondo umano e umanizzante altrimenti “altro”. E dunque di una qualche “natività” e di un ipotetico, real-ideale “uomo nuovo” post-makarenkiano e tuttavia culturalmente non immemore del “Poema pedagogico”.

Siano, 18 ottobre 2


“Carissimo Anton, ti scrivo perché…

Ne sento il bisogno, e come insegni, ognuno deve fare quello che sente di voler fare.

Sono mesi ormai che sei entrato in questo luogo e in questo tempo, tanto abbiamo fatto, tanto ci siamo detti, ma in fondo, cosa conosciamo uno dell’altro? Quanto profondo è il rapporto che si è creato? Abbiamo bisogno di tempo? Io non più e allora ho deciso di raccontarti un po’ di me, di quello che penso, di quello che abbiamo fatto e che stiamo facendo.

Di questo percorso ‘di conoscenza’ e di quello che ho capito di te e delle sensazioni che in questi mesi hai saputo trasmettere.

Non è semplice la vita qui dentro sai? E il primo aspetto dei nostri incontri che mi ha colpito è proprio questo, ovvero che quelle difficoltà che prima sembravano insormontabili, che mi spingevano giù nelle profondità dell’inferno, senza riuscire a scorgere nessuna via di uscita, oggi grazie al tuo pensiero positivo, ho l’impressione di risalire; la sensazione di aver messo la testa fuori dal buco. Le negatività sono maggiori se guardi solo a quelle. Invece anche nel buio puoi trovare la luce, basta imparare a vederla, a scorgerla, a scoprirla. In ogni cosa c’è il lato positivo e guardare a esso ti migliora la vita.

Caro Anton, devi sapere che sono entrato qui dentro poco più che diciottenne, un ragazzino per la carta d’identità, ma un uomo per le situazioni a cui ho dovuto far fronte.

Oggi ho quarantun’anni compiuti questo mese, due figli, una ex moglie e una compagna conosciuta prima per corrispondenza e poi attraverso i colloqui in carcere.

Che storia ve’? Per chi conosce un po’ il pianeta carcere, può sembrare impossibile. Sono stato fortunato a incontrarla.

Ecco che il positivismo ritorna! Ormai è parte di me, è dentro di me. Dirsi fortunati quando si è passati più della metà della propria esistenza rinchiusi in quattro mura, è un azzardo non da poco.

Eppure… posso dirlo, perché con la separazione da mia moglie, ero cascato in una realtà fatta di ombre, di sofferenza e disperazione. Poi è arrivata lei, come un fulmine a ciel sereno, ma non per distruggere, bensì per donare luce.

Luce nelle tenebre da cui mi sentivo avvolto. Mi ha ridato quella vita che pensavo fosse perduta per sempre. Ci siamo conosciuti per caso, o per volere divino chi lo sa?

Da un po’ di tempo avevo iniziato a scrivere su un blog, pubblicai una lettera dal titolo: ‘il fascino del male’, rivolta a mia figlia e a tutte le ragazzine della sua età che possono restare ammaliate dal ragazzo di strada.

Un giorno mi vidi recapitare una lettera con il mittente di una donna che non conoscevo. Mi parlava di questa pubblicazione e criticava il pensiero espresso in essa.

Divertente, pensai. Le risposi, iniziammo una fitta corrispondenza e cosi abbiamo finito per innamorarci, per rendercene conto sempre di più fino a decidere di incontrarci e rompere definitivamente le precedenti relazioni. Anche lei era fidanzata, da nove anni e non è stato semplice.

Ha 8 anni meno di me ed è bella come il sole. Oltre che per il carattere, i principi e i valori, intendo fisicamente. La qualcosa rende ancora più straordinario quest’amore, che nasce su dei fogli di carta, stile ’700; romantico, castrato, asessuato in un mondo che pare pensi solo a quello.

Ad oggi ci incontriamo regolarmente tutti i mesi da 4 anni e non vediamo l’ora di viverci la nostra vita insieme.

Caro Anton, con la tua passione per un certo tipo di cinema, con la tua capacità di cercare e di trovare collegamenti con il ‘Poema pedagogico’, con questo o quel film, sfondi una porta aperta.

Ho imparato ad amare il cinema, nonostante non fossi proprio quel che si suol dire un appassionato, perché devi sapere che lei è una regista, laureata al DAMS di Bologna. Quindi, ora puoi spiegarti le insistenze sul recensire un film e tutto il resto rispetto alle discussioni inerenti al ‘Poema’ e ai film di Gianni Amelio.

Rammenti le discussioni su un certo capitolo del ‘Poema’, dove uno si innamora non corrisposto?

Ora comprendi perché tal argomento mi tocca particolarmente.

Come sento molto da vicino le situazioni dei ragazzi della colonia che racconti?  Ecco perché mi sono tanto appassionato al tuo romanzo. In quei ragazzi, rivedo la mia infanzia, che se sotto l’aspetto economico è stata molto diversa, in quanto, come potrai immaginare, essendo cresciuto con i nonni sono stato un bimbo prima e un adolescente poi, molto viziato a cui non è mai mancato nulla, se non proprio quello che manca ai tuoi ragazzi, ovvero una guida sicura. Una società capace di tutelare il singolo come il gruppo.

Quando questo viene a mancare, il ‘collettivo’ ne prende il posto, e allora a secondo del ‘gruppo’ in cui ti ritrovi, il tuo futuro può essere o meno segnato.

Il gruppo ti protegge, al suo interno ti senti al sicuro e esserne accettato ti gratifica. Poi quegli stessi ragazzi che all’interno del gruppo assumono determinati atteggiamenti, presi singolarmente, sanno essere tutt’altro. Tu stesso ne hai avuto una bella prova con Zadorov, preso singolarmente, hai scoperto un ragazzo nuovo, tanto da farne il tuo primo collaboratore. Proprio da lui hai iniziato la costruzione dell’Uomo Nuovo. Quel ragazzo sarà il tuo uomo nuovo e con lui, insieme a lui tutto il gruppo, agirà e si comporterà singolarmente per il bene del collettivo.

Guardo con gioia ai miei figli, particolarmente al maschio che ormai compie diciotto anni, e sono felice che abbia saputo incanalare tutta l’energia che gli proviene da questioni genetiche, nello studio, nel lavoro, concentrandosi sul suo futuro, forte della mia esperienza e soprattutto delle sue conseguenze.

Crescere in certi quartieri, essere il figlio di… può significare intraprendere un percorso quasi obbligato, prestabilito, e ripetere gli errori dei padri. Viviamo ancora in una società dove ‘inevitabilmente’ le colpe dei papà ricadono sui figli e sui nipoti e sulle generazioni future.

‘I figli del papuano’… testo a te cosi caro e su cui tante discussioni abbiamo affrontato, fa parte ancora del nostro tempo.

Il carcere è un posto brutto, com’è oggi non serve a nulla, se non per soddisfare la sete di vendetta di una società, purtroppo ancora arretrata e poco civile, di un paese relativamente giovane, che stenta a riconoscersi unito. Gli educatori, quelli che dovrebbero fornirti gli strumenti per ‘l’alternativa’, che hanno studiato per questo, guardano alla forma più che alla sostanza. Non generalizzo, ce ne sono che con scrupolo mettono in pratica quello che dovrebbe essere il loro primo obbiettivo, ma sono talmente pochi che la maggioranza vanifica ogni tentativo ben riuscito. Per questo sostengo che il “Poema pedagogico”, dovrebbe fare bella mostra di sé sul tavolo di ogni persona che lavora qui dentro.

Quel metodo rivoluzionario nel 1920, resta rivoluzionario anche a cento anni di distanza. Manca la consapevolezza che la fiducia non è una merce di scambio, anzi, quando lo diventa, produce più danni che benefici.

Danneggia prima il singolo e poi irrimediabilmente il collettivo.

Ne ho conosciuti di affidabili, ne ho viste di persone che recitano per venti anni per raggiungere lo scopo. Non è una cosa difficile, capito il meccanismo, diventa molto semplice ingannare chi è predisposto all’inganno, perché non si interessa all’essere ma bada solo all’apparire.

È sufficiente non esporsi, non manifestare il proprio pensiero, o plasmarlo secondo ciò che il proprio interlocutore vuole sentirsi dire, e non dire mai quello che veramente si pensa.

Quando poi, questi soggetti, ottengono quello che a cui ambiscono, tirano fuori la loro vera natura e quando ciò accade, pare che se ne stupiscano tutti. Anche questo è falso. Non debbono stupirsi, non devono fare finta di stupirsi, perché lo sapevano già, lo sapevano perché consapevoli di non aver svolto il compito assegnato ma solo quello che altri vogliono sentirsi dire. E sai perché? Perché non si sono mai posti la domanda come mai una persona che è descritta come un diavolo si sia trasformata in angelo il giorno dopo essere entrato in carcere.

E perché non si sono mai posti quest’interrogativo?

Perché è molto più semplice avere di fronte una persona accondiscendente, che ti dice sempre di sì, anziché una che sostiene le proprie idee. È più facile con uno che non sbaglia mai, poi chi se ne frega se uscito da qui, ricomincia? Sono problemi di ‘fuori’, l’importante è che non crei problemi ‘dentro”.

Meglio una bella bugia o una brutta verità?

Io sono per la seconda.

Alcuni operatori per la prima.

Tu mio caro Anton sono sicuro che la pensi come me.

L’esperienza negativa con Burun alla colonia, avvalora la mia tesi. Tu stesso nel ‘Poema’, lo descrivi come uno dei migliori in tutte le attività proposte e per questo traspare tutta la tua delusione quando si scopre che l’autore dei furti nella colonia è proprio lui. Delusione mista a rabbia per non averlo capito prima. Ma sei agli inizi e qualche inciampo servirà per correggere quelli futuri.

Ciò che conta di più è il dopo. È il modo con cui scegli di proseguire con Burun. Una punizione fine a se stessa non sarebbe servita a nulla. Punirlo e fornirgli gli strumenti per rialzarsi dopo la caduta, invece rappresenta il giusto mezzo per raggiungere il nobile fine del lavoro che hai scelto. Vuoi sentirlo dalla sua bocca che ha capito. Vuoi guardarlo negli occhi nel momento che nuova fiducia gli viene concessa. Forse Burun entrerà a far parte del consiglio dei comandanti, o forse no, non sveliamo il proseguo del ‘Poema’ a chi non l’ha ancora letto, ma quello che conta è che vuoi le persone vere. Che combinino anche macelli, sei li proprio per loro, per aiutarli, per fargli comprendere qual è la strada giusta da seguire e sei felice solo quando vedi quel ragazzo uscire dalla colonia e comportarsi allo stesso modo, con gli stessi valori e gli stessi principi.

Non rischi di restare deluso, perché il tempo trascorso insieme, non è stato per sentirti dire “grazie”, per essere lodato o per vederti sempre assecondato, ma per conoscersi nel profondo, per avere di fronte una persona vera.

Il tuo smisurato ottimismo è notevolmente contagioso, su certi aspetti però, ho il dubbio che possa essere deleterio per la crescita di una persona. Non per la positività che trasmetti, ma perché, in alcuni soggetti può innescare processi di dissonanza cognitiva, tali che non riescano più a riconoscere la realtà che li circonda.

Lodare fa bene al cuore, eccedere può rivelarsi nocivo, a maggior ragione quando di fronte si ha qualcuno che non possiede gli strumenti per riconoscere i propri limiti, e finisce per lasciarsi convincere che sia tutto oro quello che luccica.

La giovane età dei ragazzi del ‘Poema’, agevola il processo di formazione. In questa situazione, con uomini già formati, strutturati, e con ‘dogmi’ interiorizzati, diventa tutto molto più complicato.

Dagli errori si impara e si prosegue.

Non vuoi sapere nulla del nostro passato e questo è stato il primo insegnamento, il primo input per comprendere che bisogna guardare al futuro e imparare a vederlo positivo.

Credo però che oggi dopo esserci conosciuti, possa rivelarsi utile sapere qualcosa in più del passato di ognuno. Non mi riferisco alle ragioni per le quali ognuno si ritrova in questo posto, quelle non rivestono un ruolo funzionale al percorso intrapreso. Ma una conoscenza a livello culturale, sociale può rivelarsi determinante ai fini del traguardo prefissato e/o ambito.

Avrai già ben compreso il livello generale e il grado di predisposizione a un certo tipo di atteggiamento di ognuno. Purtroppo come ti dicevo, con gli adulti è tutto molto più complicato.

Sono convinto che il collettivo che si sta formando abbia tutte le carte in regola per conseguire il traguardo ambito.

–  Quale traguardo?

–   E perché porre un limite?

Non sei tu a insegnarci che bisogna sempre alzare l’asticella?

Ecco, questo gruppo non ha limiti, basta trovare il modo più efficace per farsi seguire.

Caro Anton, ora conosci qualcosa in più di me a livello personale e anche di quello che penso.

A presto vederci,  Francesco Annunziata.



Natale 2014

Una delle circostanze più interessanti, nell’economia generale della presente cronaca antologica, è la predisposizione degli studenti partecipanti alle attività del Laboratorio di scrittura e lettura di Siano, ad accogliere positivamente il “Poema pedagogico” e la prospettiva makarenkiana, in virtù di diversi elementi storico-biografici in gioco. E anzitutto: la politica culturale della Direzione di Casa Caridi, la maturazione personale dei singoli studenti, i buoni rapporti stabiliti tra questi ultimi e alcune espressioni del volontariato individuale e associativo, la straordinaria idea di coniugare le proprie diverse abilità di detenuti con una salvifica riflessione sulle disabilità altrui che possono farsi e che in effetti vengono facendosi risorse per gli stessi interessati, per chi è in carcere e chi ne sta fuori. Che è poi la condizione umana positivamente espansiva, inventata da Makarenko nel dirigere le sue colonie di rieducazione dei ragazzi senza tutela e, soprattutto, nel fare sì che i propri disegni didattici ideali si trasformino in risultati educativi reali, sia nel senso dell’acquisizione di ipotesi di apprendimento da parte dei diretti destinatari dell’azione pedagogica makarenkiana immediata, sia nel senso della trasmissione di determinate abilità didattico-educative indirette. E tanto più significative, quanto più coinvolgono l’infanzia e all’infanzia si rivolgono. In altri termini, la forza e la lungimiranza della prospettiva di misura proprio da questo: dalla possibilità dei sogni e dalla capacità di recepire i segni di una qualche “natività”. Dell’umanità nuova che nasce, cresce, avanza producendo effetti, narrando storie e, di conseguenza, inducendo effetti, invitando alle storie, stimolando narrazioni.      

Nicola Siciliani de Cumis

Aspettando il Natale  di Claudio Conte

“Grazie all’interessamento della Direzione tutta e volontari come Mario De Masi quest’anno, nella Casa Circondariale di Catanzaro, le festività natalizie hanno vestito i colori della solidarietà vera, concreta, attraverso ‘incontri’ pieni di calore umano, sentiti perché vissuti sulla pelle e mani che si sono strette come l’estremità di un ponte, superando apparenti abissi, che si dissolvono sempre quando a parlare è il cuore.

Gli incontri hanno riguardato ‘mondi’ apparentemente diversi, quello di associazioni che si occupano di quei bambini che vivono nella solitudine dei reparti oncologici, oppure quello dei non-vedenti, prigionieri dell’oscurità ma anche dell’indifferenza e cecità dei tanti che credono di vedere.

Occasione del primo incontro, allietato dalla presenza di alcune simpaticissime animatrici di ‘Ospedale allegro’, è stato quello della consegna al presidente Giancarlo Rossi di pupazzetti e rose, realizzati da alcuni reclusi, per reperire fondi da destinare alle attività dell’associazione stessa.

Durante l’incontro, una delle ragazze-clown ha letto una lettera scritta da Antonio, un bambino affetto da tumore, che con semplici ma toccanti parole descrive la sua condizione e fa un appello a “diventare volontari”. Appello che mi permetto di rilanciare, consegnandovi con la lettera, una storia che ci fa riflettere sulle cose davvero importanti nella vita.

Parole che hanno commosso, bagnando gli occhi a tanti di coloro che, per sentenza, al posto del cuore dovrebbero avere una pietra o forse neanche quella. A stringere il cuore c’era il pensiero dell’ingiustizia di malattie che non lasciano                                                                                                                                                                                                                             l’augurio che faccio a tutti noi per questo Natale ed i giorni del Nuovo Anno. Ma un augurio di tanta fortuna lo faccio ai tanti bambini come Antonio, ai quali va il nostro pensiero ed affetto, ed ai loro genitori.

Catanzaro-carcere, 17 dicembre 2014   


Makarenko e i suoi “bambini di Natale”

C’è in Makarenko un’idea della nascita e della crescita dell’“uomo nuovo” (non relegabile nel suo solo tempo e nel suo unico spazio “sovietico”), che  sembra investire alla radice qualunque nozione ed esperienza di “natività” (quella di Gesù compresa). Se ne è accorto Marcello Salvatore Corvaia quando, in una delle riunioni del Laboratorio di scrittura e lettura di Casa Caridi,  si è soffermato a riflettere sulla figura di Kalina Ivanovič Serdjuk come primo personaggio “natalizio” (all’età di sessant’anni!) del “Poema pedagogico” e, dunque, sui tipi umani dei primi colonisti e delle prime educatrici arrivati alla colonia di rieducazione diretta da Makarenko. Lo ha capito Agostino Pizzuto, quando s’è avveduto  che sia nell’azione “riformativa” di Makarenko sia in quella del docente del Laboratorio la “fiducia” è un’insostituibile strumento educativo. Perché, in fondo, le piante e i fiori (di cui Agostino è un esperto di alto livello “in scienza e coscienza”), hanno la stessa malleabilità che hanno gli esseri umani: gli uni e gli altri oggetto di attenzione, di cura, di sperimentazione pedagogica. Ma la fiducia come mezzo di invenzione di un “uomo nuovo” al tempo di Makarenko come nel nostro tempo, si ritrova anche in Conso, l’agricoltore presidente della giuria popolare nel film “Porte aperte” di Gianni Amelio (nel bellissimo dialogo finale con il giudice De Francesco). Si ritrova in noi stessi, purché ci sappiamo vedere nella nostra coscienza di uomini le nostre “novità natalizie”, la capacità di imbroccare la strada del sapere sognarsi, progettarsi, migliorarsi, realizzarsi, come “uomini nuovi”. Non è del resto per caso che nello stesso film di Amelio il discorso si allarghi e mescoli in un solo insieme la passione di Gesù Cristo, le viltà dei poteri costituiti e la speranza, la prospettiva della nascita o rinascita di un’umanità mai vista prima. Così Pizzuto:

Professore, le scrivo con un ampi margini di riflessione e di amarezza, ma non di rassegnazione, a causa di questo spicchio di vita che lei ci ha fatto osservare attraverso un vecchio film  [‘La fine del gioco’ di Amelio], in cui io ho visto rappresentato il proposito di uno sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la riduzione di ogni aspetto umano a scambio di merci. Però questo non ci deve portare alla rassegnazione,  ma farci impegnare in una lotta civile per debellare il male della mercificazione dell’uomo. Una reazione al film, questa, che è nata in me grazie all’abilità dell’attore [Ugo Gregoretti] che, in virtù della sua professionalità,  è riuscito a suscitare molta più rabbia di quella che già avevo, per tradurla in impegno civile. Affinché non si ripetano vicende come quella vista nel film, di un povero bambino già vessato dall’ambiente carcerario in cui viveva, trasformato in oggetto senza diritti e dignità, e solo per un motivo di guadagno e lucro di carriera, in totale contrasto con quello che stiamo studiando e ci suscita il ‘Poema’ di Makarenko. Nel quale, al primo posto, viene innalzata la dignità dell’individuo ed il diritto ha una nuova esistenza. Professore lei, nello spiegarci questo,  è molto abile e professionale: ma, a volte, l’essere spinti dal mondo roseo di Makarenko a quello grigio e cupo della così detta società civile, che di società civile nel vero senso della parola non ha niente, anche attraverso un vecchio film, mi provoca una rabbia interiore che mi porta a farmi moltissime domande. E una su tutte: ma l’uomo sa che siamo tutti esseri mortali e che la sua specie è inutile, e spesso dannosa, rispetto alle tante esistenti nell’universo? Tanto inutile che, se non ci fossero i danni che produce, nessuno lo noterebbe. Sì, il nostro pianeta, se si fa notare, è più che altro per le catastrofi che sa realizzare, che per le cose buone e giuste che fa. L’uomo è sempre dimentico che ha bisogno della collettività, come l’attore-personaggio giornalista del film di Amelio ci ha fatto vedere e capire. L’esempio che diamo, come uomini, è in totale contrasto con l’insegnamento dell’uomo nuovo makarenkiano, senza la cui millenaria prospettiva l’umanità si sarebbe estinta chissà da quanto tempo. Invece, egoista com’è, l’uomo continua a godere della breve vita che fortunatamente ha a disposizione, sfruttando i suoi simili (lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo!) con meschinità e disconoscendo qualunque dignità e diritto di vita agli altri.

Ed è la stessa, elementarissima e al tempo stesso complessissima problematica umana dolce-severamente evocata da Vincenzo Furnari nelle decine di messaggini manoscritti con cui recensisce a modo suo, nel suo farsi, la vita del nostro Laboratorio di scrittura e lettura. Un Laboratorio, questo di Furnari, dentro il Laboratorio. Un luogo di produzione storico-critica,  metodologicamente incentrata sui feed back di un pensiero antico, ma non regressivo, che si oppone al nostro mondo così com’è per proporne idealmente un altro decisamente nuovo e migliore. Una fabbrica di pensieri negativi-positivi “involontari” (direbbe Franco Ferrarotti) e in movimento, che provengono da una vicinissima lontananza, da un profondo, remoto, futuribile, attuale  buon senso. Un’officina di “natività di natività”, di Natali generativi e rigenerativi, tra le retrospettive del passato e le prospettive dell’avvenire. Tuttavia ben presenti nella quotidianità, tra sogno e veglia, realtà e immaginazione. Scrive infatti Furnari:

Immagino  di sognare ad occhi aperti; dalla finestra guardando il cielo, vedo la stella cometa avvicinarsi. Mi dice: ‘Buonanotte buon uomo, mi aspettavi. Ora che mi hai visto puoi festeggiare; e, mi raccomando,  macella agnellini e maiali. Pensa alla quantità di soldi che puoi ricavare e quando ti troverai a tavola a consumare il tuo cibo chiudi bene la porta, come se fuori passasse la morte. Il Natale, infatti, finisce spesso col diventare una rivendita di consumismo e di sciacallaggio: e coloro che non sono in grado fare spese vengono visti male dagli stessi loro cari’.  

Si dice che affinché un bambino possa nascere ci vogliono nove mesi, più i giorni della luna, al massino ventinove giorni. Ma io sono quasi certo che se Gesù Bambino potesse scegliere il giorno della sua nascita, altro che ventinove giorni aspetterebbe a nascere: si rifiuterebbe  invece del tutto. Povero bambino, questo non potrai farlo, perché puntualmente il venticinque di dicembre ci tocca ripetere questa cattiva apparizione.

Ciononostante, per tutti i bambini del mondo il Natale significa gioia e amore, per i suoi doni: tanto che sia un frutto di ieri, quanto un giocattolo di oggi, con forme e colori di allegria e gioia”.

 

Viene da ripensare, tra analogie e differenze, alle parole di Papa Francesco, durante la messa nella basilica vaticana, la notte di questo Natale (cfr. “Ritorno all’essenziale”, in “L’Osservatore Romano”, 28-29 dicembre 2015) Eccole:

Questo Bambino ci insegna che cosa è veramente essenziale nella nostra vita. Nasce nella povertà del mondo, perché per Lui e la sua famiglia non c’è posto in albergo. Trova riparo e sostegno in una stalla ed è deposto in una mangiatoia per animali. Eppure, da questo nulla, emerge la luce della gloria di Dio. A partire da qui, per gli uomini dal cuore semplice inizia la via della vera liberazione e del riscatto perenne. Da questo Bambino, che porta impressi nel suo volto i tratti della bontà, della misericordia e dell’amore di Dio Padre, scaturisce per tutti noi suoi discepoli, come insegna l’apostolo Paolo, l’impegno a ‘rinnegare  l’empietà’ e la ricchezza del mondo, per vivere ‘con sobrietà, con giustizia e con pietà’ (Tt 2, 12).

In una società spesso ebbra di consumo e di piacere, di abbondanza e lusso, di apparenza e narcisismo, Lui ci chiama a un comportamento ‘sobrio’, cioè semplice, equilibrato, lineare, capace di cogliere e vivere l’essenziale. In un mondo che troppe volte è duro con il peccatore e molle con il peccato, c’è bisogno di coltivare un forte senso della giustizia, del ricercare e mettere in pratica la volontà di Dio. Dentro una cultura dell’indifferenza, che finisce non di rado per essere spietata, il nostro stile di vita sia invece colmo di ‘pietà’, di empatia, di compassione, di misericordia”.

 

La medesima “natalità natalizia” in diretta,  rimessa in scena con ricchezza di particolari da Giovanni Farina nei suoi bei libri di poesia e prosa, riformulata nelle sue personalissime storie di vita e dunque riprogettata,  sognata e risognata nei suoi delicatissimi versi. Il Farina che dell’intreccio di autobiografia e letteratura, sollecitato dalla lettura del “Poema pedagogico”, sostituisce al dolore dell’esistenza il piacere della scrittura. Per esempio quando scrive:

 

Makarenko, “Poema pedagogico”

“Se  piovesse nel deserto:

L’acqua della pedagogia di Makarenko nelle carceri italiane  farebbe fiorire molti giardini, ma dal buio dei condannati in Italia si vede solo la luce dei fuochi d’artificio che fanno i nostri politici.

Vorrei che davanti al mio letto ogni mattina non vedessi la luce del sole che entra dalla finestra che mi invita ad alzarmi, perché un giorno e risorto. Se non vedessi il sorgere dell’alba  forse il mio tempo sarebbe meno noioso, sarebbe senza l’incubo di dover passare un altro giorno, di superare un’altra notte dentro le mura di una cella.

Le infinite storie che ruotano intorno a me, in realtà non esistono, sono tutte immaginarie.

L’isola che non c’è: la patria ideale per i carcerati italiani si trova nell’arcipelago Toscano, è un luogo sperduto nel mare, per questo scelto per essere una colonia prigione. Di queste isole colonie prigione nell’arcipelago Toscano negli anni passati c’è n’erano altre  sono state dismesse. Una si chiamava la Pianosa il suo nome ne deriva dalla sua formazione, è completamente piana. Quando era abitata dai carcerati vi allevavano pecore, capre e mucche, coltivavano i vigneti e campi a frumento, è diventato un luogo abbandonato dove la natura si è riappropriata del territorio. La seconda isola che non è più una colonia prigione è Capraia, gli abitanti attuali sono i nativi che hanno diviso per molti anni le loro necessità con la colonia penale. Ricordano con rimpianto quegli anni perché i carcerati tenevano l’isola in ordine, con l’allevamento degli animali al pascolo brado e con le coltivazioni a ortaggi per i loro bisogni giornalieri. Queste isole oggi sono inattive non sono sfruttate. Sopravvive la Gorgona che la Direzione usa la Pedagogia di Makarenko, i carcerati sono impegnati nell’allevamento degli animali e, alla coltivazione del territorio. Tutti i carcerati lavorano liberi nella prigione dalle pareti invisibili, circondata dal mare, dove ci vivono  uccelli selvatici di ogni specie, gli animali d’allevamento sono: pecore, capre e mucche da latte dove si fanno i formaggi, ricotte e burro, dai maiali insaccati e prosciutti, dai vigneti e dagli olivi un pregiato vino e olio Toscano. C’è anche un piccolo paese di abitanti nativi, un agglomerato di cassette, con una bottega e il cimitero, le diramazioni della colonia dei reclusi non sono distanti dalle abitazioni dei civili. Un piccolo battello fa spola per tutte le necessità della colonia Penale e dei civili tutti i giorni da Livorno all’isola Gorgona. L’isola è una micro patria per i carcerati di molte nazionalità che ci vivono, tutti lavorano all’aperto, hanno uno stipendio sindacale regolare, non è come i reclusi che lavorano nelle carceri sulla Penisola che sono sfruttati dal Ministero della Giustizia peggio degli approfittatori nel lavoro nero con gli extra comunitari nei campi dei pomodori. I reclusi della Gorgona mandano i soldi che guadagnano ai loro famigliari che vivono in tutti i paesi Sudamericani e Africani, non ci sono italiani, secondo la politica del governo italiano, gli italiani non hanno bisogno di lavorare all’aperto di essere reintegrati nella società, di mandare i loro risparmi alle loro famiglie, solo agli stranieri e permesso fare spedizioni di capitali  all’estero dalla prigione. Se lo fa un italiano nella vita civile portare dei capitali all’estero perché non vuole più investire in Italia, ti arrestano.

La bellezza incontaminata dell’isola e merito della presenza da molti anni della colonia penale.

L’attaccamento che hanno gli uomini alla libertà e lo stesso che sentono per l’uguaglianza.

Io ci abitavo in Toscana, a casa mia ci stavo molto bene tra i buoni odori dei boschi.

Non sono io forse stato generato e partorito dalla stessa donna come foste voi?

Al  mio arrivo dall’Australia a Roma. Mi aspettava il carcere di massima sicurezza al 41 bis.

Dopo un anno, da Rebibbia mi trasferiscono sempre al 41 bis ad Ascoli Piceno, dopo un paio di giorni mi segno per un colloquio al giudice di Sorveglianza, gli faccio presente che necessitavo la macchina da scrivere che avevo nel magazzino per facilitarmi a scrivere dei memoriali difensivi per  l’Appello del processo che mi vedeva appellante del sequestro di Giuseppe Soffiantini, e per il processo di Primo Grado dell’omicidio dell’Ispettore dei NOCS Samuela Donatoni. Avevo chiesto, per la macchina da scrivere, l’autorizzazione al Ministero della Giustizia quando ero a Rebibbia a Roma, mi era stata autorizzata dalle 9 della mattina fino alle 8 della sera. Sentita la mia richiesta il giudice di Sorveglianza, mi risponde per Lui anche dopo che io avessi  scontato 20 anni di 41 bis se la Procura metteva parere negativo Lui non avrebbe mai messo il parere favorevole a togliermi il 41 bis. Nel chiedere la macchina da scrivere da parte mia per facilitarmi la difesa processuale, il giudice di Sorveglianza di Macerata, aveva interpretato la mia richiesta come se io stessi cercando una qualche agevolazione per farmi togliere il 41 bis, non ho più parlato con lui per tutti gli anni che sono stato ad Ascoli Piceno carcere di sua competenza.

La macchina da scrivere non mi fu autorizzata.

Vado definitivo del processo Soffiantini anche la Cassazione conferma la condanna a 28 anni e 6 mesi di galera. La Procura di Roma mi applica per via d’ufficio il cumulo delle pene a trent’anni di reclusione con un’altra mia condanna del 1982.

Al processo di Primo Grado per l’omicidio dell’Ispettore dei NOCS Samuela Donatoni, la Quarta Corte di Assise di Roma mi assolve per non aver commesso il fatto, automaticamente il processo Donatoni mi vedeva in attesa d’Appello a piede libero per scadenza dei termini, perché erano passati più di dieci anni dall’imputazione, anche se il pubblico Ministero aveva fatto ricorso in  Appello. Chiedo la liberazione anticipata perché con la mia carcerazione precedente avevo quasi superato i 30 anni di galera sofferta. Il giudice di Sorveglianza di Macerata che doveva tutelare i miei diritti a favore, non mi applica la liberazione anticipata che era la sua sola competenza, ma chiede alla Corte di Assise di Roma che mi riaprisse il cumulo delle pene e mi applicasse l’ergastolo perché con la liberazione anticipata avevo superato i 30 anni di reclusione e dovevo essere scarcerato. La sua relazione era che, con tutte le accuse false che mi erano state fatte al processo che mi vedeva coinvolto una volta che avessi passato il cancello del carcere mi sarei dato alla clandestinità, non avrei aspettato il risultato dell’appello per l’omicidio Donatoni a casa mia. La stessa Corte cumuli di Roma che nel 2005 mi aveva accumulato tutto a trent’anni di reclusione  per tenermi in carcere, senza fatti nuovi mi riapre il cumulo e mi applica l’ergastolo “ostativo”, con la retroattività dal 1982, ma con l’inizio da scontare l’ergastolo dal 1998 dal giorno che ero stato arrestato in Australia la carcerazione pressofferta dal 1982 mi serviva solo per farmi applicare l’ergastolo, ma non come pena liberatoria.

Sono stato dal 2007 al 2015 a fare ricorsi alla Corte Cumuli di Roma per farmi riconoscere che non mi potevano applicare l’ergastolo. Più volte la Prima Corte di Assise di Roma mi riconfermava l’ergastolo ai miei ricorsi sin quando non sono ricorso in Cassazione e mi ha dato ragione per ben due volte costringendo la Prima Corte di Assise a riformulare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione. I miei ricorsi richiedevano che, non mi potevano applicare l’Ergastolo perché l’Australia mi aveva dato l’estradizione solo per un residuo pena di 8 anni e l’Italia non mi poteva contare la condanna a 27 anni di reclusione al completo del 1982, al quale avevo già scontato 20 anni, e accumularla con la condanna a 28 anni e sei mesi del 2001.

Da circa 3 mesi non sono più un ergastolano.  

Nel 2004 quando ero sempre ad Ascoli Piceno il mio avvocato mi informa che il signor Giuseppe Soffiantini gli aveva telefonato voleva scrivermi e voleva venire a trovarmi in carcere, se accettavo, risposi che accettavo. Inizio a scrivermi col Signor Soffiantini, mi manda più volte dei pacchi di libri, e mi indicava i libri che più gli erano piaciuti, così capisco che gli piaceva leggere, e fu allora che gli  confidai che scrivevo poesie, gli domandai se era disposto a pubblicarmi un libro, mi rispose che era felice di pubblicare le mie poesie, gli feci spedire da mia sorella due cartelle di poesie da me scritte dal 1982 al 1990. Soffiantini pubblica le mie poesie e fa di suo pugno l’introduzione. Un giorno la guardia di servizio nel piano si avvicina alla mia cella mi dice di prepararmi che la Direttrice voleva parlarmi, gli risposi che non mi ero segnato al Direttore che si stava sbagliando, mi rispose che non si stava sbagliando di prepararmi in fretta che mi stavano aspettando. Entro nell’ufficio della Direttrice trovo l’ufficio pieno dall’Ispettore più elevato di grado ai suoi subalterni c’era tutto lo stato Maggiore dei comandanti del carcere. La Direttrice era seduta, alla scrivania aveva il libro di poesie che mi aveva pubblicato il Signor Soffiantini sulla scrivania, la prima parola che mi rivolge, lei Farina ha delle risorse sorprendenti, capendo subito a cosa si riferiva, le rispondo: signora Direttrice detta da un’altra persona questa parola sarebbe stato un gran complimento ma detto da Lei, mi sembra che mi sta accusando di aver commesso un crimine. Mi stava accusando che io avevo evaso la censura epistolare, che ero sottoposto dall’amministrazione Penitenziaria. Voleva sapere come avevo fatto  a far arrivare le mie poesie al signor Soffiantini, le dissi: di non affannarsi tanto, che erano composizioni scritte da me anni prima, e mia sorella le aveva fatte recapitare al Signor Soffiantini, mi disse: che io non potevo pubblicare libri perché ero al regime del 41 bis, a quel punto le dissi, se proprio ci teneva di andare casa per casa a ritirare i libri venduti, perché erano in vendita da giorni. Andarono dal signor Soffiantini e alla casa Editrice perché volevano far sospendere la pubblicazione, il signor Soffiantini pubblicò lo stesso il libro, non so, se ci sono state altre edizioni perché avevo detto a mia sorella che avrei devoluto tutto il ricavato che mi riguardava alla ricerca del cancro e alla distrofia muscolare, mia sorella che è la mia tutrice firmò per me un contratto per 20 anni con la casa editrice, che ogni guadagno della vendita sarebbe andata alla ricerca che io avevo destinato.

Nel mentre avendo tanto tempo a disposizione scrivevo la mia biografia perché sapevo che prima o dopo avrei avuto la possibilità di pubblicarla. Non avendo la macchina da scrivere scrivevo tutto a penna. Nell’agosto del 2007 mi trasferiscono a Spoleto sempre nella sezione di massima sicurezza del 41 bis. Nel gennaio del 2008 mi declassificano, mi tolgono l’art. del 41 bis, e mi trasferiscono nel carcere di Catanzaro sempre nella massima sicurezza questa volta in un altro circuito infernale AS1, mi metto in contatto con più Editori per pubblicare la mia biografia, nel mentre ero riuscito a ottenere la macchina da scrivere Olivetti 32 e l’avevo ricopiata. Un giorno un Editore Sardo mi comunica che era disposto a pubblicare la mia biografia, che gli mandassi prima la documentazione processuale che avevo a portata di mano perché aveva un’altra visione dei fatti processuali che mi riguardavano, più volte detti dalla cronaca, che erano tutto l’opposto di quello che io scrivevo nella mia biografia. Gli mandai tutta la documentazione che mi richiedeva, dopo pochi giorni mi risponde e mi dà la sua disponibilità a pubblicare il libro e mi dice che sarebbe stato onorato a scrivere l’introduzione, se ero d’accordo, gli risposi che ero d’accordo e lo ringraziavo per la sua disponibilità, per tutto l’aiuto che mi stava dando. Viene finito di stampare nel mese di gennaio 2013, presso il controstampa dello Arkiviu biblioteca T. Serra via Mons. Melas n. 24 -09040 Guasila (Cagliari).

Una poesia da me scritta e pubblicata nel libro da Giuseppe Soffiantini, stampato nel settembre del 2007 a cura della Compagnia di Stampa srl Roccafranca (Brescia).

 

Poesia

Sono un condannato

Con la sua catena

E la trascina

Nelle proprie memorie.

Ogni anello

Ha scavato

Un solco profondo

Nelle carni

E rimuovendolo

Cambia il posto

Al supplizio

Giovanni Farina

Quanto a Makarenko, il rovente nesso di realtà autobiografiche e verità romanzesche, lo hanno ben capito e ottimamente illustrato gli studiosi salesiani facenti capo alla rivista “Orientamenti pedagogici”  (il più filologicamente avvertito, Bruno Bellerate). Come lo hanno ottimamente inteso alcuni intellettuali che, pur restando fuori dell’ottica makarenkiana, aiutano meglio di altri a capire la sostanza concettuale. Così per dire dello scrittore italiano oggi più noto all’estero,  Claudio Magris, in alcuni luoghi significativi della sua produzione letteraria e giornalistica. E Aldo Masullo: così, per esempio, in “La speranza responsabile”, su “Il Mattino” del 25 dicembre 2007. Una delle letture proposte, in prossimità del Natale 2015, nel Laboratorio sianese, quale riscontro e sollecitazione di possibili reazioni critiche al “Poema pedagogico” di Makarenko come romanzo di “natività” e atto di nascita di una inedita idea di “prospettiva” e di “responsabilità”, di nessi storici di “presente”, “passato” e “futuro”, di “solitudine” e  di “comunarietà”.

“La speranza responsabile” di Aldo Masullo

“Nel Natale cristiano la cultura universale celebra il senso autentico dell’umano. Il tempo dell’uomo è infatti il nascere. Il nascere umano non è un semplice evento biologico. Esso è ‘il venire al mondo’, l’entrare nella relazione con altri, l’incontrare gli uomini, l’essere accolti. In questo incontro si apre il futuro. La mente certamente è retrospettiva, cioè passiva permanenza o attiva ispezione del passato.  Ma essenzialmente è prospettica: apertura al futuro. Essa dunque è attesa. L’attesa – osserva Spinoza nel ‘Breve trattato’ – è speranza, quando è gioia trepida di un bene. La prospetticità della mente umana dipende dall’origine comunitaria della persona. Nella relazione comunitaria, soltanto nella quale si diventa uomini, nel culturale intrecciarsi dei destini, s’impara a pensare il futuro, ci si affaccia all’orizzonte delle possibilità. L’attesa è speranza comunitaria. L’origine della vita propriamente umana è nella consapevolezza che io non sono gli altri, ma non posso essere senza gli altri. La speranza è comunitaria come l’origine. O ci salviamo tutti, o tutti ci perdiamo. Quando questa consapevolezza s’appanna, l’umanità va in rovina. Il corrompimento della storia è il decadere della comunitarietà, la riduzione dell’uomo all’isolamento egocentrico. In queste condizioni speranza e salvezza decadono a modi puerili: la speranza scade a immaginosa evasione; la salvezza a miraggio di sterile conservazione di sé. Ciò che nell’isolamento va perduto è la possibilità dell’incontro. La fantasticheria della potenza solitaria, dell’onnipotenza autocratica, finisce nella disperazione dell’impotenza. La speranza autentica suppone che ogni essere umano risponda alla vocazione di comunitarietà, e si disponga a incontrare gli altri. È necessario, a questo punto, che ci si desti alla responsabilità. Kant in un suo breve ma decisivo saggio ammonì che ‘illuminismo’ vuol dire uscire dalla minore età, diventare maggiorenni, cioè non essere più sotto tutela, bensì decidere in autonomia, assumendo la piena responsabilità dei propri atti. L’impegno, di cui ognuno di noi è radicalmente responsabile, è superare la separatezza e l’isolamento, e restaurare la vivente comunitarietà. Platone ci ha insegnato come il più potente vincolo naturale tra gl’individui, l’eros sessuale, si trasformi in legame culturale, in eros civile. La città è la condizione in cui, come si legge nel Simposio, ‘ci si svuota di estraneità e ci si riempie d’intimità’. Il destino di tutti è sentito da ognuno come il suo destino. In ciò è l’essenza originaria della ‘polis’ greca, onde la città è vita politica. La città non è una semplice società, un’alleanza
di soci, occasionale e temporanea, bensì una vivente comunità. In ogni vera città, la società è animata di comunitarietà. Napoli ha subito nella storia millenaria innumerevoli disavventure, e quasi mai è stata padrona del suo destino. Ma il suo popolo minuto, pur nella miseria delle sue condizioni, si è tuttavia salvato nel suo spirito, non perdendo mai la speranza, perché ha conservato in sé l’invincibile forza della comunitarietà. Oggi, la malattia mortale di Napoli è la
separatezza dilagata, l’isolamento non solo tra le classi e i ceti, ma all’interno di ciascuna classe e di ciascun ceto. Anzi non vi sono più né classi né ceti, ma ricchi e poveri alla rinfusa, potenti e umili alla rinfusa. Ogni abitante di Napoli è isolato, senza comunicazione, senza alcun essere-in-comune. Semmai vi sono bande, non comunità. Perciò si è senza speranza. I responsabili delle istituzioni concorrono potentemente all’isolamento dei cittadini ed essi stessi ne sono vittime nel ridursi sempre meno capaci di esercitare il proprio potere per la ‘pubblica felicità’. La coesione garantisce i diritti. Nei vuoti di coesione penetrano e allignano in attacco la illegalità e in difesa la protezione illegale. Quanto più manca la protezione legale, tanto più si diffonde quella illegale. La speranza della salvezza, che o è comune o non è, si spegne. L’individuo non è più cittadino, non essendo più familiare e socio. Così crescono la paura dei più deboli, l’indifferenza dei più forti. Se la separatezza è rassegnata, essa è viltà: la viltà dell’umile. Se la separatezza è compiaciuta, essa è arroganza: l’arroganza del potere. La salvezza è possibile, soltanto sei potenti si fanno umili e gli umili si fanno arditi. Altrimenti l’umiltà è un guscio vuoto, inutile, e il potere è una macchina senz’anima, sterile. Non v’è speranza, dove non v’è responsabilità. La responsabilità non è tanto quella legale, verso le regole poste, quanto quella politica, la decisione che si assume in risposta ai bisogni emergenti e agli effetti futuri dei processi in corso, anche se poco visibili, nelle viscere della storia. È necessario che tutti, soprattutto i potenti, divengano maggiorenni. La speranza, come l’amore, o è responsabile, o non è”.


Il “Poema pedagogico” tra “bella  cucina” e “valente pasticceria”

Nel “Poema”,  tra le numerose volte che se ne parla, si dice del cibo sia in senso letterale-nutritivo, sia in seno figurato: “Il primo bisogno dell’uomo è il cibo”. Per questo la situazione del vestiario non ci rendeva tristi mai quanto quella del cibo. I nostri ragazzi erano sempre affamati e questo rendeva sensibilmente più difficile l’obiettivo della loro rieducazione. Essi riuscivano a soddisfare con i propri mezzi solo una piccola parte del loro appetito”. Così sui dolci, sia alla lettera sia metaforicamente. Sennonché  il tema è assai più complesso di quel che non si colga a prima vista; e finisce col riguardare la problematica, ben più ampia e profonda delle “necessità vitali”, dalle più elementari a quelle più complesse. Basti pensare all’immagine dello “zuccherino”, che riassume un po’ tutto il senso di una pedagogia… “antipedagogica”. Quando in un luogo cruciale del “Poema”, nel passaggio tra il capitolo “Ai piedi dell’Olimpo” e quello su “Il primo covone” (nel farsi di vere o presunte “natività” dell’“uomo nuovo”, nel segno della rigenerazione degli individui, della formazione del collettivo e  del festeggiamento delle “primizie” in tal senso), Makarenko spiega:

“A dire il vero, l’uomo non può vivere se non vede davanti a sé qualcosa di piacevole da raggiungere. Il vero stimolo della vita umana è la gioia del domani. Nella tecnica pedagogica questa gioia del domani è il principale mezzo di lavoro, che nello stesso tempo prende due direzioni. La prima consiste in quella stessa gioia, nella scelta delle sue forme e manifestazioni esteriori. La seconda consiste in una regolare, tenace trasformazione delle espressioni più elementari della gioia in quelle più complesse e umanamente più significative. Si forma così una linea interessante: dalla soddisfazione primitiva dello zuccherino al più profondo senso del dovere.

Questo metodo non emanava un così forte odore del maligno, e qui gli ‘olimpici’ tolleravano molte cose, anche se di tanto in tanto brontolavano con sospetto.

Ciò che siamo abituati ad apprezzare maggiormente nell’uomo sono la forza e la bellezza. Entrambe si formano in lui unicamente in dipendenza del suo atteggiamento verso la prospettiva. L’uomo che stabilisce la propria condotta in base alla prospettiva più immediata, quella del pranzo di oggi, per intenderci, è l’uomo più debole. Un individuo, le cui azioni sono invece volte verso una prospettiva più lungimirante, allo scopo, supponiamo, di accumulare ricchezze e acquistare un podere, questo individuo è un uomo forte, e lo sarà tanto di più quanto maggiori saranno gli ostacoli che avrà superato, e cioè più lungimiranti le sue prospettive. E la bellezza di un individuo consiste nel suo atteggiamento verso la prospettiva. Se egli si accontenta della sua sola prospettiva individuale, egli è tanto più scialbo, ordinario e a volte perfino disgustoso. Quanto più è ampio il collettivo, le cui prospettive il singolo fa proprie, tanto più questi appare bello e degno. Dovendo prendermi pedagogicamente cura soltanto di ragazzi abbandonati, io nondimeno sono costretto a operare nel campo dei teoremi testé citati. L’organizzazione della prospettiva e la trasformazione delle prospettive dalle forme individuali alle forme collettive sono il mio lavoro principale. Ma qualsiasi prospettiva gioiosa, se è già organizzata, sicuramente solleva il tono della vita intera e, prima di tutto, eleva le capacità lavorative dell’uomo. In questo discorso non si può osservare sempre l’applicazione rigorosa di una logica egoistica. Qui la faccenda si risolve non tanto con la logica, quanto con l’elevamento di un qualche complessivo “modus vivendi”. Lo stipendio aumenta la produttività del lavoro non soltanto perché un individuo vuole guadagnare il più possibile, ma soprattutto perché l’idea di un guadagno futuro assieme alle prospettive che vi si collegano solleva la sua complessiva percezione della propria personalità, l’energia che ne deriva, e migliora il suo atteggiamento verso il mondo.

Un fatto, quest’ultimo, che è ancora più visibile nell’ambito della prospettiva collettiva. La gioia del domani, da parte del collettivo, non può per nessuna ragione essere logicamente collegata al lavoro dell’oggi da parte di una sola persona. La quale gioia del domani si ricollega a quest’ultimo in un modo soltanto emotivo, e tali emozioni spesso sono molto più fruttuose rispetto a qualsiasi logica mercantile.

Educare correttamente il collettivo significa avvolgerlo in una complessa sequenza di rappresentazioni prospettiche, evocando quotidianamente  nel collettivo immagini del domani, immagini gioiose, che elevano un essere umano e contaminano l’oggi di gioia.

Educare l’uomo significa educare in lui le linee di prospettiva sulle quali troverà la sua felicità di domani. Si potrebbe scrivere un’intera metodologia di questo fondamentale lavoro. Esso consiste nell’organizzare nuove prospettive, nell’utilizzare quelle già esistenti sostituendole gradualmente con altre di maggior pregio. Si può anche cominciare da un buon pranzo, da una visita al circo, dalla pulizia di uno stagno, ma bisogna in ogni caso far nascere e stimolare gradualmente le prospettive di un intero collettivo”.

Di qui il senso dell’importante feed back “pratico”,  ma non soltanto tale, offerto da Fabio Valente e Massimiliano Bello, quasi a riprova, spiegazione e traduzione  del punto di vista di Makarenko. Scrive infatti, quasi in premessa, Valente con una sincerità e una acutezza che

“Quello che mi ha colpito del primo capitolo, che tratta dell’incontro tra Makarenko e il direttore dell’istruzione popolare, è che: Makarenko è un pedagogo nella Russia del 1920, quindi post rivoluzione. Il direttore dell’istruzione popolare è il solito burocrate. La discussione tra i due si fonda sulle richieste di Makarenko di strumenti idonei  per educare l’uomo nuovo e il direttore per tutta risposta gli concede un mazzetto di banconote, ben 150 milioni, solo che a causa dell’infrazione non hanno nessun valore.

Ecco quello che mi ha realmente colpito. Makarenko, accetta l’incarico anche senza gli strumenti necessari. Una sfida nella sfida. Anche perché, il direttore pare che voglia educare l’uomo nuovo solo con il ‘fuoco rivoluzionario’. In questo senso, a volte mi sento anch’io un po’ Makarenko, egli con il fuoco vivo della passione sociale, io con quella per la pasticceria. E vengo al dunque: è come se mi venisse affidato l’incarico di realizzare una torta e mi si chiedesse di farlo senza gli ingredienti.

Nel secondo capitolo, la parte della discussione tra il direttore amministrativo, Kalina Ivanovič e Makarenko su chi dei due dovesse assumere il ruolo di direttore generale, che mi ha toccato, è stata la risposta di Makarenko quando l’altro gli prospettava l’idea di non volersi sottomettere, gli dice subito che non è un problema sarà lui a essere suo sottoposto.

Ritengo che quella di Makarenko sia stata la prima mossa vincente. Rifiutando lo scontro verbale spiazza il suo interlocutore, che non a caso ribalta il proprio pensiero fino a quel momento tanto difeso per nominare lui stesso Makarenko direttore generale. E che sia frutto di una precisa volontà del pedagogo, lo dimostra il pensiero successivo, ovvero:  ‘sarà il primo oggetto della mia attività educativa’.

Giova precisare che il sistema educativo di Makarenko, non richiama similitudini con quello pregresso e raccontato dai vicini, i quali ben informavano Makarenko stesso, che l’unico sistema educativo che conoscevano in quel campo, in epoca pre-rivoluzionaria era: il bastone.

Questo avveniva quando ancora lo spazio assegnatogli dall’ente, era vuoto, ovvero senza ‘ospiti’. Con l’arrivo di sei ragazzi ‘difficili’, anche Makarenko perde le staffe. In una parte del capitolo si legge che Makarenko usa ‘il bastone’ su un ragazzo.

Qual è la mia idea?

Che a seconda delle circostanze e di chi hai di fronte, scegli quale metodo utilizzare.

Con quei ragazzi che si è trovato di fronte lui, forse non gli hanno lasciato scelta. Inoltre a quanto pare ‘il bastone’ ha sortito effetti migliori.

E proprio per evitare situazioni come quella, che Makarenko sceglie quali collaboratrici della sua opera, due donne, Katerina  giovane e senza esperienza, lidia con qualche anno in più e conservatrice. Oltre all’aspetto materno, anche a livello culturale, i maschietti davanti a una donna sentono di più il rispetto.

Una delle cose che mi è rimasta impressa, è che questi ragazzi venivano da un posto peggiore e invece di comportarsi bene pensando a ciò che avevano lasciato, continuano ad agire in maniera sconsiderata.

Immagino, anche per esperienza personale che, quando ti ritrovi in un posto ‘più accogliente’, ovverosia più vivibile, sarebbe il caso di saperselo mantenere. Ovviamente partendo dal presupposto che dipende da dove vieni.

La circostanza che dopo l’episodio violento da parte di Makarenko nei confronti del leader, abbia ridimensionato anche gli altri ragazzi, è del tutto casuale. Ritengo che gli altri ragazzi già avessero intenzione di assumere un atteggiamento differente e quel fatto è stato solo la scintilla.

Fabio Francesco Valente”


Non resta che ancorarsi positivamente alla propria esperienza, alle proprie competenze; e se dalla Direzione di Casa Caridi ti invitano a partecipare con tutta la tua sapienza culinaria alla  “morale” e alla “pedagogia” dell’“Obesity Day 2015” (il 10 giugno), farlo con il massimo dell’allegria e della dedizione alla “causa”, dando tra colleghi cucinieri e dolcieri e a tutti gli altri compresenti e cooperanti il meglio di te. Dunque:

Pasta con cime di rape di Massimiliano Bello

“Per la giornata contro l’obesità sono state previste una serie di iniziative per sensibilizzare e richiamare l’attenzione della gente a questa che è diventata una problematica che coinvolge anche i bambini. Specie nell’Occidente. Perché in altri continenti, quelli definiti da ‘terzo mondo’, il problema è l’opposto.

E grazie alla Direzione quest’anno avremo l’opportunità di dare un piccolo contributo anche noi, considerato che la questione, a vario titolo,  ci coinvolge tutti e da vicino.

L’Italia, da un po’ di anni a questa parte, si trova a fare i conti con questo male che deriva da cattiva e abbondante alimentazione, ma anche dal poco movimento fisico di grandi e piccini: ‘colpa’ del lavoro per i primi e delle ore passate al computer per i secondi. Ma un tempo non era così, quando da bambini, per giocare, si usciva e non si smetteva di correre avanti e indietro, mentre gli adulti erano costretti a lavori faticosi: quelli che, adesso, più che altro sono riservati agli immigrati.

Ricordo quando i miei familiari andavano a lavorare in campagna. E quando arrivavano a casa, mia madre e le mie sorelle, invece di riposarsi si mettevano a cucinare. Io affamato, come può esserlo un bambino sempre in movimento, non vedevo l’ora che ci sedessimo a tavola per mangiare. Ed ero felice quando si mettevano a cucinare gli spaghetti con le ‘cime di rape’. Un piatto veloce da preparare, genuino e buonissimo. Ma l’attesa non era cosa facile, così iniziavo a ‘spiluccare’ le portate di “pomodori secchi”, olive nere e altri preparati sott’olio che facevano da contorno al pranzo. Questi erano tutti prodotti essiccati al sole che erano preparati dai miei familiari. A me piacevano molto e me li lasciavano mangiare, anche perché sapevano che non mi avrebbero di certo “spezzato” l’appetito.

Non mi soffermo a spiegare come si preparavano questi prodotti della terra, anche perché si è persa l’abitudine e la pazienza di farli.

Spiegherò, invece, la preparazione della pasta con le ‘cime di rape’. Con porzioni per 4 persone.

Ci sono due scuole di pensiero su come si prepara, ma descriverò quella che si usa a casa mia.

Questa prevede che, portata l’acqua all’ebollizione in una pentola capiente, si immergano contemporaneamente 500gr di pasta ed 1 kg di cime di rape (tagliate solo nella parte superiore, al gambo dove le foglie iniziano ad essere “tenere”). Contemporaneamente in una padella si mette dell’olio extravergine d’oliva q.b., 2-3 spicchi di aglio e 4-5 acciughe (a piacere anche un po’ di peperoncino) e si fanno soffriggere, facendo sciogliere le acciughe e ben dorare l’aglio (che può essere lasciato anche a spicchio intero ma scamiciato). Scolate pasta e rape, metteteci sopra il soffritto, mescolate e servite (a piacere potete aggiungerci del formaggio grattugiato).

La seconda ‘scuola’ prevede di portare a bollitura una pentola d’acqua salata, e di gettarci le ‘cime di rape’ (1kg già selezionate).

È un piatto saporito, veloce da preparare e soprattutto non calorico.

Uno dei piatti che rappresenta la Puglia a livello internazionale ed a ragione.

Quanto al tipo di pasta, ci sono dibattiti anche nelle famiglie su quale sia il più indicato: la partita si gioca tra gli spaghetti, le penne lisce ovvero le super-nominate orecchiette…

Per finire, come dice mio padre, una tale pietanza va ‘a nozze’ con un bel bicchiere di ‘Negroamaro’.

Massimiliani Bello”.


Dolce ricordo di Fabio Valente

“Non è vero che i dolci fanno ingrassare, se mangiati con moderazione, anzi secondo me fare colazione con un pezzetto di torta o crostata rende la giornata più bella e speciale.

Ci sono dolci ipocalorici ed ugualmente buoni.

Uno di questi è la ‘torta di ananas’ che per me era irresistibile al punto che…

Ricordo ancora quando da ragazzo, tornando a casa, il suo profumo mi accoglieva già nella strada. Mia madre dopo averla cotta la metteva sulla finestra per farla raffreddare e poi mangiarla tutti insieme a colazione.

Ogni volta questo profumo, quest’odore mi accoglieva anzi, è più esatto dire che mi ‘rapiva’. Una tentazione troppo forte. Così mi avvicinavo ‘quatto quatto’ e dalla finestra, senza neanche entrare in casa, allungavo le mani e mangiavo tutte le fette d’ananas che guarnivano la torta: troppo buone loro. E troppo ghiotto io.

Naturalmente quando mia madre se ne accorgeva, succedeva il finimondo. A volte riusciva a prendermi e me le ‘suonava’ di santa ragione. A volte mi andava meglio, perché l’arrabbiatura le passava prima, ma il perdono arrivava sempre. Così lei si metteva a rifarla… ed immancabilmente io ci ricascavo. Era più forte di me. E la storia ricominciava daccapo.

Adesso quando ne parlo con mia madre, quei ricordi ci fanno ridere come fanno ridere il resto della famiglia, ed io non devo correre più perché ho imparato a prepararla da solo. E non solo quella.

Come ho scritto si tratta di un dolce con poche calorie (e quelle poche le consumavo subito per sfuggire dalle ire di mamma), gli ingredienti sono:

6 rondelle di ananas sciroppata

150gr di farina

3 uova intere

70gr di burro

150gr di zucchero

3 cucchiaini di lievito per dolci in polvere

6 ciliegine candite

1,2 dl di succo d’ananas

Preparazione:

  1. Separate le uova, montate i tuorli con 100gr di zucchero fino ad ottenere un composto gonfio e lucido. Incorporate la farina setacciata col lievito, alternandola con il succo di ananas in modo da ottenere un composto liscio e cremoso. Aggiungete a questo composto 50gr di burro fuso, mescolate e completate, incorporando gli albumi montati a neve ben ferma.
  2. Dentro ad uno stampo rettangolare (30×25 cm) od uno rotondo (diametro 28cm), fate sciogliere i 50gr di zucchero con i 20gr di burro rimasti e caramellate lo zucchero.
  3. Fate in modo che il caramello copra tutta la superficie della tortiera e quando si sarà raffreddato sistemateci le fette d’ananas, mettendoci una ciliegina dentro ogni foro.
  4. Coprite il tutto con il composto e livellate con l’aiuto di una spatola.
  5. Fate cuocere in forno già caldo a 180° x 30min circa.
  6. A cottura ultimata togliete la torta dal forno, passate la lama di un coltellino lungo il bordo della tortiera, posatevi sopra un piatto, capovolgete ed aspettate 5-10minuti, prima di sollevare la tortiera.

Servitela calda o fredda.

Ma soprattutto non lasciatela vicino ad una finestra…

Fabio Valente  – Catanzaro/Siano, 19 settembre 2015”.


Riscrivere “Makarenko” e il “Poema pedakokiko” nella propria “napoletanità”

“I° Capitolo

Colloquio con il direttore dell’Ufficio provinciale per l’istruzione popolare

 

“Settembre 2020,

un pedagogo russo, Anton Semënovič  Makarenko, con idee educative rivoluzionarie rispetto al periodo storico in cui vive, viene convocato dal direttore dell’ufficio provinciale per l’istruzione popolare italiana.

– Buongiorno signore, sono Anton Semënovič  Makarenko, chiedo scusa per il ritardo, ma ho ricevuto la mail di convocazione solo pochi giorni fa. La data di invio, è del 1920, purtroppo, vi è ancora una grande distanza tra la Grande Madre Russia e l’Italia.

– Ecco compagno, ho sentito che hai parecchio da imprecare… e a quanto pare, non erano voci infondate, visto che avverto la netta sensazione che tu voglia addebitare, il tuo colpevole ritardo, alle ipotizzate disfunzioni dei potenti mezzi di comunicazione italiani. Siete tutti così voi stranieri, state sempre a criticare.

– Un secolo di ritardo, non è nulla rispetto alle condizioni in cui ho trovato la scuola in questo paese.

– Sì certo. Fosse per te, la cosa andrebbe bene solo se venisse costruito un edificio nuovo e se mettessero i banchi nuovi, ma non capisci che il problema non sta nelle strutture, qua si tratta di educare l’uomo nuovo, e voi pedagoghi invece, sapete solo lamentarvi, quello che vi manca è lo spirito del cambiamento. Pensate solo allo stipendio e a conservare il posto. Siete proprio degli opportunisti.

– Io non sono affatto un’opportunista.

– Beh è possibile che tu non lo sia… maledetti intellettuali!.. il problema è grande: c’è una marea di  delinquenti, non si è liberi di camminare per le strade, ripuliscono le case da cima a fondo. E sai la società su  chi fa ricadere le responsabilità? Su di noi.

– Perché?

– Perché, qua nessuno vuole assumersi le proprie responsabilità. Perché vogliono far ricadere i loro disastri su qualcuno/qualcosa, e la strada più semplice è quella di incolpare quelli che dovrebbero garantire lo sviluppo degli uomini.  Mi dicono: tocca a voi dell’istruzione risolvere questo tipo di problema… Ebbene?

– “Ebbene” che cosa?

– Ebbene, non gliene frega nulla a nessuno. Tutti quelli che ho contattato, hanno declinato l’invito. Dicono che ambiscono a ben altro. Oggi in Italia è così. Tutti vogliono partire dall’alto. Nessuno ha voglia di mettersi in discussione. Inoltre, con i ragazzi c.d. ‘difficili’ temono di rovinarsi la reputazione o che ne so’, di rompersi gli occhiali. Tu me ne sembri un altro, hai pure gli occhiali!

– Ora anche gli occhiali lo disturbano. Non  crede di mostrarsi come quelle persone che pocanzi ha citato, che badano all’apparenza e non alla sostanza?

– lo dicevo io che voi intellettuali sapete solo usare paroloni, poi se vi si vuole affidare un uomo in carne e ossa, avete paura e ve ne uscite filosofeggiando.

Il direttore con gli occhi neri e penetranti, i baffi folti e i capelli alla ‘Umberto’ mi buttava addosso tutto quello che per anni gli era passato davanti. Quel direttore però, era proprio in torto.

– Mi ascolti…

– Già, ‘mi ascolti’  cosa dovrei ascoltare? La solita tiritera, che questo non rientra nelle sue competenze, che essendo figlio di cotanto padre…  che la casta è casta e va rispettata… cosa? Cosa dovrei ascoltare? Voi intellettuali, dite sempre le stesse cose.

– Forse ha ragione, io vorrei solo dirle che non sono qui per declinare l’invito come qualche mio collega ha ritenuto opportuno, a sentire lei, ma per chiederle gli strumenti minimi indispensabili per iniziare a costruire l’uomo nuovo.

– Vuole gli strumenti? Ecco le risorse che il nostro grande paese ha messo a disposizione, credo che siano sufficienti.

Dispone sul tavolo 150 milioni di lire che ormai non valgono più nulla perché in Italia, è da vent’anni, in uso l’euro.

– Potrebbe spiegarmi in sintesi, come avete affrontato questa situazione prima di adesso?

– Ci siamo serviti dei mezzi d’informazione per mantenere un clima di paura e di insicurezza perenne nei cittadini. Con questi si riesce a far percepire un costante bisogno di sicurezza, in questo modo legittimiamo anche pene alla reclusione fino al decesso del reo.

Purtroppo questo modo di agire non ha ottenuto i risultati sperati perché ci si sta rivoltando contro. Come avrà appreso da ‘certa stampa’, i nostri maggiori rappresentanti stanno finendo man mano in gattabuia e quel processo, che per tanto tempo ci aveva consentito di fare il bello e il cattivo tempo, ora lo subiamo.

– Era prevedibile, mi consenta… il carcere è come una malattia. Tutti possono esserne affetti. Non si può pensare di risolvere ogni problema rinchiudendoli in un carcere per sempre.

– Prima era tutta un’altra cosa, é oggi che con il vecchio sistema non riusciamo più né a contenere il dilagare delle “ribellioni”, né a formare le nuove generazioni.

– D’accordo. Questo però, vuol dire che ora bisogna creare l’uomo nuovo in modo nuovo.

– In modo nuovo hai proprio ragione. Sono curioso di sapere quel è questo modo.

– Non lo so’ nemmeno io.

– Invece in questo paese ce ne sarebbero di menti brillanti in grado di tirar fuori l’uomo nuovo, solo che tutti quelli che ho interpellato o hanno paura del cambiamento o non vogliono cimentarsi nelle difficoltà.

– Ma se dovessi combinare qualche guaio?

– Stai tranquillo, al punto in cui siamo, qualsiasi cosa andrà bene e sarà migliore di quello che abbiamo oggi. Bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa purché si faccia.

– Lei saprà benissimo che qualunque cosa io faccia, i detrattori saranno con il fucile puntato per dire che è sbagliata vero?

– E io gli risponderò: ‘eravate voi a doverla fare. Voi ci avete costretto a rivolgerci a uno straniero. Uno straniero che non sia assuefatto da questo sistema malato’. Tu sei stato onesto a dirmi di non sapere come fare. Bisogna creare l’uomo nuovo, il nostro uomo. Questa è la cosa più importante.

Acconsentii a qualunque cosa, pur di andarmene da quella stanza che in quel momento mi sembrava la cosa peggiore del mondo.

Francesco Annunziata”.

 

Qui ed ora “la gioia del domani”

Felicità e diritti di Claudio Conte

 

“Esiste un diritto alla felicità? Per la Costituzione degli Stati Uniti d’America sì! Ma questo è un diritto o meglio un principio c.d. programmatico, ossia da raggiungere, da realizzare.

Altri diritti invece esistono già, sono definiti inviolabili, preesistono allo Stato, diritti che gli Stati hanno il dovere di riconoscere e difendere: alla vita, alla sicurezza, che di converso sono assicurati con la previsione di sanzioni che comunque non possono consistere in trattamenti o pene inumane o degradanti.

Tali principi di regola vengono formalizzati in Carte costituzionali o Convenzioni, quando regolano i rapporti tra cittadino e Stato/i in materia di diritti umani. Tali Carte rappresentano, infatti, un limite posto al potere degli Stati a garanzia dei cittadini. Qui faremo riferimento alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), una delle più importanti a livello mondiale, sottoscritta da oltre 45 Stati, Italia inclusa, che codifica alcune norme generali internazionali, quali il divieto di pene inumane o degradanti.

Il diritto alla vita è universalmente riconosciuto e garantito, a rigore di logica il più importante, eppure il testo originario dell’art. 2 CEDU, ne ammetteva la sua privazione (ipotesi quest’ultima definitivamente vietata col Protocollo n. 13, in vigore dal 1° luglio 2003).

Al successivo art. 3 è stabilito il divieto di tortura e trattamenti o pene inumane o degradanti, ma a differenza del diritto alla vita, non ammette (né ammetteva) deroghe neanche in tempo di guerra o di pericolo per la sopravvivenza dello Stato. Tanto che la sua violazione realizza un crimine contro l’umanità.

In sintesi si ammette(va) la pena di morte, ma non una pena inumana che provochi sofferenza. Tanto per sottolineare il diverso grado di protezione, che riceve quest’ultima. D’altronde negli USA la stessa pena di morte trova un limite nella sua esecuzione solo quando è inumana.

Una pena è inumana quando infligge una ‘sofferenza ingiustificata’, afferma la Corte europea per i diritti dell’uomo.

Come si afferma il principio d’umanità e soprattutto su quali parametri si fonda?

Per giungere alla ‘dimostrazione’ dell’inumanità di tale pena, sarà necessario esaminarla ponendo come premesse, i diritti naturale e positivo, ossia quei valori iscritti nei cuori d’ogni essere umano e la ratio di precetti normativi, presenti in sede inter/nazionale, da cui ricavare quei ragionamenti inferenziali e concludere se la pena dell’ergastolo, nella sua inquietante non prevista durata e gli effetti psico-patologici che tale condizione d’incertezza determina sul condannato, sia o meno disumana.

Uno dei principali è, appunto, il ‘comune sentire’, che si relativizza a seconda del livello di civiltà raggiunto in ogni società. Naturalmente bisognerà volgersi verso quelle società maggiormente evolute, poiché al peggio non c’è mai fine e l’uomo deve mirare al suo miglioramento. L’Italia è tra questi Paesi, non solo nei principi costituzionalmente accettati e verso cui tende, ma anche nei sentimenti che animano il Popolo italiano in materia di diritti umani. A conferma si possono richiamare: le conclusioni alle quali è pervenuta la ‘Commissione c.d. Pisapia’ per la riforma del codice penale, dichiarando l’incompatibilità della pena all’ergastolo; e le leggi italiane di cooperazione con i Tribunali internazionali dell’ex Jugoslavia e del Ruanda, con le quali è stata denunciata la pena dell’ergastolo.

Storicamente l’affermazione d’inumanità di tale pena si trova già nel periodo dell’epocale rivoluzione francese, a seguito della quale, l’Assemblea Costituente, nel 1791, confermò la pena capitale ma vietò quella all’ergastolo.

Esiste un diritto alla felicità? Certamente esiste un dovere per gli Stati di non provocare inutili sofferenze sugli esseri umani e ogni altro essere vivente di questa terra. Così com’è certo il diritto alla libertà. ‘La libertà è di tutti’”.

 

Natale pedagogico di Claudio Conte

 

“Non è semplice dire buon Natale in un periodo di stragi, decapitazioni, infanticidi, omi-suicidi in nome di Allah, Jhwh, Dio che poi sono lo stesso Altissimo, per restare alle tre religioni monoteiste. Mentre è facile lasciarsi tentare dalla generalizzazione e confondere credenti mussulmani con fanatici o terroristi. Ma non bisogna lasciare che ciò accada, poiché questi ultimi utilizzano ideologie o teologie solo per scopi politici, per la conquista del potere, non certamente per la salvezza dell’anima.

Il fatto che poi utilizzino mezzi di propaganda e parole di circa cinquecento anni fa, non cambia di molto la questione. Ora senza sottilizzare sul rispetto della confessione religiosa, delle diversità culturali, sulle quali siamo tutti d’accordo, qualche parola in più bisogna spenderla riguardo a quei disperati, quei disadattati che sono strumentalizzati dall’élite che governano alcuni stati Medio Orientali e sono spinti a portare il terrore nell’opulenta, sonnacchiosa, pigra Europa.

Se colpevoli si cercano, certo non può considerarsi tale solo la manovalanza d’origine europea. Eh! sì, perché i ‘Foreign Fighters’, i ‘martiri’ della causa islamica sono per la maggior parte europei, immigrati di seconda generazione, ex tossici, spacciatori, ‘modaioli’. E questo non bisogna dimenticarlo. Giovani. Perché la maggior parte di coloro che si ‘immolano’, come i terroristi che il 13 novembre hanno insanguinato Parigi, sono guarda caso, dei giovani europei, dei sbandati, che trovano nel fanatismo religioso e nel territorio che governa tra l’Iraq e la Siria, l’illusione di un’opportunità per raggiungere posti di potere, sfogare la rabbia contro quel sistema competitivo che li ha schiacciati facendoli sentire dei falliti, vivere uno spazio di libertà assoluto. Un’illusione pagata col prezzo della loro stessa ‘vuota’ vita, che hanno pensato di poter riempire col fanatismo.

Pertanto i primi ai quali bisogna ‘legare mani e piedi’ sono coloro che detengono il potere in quei Paesi monarco-confessionali come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, il Qatar, con i quali l’Occidente fa affari e si guarda bene dall’infastidire, non i ‘quattro ex tossici nichilisti’ europei.

In questa “guerra mondiale frammentata”, come la definisce papa Francesco, l’unico ad aver detto parole chiare è stato, paradossalmente, l’ultimo zar russo, Putin (di cui non si dimenticano i crimini in Cecenia o in Ucraina). L’unico però, che senza giri di parole, ha detto che per fermare lo Stato islamico, bisogna colpire i suoi finanziatori e alleati. Tra questi, si è scoperto esservi anche la Turchia islamica, già Nato e aspirante membro dell’UE. La stessa Turchia che dopo gli attentati di Parigi, ha inneggiato ai terroristi durante una partita di calcio, mentre i giocatori celebravano un minuto di silenzio per le vittime. Quella Turchia tanto dura con i Curdi accusati di attentare all’unità nazionale (ignorando quella sventrata a danno dello Stato curdo a fine Ottocento), quanto, invece, tiepida con i membri dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e Siria), coi quali condivide l’interesse di spartirsi la Siria, eliminando il presidente Baššār al-Asad. Quest’ultimo inviso agli USA, ma antico alleato della Russia. E tutto diventa sempre più chiaro.

Per questo parlare di Islam o di altra bandiera ideologica, come avveniva ai tempi del ‘socialismo’ per il terrorismo di sinistra, significa perdere di vista il vero obiettivo e soprattutto si rischia di alimentare una solidarietà riflessa da parte dei molti che aderiscono a un’ideologia o ad una religione che si sono affermate nei secoli. Si tratta semplicemente di gestione del Potere.

‘Siamo in guerra, non siamo in guerra’, questo l’amletico dubbio dei politici italiani, mentre i Cristiani che vivono nei territori dell’ISIS, sono uccisi solo per la loro Fede. Quasi che chiamare qualcosa con un termine invece che con un altro, ne cambi la natura o gli effetti.

È innegabile che vi sia in atto un ‘conflitto armato’, termine applicabile a scontri di qualsiasi forma e dimensioni. Un conflitto combattuto con le forme della guerriglia ed atti terroristici, che creano nella popolazione civile sentimenti generalizzati di paura. Una guerra dichiarata all’Occidente dall’ISIS: uno Stato ‘sovrano’ e ‘organizzato’ su un ‘territorio’: tre elementi che per il diritto internazionale danno forma ad uno Stato, che non abbisogna di riconoscimenti esterni, checché ne dicano alcuni costituzionalisti a fase alterna. E questo legittima un intervento difensivo, senza dover usare l’ipocrita formula dell’‘intervento umanitario’.

Così come non deve confondersi, per paura di urtare il sentimento religioso di qualcuno, il Corano (che è un testo religioso) con la legge positiva di uno Stato, che è fatta dagli uomini per gli uomini. Ed è ben altra cosa e merita un rispetto pari a quello dovuto ai precetti religiosi. Anzi è necessario spiegare la differenza. Spiegare che un testo di cinquecento anni fa, non può regolare i comportamenti giuridici, sociali e morali di oggi, poiché la legge positiva ha la necessaria caratteristica di mutare, evolvere, per essere al passo con le esigenze della società, mentre quest’ultima non può essere fermata dall’immobilità di una Legge (anche se ‘Rivelata’), di mezzo millennio fa. L’applicazione della ‘Sharia’, il mantenimento di costumi tribali quali il ‘burka’ afgano, od il ‘hijab’, ossia il velo islamico, usato dalle mussulmane ortodosse, riflettono l’arretratezza culturale di chi vi aderisce, non la Fede religiosa, perché questa si conserva nel proprio animo e si esprime nelle azioni quotidiane. E se le donne e uomini mussulmani, fuggono da una condizione sociale in cui li ha gettati il Dettame religioso, non possono poi pensare di esportarla in altri paesi secolarizzati e più evoluti. Noi occidentali possiamo parlare con cognizione di causa, non perché siamo culturalmente superiori ma sol perché ci siamo già passati. Parliamo per esperienza. Quelle che ci hanno lasciato i tempi della Santa Inquisizione e di secoli sotto il potere temporale dei Papi. Altro che ‘Sharia’. Un bagaglio esperienziale che si è sedimentato anche nel nostro inconscio. Un’esperienza, e questa si rivolge a tutti i mussulmani ortodossi (chiaramente non ai fanatici o terroristi) che può essere condivisa solo se dall’altra parte c’è qualcuno pronto a riceverla. Ad ‘ascoltare’, come diceva l’Antigone di Sofocle. Quanto ai ‘papuani’ (cfr. N. Siciliani de Cumis, ‘I figli del Papuano’, Milano,  Unicopli, 2010) islamici nostrani, che si professano contrari a priori, e per i quali anni di ‘integrazione culturale’ hanno mostrato tutti i loro limiti, non resta che fermarli.

Ma nel frattempo, ed è l’aspetto più importante, non lasciamo che sia il rosso dell’allarmismo, del terrore, ma il rosso del vestito di Santa Claus e delle luminarie a colorare i giorni di questo Natale.

Catanzaro-carcere, 25 novembre 2015”.

 

Una direzione d’indagine tra scrittura e lettura, lettura e scrittura

 

C’è un punto in cui il  “Poema pedagogico” e Casa Caridi (la cultura mediterranea che sta dietro ad entrambi2) più che mai s’incontrano e, per così dire, si parlano. Ed è il luogo in cui realtà e immaginazione collaborano nell’azione “poematica” del  combinarsi costruttivamente di letteratura e educazione, di storia interna del testo e delle sue prospettive di uso e fruizione. Gli esempi da addurre a questo proposito sarebbero in effetti tanti: e, se ci si soffermasse a ragionare, coglieremmo alcuni echi dei poemi omerici e i della latinità  (dall’“Eneide” alla “Commedia” dantesca), della tradizione del romanzo e del racconto russo (da Gogol’ a Gor’kij, in particolare); e del teatro, del cinema, delle canzoni popolari ucraine, russe e mitteleuropee, con ulteriore riferimento al decadentismo nostrano (Pascoli e D’Annunzio, con alle spalle Nietzsche).  “Un luogo su cui, in un quadro siffatto, riflettere, a proposito di un passaggio “natalizio” del “Poema pedagogico” (Parte terza, nel capitolo “Ai piedi dell’Olimpo”): Fëdor Michajlovič Dostoevskij, “Il bambino sull’albero di Natale da Gesù”, dal “Diario di uno scrittore”, gennaio 1876 (esattamente 140 anni fa). Ma ecco, per incominciare, la fonte Dostoevskij:

 

“Ma io sono un romanziere e mi immagino sempre che tutto sia avvenuto in un certo luogo in un certo momento, e che sia accaduto proprio alla vigilia di Natale, in qualche enorme città, con un gelo terribile.

Mi sembra di rivedere in una cantina un bimbo, ancora piccino, di forse sei anni e anche meno. Il bimbo si è svegliato un mattino nella cantina umida e fredda. Ha addosso una specie di camicina e trema. Il suo fato si trasforma in bianco vapore e lui, seduto sul baule, in un angolo, per la noia, fa fruire questo vapore dalle labbra e si diverte a guardare come vola via.

Tuttavia ha una gran voglia di mangiare. Fin dal mattino, si è avvicinato più volte al tavolaccio dove, su un pagliericcio sottile sottile, con il capo appoggiato ad una sorta di fagotto che le fa da guanciale, giace la madre malata. Come sarà finita lì? Probabilmente era giunta da un’altra città con il suo bambino e si era improvvisamente ammalata. La padrona di quegli “angolini” era stata arrestata dalla polizia due giorni prima; gli inquilini si erano dispersi chissà dove per le feste ed era rimasto solo un perdigiorno che non aveva atteso le feste per bere, e ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che un tempo era stata bambinaia e che ora moriva in solitudine, sospirando, lamentandosi e brontolando contro il bimbo, tanto che lui temeva di avvicinarsi troppo al suo angolo. Da qualche parte nell’andito era riuscito a trovare qualcosa da bere, ma di croste di pane non ne aveva scovate e almeno una decina di volte si era accostato alla madre per svegliarla. Infine gli era venuto il terrore del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma i lumi erano ancora spenti. Tastando il viso della mamma si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro. ‘Fa proprio freddo qui’ pensò il bimbo, e restò per un po’ immobile, dimenticando senza volerlo la mano sulla spalla della defunta, poi soffiò sui suoi ditini per riscaldarli, si mise a frugare sul tavolaccio alla ricerca del suo berrettino e si avviò a tentoni verso l’uscita della cantina. Si sarebbe allontanato anche prima, ma aveva sempre temuto il grosso cane che stava tutto il giorno di sopra, sulla scala, davanti alla porta dei vicini. Però il cane non c’era e lui si ritrovò di colpo in strada.

Dio, che città! Non aveva mai veduto nulla di simile. Da laggiù, da dove veniva, il buio era così fitto e un solo fanale illuminava tutta la via. Le casupole di legno avevano le imposte chiuse; non appena imbruniva la via diventava deserta e tutti si rinchiudevano in casa, e solo branchi di cani abbaiavano ed ululavano per tutta la notte. Ma almeno lì stava al caldo e veniva nutrito, mentre qui, mio Dio, magari avesse trovato qualcosa da mangiare! E lo strepito, il fracasso, la gente, le luci, e tutti quei cavalli e quelle carrozze, e che gelo, che gelo! Un vapore gelido fluiva dai cavalli stremati, dal respiro rovente dei loro musi; nella neve soffice i loro ferri tintinnavano contro i sassi, e tutti si spintonavano, e, Signore, sarebbe stato così bello poter mangiare, e i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male. Una guardia passò davanti al bimbo, ma voltò il capo dall’altra parte per non vederlo.

Ma ecco un’altra via: com’era ampia! Lì l’avrebbero di certo schiacciato. E come vociavano tutti, come si affrettavano, come correvano sulle loro carrozze, e quante 1 luci, quante luci! Ma questa che cos’è? Oh, che vetro grande, e dietro il vetro una stanza dove la legna arriva fino al soffitto; c’è un abete, e quante luci sull’abete, e stelle e decorazioni d’oro, e quante file di pupazzetti e di cavallini lo avvolgono tutt’intorno; nella stanza si rincorrono dei bimbi lindi e vestiti a festa, e ridono, giocano, mangiano, bevono. Ed ecco, una bambina si è messa a danzare con un bimbo, com’è carina! E ora si può sentire anche della musica attraverso il vetro. Il bimbo guarda pieno di meraviglia e già ride, ma ormai anche i ditini dei piedi gli dolgono, e quelli delle mani, sono tutti arrossati, non si piegano e muoverli fa tanto male. E tutt’ad un tratto, resosi conto del dolore, scoppia in lacrime e fugge via, ma poi scorge di nuovo attraverso un altro vetro un’altra stanza, con gli stessi alberi e una tavola con torte rosse e gialle e di mandorla, e vi siedono quattro ricche signore che te ne danno un po’ non appena ci si avvicina, ogni istante si spalanca la porta e fumane di signori entrano e si dirigono verso di loro. Il bimbo si intrufola e di colpo la porta si è aperta e lui è entrato. Oh, come lo sgridano, come agitano le braccia! Una signora lo raggiunge in gran fretta e gli ficca in mano una copeca, poi gli apre lei stessa la porta e lo sospinge fuori. Come è spaventato il piccino! La copechina gli è subito scivolata di mano tintinnando sugli scalini: non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla. Il bimbo fugge via e corre, corre senza sapere dove va. Avrebbe voglia di piangere, ma ha paura e continua a correre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo assale poiché all’improvviso si è sentito così solo, così pieno di paura. E poi, di colpo, oh Signore, ma che c’è ancora di nuovo? Una folla di persone osserva rapita: dietro il vetro, sulla finestra, vi sono tre piccoli automi, vestiti di rosso e di verde, e sembrano quasi vivi!

Uno è un vecchietto seduto che pare intento a suonare un grosso violino, mentre gli altri stanno in piedi e suonano dei piccoli violini, dondolando a tempo la testa e guardandosi l’un l’altro, e muovono le labbra proprio come se parlassero, solo che dal vetro non si ode nulla. E il bimbo da principio ha creduto che fossero veri, ma poi ad un tratto ha capito che si trattava di automi ed è scoppiato a ridere. Non aveva mai veduto bambole simili e non pensava neppure che potessero esistere! Avrebbe voluto piangere, ma era così buffo guardarli! All’improvviso gli sembrò che qualcuno lo afferrasse per la camicina: un ragazzaccio cattivo lo colpì alla testa e gli strappò il berretto, facendogli lo sgambetto. Il bimbo ruzzolò a terra, intorno si udirono delle grida, lui rimase inebetito, e poi balzò in piedi e corse via; senza rendersene conto, entrò di corsa dentro un portone, in un cortile sconosciuto, e si sistemò su un mucchio di legna. ‘Qui non mi troveranno, e poi è buio’.

Sedeva tutto rattrappito, senza riuscire a riprendere fato dalla paura, ma tutt’ad un tratto si sentì così bene le manine e i piedini non gli facevano più male e avvertiva un tale senso di tepore, come se si fosse trovato sopra una stufa; ma poi prese a tremare tutto. Ah, già, si era quasi addormentato. Come era bello addormentarsi lì! ‘Rimarrò per un po’ e poi andrò di nuovo a guardare gli automi’, pensò il bimbo e sorrise, rammentandosene: ‘parevano proprio vivi!…’ E all’improvviso udì sopra di lui la voce della sua mamma che gli cantava una canzoncina: ‘Mamma, sto dormendo. Ah, come è dormire qui!’.

‘Vieni da me a vedere l’albero di Natale, piccino’ bisbigliò ad un tratto una voce sommessa sopra di lui.

Dapprima pensò che fosse stata la mamma a parlare, ma no, non era stata lei; non riusciva a vedere chi l’avesse chiamato, ma qualcuno si era chinato su di lui e lo aveva abbracciato nel buio e lui gli aveva teso la mano… e poi d’improvviso, che  luce! Che albero di Natale! Ma no, non era neppure un albero di Natale, non aveva mai veduto prima di allora alberi simili! Dove si trovava? Era tutto un brillio di luci e vi erano bambole ovunque, anzi no, si trattava di bimbi e di bimbe, ma erano così luminosi, gli vorticavano intorno, volando, e lo baciavano, lo afferravano e lo trascinavano con loro, anche lui volava. E vedeva la sua mamma che lo osservava e rideva gioiosa.

‘Mamma! Mamma! Oh, com’è bello qui, mamma!’ gridava il bimbo, mentre scambiava dei baci con gli altri bambini, e avrebbe voluto subito raccontare degli automi che aveva scorto dietro il vetro. ‘Chi siete, bimbi? Bimbe, chi siete?’ chiedeva ridendo, pieno d’amore per loro.

‘È l’albero di Natale di Gesù’ fu la loro risposta. Gesù in questo giorno ha sempre un albero di Natale per i piccoli che non ne hanno uno…’. E scoprì che tutti i bambini erano proprio come lui, ma che alcuni di loro erano morti assiderati sulle scale davanti alla porta di qualche impiegato di Pietroburgo dentro le ceste in cui erano stati abbandonati, e che altri, affidati dall’orfanotrofio, erano stati soffocati dalle balie, o ancora che erano morti al seno inaridito delle loro madri o nel fetore di carrozze di terza classe, ma ora tutti erano lì, come angeli, da Gesù ed egli era fra di loro, tendeva loro le braccia e benedice loro e le loro madri colpevoli… E anche le madri si trovavano lì in disparte e piangevano, riconoscendo ciascuna il proprio bimbo o la propria bimba che andavano verso di loro e le baciavano, asciugavano le loro lacrime con le manine, scongiurandole di non piangere, poiché si stava tanto bene lì…

Mentre laggiù verso il mattino i portieri ritrovarono il cadaverino di un bimbo capitato lì per caso e morto assiderato dietro un mucchio di legna; rintracciarono anche la sua mamma… Era morta ancor prima di lui: si erano ritrovati in Cielo dal Signore Iddio.

Perché mai avrò scritto una storia come questa, così poco adatta ad un normale ragionevole diario, e ancor meno a quello di uno scrittore? E dire che avevo promesso dei racconti su fatti realmente avvenuti! Eppure, ecco, ho come l’impressione che tutto ciò sia potuto accadere davvero; mi riferisco a quel che è avvenuto in cantina e dietro il mucchio di legna, quanto all’albero di Natale da Gesù non saprei dirvi se sia andata proprio così! Ma non per nulla sono un romanziere e qualcosa devo pur inventare!”.

Un questionario per una ricerca

Perché mai  – facendo perfino un po’ il verso a Dostoevskij  – avremo redatto una cronaca come questa dell’attiva compresenza “natalizia” di Anton Semënovič tra di noi in Casa Caridi, dal 29 giugno 2015 al 1° gennaio 2016? Quale il senso di  un’antologia essenziale ma “mirata” dei testi degli studenti sianesi, che in ogni caso restituisce appena un’immagine del nostro Laboratorio di lettura e scrittura? Perché concludere, provvisoriamente, dando voce al libero pensiero per schegge di riflessione critica di Salvatore Curatolo? Non rispondo. Mi limito ancora a trascrivere tutto d’un fiato le annotazioni  di Curatolo più aderenti ai contenuti del “Poema pedagogico”, in vista della prossima ripresa del Laboratorio, con l’inizio dell’anno nuovo. Eccoli:

“L’episodio del primo incontro tra il direttore dell’ufficio per l’istruzione popolare e Makarenko, mi porta subito da pensare al classico burocrate, che non investirebbe nulla per la rieducazione di chi ne ha bisogno, credo che tolto il periodo storico-culturale e sociale del tempo, le tematiche siano sempre le stesse. Chi sbaglia paga, sempre e per sempre, anche se giovanissimo, senza avere una sola possibilità di ravvedimento. ‘Uomini duri’ i direttori dentro il proprio ufficio, senza conoscere il ‘vero problema’, che per loro è solo una questione di costi. Per costruire l’uomo nuovo, il direttore si lamenta con Makarenko, perché il direttore vede l’uomo nuovo come un rivoluzionario con il fucile, mentre Makarenko, punta tutto sul dialogo. Certamente vorrebbe trovare una scuola adeguata dove poter lavorare bene, ma gli educatori, quelli veri, lavorano anche nelle strade. Mi viene in mente ‘l’uomo nuovo’ di Nietzsche. Ripenso all’‘oltre uomo’, ai Tedeschi o meglio ai nazisti che hanno fatto dei ‘macelli’.  Gli americani, leggendo lo stesso libro sono arrivati sulla luna, con l’uomo moderno – leggero. […] Cominciare in un posto ridotto in macerie, non è il massimo, ma come dicevo sopra i veri educatori non si scoraggiano mai. E non penso che il bastone serva molto come metodo educativo. Nei metodi educativi, servono tutti i registri, ma soprattutto una forte personalità, con la personalità si acquista autorevolezza, e non autorità, quindi se propendi per il ‘bastone’ devi essere autoritario, se tendi al ‘dialogo’ devi essere autorevole.

[…] Quello che mi ha colpito di più dei temi trattati nell’ultimo incontro? Sono tante le cose, ma vorrei iniziare con qualcosa che mi sembra essere stata trascurata fino adesso: ‘E se io non voglio studiare?…’,  dice Volochov. Ecco la parola chiave: lo studio. E sono sicuro che più avanti. nel ‘Poema’, essa avrà la sua rilevanza.

Credo che lo studio abbia, come posso dire, la funzione di allargare le conoscenze e con esse le coscienze. Se posso fare un paragone, lo studio è come un bambino che impara la strada per tornare a casa: quando cresce conoscerà sempre più strade per farvi ritorno e alla fine conoscerà tutte le  strade possibili, ma potrebbe decidere di non tornare a casa, pur conoscendo tutte le strade. Quindi sarà una sua scelta. Questa è lo studio secondo me. Insegna a conoscersi a conoscere, ed essere liberi di scegliere sapendo quello che si sceglie. Secondo me, tutti i metodi di insegnamento alla fine di ogni percorso, trovano sostegno nella istruzione didattica, cioè uno può scegliere di fare il falegname o l’idraulico, ma se ha una istruzione di base avrà più successo. Di questo sono sicuro.

[…] Lo scontro tra Lidija e Makarenko, certamente è uno scontro tra due idee, lo diceva Francesco e Vincenzo ha introdotto la circostanza c’era appena stata una rivoluzione, quindi c’era bisogno di cambiare metodo. Ecco i metodi sono sempre discutibili. Ricordo negli anni ottanta il metodo ‘Muccioli’ in quel di San Patrignano che era additato da molti operatori del settore. In buona sostanza credo che l’importante sia la predisposizione del giovane che deve capire cosa vuole. Facendo le dovute differenze, non solo riguardo al periodo storico ma anche della diversa motivazione, per cui i ragazzi d’oggi si trovano in simili strutture rispetto ai colonisti di Makarenko. Se struttura si può definire la Colonia Gor’kij.

‘In tutta questa storia loro non vedono le botte, vedono soltanto la rabbia, l’esplosione umana. Si rendono benissimo conto che avrei potuto non picchiare, e semplicemente rimandare indietro Zadorov alla commissione come incorreggibile e procurargli più danni’. Ecco il punto, può una punizione diventare una soluzione?

[…] ‘Ora ti tolgo le reti’, e la faccenda finisce lì. Con la divisione dei pani e dei pesci, quello che ha voluto dirci Gesù, è condividere quello che abbiamo. Certo la Chiesa ci ha detto che era un mago che trasformava due pesci in centinaia di pesci ma è cosi evidente che intendesse, parlarci della condivisione. Anche qui dobbiamo credere che Makarenko volesse dire: guardate che ci si salva tutti insieme anche se ognuno con le proprie specificità. La mancanza di condivisione è il male dei nostri tempi, oggi il collettivo non esiste più, la paura di perdere quello che abbiamo conquistato con facilità, ci ha trasformato in una società egoista, liquida, come ci dice Bauman.

Sotto questo aspetto, trovo che sia interessante trasporlo nella conoscenza del bene pubblico. La maggior parte di noi soprattutto in quella età adolescenziale, non conosce il bene pubblico. Ricordo, che per me rompere una panchina della villetta comunale, dove tutti si sedevano, era come dire parolacce al sindaco, al municipio, tanto loro i soldi nella mia testa di ragazzo, li avevano, non sapevo che quella panchina ed i soldi che servivano per ripararla erano anche miei.

[…] ‘Vede, Anton Semënovič, anche lei deve ammettere che non è bello fare la spia’. Sono d’accordo con Zadorov. Per tanti motivi, vorrei iniziare dicendo che un educatore non deve trasformarsi mai in un poliziotto, semplicemente perché, sono due ruoli diversi.

L’osservazione che andrò fare è complessa, la mia esperienza mi fa sostenere che dar credito alle spie è molto pericoloso, perché può permettersi di ingannare a proprio piacimento, specie se sostiene di essere presente o lo era veramente ad un misfatto. E nulla potrebbe impedirgli di cambiare i nomi dei partecipi con quelli a lui più antipatici. Facendo un male incalcolabile e in alcuni casi irreversibile. Potrei citare centinaia di casi. Ricordo che si diceva ‘chi fa la spia non è figlio di Maria’, credo che tutti noi ai nostri figli la prima cosa che diciamo e insegnano a scuola, di non fare la spia, siccome sono padre ma non dimentico di essere figlio, sono d’accordo che la spia non si fa.

Dire la verità è un dovere. Il concetto di dovere è inseparabile dal concetto di diritto. Un dovere è ciò che in un essere corrisponde ai diritti di un altro. Là dove non ci sono diritti, non ci sono doveri.  Dire la verità è quindi un dovere, ma solo nei confronti di colui che ha un diritto alla verità. Nessun uomo però, ha diritto ad una verità, che nuoccia ad un altro. (Benjamin Costant, ‘È lecito mentire?’)’.

[…] Ekaterina Grigor’evna disse:

–    Ma ragazzi, lo sapete che non è bello abbandonarsi a sogni irrealizzabili?

Qui caro Professore, sono d’accordissimo con Makarenko e con Lei. I traguardi devono sempre essere i più alti possibili, sognare deve essere una costante, chi sogna resta sempre giovane, poi succede che qualche sogno si avveri. I sogni servono ad aspirare a cose importanti o piccole ma sempre volte al bene. Non bisogna lasciarsi incantare, ma sognare è bellissimo. Costruire il sogno realizzandolo è ancora più bello.

–    Portai Burun davanti al tribunale popolare, il primo nella storia della nostra colonia.

Quando ho sentito questa frase, avrei voluto interromperLa, per dire che oggi, sarebbe davvero il tempo di un tribunale popolare. Al pensiero sorrido di gusto, ne vedremmo delle belle, anche sulla storia di noi meridionali, che abbiamo conosciuto solo lo Stato della repressione, che ci ridotto in una popolazione sottosviluppata. E che tali erano le intenzioni abbiamo prove a bizzeffe. Già nel Concilio di Trento si ha traccia che ci volevano ignoranti e isolati. Siamo stati massacrati da sempre, certo ci siamo accontentati dei sussidi, non siamo esenti da colpe, ma non siamo il male peggiore di questo paese.

Avrei da scrivere tanto sulla mia terra, la mia amata Sicilia, ma non vorrei annoiarla con cose che magari sono dentro il ‘Poema’ e che troveremo più avanti.

 

Nessuna “noia”, caro Curatolo. Molto da imparare invece, con il pensiero alla “gioia del domani”. Tante cose su cui riflettere. Grazie. E, ringraziando qui lei, ringrazio tutti insieme i suoi colleghi del corso di scrittura e lettura. A presto rivederci e tanti auguri per un buon anno nuovo, con l’impegno di indagare Makarenko nel suoi tempi e nei suoi luoghi storici precipui. Ma di andare a cercarlo anche altrove, nei suoi “quando” e nei suoi “dove” più distanziati e diversificati. Nelle sue diverse “traduzioni”  – come scrive Claudio Magris – di Makarenko, “sia per quelle interessantissime testimonianze del cercare, del teatro nel carcere e del formarsi, in qual contesto così difficile di una coscienza”. Ed ecco, in proposito, un’ipotesi di ricerca di Claudio Conte:

 

“Nel ‘periglioso cammino’ (1) verso il più ‘accessibile uomo nuovo makarenkiano’ (2), perseguito negli incontri col prof. Siciliani de Cumis, all’interno del carcere di Catanzaro, spesso ci troviamo ad approfondire temi od autori che suscitano interesse. Tra questi ci sono il regista Gianni Amelio, di cui stiamo visionando le diverse opere realizzate(3), e poi, quasi come una ‘rondine solitaria’, si è presentato lo scrittore Claudio Magris, occasionato dal suo ultimo libro, ‘Non luogo a procedere (4): un’indagine sul silenzio calato intorno alla Risiera di San Sabba, unico forno crematorio dell’Italia fascista. Un manifesto contro le guerre si è scritto. Le guerre… che dovrebbero portare alla Pace, come si augurò un ufficiale austriaco partente per la Prima Guerra Mondiale, chiedendo alla moglie di chiamare il figlio, che portava ancora in grembo, Adam, come il primo uomo di una nuova epoca, di Pace appunto, ma che non arrivò mai. Un episodio di vita rammentato dallo stesso Magris. Guerra e Pace che rinviano all’opera di uno dei suoi ‘maestri’, Lev Tolstoj, da cui ha ripreso il respiro epico traghettandolo nella modernità.

Magris e Amelio, due autori diversissimi si dirà, infatti, se il primo ama Tolstoj, il secondo predilige Dostoevskij, che guarda caso restano i due più grandi pensatori e scrittori russi. Tutti accomunati dalle ascendenze rousseaniane. Autori diversi, eppure, già ad un seppur superficiale approccio, s’intuisce la comunanza nelle dimensioni dell’universalità, della ‘complessità’.

Così Amelio e Magris si misurano con questioni storico-esistenziali, sollecitando l’‘interlocutore’ con un metodo maieutico di socratica memoria, non proponendo alcuna soluzione, ma tendendo solo domande, indirette, subliminali, che quasi sartrianamente, alimentano un impegno e responsabilità civile, che conducono soprattutto a risposte ‘aperte’.

E con ‘Porte aperte’, Amelio, aveva messo in discussione quei valori fascisti e il conformarsi ad essi della società del tempo, attraverso una dimensione individuale, che si fa universale, muovendo da valori etici forti (il divieto di uccidere), ma registrando realisticamente l’affanno di questi ultimi a imporsi; non diversamente da Magris, nel suo ultimo libro. Nel quale a trionfare è sempre il (dis)valore di una giustizia di una ‘società verticale’, quella dei forti rispetto a quella dei più deboli, con il “non luogo a procedere” giudiziario nei confronti dei tanti che si erano macchiati di crimini contro l’umanità. Anche da chi meno te l’aspetti, come il fascista-ebreo.

Perché di Risiera di San Sabba si sa così poco? Perché nei film di Amelio il personaggio che interpreta il ‘giusto’ perde sempre? Sono queste le domande che si offrono e rinviano alla “complessità” delle risposte, che a ben guardare, possono scorgersi al fondo delle questioni poste. Nelle quali si fa sentire la vibrazione di una corda morale, che non si disperde nell’etere relativistico della modernità, ma è alimentata da ben radicate convinzioni, quali possono essere quelle di chi ha mosso i primi passi respirando l’atmosfera del dopo Seconda Guerra Mondiale, come i nostri due autori”.


NOTE

(1)  Nietzsche, “Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno”, Prefazione, § 4.

(2) S. Makarenko, “Poema pedagogico, 2013, pp. 4 sgg.

(3)  Amelio, “Colpire al cuore”, produttore esecutivo Enzo Porcelli con la collaborazione di Enea Ferrario per la RAI TV – Rete Uno/Antea Cinematografica, Italia, 1982, drammatico, 105 min.; G. Amelio, “Il ladro di bambini”, Produzione: Angelo Rizzoli per Erre Produ-zioni (Roma), coproduzione: Arena Films (Parigi) con la collaborazione di Vega Film (Zurigo) e RAI TV – Rete Due, produttore esecutivo: Enzo Porcelli per Alia Film, Italia, 1992, drammatico, 114 min.; G. Amelio, “I ragazzi di via Panisperna”, Conchita Airoldi e Dino Di Dionisio per Urania Film s.r.l./RAI TV – Rete Uno, produttore RAI: Giovanna Genoese, coproduttore: Betafilm (München), Italia, 1988, drammatico, 123 min.; G. Amelio, “La città del Sole”, produzione: Fabrizio Lori e Attilio D’Amico per Arsenal Cinematografica s.r.l. / I.F.C. International Film Company s.p.a./RAI TV Programmi Sperimentali, Italia, 1973, storico, 85 min circa; G. Amelio, “La fine del gioco”, Tommaso Dazzi per Dazzi & Sagliocco Film s.r.l. / RAI TV, Italia, 1970, drammatico, 60 min.; G. Amelio, “Lamerica”, produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per Cecchi Gori Group Tiger (Roma), coproduzione: Bruno Pesery per Arena Films (Parigi) con la collaborazione di Vega Film (Zurigo) e RAI TV – Rete Uno, Italia, 1994, drammatico, 135 min.; G. Amelio, “La terra è fatta così”, produzione: Nicola Conticello per N. C. Produzioni, Italia, 2000, documentario, 54 min.; G. Amelio, “Porte aperte”, produzione: Angelo Rizzoli per Erre Produzioni/Istituto Luce/Urania Film, in collaborazione con la RAI TV – Rete Due, produttori esecutivi: Conchita Airoldi e Dino Di Dionisio, Italia, 1989, drammatico, 108 min.

(4)  Cfr. C. Magris, “Non luogo a procedere”, Garzanti, 2015.

 

 

 

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