di VALTER VECELLIO
In questa storia della sentenza della Corte di Cassazione sulle condizioni di salute di Totò Riina accade che tanti parlano e/o scrivono senza neppure essersi dati pena, prima, di leggere il contenuto della sentenza stessa. Sono sette paginette, non è faticoso procurarsela e leggerla. E’ scritta in “giuridicese”, ma non è difficile “tradurre” i passaggi più tecnici.
Si preferisce invece (non è la prima volta) la sagra delle dichiarazioni, non importa di chi, non importa a che titolo, men che mai che la competenza: l’importante è alimentare un festival fatto di chi chiede una giustizia simile alla vendetta, e chi ribatte con una giustizia venata di perdono. Astenersi da questo “torneo” è igienico.
Alla sentenza della Corte di Cassazione va comunque riconosciuto un merito: quello di aver posto un problema, e aver innescato un dibattito, un confronto. E pazienza se occorre fare una pesante tara fatta di “bla-bla” frettolosi e superficiali. E’ buona regola no fidarsi mai delle sintesi giornalistiche.
Ma giova prestare attenzione a qualcuno che mostra di pensare a quello che dice. Giuseppe Ayala, per esempio. Amico di Giovanni Falcone, pubblico ministero del primo maxi-processo alla Cosa Nostra, dice cose che meritano una riflessione:
“Molti parlano senza conoscere la legge. Ciascun detenuto anche il più sanguinario, e Riina è un sanguinario, ha diritto di essere curato al meglio. Lo dice la legge che prevede il trasferimento, nel caso si renda necessario, in un carcere ospedaliero. Ne esistono molti in Italia e funzionano bene. Se poi si verificasse che le attrezzature a disposizioni non sono sufficienti a curare il detenuto malato, questi può essere trasferito in un ospedale normale, ben piantonato ovviamente. La scarcerazione non c’entra nulla con quel che dice la legge, dunque non si capisce perché Riina debba lasciare il carcere e tornarsene a casa. Al massimo può finire in ospedale. E non si capisce perché per un detenuto come Riina debba valere il percorso contrario a quello che si adotta per ogni essere umano”.
Riina è ancora il boss pericoloso che qualcuno dice sia? “Non lo so, bisognerebbe far parte di una qualche cosca per saperlo. So però che viene ancora considerato il capo dei capi. Se è così, dopo 24 anni di detenzione con il 41-bis vuol dire che lo stato su questo terreno ha fallito è stato sconfitto. Se Riina continua o ha continuato nei suoi 24 anni di detenzione a dare ordini, mi dispiace dirlo ma lo Stato ha perso”. Ragionamento che non fa una grinza.
Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ritiene che Riina sia ancora il capo indiscusso della Cosa Nostra; il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri va più in là: Riina anche con un solo battito di ciglia, con la sua sola presenza sarebbe i grado di dettare legge ai suoi accoliti. Se hanno ragione i Roberti e i Gratteri occorre essere conseguenti, e fare nostro il ragionamento di Ayala: se dopo 24 anni di detenzione con il 41-bis Riina continua a essere il “boss dei boss”; se può ancora dare ordini all’esterno, e questi ordini vengono tenuti in considerazione e nel caso eseguiti, non si deve concludere che lo Stato perde, ha perso; che il 41-bis non funziona, non ha funzionato?