Il viaggio dell’anima

di Maria Elisabetta Curtosi

Il canto di amore e morte dell’alfiere Christoph.

Rainer Maria Rilke,

Scritto nel 1899, comparve per la prima vota solo nel 1906 ma subito godette di una grande fama in tutta l’ Europa, riscuotendo un gran successo  travolgente tanto da vendere cinquemila copie solo nelle prime tre settimane. Nella sua storia, Rilke vi rielabora il mito a lui caro di una propria origine aristocratica, vi racconta , infatti, la vicenda tragica di un giovane alfiere Christoph, che muore nel tumulto della battaglia dopo aver provato per la prima volta le “gioie dell’amore”.

L’opera fu considerata “impressionista”, “tutta costruita per vividi frammenti, in un susseguirsi di quadri più poetici che narrativi”.

Già sono presenti alcuni dei grandi temi della sua poetica: il rimpianto nostalgico per l’infanzia e per la figura materna, il viaggio come ritorno, per ritrovare le proprie radici.

Infatti nato a Praga nel 1875, dopo un’infanzia infelice e un’adolescenza drammatica trascorsa in una accademia militare Rainer Maria Rilke iniziò a viaggiare per tutta l’Europa; Monaco, Berlino, in Italia, in Russia dove si recò con l’amica Lou Andreas-Salomè, la seduttrice più intellettuale dell’epoca che fu soprattutto un “allumeuse”, pronta a suscitare ammirazioni incontrollate che non aveva intenzione di soddisfare; e a Parigi dove strinse un importante sodalizio con Auguste Rodin. Ospite di amici, negli anni del primo dopoguerra soggiornò in Svizzera fino alla morte avvenuta nel 1926. Conosciuto come il maggior poeta tedesco e interprete lirico della spiritualità dell’età moderna la sua poesia si muove tra le filosofie i Schopenhauer e soprattutto Nietzsche.

L’esordio di Rilke è l’esordio di un gesto che costituirà la questione centrale della sua poesia: esteriorizzazione dell’interiorità ed interiorizzazione dell’esterno.

“Poeta di atmosfere intime e di realtà sfocate al limite dell’onirismo”. Egli preferisce optare per una “scuola dello sguardo”: «E perciò mi dedicherò a guardare meglio, a osservare, con più pazienza, con più dedizione» . Il poeta scorgeva nella prima scuola di impressionismo tedesco la precisa volontà di ignorare qualsiasi concezione romantica della natura nonché l’impegno a disertare le aule accademiche e gli atelier per immergersi completamente nel lavoro all’aperto, «en plein air» .

Nei momenti di autentico confronto con il “fenomeno visivo” egli avverte un’equivalenza tra il mondo interiore e quello esteriore, tra la dimensione dell’apparenza sensibile e quella dell’essenza o del significato.  Il poeta trova riparo nel mondo d’infinite gradazioni e sfumature (nel colore, nel movimento, nella luce) delle arti figurative. Qui Rilke cerca soprattutto nuovi modi di espressione, non ancora utilizzati nel campo della letteratura, e in grado di superare la “povertà di articolazione del linguaggio concettuale e astratto”.

Infatti negli anni dell’intenso rapporto con la pittura e la scultura del simbolismo, dell’impressionismo e del post-impressionismo europei, impara differenti lingue del visuale e in un articolo del 1898, l’autore opta definitivamente per una scrittura poetica, ritenuta la sola forma capace di cogliere spontaneamente, a livello intuitivo, gli stati d’animo umani.

Rilke rappresenta nei Quaderni il conflitto fra partenza e ritorno, distacco e ricongiunzione. Normalmente, si pensa ai Sonetti o alle Elegie come a un genere di discorso poetico dove l’autore è riuscito a esprimere delle verità sulla vita e sul linguaggio. Talvolta, si ha l’impressione che la conoscenza linguistica prevalga su quella esistenziale, producendo delle metafore o dei simboli della poesia.

Inoltre proprio le “Elegie di Duino” completano la ricerca rilkiana di uno sguardo “nuovo” che superi la mera apparenza e la caducità delle cose, per giungere al “lavoro di conversione continua dell’ amato visibile e tangibile nell’ invisibile vibrazione e agitazione della nostra natura”, alla ricerca dell’ essenza delle cose, di una loro profonda comprensione, che si trasfonda in parola, verso, canto.

Rilke, il cantore dell’ “aperto” (das Offene), il poeta dell’indicibile, scrive: “Visione e mondo esterno coincidevano dovunque come se fossero nell’ oggetto; in ciascuno di essi si manifestava tutto un mondo interiore, come se un angelo cieco e abbracciante lo spazio scrutasse in se stesso. Questo mondo, visto non più con gli occhi degli uomini, rappresenta forse il mio vero compito”.

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