Marco Pannella e Giuseppe Candido

Riflessioni sul referendum costituzionale

di Giuseppe Candido

Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati ad esprimerci sulla riforma della Costituzione. Stante il racconto dei media che continuano a ripetere che o si cambia ora, o mai più, è già la terza volta che – in soli 15 anni – gli italiani vengono chiamati ad esprimersi per confermare o meno un cambiamento della Carta: nel 2001, nel 2005 e – ora – nel 2016. Una media di una riforma costituzionale per legislatura. 

Nel 2001 fu il Centro Sinistra a modificare – introducendo un ampio decentramento amministrativo e legislativo – ben 19 articoli del Titolo V (che oggi si vorrebbe modificare nuovamente), riguardante i rapporti e la divisione delle competenze tra Stato e Regioni. Non avendo avuto la maggioranza qualificata dei due terzi in Parlamento, anche nel 2001 la riforma costituzionale fu sottoposta, come prevede la stessa Carta, a referendum confermativo. Gli italiani scelsero di confermare la riforma approvando la modifica della Costituzione.

Quattro anni dopo, nel 2005. fu la volta del Centro Destra che modificò 59 articoli della Carta nel tentativo d’introdurre il presidenzialismo e la devolution. Mancando la maggioranza qualificata in Parlamento, anche in quel caso, la riforma fu sottoposta a referendum confermativo e gli italiani la respinsero.

Oggi ci riprova il Governo del “partito della nazione” ma non ha ottenuto una maggioranza qualificata dei due terzi necessaria a modificare la Costituzione senza passare dal Referendum. Quindi il Referendum. Un altro referendum costituzionale.

Allora entriamo nel merito. Ci dicono che sarà eliminato il bicameralismo paritario, ma non è vero perché il Senato non sarà abolito. Sarà un bicameralismo non paritario, chiamatelo differenziato, ma sempre una forma di bicameralismo sarà. E il processo legislativo, per molte tipologie di leggi, rimarrà identico a quello attuale. Con l’aggiunta che i Senatori staranno un po’ a Roma e un po’ in provincia per svolgere il loro ruolo primario di amministratori.

Ci dicono che sarà ridotta la struttura amministrativa del Senato, che si risparmierà sui costi. Ma in realtà non è così. Mentre i Senatori saranno ridotti da 315 a 100, l’apparato amministrativo di supporto del Senato resterà pressoché invariato in termini di costi: dagli attuali 541 milioni l’anno si passerà infatti a 491 milioni di euro l’anno. Un risparmio di soli 49 milioni di euro all’anno.

E ci raccontano che la sovranità popolare resterà invariata, anzi che uscirà rafforzata dalla vittoria dei sì. Falso. Vero è il contrario: la sovranità popolare uscirebbe fortemente indebolita qualora vincessero i sì.

Già vediamo cosa accade con Provincie e Città Metropolitane: abolite sulla carta, in realtà l’unica cosa abolita è il diritto dei cittadini di scegliere gli amministratori provinciali: la giunta e il presidente se li scelgono in elezioni di secondo livello i politici di professione. Se vincessero i sì, non voteremo più neanche il Senato che però continuerà ad esistere e sarà “nominato” tra i consiglieri regionali o eletto attraverso sistemi elettorali ancora tutti da fare e che potrebbero essere assai diversi da regione a regione. E non bisogna dimenticare che il cittadino, con il combinato disposto dell’attuale legge elettorale, non potrà scegliersi i rappresentanti perché continueranno ad esser nominati, scelti, dai capi partito e inseriti in liste bloccate.

Altro aspetto che concorre a indebolire la già labile sovranità del popolo italiano è che, per proporre una legge d’iniziativa popolare, bisognerà raccogliere almeno 150mila firme autenticate e certificate e non più 50mila attualmente necessarie. Senza neanche avere certezza che la legge sia discussa. E pure per i referendum abrogativi, la proposta di modifica della Costituzione limita ulteriormente la possibilità dei cittadini di cancellare una legge sbagliata. Le firme necessarie per indirlo restano sì 500mila, ma in tal caso il quorum (impossibile) da raggiungere resta fissato al 50 per cento più uno degli aventi diritto. Se invece le firme – perché raccolte dalle grandi organizzazioni partitocratiche o sindacali – superano quota 800mila, in quel caso il quorum scenderà al 50 per cento più uno ma dei partecipanti alle ultime elezioni. Che sono circa la metà degli aventi diritto. Un sconto per i grandi partiti agevolati nella raccolta dal fatto di disporre, facilmente, di consiglieri comunali e provinciali per autenticare le firme.

Ps: se tutto ciò non bastasse, c’è un ultimo aspetto per cui – da Radicale – voterò No. Perché, dopo averlo modificato nel 2001 il Titolo V, oggi si vuole modificarlo ancora? La risposta l’ho trovata nelle parole dell’ex amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni che, il 29 ottobre 2010, candidamente dichiarava: “Penso che se non si modifica il Titolo V della Costituzione si fanno molte chiacchiere e pochi fatti”.

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