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Vincenzo Ammirà e la letteratura.

di Maria Elisabetta Curtosi

Di Ammirà la cronaca e certa letteratura ne hanno fatto oramai un ritratto che sarà molto difficile da scalfire, perché non c’è saggio, memoria e aneddottistica che ha impresso a fuoco: angelo per pochi, demonio per gli altri.

Il giuoco libero della poesia. Tra le voci poetiche fra le più libere ed autentiche  non soltanto della letteratura calabrese del secolo per antonomasia ma della letteratura erotica italiana. E come tale quindi messo al rogo. Parlava allo spirito, Ammirà. Non era amato manco lui da quei “professorini da caffè ”. Lui ricambiava volentieri, anzi nella sua poesia dialettale la pseudo autorità svanisce sotto i colpi della libera voce di Ammirà, tutta volta alla realizzazione dei più alti ideali umani.

Ci ha rimesso solamente la cultura perché le loro opere sono solo per pochi intimi e quei pochi ne hanno fatto uno stereotipo di una poesia pornografica, oscena, sottoposta

continuamente al dominio del potere nelle sue variegate forme.

Invece si tratta a nostro modesto parere di poeta romantico. Egli esprime il carattere del vero calabrese, romantico,irriverente, individualista, sarcastico, ribelle contro ogni tipo di sopruso, insomma quella calabresità tipica dei grandi della nostra terra che ha avuto in Campanella l’espressione più alta. Ammirà non è mai stato un poeta da officina, non sostava nelle biblioteche o nelle sacrestie e questo è un altro punto su cui il poeta monteleonese si distacca  non tanto dagli uomini della generazione poetica coeva. Rispetto ad altri poeti egli ha saputo e potuto essere moderno in modo del tutto diverso dai suoi contemporanei. Negli altri prevaleva il criterio retorico,mentre per Ammirà l’unico criterio restava quello di una funzione naturale che anticipava e annullava le ragioni di un ordine letterario. Il linguaggio di Ammirà non era asettico, rassicurante ma altamente simbolico, efficace e comprensibile a tutti perché linguaggio del dolore e della gioia,della passione, dell’amore sempre naturale, non artificioso, diretto, genuino che nasce e si ciba della cultura popolare.

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“Fimmani e omani”.

di Maria Elisabetta Curtosi

Se verrà un giorno in cui smetteremo di chiederci se Vincenzo Ammirà, monteleonese, classe 1821, sia o no il più grande poeta calabrese,riconoscimento del quale l’interessato stesso non farebbe salti di gioia, vista anche l’amarezza con cui il poeta del Carmine-ex rione del paradiso terrestre vibonese che tanto decisivo nei suoi versi appare, oggi definitivamente deturpato da un progresso senza sviluppo. Fimmani, omini, natura, cultura e mondo: i temi della poesia ammiriana sono spesso risolvibili in tensioni irrisolvibili che hanno accompagnato lo scorrere dell’ultimo decennio dell’ 800 poetico esplorandone quella che sarebbe troppo facile definire una società profondamente corrotta. Le due leggendarie figure della poesia calabrese hanno plasmato con entusiasmo l’anima della gente, non solo in Calabria,ma la loro opera si è appannata, nel tempo. “L’atmosfera romantica che stupì il mondo della letteratura meridionale con le sensuali poesie si fa fatica a ritrovarla là dove la poesia è artificio, retorica, buona soprattutto nei salotti della domenica. La pratica diffusa oggi è una non celata forma di prostituzione che offenderebbe una come Cecia: qui da noi, e forse anche altrove, una signora desiderosa di occupare alacremente la propria vacanza  può comprare in un comune un incarico qualunque. La nostra coscienza è molto sporca”.

Quale dunque l’interesse di queste raccolte, a parte il gusto per lo scandalo.  Solo e semplicemente per amore della verità della conoscenza a tutto tondo come direbbe qualcuno ,nel senso che la conoscenza di qualcuno o di qualcosa non può nascondere o escludere nessuna parte di se o della sua opera.  Se vogliamo per davvero prendere le misure del Monteleonese Vincenzo Amnmirà e dell’apriglianese Domenico Piro alias Donnu Pantu, accanto ai versi sonori, cantabili, sfumati e sfuggenti, gioiosi e dilettevoli e rispettabili delle loro liriche note, si deve, appunto per amore di verità e di conoscenza.

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Cenacolo di libertà

di Maria Elisabetta Curtosi

Nel 1847 Vincenzo Ammirà si affiancò ai liberali sotto la guida di Raffaele Buccarelli, tra i quali troviamo Francesco Fiorentino, Luigi Bruzzano, Ottavio Ortona, Francesco Protetti, Giuseppe Augurusa (….) che ebbero su di lui una certa influenza ed in compagnia di questi amici  spesso trascorreva le serate e le notti . Cenacolo di libertà. L’agiografia e la critica che sino ad oggi si è occupata di Ammirà di Donnu Pantu risulta piuttosto caricaturale, di maniera, conformista e quindi falsata. A noi interessano soltanto in quanto ci servono come veicolo per arrivare a capire il perché di una certa produzione, che d’altra parte è presente in Italia e fuori da essa, lungo tutto il percorso della storia letteraria, anche se celata con sufficienza da testi cosiddetti ufficiali.

Tre anni dopo, nel mese di…. lo troviamo al seguito di Giuseppe Garibaldi fino a Soveria Mannelli.

Le lagnanze della “ cultura ufficiale” battono sui soliti argomenti: l’immoralità mostruosa del comportamento del poeta che poteva avere sulle persone la più funesta influenza e,il fatto che il poeta dicesse pane al pane e vino al vino come in uno dei suoi più celebri scritti la “ Ceceide” che canta la vita di una bella e dignitosa buttana di Tropea, frequentata non dai poveri cristi popolani,ma da gente di cultura e di alto lignaggio come il filosofo Pasquale Galluppi e  la “Rivigghiede” che rappresenta una sorte di orationes funebre sempre di una grande buttana, questa volta montaleonese, assaporata,gustata e molto gradita  dai signori altolocati del tempo.  A Francesco Mantella-Profumi, appartenente al nobile casato pannaconese , disse: “Da certi scritti, che non credevo vivessero tanto,  sembro diverso da quel che realmente sono, eppure quando scrivo i miei versi sono sempre mesto”.  Dunque Ammirà, come Donnu Pantu vivevano  una vita castigata, l’uno tutto dedito alla famiglia, l’altro faceva il “mastru missaru”.

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Generoso cuore, ferro e libertà: la via calabrese verso l’Italia Unita

a cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Pubblicato su “Abolire la miseria della Calabria” – Anno VI n°1-2-3 G/F/M 2011

Calatafimi, Salemi, Alcamo, Monreale, Palermo passando per il Piano di Renda. Poi lo sbarco a Milazzo dove si combatté per le strade cittadine finché i “regi borbonici preferirono ritirarsi nella fortezza dove furono poi costretti alla resa”. Dopo essere sbarcato a Marsala l’11 maggio del 1860, in due mesi e mezzo Garibaldi si era impadronito dell’Isola. Aveva ripetutamente sconfitto forze di gran lunga superiori alle sue per numero e per armamento; aveva provocato una serie di insurrezioni in tutta la Sicilia rendendola ribelle alla dinastia borbonica ed offrendo ad essa la libertà. Sbarcato a Marsala con soli mille uomini, Garibaldi disponeva ora di una forza decuplicata, ancora numericamente inferiore all’esercito borbonico ma con una consistenza sufficiente per affrontare la nuova impresa: il passaggio dello Stretto di Messina e l’avanzata nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie.

 

Da Melito Porto Salvo a Soveria Mannelli

Un nuovo contingente di ottomila volontari, raccolti da Agostino Bertani, era destinato a sbarcare nello Stato pontificio. Ma il Cavour si mostrò ostile all’iniziativa e riuscì ad ottenere dal Bertani che i volontari venissero condotti in Sardegna e di là in Sicilia da dove sarebbero stati liberi di muovere verso lo Stato romano. Lo stesso Bertani, raggiunse Garibaldi a Messina per invitarlo a recarsi in Sardegna ad assumere il comando della spedizione contro lo Stato pontificio. Mentre il Generale si trovava in navigazione verso la Sardegna, la notte dell’otto agosto del 1860 ci fu il primo sbarco sulla costa calabra: seguendo le disposizioni impartite da Garibaldi, duecento uomini tra i più provati e ardimentosi furono inviati con agili scialuppe ad occupare il fortino di Altafiumara a Villa San Giovanni. Il calabrese Benedetto Musolino aveva garantito di essersi accordato coi sottufficiali del fortino; il drappello era comandato dal Racchetti e tra i componenti vi erano il Missori, il Nullo e Alberto Mario, che da poco aveva raggiunto il Garibaldi in Sicilia. Ma il tentativo non ebbe buona riuscita; i sottufficiali non dettero alcuna collaborazione ed il gruppo dovette desistere e ritirarsi sull’Aspromonte dove riuscì ad ottenere l’appoggio di quattrocento volontari calabresi. Nascevano così i Cacciatori della Sila.

Lo sbarco in Calabria a Mélito Porto Salvo

Rientrato dalla Sardegna, Garibaldi sostò a Palermo da dove ripartì compiendo il periplo dell’Isola e raggiungendo il 18 agosto le coste di Taormina dove ad attenderlo c’era il Generale Bixio con quasi quattromila uomini già pronti per la partenza che avvenne la sera dello stesso giorno; all’alba del 19 agosto la spedizione giungeva sulla costa ionica della Calabria approdando a Mélito Porto Salvo dove lo sbarco ebbe luogo senza conflitti: le navi borboniche arrivarono ad operazioni concluse accontentandosi di affondare una delle due navi ch’erano servite per lo sbarco.

Reggio Di Calabria

La strada costiera da Mélito a Reggio fu il primo tragitto calabrese dei garibaldini che intanto si erano ricongiunti con il gruppo del Racchetti e del Missori discesi dall’Aspromonte a Mélito appena furono avvertiti dell’arrivo di Garibaldi in Calabria. Reggio, d’altronde, era stata la prima città della Calabria che, alla notizia dello sbarco dei Mille a Marsala, aveva proclamato decaduto il dominio borbonico.

Sbarcato all’alba del 19 agosto a Mélito Porto Salvo, Garibaldi ordinò subito la marcia su Reggio presidiata da una nutrita guarnigione sotto il comando del generale borbonico Gallotti, il quale, venuto a conoscenza dell’avvicinarsi di Garibaldi, aveva ordinato al Colonnello Dusmet di apprestare una linea di difesa lungo la cerchia esterna della città. La sera del 20 agosto le camicie rosse aggirarono i Borboni e penetrarono nell’abitato di Reggio Calabria dove si accese una sanguinosa battaglia. Lo stesso comandante borbonico cadde colpito a morte mentre conduceva i suoi all’attacco; la forza degli attacchi dei garibaldini e la morte del Dusmet costrinsero i borbonici a rifugiarsi dentro il castello della città dove aveva preferito restare il Generale Gallotti. Il castello però venne stretto d’assedio da una squadra della colonna Missori capitanata da Alberto Mario e, il 22 d’agosto, il Gallotti fu costretto anche lui “ad alzare bandiera bianca”. Per aiutare i Borboni di Reggio era sopravvenuto, a resa però già avvenuta, anche il generale Briganti; il Garibaldi gli andò incontro a Gallico, un paesino a cinque chilometri a nord di Reggio, disperdendone le truppe dopo una breve mischia.

Il secondo sbarco: Favazzina

Contemporaneamente, durante la notte tra il 21 e il 22 agosto il generale Cosenz portava in territorio calabrese la brigata Assanti e la compagnia dei volontari francesi; la nuova spedizione sbarcava a Favazzina, un paesino di 400 anime, tra Scilla e Bagnara, a Nord Est di Villa San Giovanni. Avanzando verso l’interno la spedizione sosteneva alcuni scontri contro i reparti borbonici dispiegati a presidio di alcune località calabresi. Dopo aver ributtato alcune truppe borboniche a Favazzina si dirigeva per Bagnara verso Solano. Durate uno di questi scontri con cariche “alla baionetta” cadeva pure il comandante dei volontari francesi De Flotte, “uno di quegli esseri privilegiati – scriveva Garibaldi – cui un solo paese non ha diritto di appropriarsi. Così il Garibaldi teneva le posizioni di Reggio e Villa San Giovanni mentre il Cosenz quelle dispiegate tra Villa e Bagnara Calabra.

I corpi borbonici del generale Melendez e quelle del generale Briganti, in vista d’essere accerchiati, si arresero; ma la vera ragione della mancata resistenza delle truppe di Francesco II fu il fenomeno della diserzione che assunse proporzioni enormi e che, quotidianamente, intaccò i contingenti borbonici, togliendo ai comandanti la fiducia delle loro truppe.

Da Reggio di Calabria e Bagnara Calabra a Monteleone e Soveria Mannelli

Dopo la resa di Reggio (21 agosto), dispersi i novemila uomini del Melendez e del Briganti, Garibaldi proseguì lungo la costa del Golfo di Gioia Tauro ed intraprese la sua rapida marcia verso Nord: il 25 agosto arrivò a Palmi, il 26 a Nicotera, e il 27 giunse a Monteleone di Calabria (dal 1928 Vibo Valentia) dove venne accolto trionfalmente dalla popolazione che aveva visto il generale Ghio abbandonare la città con la sua colonna decimata dalle diserzioni. A Monteleone molti patrioti calabresi si aggiunsero alle fila di Garibaldi: Michele Morelli, Luigi Bruzzano, Vincenzo Ammirà sono soltanto alcuni dei nomi di intellettuali che seguirono l’eroe dei due Mondi.

Proveniente da Monteleone, Garibaldi giunse a Maida (CZ) il 29 agosto venendo accolto, anche qui, da una popolazione acclamante: <<Non è tempo di feste>>, disse alla folla da un balcone. <<I dodicimila uomini comandati dal trucidatore di Pisacane, il generale Ghio, ci aspettano sull’altopiano di Soveria>>. E così fu: Garibaldi il 29 sera era arrivato a Tiriolo. Ghio tentò la ritirata verso Napoli ma, proprio a Soveria Mannelli, fu raggiunto da Garibaldi. All’alba del 30 agosto i calabresi garibaldini, “Cacciatori della Sila”, comandati dal barone Francesco Stocco e inviati da Garibaldi avevano preso posizione attorno al paese mentre, da Tiriolo, giungeva l’avanguardia del Cosenz seguito da Garibaldi e dal suo stato maggiore.

Dopo un accenno di resistenza, considerato che i suoi soldati rinunciavano a combattere dandosi alla fuga, il 30 agosto del 1860 Ghio accettò la resa. All’ingresso dei Soveria Mannelli, all’epoca dei fatti cittadina con poco più di duemilacinquecento abitanti, sorge oggi un monumento detto “Colonna Garibaldi” eretto in ricordo della capitolazione del corpo borbonico comandato dal generale Ghio. Esso è realizzato da un obelisco di bella fattura con trofei bronzei e posato su un basamento a gradini

Tre giorni prima, il 27 d’agosto anche il generale borbonico Caldarelli aveva lasciato Cosenza dove la popolazione, appresa la notizia della caduta di Reggio di Calabria (21 agosto), aveva costituito un governo provvisorio. E pure a Catanzaro un governo provvisorio era stato istituito in città dopo la notizia della presa della città dello Stretto.

Così, alla fine dell’agosto 1860, Garibaldi aveva liberato completamente la Calabria dai Borboni: l’esercito del generale Vial, comandante supremo delle forze borboniche in Calabria, forte di trentamila uomini, era completamente disfatto. Una piccola parte di esso aveva ripiegato su Napoli, ma la maggior parte si era dispersa con la diserzione e casi di interi reparti borbonici calabresi che chiesero di essere arruolati nell’esercito garibaldino.

La situazione era profondamente mutata: <<Italiani! Il momento è supremo. Già i fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore dell’Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare di là insieme alle venete terre. Tutto ciò che è dover nostro e diritto, potremo fare se forti. Armi, dunque, ed armati. Generoso cuore, ferro e libertà>>.

 
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Buon compleanno Italia!

Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommen- surabili. Nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.

Giuseppe Garibaldi


 

Buona lettura

A 150 anni dell’Italia unita, Abolire la miseria della Calabria dopo il numero precedente dedica ancora il suo primo numero del 2011 alla storia del nostro Paese e al ruolo del Mezzogiorno nella costituzione dello stato unitario. Ancora una volta in copia omaggio gratuita con una tiratura di 10.000 copie grazie al contributo della Provincia di Catanzaro che sentitamente ringraziamo.

BUONA LETTURA

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Nel 150° dell’Italia Unita … il nuovo numero di ALM per un buon 2011

Care amiche e cari amici di Abolire la miseria della Calabria,

a nome della redazione auguro a tutti voi, nel 150° dell’Italia Unita, un felice 2011 ricco di cultura e culturalmente ricco. E lo faccio con il nuovo numero. Ancora una volta in “copia omaggio” grazie anche al contributo della Provincia di Catanzaro offerto all’associazione di volontariato culturale Non Mollare e da noi interamente dedicato all’Unità d’Italia ed al ruolo che per essa ebbe il Mezzogiorno d’Italia e la Calabria in particolare. A breve pubblicheremo anche l’inserto speciale. Intanto buona lettura a tutti con “otto pagine di cultura” ed AUGURI!

Uno speciale ringraziamento al Presidente Napolitano che dà ascolto ai giovani e che, lo scorso 8 giugno 2010 con nota ufficiale del Segretario Generale Pasquale Cascella (Prot. SGPR del 11/06/2010 n°0062663 P), nel renderci nota la possibilità di utilizzare il testo dell’Intervento del Presidente tenuto all’Accademia Nazionale dei Lincei, ci ha ufficialmente <<Rappresentato i sensi della considerazione del Presidente Giorgio Napolitano per l’iniziativa di dedicare un numero del periodico “Abolire la miseria della Calabria” al tema del Mezzogiorno nel centocinquantenario dell’Unità d’Italia>>. Ovviamente siamo orgogliosi di tutto ciò e, nello stesso tempo, increduli e lusingati di questo riconoscimento. Grazie davvero Presidente Napolitano, garante della nostra costituzione, e un augurio per un buon 2011 con meno suicidi nelle carceri.

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