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Obama, il Darfur e il genocidio nel deserto

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 18.07.2009

Dopo il G8 dell’Aquila, il passaggio in Africa di Barack Obama è stato salutato come un momento storico. Un discorso, quello tenuto ad Accra nella capitale dello stato del Ghana, di cui gli africani sentivano il bisogno anche se non sono stati affrontati temi cruciali come il genocidio che si sta perpetuando in Darfur o come l’esodo dei profughi somali che in questi giorni allarma l’alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. Come faceva notare Drew Hunshaw su tocqueville.it, il suo unico passaggio alle violenze in Darfur è stato quello di affermare che “quando c’è un genocidio, questo non è semplicemente un problema americano”. Un passaggio troppo scarno che non chiarisce la posizione americana sull’emergenza in Darfur e sull’esistenza o meno di un genocidio in corso. Ci si poteva aspettare di più da un presidente americano le cui origini risalgono proprio dal continente nero. Era lecito sperare in qualche parola in più soprattutto se si considerano gli scarni aiuti economici stanziati dagli otto grandi durante il vertice dell’Aquila che, come faceva notare Gian Antonio Stella, sono veramente una miseria: “cinque euro e 18 centesimi all’anno per ciascun africano; 43 centesimi al mese” che, se annunciati con la cifra di 20 miliardi in tre anni, sembrano invece una grande cosa. Poco per il clima, pochi gli aiuti economici e poche anche le parole sui genocidi e sui massacri africani in corso. Qualche mese fa, il Darfur è tornato al centro dell’attenzione dei media internazionali quando la Corte Penale Internazionale ha emesso il mandato di arresto nei confronti del suo presidente Omar al Bashir. Ma l’emergenza umanitaria non si è risolta e non si risolverà senza andare alle radici del conflitto: la desertificazione e la perdita di terre fertili che spinge etnie diverse alla prevaricazione continua. La regione occidentale del Sudan ha già visto seppellire dalle 200 mila alle 400 mila vittime, 39 villaggi cancellati, distrutti. E’ il genocidio nel deserto del nuovo millennio. Stefano Cera, rappresentante dell’associazione “Italians for Darfur” ha spiegato, in una recente intervista rilasciata al Cecilia Tosi per la rivista Left, che il problema è che “si parla di emergenza umanitaria ma non del conflitto e dei modi per risolverlo.” Ma dei modi per risolvere il conflitto in Darfur non vi è indicazione nel discorso “storico” di Obama. “Questa è una guerra – ha spiegato ancora Cera – che non si può liquidare come scontro di civiltà. (…) Non ci sono, infatti, differenze religiose né di colore della pelle tra i gruppi che si combattono. C’è invece la lotta per la conquista di terre fertili, esacerbata dalle strumentalizzazioni politico ideologiche e da un problema globale come il surriscaldamento del clima, che ha portato desertificazione e siccità”. La crisi in Darfur è iniziata negli anni Ottanta, quando divenne il luogo di transito dei ribelli del Chad che lottavano contro il loro governo con il sostegno della Libia. La loro presenza – spiega ancora la Tosi su Left – congiuntamente alla progressiva diminuzione delle terre fertili coltivabili ha portato nei pastori nomadi di etnia araba “il senso di appartenenza ad una comunità più ampia, distinta da quella degli africani di etnia fur, tradizionalmente coltivatori stanziali. (…) Negli anni successivi l’arabismo si è diffuso e le ondate di siccità hanno inaridito acri di terra fertile. Così, le armi lasciate dai ribelli chadiani sono finite nelle mani di altri ribelli noti come Janjaweed, le milizie del deserto”. Da allora è iniziato uno sterminio dell’etnia fur che ancora continua: un genocidio che ha per causa primaria la desertificazione. Un genocidio per le terre fertili e per il quale non sono certo sufficienti i 5 euro e 18 centesimi all’anno stanziati dai grandi del G8 per ogni africano. “Guerriglieri e massacratori – ha dichiarato Stefano Cera – che combattono una guerra per procura del governo sudanese, anche se Bashir ha sempre negato di aver orchestrato le loro azioni”. E così, un’intera popolazione è costretta da anni a fuggire dalle proprie case e a costruire una “nazione parallela fatta di campi profughi disseminati su tutto il territorio del Darfur e al di là del confine occidentale, in Chad e nella Repubblica Centroafricana”. “Due milioni di persone – ha dichiarato Sulliman Ahmed, rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia – che sopravvive lungo il confine”. E dopo la decisione della Corte Penale Internazionale di spiccare il mandato di arresto nei suoi confronti, il Presidente Bashir se l’è presa con le Organizzazioni Non Governative cacciandone 13 che rappresentavano, da sole, il 40% degli aiuti umanitari presenti in Darfur e la situazione non è certo migliorata. Ecco perché dal presidente americano ci si aspettava qualche parola in più sui dittatori africani e sui massacri in corso in quel continente. Perché quella del Darfur non è l’unica emergenza umanitaria del continente nero: in Somalia, ha dichiarato in una nota dello scorso 26 giugno l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, 26.000 civili in fuga da Mogadiscio in soli 24 giorni. Una “forte preoccupazione” quella espressa dall’UNHCR, “per la spirale di violenza e per l’aggravarsi della crisi in Somalia che sta mettendo in fuga la popolazione. Gli scontri in corso tra le forze governative e i gruppi di opposizione (…) stanno mietendo una lunga scia di vittime, distruzione e nuovi esodi”. Lo scorso 19 aprile i rifugiati del Darfur in Italia si sono ritrovati, in una manifestazione sotto al Colosseo, per chiedere pace e giustizia per la loro terra. Pace e giustizia senza le quali non è possibile arrestare il genocidio in corso e che avrebbero dovuto trovare un posto di maggiore rilievo nello storico discorso di Barck agli africani e ai suoi dittatori.

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Per non dimenticare Srebrenica

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 11.07.2009

11 luglio 1995. I soldati serbo bosniaci comandati da Ratko Mladic uccidono più di 7000 mussulmani, traditi dalle Nazioni Unite e dall’Europa. Nel luglio di 40’anni fa l’uomo metteva piede sulla luna. Una ricorrenza che tutti si affrettano a ricordare. Ma l’11 luglio dovrebbe poter essere occasione anche per non dimenticare quel genocidio che, 14 anni fa nel 1995, fu compiuto a Srebrenica nella Repubblica Serba della ex Jugoslavia. La città in teoria era stata dichiarata area protetta dall’ONU ma diventò il teatro dell’unico caso legalmente provato di genocidio verificatosi sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1993, un rapporto dei volontari dell’UNHCR, l’alto commissariato per i rifuggiati delle Nazioni Unite, descrisse l’inferno di Srebrenica: “i profughi erano accampati nelle strade bloccate dalla neve. Intere famiglie soffrivano la fame e sopravvivevano masticando radici e mangiando foglie. La scabbia e i pidocchi imperversavano”. Per proteggere la popolazione civile, Srebrenica era stata designata come area protetta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva anche chiesto la proclamazione del cessate il fuoco e il disarmo delle unità bosniaco-mussulmane. Un promessa di protezione e un piano che che convinse molti civili, che avrebbero potuto lasciare Srebrenica, a rimanere. Le forze di pace dell’Onu avevano un mandato limitato, ma i bosniaci affamati guardavano a quelle truppe, coi loro giubbotti antiproiettili, i caschi blu e i blindati, come ad un protettore. Ma come avrebbero scoperto, vivere in un’area protetta non comportava alcuna garanzia di protezione.

Srebrenica
Srebrenica - foto www.sfgate.com

I bosniaci mussulmani, in termini di razza, sono identici ai serbi e ai croati con i quali condividono il loro paese. Sono tutti slavi del sud di pelle bianca. Parlano la stessa lingua. L’unica differenza è la religione. Eppure, l’11 luglio del 1995 fu realizzato il genocidio di più di settemila uomini e ragazzi mussulmani. Al momento del massacro la protezione doveva essere garantita da un battaglione olandese assegnato alla missione ONU. Ma il battaglione era dotato di armamenti inadeguati e privo di un supporto sufficiente, non fu in grado di agire mentre i serbi conquistavano Srebrenica. Quattordici anni fa l’area protetta di Srebrenica cadde nelle mani dei militari serbo-bosniaci dopo che le Nazioni Unite avevano “deciso” che non era più possibile proteggere l’area.

La stampa internazionale raccontò il fallimento dell’ONU: “quella mattina, migliaia di uomini, donne, bambini ed anziani mussulmani implorarono l’aiuto dei caschi blu di stanza nella vecchia fabbrica di batterie di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. Il soccorso venne negato: quei caschi blu olandesi furono taciti complici di quel massacro”. “La notte e i cinque giorni successivi l’aria intorno a Srebrenica risuonò delle urla degli uomini e dei ragazzi che venivano mutilati, massacrati, sepolti vivi, oppure uccisi e gettati nelle fosse comuni”.

Si dice che chi è sopravvissuto alla strage di Srebrenica porta negli occhi il dolore immenso e la paura vissuta in quei giorni. In occasione dei dieci anni dal massacro Lorna Martin, su “the observer” noto quotidiano britannico, ha raccontato la storia di Fatima e Damir e di una foto che sconvolse il mondo. La foto di Ferida Osmanovic è stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: una donna con una abito bianco e un cardigan rosso, impiccata ad un albero con un cappio ricavato dalla cintura e dallo scialle. Fatima e Damir Osmanovic hanno solo quella foto della loro madre, ma non hanno la forza di guardarla. Una foto che ancora oggi resta l’icona di quel genocidio perpetuato su suolo europeo e che sollevò numerosi interrogativi nel senato statunitense di allora: qual era il nome di quella donna? Da dove veniva? Quali torture e umiliazioni aveva subito?

In occasione del decimo anniversario del massacro, Fatima e Damir sono tornati per la prima volta in quella che un tempo era la loro casa a Srebrenica ed hanno raccontato la storia di quella foto: “Quando sono qui provo una grande rabbia” ha esclamato Fatima alla giornalista che l’accompagnava. “Non posso davvero credere che tutto questo sia successo a noi e alle altre famiglie”.

Nei giorni successivi circa 40.000 persone furono deportate, le donne vennero sistematicamente violentate e più di 7.000 uomini e ragazzi furono trucidati. Mentre Ratko Mladic – ancora ricercato dal tribunale penale internazionale per il suo ruolo nel massacro – entrava a Srebrenica, migliaia di persone fuggirono verso Potocari, dove c’era il quartiere generale olandese il cui comandante aveva assicurato che l’Onu avrebbe autorizzato attacchi aerei per proteggerli. Ma di aerei non se ne videro. Mentre il massacro era già in corso i serbi dissero agli olandesi che avrebbero evacuato Potocari, passando al vaglio gli uomini per individuare i “criminali di guerra”. Invece portarono via uomini e ragazzi e li uccisero in massa nei boschi circostanti il villaggio. Noi oggi dobbiamo ricordare per non dimenticare cosa è avvenuto, di così atroce, a due passi da casa nostra e non permettere più, in futuro, che simili avvenimenti abbiano a ripetersi.

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Quando eravamo tutti migranti

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 14.05.2009

Migranti italiani
Migranti italiani

Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto (Esodo 23, 9). E’ il tema della memoria che s’intreccia con quello dell’alterità e che nella Bibbia si ritrova sovente. L’invito a ricordare, ad avere memoria, in particolare, quando si parla dell’atteggiamento da avere verso gli stranieri, verso coloro che non fanno parte della comunità “identitaria” dovrebbe essere raccolto da chi si occupa di politiche, ancor di più se chiamato a governare. Se non serve ricordare, come ha fatto con l’ orda di Gian Antonio Stella, che migranti lo siamo stati anche noi italiani; se non è sufficiente, per noi calabresi, rileggere le pagine dell’Avvenire Vibonese che pubblicava, alla fine dell’ottocento, le notizie sui migranti che dalla Calabria partivano verso le Americhe e i relativi provvedimenti dell’allora Commissario dell’emigrazione, forse è il caso di rileggere la Bibbia che ci rammenta che il primo straniero è stato proprio il Cristiano. E’ strano davvero: impieghiamo un sacco di tempo ad imparare qualcosa, ci costa tanta fatica e poi, in breve lasso di tempo, dimentichiamo. Eppure anche noi abbiamo conosciuto la puzza delle stive, l’amaro in bocca del lasciare – forse per sempre – la propria terra, i propri cari, per la ricerca di una vita meno misera. Ci guardiamo allo specchio ma non riusciamo più a scorgere quel figlio, quel nipote, di migranti quali siamo. Se la terra da cui ci sfamiamo si inaridisce dovremmo morire sul posto? Abbiamo piedi o radici? Noi siamo rimasti sul posto quando a “seccare” di miseria era la nostra terra? La nostra Calabria? Non amiamo essere costretti a ricordare e dimentichiamo. Thomas Eliot forse aveva ragione nell’affermare che “il genere umano non può sopportare molta realtà”. E noi italiani vogliamo dimenticare, vogliamo fingere di essere diversi da quello che siamo o da quello che siamo stati. Un bel Paese ma dalla gente immemore che l’Europa e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifuggiati (UNHCR) devono “richiamare”. Proprio mentre cultura e letteratura italiane sono in fiera a Torino sotto il titolo “Io, gli altri” e parlano all’attualità con titoli come “La morte del prossimo” di Luigi Zoja, “Mai senza l’altro” di Michel de Certau, o ancora più espliciti, come “Ricordati che eri straniero” di Barbara Spinelli, proprio mentre fiumi di parole si spendono sul tema delle nuove e vecchie migrazioni, in Italia la politica del Governo è chiara: rispedire a casa lo straniero, senza preoccuparsi neanche se queste persone abbiano, o no, diritto ad asilo perché perseguitati nel loro paese d’origine. Duecento trenta migranti soccorsi dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza italiane nelle acque internazionali di competenza maltese, sono stati “ricondotti” in Libia (paese, tra l’altro, non aderente ai trattati internazionali sui rifugiati) e senza neanche un’adeguata valutazione della loro possibile necessità di protezione internazionale. Anche se non sono disponibili informazioni sulle nazionalità dei 230 migranti – ha specificato con una nota l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite – nell’anno 2008 circa il 75% delle persone che sono giunte in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e, al 50% di costoro, è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale perché ne avevano il diritto. Solo sulla base di questi dati è leggittimo ipotizzare percentuali simili tra quelle 230 persone riaccompagnate in Libia con la “nuova linea” del Governo Italiano e del suo Ministro degli Interni Maroni. Non solo gente in fuga dalla miseria e in cerca, legittima, di una vita migliore, ma anche perseguitati politici in fuga dal loro paese. Persone che possono essere individuati e uccisi. Non basta nascere per esistere, è necessario avere una cittadinanza. Non ci sono diritti dell’uomo in quanto tale? Abbiamo o non abbiamo diritti, non perché siamo esseri umani, persone, ma perché cittadini, perché abbiamo passaporti di una certa nazione dove abbiamo avuto fortuna di nascere. E se dovesse tornare ad inaridirsi di nuovo anche la nostra di terra?

L’appello dello scorso 7 maggio rivolto alle autorità italiane e maltesi da Antònio Guterres, Alto Commissario per i rifugiati, era chiaro: “assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale, il pieno accesso al territorio e alla procedura d’asilo nell’Unione europea”. Invece no, l’appello è rimasto inascoltato e ha vinto l’Europa dei dei Governi Nazionali: le 230 persone sono state “riaccompagnate” in Libia dalle nostre motovedette “guidate” da Maroni. Perché loro, ha dichiarato il Presidente del Consiglio, “non sono come la sinistra, non sono per un’Italia multietnica”. Un radicale mutamento delle politiche migratorie del Governo italiano che ha fatto indignare non soltanto l’Alto Commissario per i Rifugiati ma anche la chiesa Cattolica e tutti coloro memori che emigranti lo eravamo pure noi.

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