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Stefano Cucchi: “ingiustizia” è fatta. Colpevoli solo i medici, pena sospesa

tortura3Condannati solo i medici per omicidio colposo. Assolti i tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria. Stefano era stato arrestato per droga il 15 ottobre del 2009 e, dopo una settimana, era morto nelle mani dello Stato, presso il presidio ospedaliero protetto (sic!) Sandro Pertini, che lo aveva preso in consegna dopo essere stato in carcere a Regina Coeli. Per questo fa discutere la sentenza della III Corte d’Assise di Roma di ieri che sembra aver sposato la maxi-perizia del dicembre scorso per la quale Stefano sarebbe morto per l’“inanizione” colposa dei medici. Tra il pubblico, spiega la redazione de il fatto quotidiano, al momento della sentenza c’è chi grida “Vergogna”, “assassini” indirizzati al banco degli imputati.

Stefano Cucchi
Stefano Cucchi – Foto: crmmedia.com

Ma chi l’aveva ridotto così la sentenza non lo spiega! Ilaria Cucchi parla di una non sentenza che, appunto, non spiega come Stefano possa essere entrato sano ed essere uscito morto. In aula la sorella di Stefano, Ilaria in lacrime parla di “Giustizia ingiusta”. Dopo 4 anni la sentenza di primo grado non piace alla famiglia e neanche al pm che si dichiara “insoddisfatto” dalla sentenza. Nel 2009, Giovanni Cucchi e la famiglia chiedevano spiegazioni: “Vogliamo sapere perché – alla richiesta precisa di Stefano – non è stato chiamato, dai militari la sera dell’arresto, il suo avvocato di fiducia, vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come è stato possibile che abbia subito le lesioni … “. A quella richiesta del padre di Stefano esplicitata durante la conferenza stampa del 29 ottobre del 2009 si era associata anche la nostra redazione. Molte domande rimangono senza spiegazioni. Soprattutto una: come si fa ad essere ad essere presi in consegna dallo Stato e morire ridotti così? A questo link l’inchiesta amministrativa del DAP che l’allora On.le Rita Bernardini (Radicali Italiani eletta col PD) aveva reso pubblica.

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Per Stefano Cucchi spiragli di verità

di Giuseppe Candido

Dopo le perizie medico-legali della procura che iniziarono a delineare i primi lembi di verità su ciò che avvenne davvero al povero Cucchi oggi c’è la notizia di una prima condanna con rito abbreviato e 12 rinvii a giudizio per altrettante persone coinvolte a vario titolo in quella triste vicenda.

Qualcuno, in un primo momento, arrivò ad affermare che Stefano era “morto perché era un tossico dipendente malato”. Quasi questo fosse perciò tollerabile anziché ancor di più insopportabile. Ma quei segni che Cucchi riportava evidenti sul suo corpo abusato, e che hanno potuto far rabbrividire perché fecero il giro del mondo, non lasciavano davvero dubbi. Oggi sappiamo che Stefano Cucchi, secondo il pubblico ministero, fu picchiato e non, invece, curato come avrebbe dovuto esserlo proprio perché “malato” che fu “affidato in detenzione” nelle mani dello Stato. Almeno secondo quanto scritto nella nostra Carta costituzionale che la pena non può mai consistere in trattamenti disumani e violenze.

Ma la legge fu violata, stracciata come carta becera la nostra Costituzione. E per questo che saranno processate 12 persone, tra agenti di polizia penitenziaria, medici e infermieri. Intanto un funzionario del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è stato già condannato a due anni con giudizio abbreviato. E proprio su questo argomento, il giornalista Gianfranco Palazzolo ha intervistato per i microfoni di Radio Radicale, l’Onorevole Rita Bernardini che, della vicenda Cucchi si è occupata sin da subito per chiedere che si facessero verità e giustizia. “Io ritengo che questa vicenda”, afferma la deputata radicale eletta nel PD, “sia andata avanti e stia trovando degli spiragli di verità e di giustizia proprio per il coraggio, che ha avuto la famiglia di Stefano, di uscire subito allo scoperto mostrando quelle foto che inequivocabilmente dimostrano che Stefano Cucchi è stato ammazzato. Non giriamoci intorno: il ragazzo è stato più volte picchiato”. E ancora: “Lo squarcio di verità che c’è stato sulla vicenda Cucchi, se non terminerà l’attenzione dei mass-media in generale e quindi anche dell’opinione pubblica, credo che potrà portare solamente a far emergere la verità”.

Qualche lembo di verità comincia quindi ad intravedersi ma la cosa grave è che le accuse siano quelle relative alle mancate cure e non già quello di omicidio preterintenzionale o colposo. Per cui rimangono ancora valide le richieste della famiglia: “Vogliamo sapere perché” – chiedeva Giovanni Cucchi durante una conferenza stampa – “alla richiesta precisa di Stefano, la sera dell’arresto non è stato chiamato dai militari, il suo avvocato di fiducia; vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come è stato possibile che abbia subito le lesioni; vogliamo sapere chi glie le ha prodotte e quando; vogliamo sapere, dalle strutture carcerarie, perché non c’è stato consentito il colloquio con i medici; vogliamo sapere, dalle strutture sanitarie, perché non gli sono state effettuate le cure mediche necessarie, vogliamo sapere, (sempre) dalle strutture sanitarie, perché sia stata consentita, in sei giorni di ricovero, una tale debilitazione fisica, vogliamo sapere perché è stato lasciato in solitudine senza un conforto morale e religioso, vogliamo sapere, infine, la natura e le circostanze precise della morte, vorremmo sapere altresì, se ci sono motivi validi di tale accanimento su una giovane vita. Immaginiamo che una famiglia distrutta dal dolore per la morte atroce del proprio figlio di, trentuno anni, abbia il diritto di urlare con tutte le sue forze, per chiederne conto”. Richieste che rimangono legittimamente ancora attuali e che è giusto, perciò, ricordare e riproporre all’attenzione.

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Stefano Cucchi, a distanza di un anno ancora poche verità

di Giuseppe Candido

Stefano Cucchi stato ucciso un anno fa. Un manifesto lo ricorda su internet con un scritta agghiacciante: assassinato dallo Stato. Un anno ci separa dalla notte del 15 ottobre 2009 quando Stefano venne fermato, arrestato e picchiato. Strappato all’affetto di quelli che lo amano da una giustizia troppo ingiusta che lo restituire senza vita dopo 7 giorni, il 22 ottobre 2009. Giovanni Cucchi, il papà di Stefano, durante la conferenza stampa in cui venivano date alla stampa le foto e la notizia, chiedeva “Vogliamo sapere perché alla richiesta precisa di Stefano non stato chiamato, dai militari la sera dell’arresto, il suo avvocato di fiducia, vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come stato possibile che abbia subito le lesioni, vogliamo sapere chi glie le ha prodotte e quando, vogliamo sapere dalle strutture carcerarie perché non c’è stato consentito il colloquio con i medici, vogliamo sapere, dalle strutture sanitarie, perché non gli sono state effettuate le cure mediche necessarie, vogliamo sapere, (sempre) dalle strutture sanitarie, perché sia stata consentita, in sei giorni di ricovero, una tale debilitazione fisica, vogliamo sapere perché è stato lasciato in solitudine senza un conforto morale e religioso, vogliamo sapere, infine, la natura e le circostanze precise della morte, vorremmo sapere altresì se ci sono motivi validi di tale accanimento su una giovane vita. Immaginiamo che una famiglia distrutta dal dolore per la morte atroce del proprio figlio di, trentuno anni, abbia il diritto di urlare con tutte le sue forze, per chiederne conto”.

Ma, a distanza di un anno, le risposte a queste domande ancora non ci sono. La giustizia ha tempi lunghi. La storia di Stefano e le immagini del corpo rese pubbliche in quella conferenza stampa colpirono l’Italia tutta suscitando sconcerto, indignazione e rabbia. Rabbia per la morte di un giovane, ma non solo. Le dichiarazioni di parte della politica giustificarono quello che era accaduto ricercando nella vita privata di Stefano e della sua famiglia i pretesti morali per giustificare la barbarie. Quello che accaduto a Stefano rappresenta lo spaccato di un paese dove troppo spesso la dignità degli esseri umani viene sacrificata in nome del giudizio morale, della punizione esemplare, della sicurezza. Ma Stefano no il solo. Qualcuno propone addirittura un’associazione Nazionale per chiedere verite giustizia per le vittime delle forze dell’ordine. Per chiedere giustizia e verità della morte di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Gabriele Sandri, Carlo Giuliani e molti, troppi altri ancora. Il 5 ottobre ripartito il processo sulla vicenda di Stefano che vede alla sbarra un intero sistema costruito su abusi di poteri, negligenze, violenza, menzogne. Oggi invece c’è bisogno di verità. E c’è bisogno di verità su quello che nelle carceri continua ad avvenire. La pena alla morte e i suicidi di liberazione da un trattamento anticostituzionale e disumano. Dopo il bluff del ddl svuota carceri, le carceri illegali, anticostituzionali, continuano a causare maltrattamenti, torture e morte. Lultimo suicidio avvenuto nel carcere di Reggio Calabria dove, lo scorso 23 settembre, Bruno si tolto la vita impiccandosi nel bagno della cella. Aveva 23 anni ed il 49mo detenuto suicida in carcere dall’inizio dell’anno. Forse, come ci ricorda Voltaire, anche su questo si misura la civiltà di un paese e non sufficiente ricordarsene solo a ferragosto.

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Abbandonato? Non è omicidio quello di Cucchi?

di Giuseppe Candido

“Se davvero ci si abitua ad avere dentro di sé – come orizzonte – la morte, a questo punto poi la si crea e la si produce”. E’ il caso dell’emergenza delle carceri coi suicidi di disperazione ed è il caso Cucchi pestato e morto perché abbandonato dallo stesso Stato che ne avrebbe dovuto tutelare l’incolumità.

Le perizie medico-legali della procura su Stefano, geometra di 31 anni, morto in carcere sette mesi fa dopo essere stato arrestato, si sarebbe potuto salvare. Il pool di medici legali nominati dalla procura a fare l’autopsia, coordinati dal professor Paolo Arbarello, sono certi che, tra le cause della morte del ragazzo, ci siano anche “le accertate negligenze dei medici dell’ospedale Sandro Pertini” che, secondo quanto emerge, non si sarebbero resi conto della gravità della situazione del malato. Sarebbe stato sufficiente, per salvarlo, dargli un bicchiere d’acqua e zucchero. Ma se le accuse per i medici dell’ospedale Pertini si sono fatte più pesanti perché c’è l’aggravante di “abbandono di incapace”, per coloro che materialmente lo pestarono nel bunker del tribunale l’accusa viene invece declassata a quella semplice di “lesioni” anche se aggravate perché commesse da un pubblico ufficiale. Ma senza quel pestaggio Stefano Cucchi non sarebbe mai stato ricoverato in ospedale dove poi è stato lasciato morire. Senza quel pestaggio, ha affermato la madre Rita in un’intervista, al Pertini Stefano non ci sarebbe mai arrivato: “le foto le hanno viste tutti. Stefano stava bene, camminava sulle sue gambe, non aveva una patologia particolare”.

E mentre le carceri italiane sono stracolme in una situazione di disumanità peggio che nel ventennio, sappiamo ora che, anche la sanità carceraria, ne abbiamo certezza, è al di sotto della soglia di umanità. Un decesso, quello di Cucchi, chiaramente correlato all’entità dei traumi subiti dagli agenti che lo avevano in custodia: “La morte di Stefano Cucchi – è quanto sintetizza i risultati della perizia – è addebitabile a un quadro di edema polmonare acuto da insufficienza cardiaca in soggetto con bradicardia giunzionale intimamente correlata all’evento traumatico occorso ed alla immobilizzazione susseguente al trauma”.

Stefano è stato pestato a morte mentre era affidato nelle mani dello Stato e i medici, pubblici ufficiali, si sono resi complici di questa triste vicenda. L’omicidio colposo di Stefano Cucchi cancellato dai capi di accusa, per Marco Pannella intervenuto sulla vicenda dai microfoni di Radio Radicale, è invece stato un vero e proprio “omicidio preterintenzionale”. Le associazioni che hanno seguito, assieme ai familiari, la vicenda affermano che si è ignorato il rapporto di casualità ed effetto. Cucchi venne ricoverato al Pertini dove fu abbandonato alla morte proprio perché aveva subito il pestaggio.

Tutti parlano di traumi ma Luigi Manconi lo ha detto pure lui chiaramente: “Stefano è stato pestato”. “Violenze documentate, riconosciute, certificate, e sono queste violenze che hanno portato Stefano in quel luogo dove non è stato curato”.

Sin dal primo momento Pannella lo aveva intuito – quando si era detto che Cucchi aveva fatto lo sciopero della fame e della sete per avere il suo avvocato di fiducia e adesso sappiamo, dalle perizie, che aveva la vescica piena. Aveva accettato di bere. Tutti sapevano che questo ragazzo poteva morire. Già dal primo giorno quello che c’è stato da parte di tutti coloro che lo hanno avuto in cura, secondo Pannella, è un riflesso: “Se questo si salva, racconta tutto quello che è successo, che lo hanno pestato”. Tutto questo però è davvero un segnale di una società che fa paura, che non rispetta la sua stessa legge, che vìola il patto che ci lega. Cucchi accetta di bere per non morire ma è proprio lo Stato ad abbandonarlo lasciandolo morire per un po’ di zucchero.

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Tragica verità sulla morte di Stefano Cucchi: “Omicidio preterintenzionale”

di Giuseppe Candido

Stefano Cucchi
Stefano Cucchi - Foto: crmmedia.com

Ora finalmente ci sono le perizie medico-legali della procura che iniziano a delineare la verità su ciò che è avvenuto al povero Cucchi dopo essere stato arrestato. Stefano, geometra di 31 anni, morto in carcere sette mesi fa dopo essere stato arrestato, si sarebbe potuto salvare. Il pool di medici legali nominati dalla procura a fare l’autopsia, coordinati dal professor Paolo Arbarello, sono certi che, tra le cause della morte del ragazzo, ci siano anche “le accertate negligenze dei medici dell’ospedale Sandro Pertini” che, secondo quanto emerge, non si sarebbero resi conto della gravità della situazione del malato. Vincenzo Barba e Francesca Loy, consulenti dei pubblici ministeri, vanno anche oltre e sostengono che la vittima è morta sia per disidratazione, sia per una serie di omissioni dei sanitari del nosocomio di via dei Monti Tiburtini. “Un trauma vertebrale a livello L3 – ha spiegato il professor Arbarello – risalente nel tempo e una a livello F4 recente. Lesioni recenti sono state evidenziate anche sul volto, su gambe e braccia, nulla legato invece a eventuali bruciature. Queste sono compatibili per aspetto morfologico, istologico e radiologico con una caduta podalica. Su ciò che abbia determinato questa caduta non spetta a noi determinarlo. Queste lesioni comunque sono del tutto indifferenti ai fini della morte”. Tuttavia le gravi negligenze dei medici del Pertini, non possono essere sufficienti, per i medici e i legali della famiglia, a spiegare quanto accaduto. Per i periti di parte “Stefano morì per i traumi”: Sono stati i traumi e le loro conseguenze a determinare quella catena di eventi che ha portato alla morte di Stefano Cucchi”. E’ quanto evidenziato dalla perizia disposta dalla famiglia e presentata in una conferenza stampa a Montecitorio, a cui hanno preso parte la sorella Ilaria, il presidente dell’associazione “A buon diritto” Luigi Manconi che sin dall’inizio ha seguito il caso e l’intero collegio difensivo. Un decesso chiaramente correlato all’entità dei traumi subiti: “La morte di Stefano Cucchi – è quanto si legge nel documento che sintetizza i risultati della perizia – è addebitabile a un quadro di edema polmonare acuto da insufficienza cardiaca in soggetto con bradicardia giunzionale intimamente correlata all’evento traumatico occorso ed alla immobilizzazione susseguente al trauma”.

Stefano è stato pestato a morte mentre era nelle mani dello Stato e i medici, pubblici ufficiali, si sono resi complici di questa triste vicenda. L’omicidio di Stefano Cucchi, per Marco Pannella intervenuto sulla vicenda domenica 11 dai microfoni di Radio Radicale, è stato un “omicidio preterintenzionale”. Tutti parlano di traumi ma Luigi Manconi lo ha detto pure lui chiaramente, nella sua battaglia prudente ma allo stesso tempo intransigente, che Stefano è stato “pestato”. “Dal primo giorno ho avuto – continua Pannella – il sospetto” quando si è detto che Cucchi aveva fatto lo sciopero della fame e della sete per avere il suo avvocato di fiducia e adesso sappiamo, dalle perizie, che aveva la vescica piena. A un certo punto Stefano ha accettato di bere abbondantemente. Tutti sapevano che questo ragazzo poteva morire. Già dal primo giorno quello che c’è stato è, secondo Pannella, un riflesso: “Se questo si salva, racconta tutto quello che è successo, che lo hanno pestato”. “Si può discutere tra ‘associati per delinquere’, con quantomeno l’omicidio preterintenzionale, ma è evidente che questa serie di reati omissivi, ivi compreso il silenzio, perché il silenzio di coloro che sanno è reat”. Un reato “Ritengo giusto esprimere il dubbio – anche con la sorella, con la famiglia – che lui abbia avuto un comportamento classico, esemplare. Dopo 24 ore in quelle condizioni, lui dice: “Io voglio l’avvocato di fiducia”, non glielo danno e per questo fa uno sciopero della fame e della sete. “Questo – continua Pannella – è un segnale di una società e di un ceto dirigente che fa paur”. Cucchi accetta di bere per non morire ma è lo Stato ad abbandonarlo. Perché, spiega ancora Pannella, “Quando ci si abitua ad avere dentro di sé – come orizzonte – la morte, a questo punto poi la si crea e la si produce”.

Appaiono quindi ancora valide le richieste del padre di Stefano, Giovanni Cucchi, che durante la conferenza stampa il 29 ottobre scorso chiedeva: “Vogliamo sapere perché – alla richiesta precisa di Stefano – non è stato chiamato, dai militari la sera dell’arresto, il suo avvocato di fiducia, vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come è stato possibile che abbia subito le lesioni, vogliamo sapere chi glie le ha prodotte e quando, vogliamo sapere dalle strutture carcerarie perché non c’è stato consentito il colloquio con i medici, vogliamo sapere, dalle strutture sanitarie, perché non gli sono state effettuate le cure mediche necessarie, vogliamo sapere, (sempre) dalle strutture sanitarie, perché sia stata consentita, in sei giorni di ricovero, una tale debilitazione fisica, vogliamo sapere perché è stato lasciato in solitudine senza un conforto morale e religioso, vogliamo sapere, infine, la natura e le circostanze precise della morte, vorremmo sapere altresì, se ci sono motivi validi di tale accanimento su una giovane vita. Immaginiamo che una famiglia distrutta dal dolore per la morte atroce del proprio figlio di, trentuno anni, abbia il diritto di urlare con tutte le sue forze, per chiederne conto”. Anche noi chiediamo di conoscere e non soltanto per il “diritto alla vita” troppo spesso vilipeso ma anche, e soprattutto, per la vita del diritto stesso.

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Stefano Cucchi, un caso su cui riflettere

di Mario Patrono (*)

Chianciano 13 nov. 2009. Il testo dell’intervento del Professor Mario Patrono a Chianciano sul caso del giovane Stefano Cucchi, in cui si ritrovano anche alcune rilevanti osservazioni sul mercato del lavoro nel Sud.

Cari compagni radicali, Cari compagni socialisti,

abbiamo oggi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni morto di morte violenta dopo essere “transitato” nelle celle di sicurezza di Piazzale Clodio.

Osservo di sfuggita, per chi non lo sapesse, che qui parliamo delle celle di sicurezza del Tribunale penale di Roma, parliamo cioè del luogo dove lo Stato garantisce per antonomasia il rispetto della legalità; e lo garantisce nei confronti di chiunque, privati cittadini e pubblici funzionari.

Abbiamo quindi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi.

Una è di immediata evidenza. Persiste in Italia una concezione autoritaria dello Stato, che usa il distacco e la prepotenza – e a buon bisogno usa anche la violenza – come strumento per esercitare il controllo sociale. Una concezione autoritaria dello Stato che non accenna a venir meno, malgrado siano trascorsi ben più di 60 anni dalla caduta del fascismo. Una concezione autoritaria dello Stato che sembra anzi essersi rafforzata in questi ultimi anni e mesi.

Questa concezione autoritaria dello Stato si manifesta in forma individuale e in forma sistemica. La morte violenta di Stefano Cucchi, quella altrettanto violenta di Federico Aldrovandi, che la rubrica “Un giorno in Pretura” ha fatto rivivere in questi giorni, e poi la registrazione avvenuta nel carcere di Castrogno a Teramo su pestaggi a detenuti come pratica di contenzione: <<…abbiamo rischiato la rivolta…non si può massacrare un detenuto…si massacra sotto…>>, sono esempi di uso illegale della forza in relazione a casi singoli. Un uso illegale della forza da parte di agenti e funzionari della Polizia, penitenziaria e non, selezionati male, addestrati male, educati male, controllati male, pagati peggio che male e comunque all’interno di una mentalità autoritaria dello Stato. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che accetta e consente l’interminabile durata delle procedure giudiziarie che significa disprezzo per i diritti dei cittadini. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che sopporta senza batter ciglio il fatto che dentro una cella di 3 metri per 2, cesso compreso, possano ammassarsi per mesi e per anni 7 detenuti i quali hanno a disposizione 2 sole ore di “aria” al giorno; e tutto ciò avviene, malgrado che l’articolo 27, III comma, della Costituzione proibisca perentoriamente quei trattamenti di pena che appaiono contrari al senso di umanità.

A livello sistemico cioè delle istituzioni pubbliche, la presenza nello Stato di un forte residuo autoritario si manifesta in modo particolare nella giustizia, nella burocrazia, nella dirigenza politica sotto il profilo del loro rapporto con i cittadini.

La prima evidenza di una concezione autoritaria dello Stato si manifesta nel campo della giustizia e segnatamente nel processo penale. La giustizia penale è diseguale. La diseguaglianza è di vario tipo. Per cominciare, l’accusa ha nel processo penale facoltà sconfinate rispetto a quelle di cui dispone la difesa. E questo ha un peso negativo in particolare per il cittadino economicamente debole, nei confronti del quale questa situazione di disparità è semplicemente insostenibile. Si pensi al processo accusatorio che si fonda spesso su perizie costosissime. L’accusa non paga le perizie, mentre il costo delle perizie finisce sempre e comunque sulle spalle della difesa, non importa se la sentenza dichiarerà alla fine l’imputato colpevole o innocente. Vi sono persone che per sostenere le spese relative alle perizie, si sono rovinate economicamente. In altre parole, l’accusa esercita poteri investigativi e processuali larghissimi, e nel contempo può disporre di risorse finanziarie illimitate e del cui uso in relazione ai singoli processi nessuno è chiamato a rispondere.

C’è poi il potere della pubblica accusa di “selezionare” l’esercizio dell’azione penale, che è un potere vastissimo ed esorbitante. Ancora. L’esercizio dell’azione penale non è contenuto entro tempi definiti, là dove la civiltà giuridica moderna – viceversa – impone che l’azione penale debba esercitarsi entro limiti di decadenza molto brevi. Non è possibile che il cittadino abbia sospesa sul collo la mannaia dell’accusa penale a tempo indeterminato.

Né vi è in Italia una regolazione precisa della facoltà dell’imputato di ricusare il giudice. Nei Paesi anglosassoni la possibilità di ricusare i membri della giuria popolare, dalla quale dipende il verdetto, è larghissima. Il giudice popolare può essere ricusato anche solo se ha notizie relative al processo. In Italia il giudice non è ricusabile a causa di un capovolgimento, operato dalla Corte costituzionale, dei valori da bilanciare in questa materia: si è posto l’articolo 21 della Costituzione, libertà di manifestazione del pensiero, al di sopra del diritto alla vita e alla libertà personale. All’evidenza, è vero il contrario: la libertà di non finire in galera e magari di non morirvi va considerata senz’altro prevalente, e di gran lunga, rispetto alla libertà del giudice come privato cittadino di manifestare pubblicamente apprezzamenti e giudizi nei confronti dell’imputato. Questo è ovvio.

Infine, non è garantita nel nostro Paese l’imparzialità del giudice e la sua alterità strutturale, e non solamente funzionale, di fronte all’accusa. Giudice e pubblico ministero sono entrambi magistrati dell’ordine giudiziario, svolgono la stessa carriera, sono tra loro “colleghi”. Questo non va bene. Al riguardo, nessun effetto sembra aver avuto finora la norma sul giusto processo, entrata a far parte della Costituzione nel 2001. La quale norma si è dovuta scontrare in questi anni con l’atteggiamento ultraconservatore della Corte costituzionale e che comunque ha avuto vita applicativa assai modesta.

Un altro aspetto dove si manifesta in Italia una concezione autoritaria dello Stato è nel rapporto burocrazia/cittadini. Vi è stata negli ultimi venti anni una crescita dimensionale della burocrazia, e vi è stata di pari passo una crescita nel numero degli alti burocrati i quali sono venuti di fatto assumendo un ruolo di decisori politici. Si è verificata cioè negli anni scorsi una crescita di potere politico della burocrazia nei confronti dell’autorità politica e partitica. A ciò si aggiunge la circostanza dello spoil system all’italiana, per cui ogni governo che approda a Palazzo Chigi si affretta a nominare con contratti “a termine” i dirigenti generali che retribuisce secondo criteri di larga discrezionalità.

Tutto ciò determina una forte disparità tra cittadino e burocrazia nella misura in cui il cittadino è posto di fronte ad un ceto che di fatto è irresponsabile. Non si può cioè nei loro confronti esercitare quel giudizio di responsabilità politica “diffusa”, teorizzato a suo tempo da Giuseppe Ugo Rescigno, per cui il cittadino al momento e per mezzo del voto riesce “a sfiduciare” il “cattivo” politico. Da questo punto di vista la burocrazia gode anzi della più totale inamovibilità, accompagnata da un crescente peso politico. E anche questo non va bene. Negli Stati Uniti, che qui assumo come termine di paragone, tutti i poteri pubblici sono elettivi e tutti rispondono quindi ad una logica democratica. Perfino la Corte suprema (un misto tra la nostra Corte di Cassazione e la nostra Corte costituzionale) è eletta su base democratica: dal Presidente in contraddittorio con il Senato. In Italia, vi sono poteri pubblici eletti accanto a poteri pubblici non eletti: e questi ultimi rispondono ad una logica loro tutta “interna”. È questa una delle grandi debolezze della democrazia italiana.

A completare il quadro vi sono poi gli scarsi poteri del cittadino rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative: perché le norme sulla trasparenza si bloccano di fronte alla discrezionalità del decidere cosa “ammettere” alla trasparenza, e cosa no. Ancora. Non c’è un regolamento sulle priorità e sui tempi delle varie procedure, e qui ha origine l’arbitrio della burocrazia che si alimenta della oscurità e della complessità della legislazione italiana, tessuta di rimandi e contro rimandi a commi e sottocommi di leggi e leggine di varia epoca.

Una terza evidenza della concezione autoritaria dello Stato chiama in causa la dirigenza politica. Questa tende in Italia a nascondersi in aree segrete disseminate da cartelli <<vietato l’ingresso>>. Raramente i frammenti della catena accessibili alla vista formano un sistema coeso con punti d’ingresso chiaramente contrassegnati.

Al contrario gli ostacoli a un efficace controllo a vasto raggio dei cittadini sono numerosi e molti di essi sono invalicabili.

In Paesi meglio civilizzati del nostro una funzione di vigilanza continua, penetrante e a vasto raggio sul potere pubblico e chi lo detiene è esercitata dai mezzi di informazione. In Italia, però, i grandi giornali, quelli che “fanno opinione”, sono nelle mani di potenti gruppi industriali variamente intrecciati alla dirigenza politica, o sono collegati direttamente a partiti politici. La televisione pubblica, la sola di cui merita di parlare, è lottizzata “a tappeto” dai partiti politici: i quali, rotti finalmente gli indugi, la usano ormai anche come strumento al fine di difendere, per interposta persona, gli interessi personali del loro leader: l’editoriale “in video” di Augusto Minzolini, direttore del Tg1, di lunedì scorso, non saprei definirlo in altro modo che come uno spot a favore di Berlusconi. Una cosa mai vista in un Paese di democrazia accettabile.

D’altra parte, il referendum abrogativo delle leggi, voluto dal Costituente quale tipico mezzo di controllo popolare sulle scelte legislative operate in Parlamento dalle dirigenze politiche, è stato ben presto soffocato e reso ormai quasi inservibile, a seguito dell’affermarsi dell’idea di sottrarre a <<plebisciti>> e a <<voti popolari>> quelle che sono state definite <<le complesse, inscindibili scelte politiche dei partiti>> (Corte cost., sent. n. 16 del 1978). Si aggiunga, dulcis in fundo, che la legge elettorale in vigore consente alle dirigenze politiche di designare uomini e donne che andranno a sedere in Parlamento accanto e allo stesso titolo dei rappresentanti eletti dai cittadini.

Tutto ciò significa che si è spezzato in Italia il rapporto, che sussiste in qualunque democrazia consolidata, tra alcuni elementi fisiologicamente correlati: rappresentanza, controllo, responsabilità e giudizio politico al momento del voto.

Una dirigenza politica che può contare sull’indifferenza o sulla non/interferenza dei cittadini è fuori di un sistema democratico.

Naturalmente la causa di questa debolezza della democrazia italiana deriva in ultima analisi dal fatto che in Italia non c’è il primato della società civile sullo Stato, non c’è il primato del cittadino sullo Stato, a cui si accompagna una insufficiente coscienza sociale dei propri diritti.

Sta di fatto che il degrado del costume democratico nel nostro Paese è ormai intollerabile. Suscita indignazione in ciascuno di noi.

La domanda di oggi è: cosa dobbiamo fare per rimettere in moto la democrazia italiana? Io penso che abbiamo tutti del lavoro da fare, del gran lavoro: nelle Università, nelle scuole, dovunque possiamo esercitare la nostra influenza. Ma sono fiducioso che riusciremo, attraverso una pedagogia “mirata”, a creare una svolta attitudinale verso la politica; che riusciremo a suscitare nei cittadini un’attenzione permanente nei confronti del potere pubblico e le sue modalità di esercizio. Bisogna che si formi a livello di coscienza collettiva l’idea dell’obbligo per le istituzioni pubbliche di dare conto nei dettagli ai cittadini del loro operato. A partire da un punto. Ciascuno di noi ha diritto di sapere l’uso che si fa del denaro pubblico. Di sapere se il denaro pubblico è stato speso bene; se è stato sperperato; se è stato illegalmente sottratto. L’uso del denaro pubblico deve diventare un uso trasparente. Io come contribuente ho il dovere di partecipare alle spese pubbliche. Ma io come contribuente ho il diritto di sapere come il mio denaro è stato speso dagli amministratori pubblici. Per qualunque istituzione pubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Camera dei Deputati al Senato, dalla Corte di Conti agli uffici giudiziari grandi e piccoli fino ai minimi enti pubblici, il contribuente ha il diritto di sapere la quantità di denaro che serve per pagare gli stipendi del personale interno e per procurarsi e gestire i mezzi con cui erogare i servizi. Perciò il contribuente ha il diritto di sapere, ad esempio, chi sono i fornitori di qualunque istituzione pubblica, dalle maggiori alle minori; a quale prezzo – in relazione al prezzo corrente di mercato – la singola istituzione pubblica paga le forniture che acquista o prende in uso; e chi gestisce per la singola istituzione pubblica l’acquisto e la dismissione dei beni di proprietà o in uso all’ente. Si dovrà arrivare a tanto, facendo cadere uno ad uno i tanti “segreti di Stato” che oggi coprono – legalmente o illegalmente – questa materia.

A quel punto, diventerà allora chiaro anche il diritto dei cittadini di saperne di più circa la vita privata degli amministratori pubblici. Se il presidente della Regione X ha le emorroidi, o è gay, o fa uso di sostanze stupefacenti, a me contribuente non interessa né deve interessare. Ma se quel presidente (dico cose a caso) subisce ricatti a causa delle sue peculiari abitudini, o se ha sul groppone debiti ingenti e riesce malgrado ciò a sostenerli; se possiede ville a Capri, yacht, terreni a Cortina d’Ampezzo o discoteche a San Babila, io contribuente ho il diritto sacrosanto di sapere quale è la fonte di quelle ricchezze: se i risparmi di una vita certosina, se lo zio d’America che lo ha lasciato unico erede dei suoi beni, se l’appropriazione indebita di denaro pubblico (e quindi anche del mio denaro), se la corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Questo i cittadini hanno il diritto di saperlo. L’appello alla privacy, che oggi si fa da parte di amministratori pubblici e che riempie i giornali e le trasmissioni televisive, altro non è che l’ultima trincea del tentativo di sottrarsi al controllo dei cittadini. Questa trincea dovrà finalmente essere abbattuta. Una concezione davvero liberale e democratica dello Stato e della politica non può consentirne la sopravvivenza.

Sono utili le riforme istituzionali per cambiare dal profondo questo stato di cose? Certo, lo sono senz’altro: a patto, naturalmente, che si tratti di riforme giuste cioè di riforme necessarie ed appropriate. A patto che si tratti di riforme che mettano il cittadino al centro della politica e costruiscano l’ordinamento dello Stato, e dell’Unione europea, e delle autonomie locali a misura del cittadino e dei suoi diritti, allo stesso modo di come il sarto confeziona l’abito sulla misura del cliente.

Tuttavia, prim’ancora di qualunque riforma del quadro istituzionale, la possibilità stessa di aprire un varco nella fortezza chiusa della politica è legata, secondo me, ad una riforma in senso democratico dei partiti politici. Aprire i partiti politici a libere discussioni e votazioni sull’intero territorio nazionale; rendere elettiva la scelta delle rappresentanze politiche a tutti i livelli di governo e in ogni sede istituzionale; trasformare i partiti politici in ciò che essi sono per loro stessa natura e cioè articolazioni del sociale. A me sembra che questa debba essere la prima delle riforme da fare. Questa riforma, è chiaro, non basta. Ma almeno sarebbe (per usare la memorabile frase di Winston Churchill) <<la fine dell’inizio>>.

Vi è poi almeno un’altra ragione per occuparsi del caso di Stefano Cucchi.

Hanno scritto i giornali che Stefano Cucchi era uno spacciatore, e come tale fu arrestato. Non ho elementi per sapere se ciò fosse vero, o no. Quello che so per certo è che la vita di Stefano Cucchi sarebbe stata diversa se egli avesse trovato sulla sua strada una chance di lavoro dignitoso. Questo vale per lui come vale per i tanti giovani che conducono una vita grama, come lo era per lui. Questo però pone il problema dei giovani e del loro accesso ad un mercato chiuso del lavoro, dove ormai il solo lasciapassare che conta è la “raccomandazione”. Questa è una piaga italiana. Lo è soprattutto al Sud, dove l’economia privata è variamente intrecciata con l’economia pubblica. Qui la raccomandazione è la risorsa indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Risulta così contraddetto uno dei principi base della civiltà moderna, vale a dire il diritto al lavoro. Il diritto al lavoro significa che chiunque può competere sul mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri. Questa condizione di parità nel Sud non esiste. C’è una specie di forca caudina che molti giovani devono passare per accedere ad un posto di lavoro. Si ha quindi una stortura rispetto alle regole della libera ed eguale competizione nel mondo del lavoro. Un principio di giustizia proclamato dalla Rivoluzione francese è quello che lo status di cittadino, che l’ingresso verso una carriera professionale non deve dipendere né dalla condizione sociale né da quella economica, ma solamente dalle capacità personali. Del resto, il sistema della “raccomandazione” non è soltanto ingiusto. Esso crea condizionamento, dipendenza; crea umiliazione. Negli esclusi, uccide la speranza di una vita migliore.

Questa situazione chiama in causa il ruolo dei sindacati. Negli ultimi anni i sindacati si limitano a tutelare i lavoratori e i pensionati. Cioè si limitano a tutelare il diritto di lavorare e di godersi la pensione dopo aver lavorato. Quello che i sindacati, per difetto di cultura e a causa della loro stessa struttura oligarchica, invece non fanno è la difesa del diritto dei giovani al lavoro cioè il loro diritto di accedere al lavoro. Anche qui, un grande passo avanti sarebbe quello di dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che i sindacati debbano avere <<un ordinamento interno a base democratica>>. Questo determinerebbe una svolta attitudinale dei sindacati nei confronti del lavoro. Il percorso su questa strada è però ancora lungo.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

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