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“I Radicali si trovano oggi a un bivio”

L’intervento di Mario Patrono al Comitato di Radicali Italiani

Bisogna guardarsi alla specchio e fare una scelta chiara: se assumere, nel campo della politica una posizione libertaria o di un liberalismo sensibile ai problemi sociali come avevamo fatto scegliendo la Rosa nel Pugno

I Radicali al bivio: “Un’alternativa è che i Radicali continuano ad essere un partito che agli occhi di molti si presenta ancora come un partito specializzato. Un partito che porta avanti battaglie decisive su casi limite di libertà calpestate le quali, però, sono battaglie avvertite da minoranze sensibili ma che non appaiono, spesso, battaglie di massa. Naturalmente questa immagine dei Radicali, presso l’opinione pubblica, tradisce la realtà di un partito che, battendosi in favore della legalità per migliorare le condizioni del vivere insieme nel nostro Paese, su base di libertà individuali e responsabilità personali e che vuole rigenerare una democrazia affetta dal cancro della degenerazione partitocratica, è un partito che porta avanti le tematiche più varie che tutte riguardano, quantomeno in astratto, la generalità dei cittadini. L’impegno per una riforma radicale delle istituzioni, va per l’appunto in questa stessa direzione. Se però. Il partito Radicale, pur conservando le sue preziose sensibilità, vuole diventare un partito che si candida davvero alla guida del Paese, un partito che davvero è capace di fornire un leader alla sinistra complessiva, allora il partito Radicale deve fare nuove riflessioni. Naturalmente vi sono dei compiti minimi dello Stato, dei poteri pubblici, della Repubblica, che sono, quantomeno in teoria, universalmente condivise. Svolgere bene questi compiti nella legalità, nella pulizia, con la dovuta efficienza, è un qualcosa di fondamentale. Vi sono poi altre cose che si possono fare o non fare, che si possono fare in un modo o in un altro modo, a seconda dell’opzione di fondo cui si faccia riferimento. Qui sta la riflessione da compiere. Bisogna guardarsi alla specchio e fare una scelta chiara: se assumere, nel campo della politica una posizione libertaria o di un liberalismo sensibile ai problemi sociali come avevamo fatto scegliendo la Rosa nel Pugno. Una scelta chiara cioè tra liberismo, per cui l’economia non si tocca e per cui, cioè, il potere pubblico l’economia la deve proteggere ma non vi deve intervenire e liberalismo laburista che, pur muovendo da un’idea di mercato e dalla sostanziale possibilità delle libertà economiche, ne vede anche i limiti quando il mercato non risolve i problemi o addirittura li crea. L’intervento pubblico può manifestarsi essenzialmente nel riformulare le regole. Dopo gli scritti illuminati di Crus, è ormai chiaro che l’intervento pubblico si fa anche, semplicemente, riformulando le regole in modo che esse consentano alla socialità del mercato. C’è bisogno, in altre parole, di una scelta di fondo. De resto, i Radicali ante litteram dei primi del ‘900 erano, se vogliamo, laburisti e non liberisti: Nathan fu il creatore delle case popolari. La socialità del mercato, se si volesse davvero fare la scelta di candidarsi alla guida della sinistra intera, trascinerebbe con se la necessità di allargare il campo delle tematiche alla riforma del welfare, del sistema creditizio e alla fiscalità di vantaggio, alla programmazione della ricerca scientifica di base, al governo dei conti pubblici in presenza di un controllo di gestione che sia sostenuto da strutture di base davvero indipendenti dal potere politico. Un controllo, è chiaro, che non potrà non avere serie ricadute sulla carriera dei funzionari destinati a maneggiare il denaro pubblico. Si tratta, come si vede, di scelte e riflessioni complesse. Si tratta, però, anche di scelte e riflessioni non eludibili.

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Migrazione, una sfida per la democrazia

di Mario Patrono (*)

Vorrei sviluppare il mio intervento su tre livelli in modo da passare dal primo, più generale, fino al terzo, particolarmente dedicato alla proposta che l’UE pervenga, da un lato, alla redazione di uno Statuto europeo dei diritti del non cittadino, e, dall’altro, a stabilire essa stessa i criteri per l’acquisto della cittadinanza europea da parte dei migranti.

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Fino a tempi non troppo remoti, la maggior parte dei movimenti transnazionali avveniva dai Paesi più sviluppati a quelli meno sviluppati. Nel corso dell’ultima parte del secolo scorso, invece, è iniziato un movimento contrario. Il primo movimento ha corrisposto al processo di colonizzazione, il secondo si riferisce invece a un contro-movimento che vede gli ex colonizzati muoversi verso i centri dai quali le passate colonizzazioni erano partite. Mi riferisco al fenomeno epocale delle migrazioni dai Paesi poveri verso le società ricche e democratiche.

Per la verità, si è anche avuta, nel ‘700, nel ‘800 e nei primi decenni del ‘900, una migrazione di massa di gente povera dai Paesi europei. Però, con una differenza. La migrazione dai Paesi europei si dirigeva verso territori sterminati e a bassissima densità abitativa: l’America del Nord, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Argentina e altri Paesi del Sud America. La migrazione dei giorni nostri ha invece determinato una inondazione sociale di enormi proporzioni su un’area geografica ristretta e densamente popolata. Questa inondazione, un vero cataclisma, rischia di determinare uno scontro durissimo tra popolazioni e tra interessi, uno scontro che mette sul banco di prova i valori etici che sono un patrimonio irrinunciabile della civiltà europea: il rispetto per la dignità di ogni essere umano, l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà verso i poveri e verso i bisognosi: non importa se uomini o donne, se bianchi o neri, se cristiani ebrei o islamici, non importa se nazionali o stranieri.

Non intendo proporre ricette né definire i principi che dovrebbero indicarci quando è giusto regolare più o meno severamente il flusso alle frontiere. Quello che mi sentirei di escludere, al riguardo, è che la soluzione di questo difficile problema possa consistere nella proposta- avanzata da alcuni esponenti del fondamentalismo liberale ( parlo di R. E. Goodwin, parlo di J.H. Carens) – secondo la quale se vogliamo davvero che gli abitanti dei Paesi più poveri abbiano una qualche possibilità di vita anche remotamente simile a quella degli abitanti dei Paesi più ricchi, allora la via più diretta consisterebbe nel concedere ai primi di trasferirsi liberamente nei Paesi dei secondi. Questa mi pare francamente una sciocchezza! La soluzione giusta a me pare un’altra e cioè che l’immigrazione andrebbe eliminata come problema grave per la semplice ragione che le cause dell’emigrazione dovrebbero scomparire. Dovrebbe cioè scomparire in una società globale “ragionevolmente giusta” l’ineguaglianza eccessiva della ricchezza nella sua distribuzione territoriale. Questa soluzione va perseguita “di concerto” dai popoli europei senza risparmio di energia e di denaro. Si tratta di un obiettivo vitale per il futuro dell’Occidente, un obiettivo che coincide del resto con l’interesse dei popoli poveri della Terra.

Certo, si tratta di un impegno di lunga durata. E nel frattempo?

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Nel frattempo occorrono politiche regolative del fenomeno migratorio. Gli obiettivi sono due: non travalicare la capienza del sistema economico dell’Unione europea; sviluppare un’azione di contrasto alla delinquenza straniera non meno che a quella nazionale.

Quando un governo europeo ( tedesco, francese, spagnolo e così via ) mette in cantiere una legislazione restrittiva del fenomeno migratorio, preferisce di solito mettere l’accento sul secondo obiettivo, lotta alla delinquenza, piuttosto che sul primo: impedimento all’ingresso di migranti che non hanno ma che cercano lavoro. La ragione è semplice: la delinquenza non solleva, nell’animo degli europei, problemi di coerenza rispetto ai principi etici della civiltà europea. La povera gente che vuole un lavoro onesto, si.

Parliamo allora di contrasto alla delinquenza. La mia tesi è: tra integrazione e delinquenza la relazione è strettissima. Una integrazione che funziona bene riduce la delinquenza; una integrazione che funziona male genera delinquenza. Il miglioramento delle strategie integrative costituisce lo strumento principale per combattere la criminalità straniera. Le norme repressive, sebbene anch’esse necessarie, sono uno strumento ausiliario.

Da questo punto di vista mi pare importante stabilire un criterio di metodo. Le strategie di integrazione non possono ripetere all’infinito lo stesso errore di cecità sociologica che è stato fatto sino a oggi. L’errore consiste nel non considerare le diversità che pure sussistono all’interno della massa degli immigrati, e spesso si tratta di diversità notevolissime. L’errore consiste, appunto, nel trattare gli immigrati come una massa indifferenziata senza studiare le diversità che tra di essi si registrano.

In altre parole, l’errore (che a mio giudizio è un errore madornale), l’errore che si commette è quello di applicare la stessa strategia di integrazione a gruppi sociali ben differenziati. A me sembra che la strada da battere possa e debba essere un’altra: una eguale integrazione, come risultato finale, richiede politiche di integrazione diverse per gruppi disomogenei. Gli sciiti, ad esempio, hanno comunque una cultura più aggressiva rispetto ai sunniti; gli immigrati provenienti dalle Filippine, la maggior parte dei quali è di fede cattolica, presentano una disponibilità all’integrazione molto alta, come molto alta è anche quella degli immigrati provenienti dallo Sri Lanka. Tra gli immigrati dell’India vi sono musulmani e vi sono indù, e le due comunità hanno caratteristiche molto diverse che non si possono trascurare. E potrei continuare. Voglio dire che l’atteggiamento verso il problema dell’integrazione visto come problema la cui soluzione debba essere eguale per tutti, è un atteggiamento sbagliato. Voglio dire, molto semplicemente, che il processo di integrazione deve seguire percorsi differenziati. Voglio dire anche che l’integrazione è un problema nazionale e una funzione pubblica della massima delicatezza, il cui esercizio non può essere dato in appalto alla Caritas, né ad altri soggetti privati, ma deve essere esercitato dallo Stato in prima persona. L’integrazione non ammette supplenze!

Vorrei a questo punto segnalare un secondo argomento di metodo che riguarda questa volta la criminalità straniera operante in Italia. Il nostro Paese sembra essere, tra gli Stati membri dell’UE, un polo di attrazione della delinquenza straniera: la quale va così a sommarsi alla strabocchevole delinquenza indigena, organizzata o disorganizzata che sia. Questo fatto, almeno in larga misura, dipende dalla circostanza che in Italia il diritto penale è “dolce”, per cosi dire: le condanne arrivano dopo anni, la certezza della pena è un bene prezioso che in Italia però non conosciamo, nel carcere si entra e esce, prescrizioni e decadenze si succedono ininterrotte. Adesso, sotto la pressione dell’ennesima emergenza ( l’Italia, lo sapete meglio di me, è il Paese dell’emergenze: personalmente, ho ricordo della emergenza casa, dell’emergenza terrorismo, della ciclica emergenza incendi boschivi, dell’emergenza corruzione della classe politica, dell’emergenza mafia a cui sono aggiunte la camorra, la ‘ndrangheta e altre consimili, dell’ emergenza spazzatura in Campania; ora siamo all’emergenza immigrazione) – ; sotto la spinta dell’ennesima emergenza, dicevo, il governo in carica si è deciso a varare una legislazione più restrittiva nei confronti della delinquenza straniera. Osservo. L’Italia è membro dell’UE. L’UE è un soggetto unitario. Questo significa che vale all’interno dell’UE il principio dei vasi comunicanti, quel principio cioè relativo al comportamento dei liquidi in un sistema di recipienti che comunicano tra di loro: se la pressione è uguale, il liquido si porta alla stessa altezza nei diversi recipienti; se la pressione è diversa, il livello del liquido si abbassa in un recipiente e si alza negli altri. Mi spiego. La legislazione dell’Italia diventa più severa. La delinquenza straniera emigra dall’Italia e va in altri Paesi europei. Il problema nel suo complesso non si risolve. Quando un altro Paese europeo farà la stessa cosa, la delinquenza emigrerà di nuovo e magari rientrerà in Italia. Si avrà una spirale al rialzo della repressione penale nei confronti degli stranieri che non può essere sostenuta a lungo da Paesi democratici. La strada giusta è un’altra. Occorre una legislazione unica per l’intero territorio dell’UE. Questa è la soluzione giusta, la sola possibile soluzione. Naturalmente, quando parlo di una legislazione unica in Europa, parlo anche di un unico criterio di applicazione di quella legislazione, parlo di analoga durata dei processi, parlo di una magistratura organizzata e che operi in modo analogo nei diversi Stati europei. Questo intendo per legislazione unica in Europa.

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Quando parlo di legislazione unica in tema di immigrazione per l’intero territorio dell’UE, mi riferisco alla necessità di pervenire alla redazione di un grande Patto di civiltà che contenga lo Statuto europeo dei diritti del non cittadino.

Il Patto va mirato all’obiettivo di scrivere regole europee per le condizioni di entrata e circolazione dei cittadini dei Paesi terzi nel territorio degli Stati membri, nonché per le condizioni del loro soggiorno. Del resto, già gli articoli 1 e 2 del Trattato di Amsterdam avevano sottratto la materia dell’immigrazione e dei visti d’ingresso alla mera cooperazione intergovernativa, elevandola a oggetto di politica e di formazione comuni. Il carattere europeo delle regole destinate a disciplinare il fenomeno migratorio impone di accettare l’idea che l’UE possa stabilire essa stessa i criteri per l’acquisto della cittadinanza europea. Questo significa che, mentre oggi la cittadinanza europea si limita a completare la cittadinanza nazionale, dalla quale dipende, un domani sarà la cittadinanza dello Stato membro a completare la cittadinanza europea, eventualmente aggiungendovi altre e più ricche garanzie.

Il Patto dovrà inoltre rispondere alle finalità dell’Unione europea, le quali consistono (dalla Dichiarazione di Copenaghen del 14 dicembre 1973, fino al Preambolo della Carta dei diritti fondamentali facente parte del Trattato di Lisbona e agli articoli 2 e 3 dello stesso Trattato) nell’osservare i <<principi della democrazia rappresentativa, il regno della legge, la giustizia sociale – finalizzata al progresso economico – e il rispetto dei diritti dell’Uomo che costituiscono gli elementi fondamentali dell’identità europea>>. Il mancato rispetto di un livello accettabile di garanzia dei diritti umani per i non cittadini è destinato inevitabilmente a provocare, nel corso degli anni, una serie di azioni e reazioni tali da offuscare l’immagine dell’Europa e da ferire la coscienza europea.

Il Patto di civiltà dovrà essere discusso e approvato non solo dall’insieme degli Stati membri dell’UE, ma anche dalle maggiori rappresentanze in Europa dei non cittadini. In tal modo, il Patto non avrà i caratteri di un diktat fatto piovere dall’alto sui migranti poveri, ma avrà il carattere di un atto voluto da coloro stessi che ne saranno i destinatari.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

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Stefano Cucchi, un caso su cui riflettere

di Mario Patrono (*)

Chianciano 13 nov. 2009. Il testo dell’intervento del Professor Mario Patrono a Chianciano sul caso del giovane Stefano Cucchi, in cui si ritrovano anche alcune rilevanti osservazioni sul mercato del lavoro nel Sud.

Cari compagni radicali, Cari compagni socialisti,

abbiamo oggi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni morto di morte violenta dopo essere “transitato” nelle celle di sicurezza di Piazzale Clodio.

Osservo di sfuggita, per chi non lo sapesse, che qui parliamo delle celle di sicurezza del Tribunale penale di Roma, parliamo cioè del luogo dove lo Stato garantisce per antonomasia il rispetto della legalità; e lo garantisce nei confronti di chiunque, privati cittadini e pubblici funzionari.

Abbiamo quindi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi.

Una è di immediata evidenza. Persiste in Italia una concezione autoritaria dello Stato, che usa il distacco e la prepotenza – e a buon bisogno usa anche la violenza – come strumento per esercitare il controllo sociale. Una concezione autoritaria dello Stato che non accenna a venir meno, malgrado siano trascorsi ben più di 60 anni dalla caduta del fascismo. Una concezione autoritaria dello Stato che sembra anzi essersi rafforzata in questi ultimi anni e mesi.

Questa concezione autoritaria dello Stato si manifesta in forma individuale e in forma sistemica. La morte violenta di Stefano Cucchi, quella altrettanto violenta di Federico Aldrovandi, che la rubrica “Un giorno in Pretura” ha fatto rivivere in questi giorni, e poi la registrazione avvenuta nel carcere di Castrogno a Teramo su pestaggi a detenuti come pratica di contenzione: <<…abbiamo rischiato la rivolta…non si può massacrare un detenuto…si massacra sotto…>>, sono esempi di uso illegale della forza in relazione a casi singoli. Un uso illegale della forza da parte di agenti e funzionari della Polizia, penitenziaria e non, selezionati male, addestrati male, educati male, controllati male, pagati peggio che male e comunque all’interno di una mentalità autoritaria dello Stato. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che accetta e consente l’interminabile durata delle procedure giudiziarie che significa disprezzo per i diritti dei cittadini. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che sopporta senza batter ciglio il fatto che dentro una cella di 3 metri per 2, cesso compreso, possano ammassarsi per mesi e per anni 7 detenuti i quali hanno a disposizione 2 sole ore di “aria” al giorno; e tutto ciò avviene, malgrado che l’articolo 27, III comma, della Costituzione proibisca perentoriamente quei trattamenti di pena che appaiono contrari al senso di umanità.

A livello sistemico cioè delle istituzioni pubbliche, la presenza nello Stato di un forte residuo autoritario si manifesta in modo particolare nella giustizia, nella burocrazia, nella dirigenza politica sotto il profilo del loro rapporto con i cittadini.

La prima evidenza di una concezione autoritaria dello Stato si manifesta nel campo della giustizia e segnatamente nel processo penale. La giustizia penale è diseguale. La diseguaglianza è di vario tipo. Per cominciare, l’accusa ha nel processo penale facoltà sconfinate rispetto a quelle di cui dispone la difesa. E questo ha un peso negativo in particolare per il cittadino economicamente debole, nei confronti del quale questa situazione di disparità è semplicemente insostenibile. Si pensi al processo accusatorio che si fonda spesso su perizie costosissime. L’accusa non paga le perizie, mentre il costo delle perizie finisce sempre e comunque sulle spalle della difesa, non importa se la sentenza dichiarerà alla fine l’imputato colpevole o innocente. Vi sono persone che per sostenere le spese relative alle perizie, si sono rovinate economicamente. In altre parole, l’accusa esercita poteri investigativi e processuali larghissimi, e nel contempo può disporre di risorse finanziarie illimitate e del cui uso in relazione ai singoli processi nessuno è chiamato a rispondere.

C’è poi il potere della pubblica accusa di “selezionare” l’esercizio dell’azione penale, che è un potere vastissimo ed esorbitante. Ancora. L’esercizio dell’azione penale non è contenuto entro tempi definiti, là dove la civiltà giuridica moderna – viceversa – impone che l’azione penale debba esercitarsi entro limiti di decadenza molto brevi. Non è possibile che il cittadino abbia sospesa sul collo la mannaia dell’accusa penale a tempo indeterminato.

Né vi è in Italia una regolazione precisa della facoltà dell’imputato di ricusare il giudice. Nei Paesi anglosassoni la possibilità di ricusare i membri della giuria popolare, dalla quale dipende il verdetto, è larghissima. Il giudice popolare può essere ricusato anche solo se ha notizie relative al processo. In Italia il giudice non è ricusabile a causa di un capovolgimento, operato dalla Corte costituzionale, dei valori da bilanciare in questa materia: si è posto l’articolo 21 della Costituzione, libertà di manifestazione del pensiero, al di sopra del diritto alla vita e alla libertà personale. All’evidenza, è vero il contrario: la libertà di non finire in galera e magari di non morirvi va considerata senz’altro prevalente, e di gran lunga, rispetto alla libertà del giudice come privato cittadino di manifestare pubblicamente apprezzamenti e giudizi nei confronti dell’imputato. Questo è ovvio.

Infine, non è garantita nel nostro Paese l’imparzialità del giudice e la sua alterità strutturale, e non solamente funzionale, di fronte all’accusa. Giudice e pubblico ministero sono entrambi magistrati dell’ordine giudiziario, svolgono la stessa carriera, sono tra loro “colleghi”. Questo non va bene. Al riguardo, nessun effetto sembra aver avuto finora la norma sul giusto processo, entrata a far parte della Costituzione nel 2001. La quale norma si è dovuta scontrare in questi anni con l’atteggiamento ultraconservatore della Corte costituzionale e che comunque ha avuto vita applicativa assai modesta.

Un altro aspetto dove si manifesta in Italia una concezione autoritaria dello Stato è nel rapporto burocrazia/cittadini. Vi è stata negli ultimi venti anni una crescita dimensionale della burocrazia, e vi è stata di pari passo una crescita nel numero degli alti burocrati i quali sono venuti di fatto assumendo un ruolo di decisori politici. Si è verificata cioè negli anni scorsi una crescita di potere politico della burocrazia nei confronti dell’autorità politica e partitica. A ciò si aggiunge la circostanza dello spoil system all’italiana, per cui ogni governo che approda a Palazzo Chigi si affretta a nominare con contratti “a termine” i dirigenti generali che retribuisce secondo criteri di larga discrezionalità.

Tutto ciò determina una forte disparità tra cittadino e burocrazia nella misura in cui il cittadino è posto di fronte ad un ceto che di fatto è irresponsabile. Non si può cioè nei loro confronti esercitare quel giudizio di responsabilità politica “diffusa”, teorizzato a suo tempo da Giuseppe Ugo Rescigno, per cui il cittadino al momento e per mezzo del voto riesce “a sfiduciare” il “cattivo” politico. Da questo punto di vista la burocrazia gode anzi della più totale inamovibilità, accompagnata da un crescente peso politico. E anche questo non va bene. Negli Stati Uniti, che qui assumo come termine di paragone, tutti i poteri pubblici sono elettivi e tutti rispondono quindi ad una logica democratica. Perfino la Corte suprema (un misto tra la nostra Corte di Cassazione e la nostra Corte costituzionale) è eletta su base democratica: dal Presidente in contraddittorio con il Senato. In Italia, vi sono poteri pubblici eletti accanto a poteri pubblici non eletti: e questi ultimi rispondono ad una logica loro tutta “interna”. È questa una delle grandi debolezze della democrazia italiana.

A completare il quadro vi sono poi gli scarsi poteri del cittadino rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative: perché le norme sulla trasparenza si bloccano di fronte alla discrezionalità del decidere cosa “ammettere” alla trasparenza, e cosa no. Ancora. Non c’è un regolamento sulle priorità e sui tempi delle varie procedure, e qui ha origine l’arbitrio della burocrazia che si alimenta della oscurità e della complessità della legislazione italiana, tessuta di rimandi e contro rimandi a commi e sottocommi di leggi e leggine di varia epoca.

Una terza evidenza della concezione autoritaria dello Stato chiama in causa la dirigenza politica. Questa tende in Italia a nascondersi in aree segrete disseminate da cartelli <<vietato l’ingresso>>. Raramente i frammenti della catena accessibili alla vista formano un sistema coeso con punti d’ingresso chiaramente contrassegnati.

Al contrario gli ostacoli a un efficace controllo a vasto raggio dei cittadini sono numerosi e molti di essi sono invalicabili.

In Paesi meglio civilizzati del nostro una funzione di vigilanza continua, penetrante e a vasto raggio sul potere pubblico e chi lo detiene è esercitata dai mezzi di informazione. In Italia, però, i grandi giornali, quelli che “fanno opinione”, sono nelle mani di potenti gruppi industriali variamente intrecciati alla dirigenza politica, o sono collegati direttamente a partiti politici. La televisione pubblica, la sola di cui merita di parlare, è lottizzata “a tappeto” dai partiti politici: i quali, rotti finalmente gli indugi, la usano ormai anche come strumento al fine di difendere, per interposta persona, gli interessi personali del loro leader: l’editoriale “in video” di Augusto Minzolini, direttore del Tg1, di lunedì scorso, non saprei definirlo in altro modo che come uno spot a favore di Berlusconi. Una cosa mai vista in un Paese di democrazia accettabile.

D’altra parte, il referendum abrogativo delle leggi, voluto dal Costituente quale tipico mezzo di controllo popolare sulle scelte legislative operate in Parlamento dalle dirigenze politiche, è stato ben presto soffocato e reso ormai quasi inservibile, a seguito dell’affermarsi dell’idea di sottrarre a <<plebisciti>> e a <<voti popolari>> quelle che sono state definite <<le complesse, inscindibili scelte politiche dei partiti>> (Corte cost., sent. n. 16 del 1978). Si aggiunga, dulcis in fundo, che la legge elettorale in vigore consente alle dirigenze politiche di designare uomini e donne che andranno a sedere in Parlamento accanto e allo stesso titolo dei rappresentanti eletti dai cittadini.

Tutto ciò significa che si è spezzato in Italia il rapporto, che sussiste in qualunque democrazia consolidata, tra alcuni elementi fisiologicamente correlati: rappresentanza, controllo, responsabilità e giudizio politico al momento del voto.

Una dirigenza politica che può contare sull’indifferenza o sulla non/interferenza dei cittadini è fuori di un sistema democratico.

Naturalmente la causa di questa debolezza della democrazia italiana deriva in ultima analisi dal fatto che in Italia non c’è il primato della società civile sullo Stato, non c’è il primato del cittadino sullo Stato, a cui si accompagna una insufficiente coscienza sociale dei propri diritti.

Sta di fatto che il degrado del costume democratico nel nostro Paese è ormai intollerabile. Suscita indignazione in ciascuno di noi.

La domanda di oggi è: cosa dobbiamo fare per rimettere in moto la democrazia italiana? Io penso che abbiamo tutti del lavoro da fare, del gran lavoro: nelle Università, nelle scuole, dovunque possiamo esercitare la nostra influenza. Ma sono fiducioso che riusciremo, attraverso una pedagogia “mirata”, a creare una svolta attitudinale verso la politica; che riusciremo a suscitare nei cittadini un’attenzione permanente nei confronti del potere pubblico e le sue modalità di esercizio. Bisogna che si formi a livello di coscienza collettiva l’idea dell’obbligo per le istituzioni pubbliche di dare conto nei dettagli ai cittadini del loro operato. A partire da un punto. Ciascuno di noi ha diritto di sapere l’uso che si fa del denaro pubblico. Di sapere se il denaro pubblico è stato speso bene; se è stato sperperato; se è stato illegalmente sottratto. L’uso del denaro pubblico deve diventare un uso trasparente. Io come contribuente ho il dovere di partecipare alle spese pubbliche. Ma io come contribuente ho il diritto di sapere come il mio denaro è stato speso dagli amministratori pubblici. Per qualunque istituzione pubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Camera dei Deputati al Senato, dalla Corte di Conti agli uffici giudiziari grandi e piccoli fino ai minimi enti pubblici, il contribuente ha il diritto di sapere la quantità di denaro che serve per pagare gli stipendi del personale interno e per procurarsi e gestire i mezzi con cui erogare i servizi. Perciò il contribuente ha il diritto di sapere, ad esempio, chi sono i fornitori di qualunque istituzione pubblica, dalle maggiori alle minori; a quale prezzo – in relazione al prezzo corrente di mercato – la singola istituzione pubblica paga le forniture che acquista o prende in uso; e chi gestisce per la singola istituzione pubblica l’acquisto e la dismissione dei beni di proprietà o in uso all’ente. Si dovrà arrivare a tanto, facendo cadere uno ad uno i tanti “segreti di Stato” che oggi coprono – legalmente o illegalmente – questa materia.

A quel punto, diventerà allora chiaro anche il diritto dei cittadini di saperne di più circa la vita privata degli amministratori pubblici. Se il presidente della Regione X ha le emorroidi, o è gay, o fa uso di sostanze stupefacenti, a me contribuente non interessa né deve interessare. Ma se quel presidente (dico cose a caso) subisce ricatti a causa delle sue peculiari abitudini, o se ha sul groppone debiti ingenti e riesce malgrado ciò a sostenerli; se possiede ville a Capri, yacht, terreni a Cortina d’Ampezzo o discoteche a San Babila, io contribuente ho il diritto sacrosanto di sapere quale è la fonte di quelle ricchezze: se i risparmi di una vita certosina, se lo zio d’America che lo ha lasciato unico erede dei suoi beni, se l’appropriazione indebita di denaro pubblico (e quindi anche del mio denaro), se la corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Questo i cittadini hanno il diritto di saperlo. L’appello alla privacy, che oggi si fa da parte di amministratori pubblici e che riempie i giornali e le trasmissioni televisive, altro non è che l’ultima trincea del tentativo di sottrarsi al controllo dei cittadini. Questa trincea dovrà finalmente essere abbattuta. Una concezione davvero liberale e democratica dello Stato e della politica non può consentirne la sopravvivenza.

Sono utili le riforme istituzionali per cambiare dal profondo questo stato di cose? Certo, lo sono senz’altro: a patto, naturalmente, che si tratti di riforme giuste cioè di riforme necessarie ed appropriate. A patto che si tratti di riforme che mettano il cittadino al centro della politica e costruiscano l’ordinamento dello Stato, e dell’Unione europea, e delle autonomie locali a misura del cittadino e dei suoi diritti, allo stesso modo di come il sarto confeziona l’abito sulla misura del cliente.

Tuttavia, prim’ancora di qualunque riforma del quadro istituzionale, la possibilità stessa di aprire un varco nella fortezza chiusa della politica è legata, secondo me, ad una riforma in senso democratico dei partiti politici. Aprire i partiti politici a libere discussioni e votazioni sull’intero territorio nazionale; rendere elettiva la scelta delle rappresentanze politiche a tutti i livelli di governo e in ogni sede istituzionale; trasformare i partiti politici in ciò che essi sono per loro stessa natura e cioè articolazioni del sociale. A me sembra che questa debba essere la prima delle riforme da fare. Questa riforma, è chiaro, non basta. Ma almeno sarebbe (per usare la memorabile frase di Winston Churchill) <<la fine dell’inizio>>.

Vi è poi almeno un’altra ragione per occuparsi del caso di Stefano Cucchi.

Hanno scritto i giornali che Stefano Cucchi era uno spacciatore, e come tale fu arrestato. Non ho elementi per sapere se ciò fosse vero, o no. Quello che so per certo è che la vita di Stefano Cucchi sarebbe stata diversa se egli avesse trovato sulla sua strada una chance di lavoro dignitoso. Questo vale per lui come vale per i tanti giovani che conducono una vita grama, come lo era per lui. Questo però pone il problema dei giovani e del loro accesso ad un mercato chiuso del lavoro, dove ormai il solo lasciapassare che conta è la “raccomandazione”. Questa è una piaga italiana. Lo è soprattutto al Sud, dove l’economia privata è variamente intrecciata con l’economia pubblica. Qui la raccomandazione è la risorsa indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Risulta così contraddetto uno dei principi base della civiltà moderna, vale a dire il diritto al lavoro. Il diritto al lavoro significa che chiunque può competere sul mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri. Questa condizione di parità nel Sud non esiste. C’è una specie di forca caudina che molti giovani devono passare per accedere ad un posto di lavoro. Si ha quindi una stortura rispetto alle regole della libera ed eguale competizione nel mondo del lavoro. Un principio di giustizia proclamato dalla Rivoluzione francese è quello che lo status di cittadino, che l’ingresso verso una carriera professionale non deve dipendere né dalla condizione sociale né da quella economica, ma solamente dalle capacità personali. Del resto, il sistema della “raccomandazione” non è soltanto ingiusto. Esso crea condizionamento, dipendenza; crea umiliazione. Negli esclusi, uccide la speranza di una vita migliore.

Questa situazione chiama in causa il ruolo dei sindacati. Negli ultimi anni i sindacati si limitano a tutelare i lavoratori e i pensionati. Cioè si limitano a tutelare il diritto di lavorare e di godersi la pensione dopo aver lavorato. Quello che i sindacati, per difetto di cultura e a causa della loro stessa struttura oligarchica, invece non fanno è la difesa del diritto dei giovani al lavoro cioè il loro diritto di accedere al lavoro. Anche qui, un grande passo avanti sarebbe quello di dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che i sindacati debbano avere <<un ordinamento interno a base democratica>>. Questo determinerebbe una svolta attitudinale dei sindacati nei confronti del lavoro. Il percorso su questa strada è però ancora lungo.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

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