Archivi tag: Il Garantista

Giustizia: mille carabinieri in piena notte circondarono il paese di Platì

di Ilario Ammendolia

Pubblicato su Cronache del Garantista, 14 aprile 2015

Fu un’operazione di guerra, si inventarono anche una città sotterranea, ma era un errore di stampa. Mamme strappate al bambini, un ragazzo handicappato trascinato via.

Le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di appello di Reggio Calabria l’altro ieri fanno definitivamente scoppiare come una bolla di sapone la “brillante” operazione “Marine”. Una Caporetto per il pm Nicola Gratteri. Ricordiamo i fatti: era l’alba del 12 novembre del 2003, quando scatta l’operazione “Marine” dedicata ai morti di Nassirya. Le truppe si muovono circondando un piccolo paese della Calabria: Platì! Sono un vero esercito. Si parla di mille uomini che avanzano protetti dalle tenebre verso l’Aspromonte. All’alba, l’assalto. Continua la lettura di Giustizia: mille carabinieri in piena notte circondarono il paese di Platì

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#Giustizia: Migliucci (Ucpi): pm e giornalisti distruggono il processo per compiacere l’Anm

Intervista di Enrico Novi a Beniamino Migliucci, presidente Unione Camere Penali italiane pubblicata su Cronache del Garantista, 5 aprile 2015

“È tornato il metodo inquisitorio, ma senza garanzie”. Beniamino Migliucci, Presidente dell’Unione Camere Penali, spiega come ormai tutto avvenga al di fuori dal Codice di procedura. Ma a che processo andiamo incontro? Ma siamo sicuri che vige ancora la riforma del processo accusatorio, quella introdotta nel 1988? O non siamo già tornati all’inquisitorio, a quel tipo di sistema processuale che potremmo chiamare inquisitorio inconscio?”. Continua la lettura di #Giustizia: Migliucci (Ucpi): pm e giornalisti distruggono il processo per compiacere l’Anm

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La cella numero zero, la pillola di Padre Pio e il diritto alla #conoscenza

Giuseppe Candido (pubblicato su Cronache del Garantista domenica 22 febbraio 2015)

Cella numero zero. La chiamano così a Poggioreale, la casa circondariale di Napoli tristemente nota per il suo atavico sovraffollamento che, in passato, ha superato il 178% raggiungendo presenze di tremila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.680 posti. Mura umide, ammuffite, luride di sangue. Finestre con le sbarre, finestre tenute sempre chiuse e, soprattuto, nessuna telecamera. Salvatore Esposito col suo documentari pubblicato dall’Internazionale – attraverso le testimonianze di numerosi ex detenuti del carcere partenopeo – ricostruisce una realtà agghiacciante, tragica e, allo stesso tempo, drammatica. Continua la lettura di La cella numero zero, la pillola di Padre Pio e il diritto alla #conoscenza

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#Syriza, i #Radicali e il progetto per abolire la miseria

Pubblicato su Cronache del Garantista, sabato 31 gennaio 2015

Mentre il Cardinale Angelo Bagnasco, in rappresentanza della Chiesa italiana, parla di “lama del disagio sociale” che, in Italia, “continua a tormentare moltissime famiglie che non arrivano da tempo alla fine del mese”, con la vittoria in Grecia di Syriza guidata da Alexis Tsipras scopriamo che in Europa è necessario creare più crescita e lavoro e che la soluzione a tali problemi deve essere una soluzione di tipo europeo se non si vuole che trionfino i populismi anti-europei più beceri. In tal senso c’è da essere d’accordo con l’analisi storica oltreché politica di Fausto Bertinotti pubblicata sulle Cronache del Garantista martedì 27 gennaio, nella quale si notava il fatto – inequivocabile – che quella di Tsipras è una vittoria di una sinistra nuova fondata non su alleanze basate sulla geografia politica, ma su di un programma chiaro, che nasce da un movimento dal basso provocato dal disagio e dai conflitti sociali subiti dal popolo greco in questi anni. Non un soggetto politico per essere più a sinistra di qualcos’altro. Nel nostro Paese, come nel resto d’Europa, non c’è certo necessità – fa bene Bertinotti a metter le mani avanti, lui che di rifondazioni se ne intende – di una “nuova sinistra” variamente e casualmente legata a quella di Tsipras, un ennesimo tentativo di rifondare non si sa bene cosa, né su quali basi. E sono d’accordo con Bertinotti quando sostiene che, in Italia, bisogna creare “un fronte di lotta concreto (e aggiungerei, unitario delle forze laiche) contro l’impoverimento e la devastazione sociale”. Continua la lettura di #Syriza, i #Radicali e il progetto per abolire la miseria

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Satyagraha dei @Radicali: anche in #Calabria il Garante dei detenuti

di Giuseppe Candido (pubblicato su Cronache del Garantista del 8/12/14)

Nella melma partitocratica del malaffare che emerge dalle indagini su Mafia Capitale, ultime dopo quelle di Expò e del Mose, c’è un’altra politica. Una politica altra da questa miseria che ci propone la cronaca.
Durante il mese di agosto siamo stati al carcere di Palmi per fare un sit-in a sostegno del Satyagraha di Rita Beranrdini (che era in sciopero della fame dal 30 giugno) e Marco Pannella (in sciopero anche della sete) per chiedere allo stato, di garantire nelle carceri il diritto alla salute, fermare la mattanza dei suicidi che nelle carceri avveniva e ancora avviene anche per la mancanza di cure psichiatriche adeguate, e fermare la tortura del 41 bis inflitta anche a pazienti come Bernardo Provenzano, incapace di intendere e di volere, indipendentemente dalle condizioni di salute.
Mentre la direzione nazionale antimafia da’ il suo parere negativo affinché al mafioso Bernardo Provenzano sia tolto dal regime del 41bis, come ricordava Domenico Letizia, segretario dell’associazione Radicale di Caserta “Legalità e Trasparenza”, dal 3 dicembre è nuovamente in corso (in realtà non è mai smesso) il Satyagraha, proposta nonviolenta mossa dall’amore e dalla forza della verità, della segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, di Marco Pannella e decine di altri radicali, tra cui anche chi scrive, con obiettivi ancora più precisi e che dalle pagine del Garantista ben sintetizzava Valter Vecellio: Sanità in carcere: garantire le cure ai detenuti; Immediata revoca del 41bis a Bernardo Provenzano; Introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura; Abolizione dell’ergastolo a sostegno della campagna di Nessuno Tocchi Caino; No alle deportazioni in corso dei detenuti dell’alta sicurezza; Diritto alla conoscenza: 1) conoscibilità e costante aggiornamento dei dati riguardanti le carceri 2) conoscibilità dei dati riguardanti i procedimenti penali pendenti; Rendere effettivi i risarcimenti ai detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti; Abolire la detenzione arbitraria e illegale del 41-bis; Nomina immediata del Garante Nazionale dei Detenuti; Per gli Stati Generali delle Carceri, preannunciati dal ministro della Giustizia, prevedere la presenza anche dei detenuti.
I Radicali, pochissimi che siamo, ci facciamo però forza dalla verità e cerchiamo di dare, come si dice, “anima e corpo” a una lotta per una giustizia giusta e per un carcere che non violi i diritti umani. Ci facciamo forza di ciò che ha scritto il Presidente Napolitano col suo messaggio alle Camere, e di ciò che ha detto Papa Francesco lo scorso 23 Ottobre all’Associazione Internazionale di diritto penale. E per questo non molliamo.
Chi scrive, militante del partito della nonviolenza che c’ha insegnato a praticare Marco, sin da questa estate, aveva aderito alla mobilitazione e, anche in questa fase di “rilancio” dell’iniziativa, ne sostiene ‘simbolicamente’, ma altrettanto convintamente le motivazioni facendo un giorno alla settimana di digiuno totale (il venerdì digiuno e autoriduco l’insulina perché diabetico); e continuerò a farlo, ad oltranza, fino a quando questa battaglia di civiltà non sarà stata portata, dai grandi media televisivi, alla conoscenza dei cittadini italiani come è giusto che avvenga in una democrazia. Questa è una lotta giusta, cui pure Papa Francesco ha dato coraggio riconoscendo a Pannella il suo impegno verso gli ultimi, dopo quel messaggio, quasi un saggio di diritto, inviato alle Camere da Napolitano secondo Costituzione.
Anche la regione Calabria vede la presenza di 12 strutture penitenziarie, spesso fatiscenti, al collasso, con carenze di organico e dove, come hanno dimostrato le numerose visite ispettive fatte in questi anni con Rita Bernardini, le condizioni spesso rasentano la tortura e il disumano senso. Basti ricordare ciò che, questa estate, l’On.le Enza Bruno Bossio ha scoperto al carcere di Rossano, per capire che – anche in questa regione – sarebbe necessario e urgente istituire il Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà. “Una situazione incredibile, drammatica, che” – disse in quell’occasione la deputata del Pd Enza Bruno Bossio uscendo dal carcere di Rossano – “non pensavo esistesse in un carcere italiano”. Invece come quelle ne esistono diverse, e spesso le condizioni inumane sono anche per chi nelle carceri ci lavora e cerca di rendere più giusta la pena. Penso al carcere nuovo di Arghillà a Reggio Calabria dove il 4 settembre abbiamo fatto una visita con Marco Pannella: nonostante la buona volontà della direttrice, e nonostante la ‘capienza regolamentare’ non superata sulla carta, in realtà presentava problemi di sovraffollamento in quanto un intero piano non veniva utilizzato per mancanza di organico.
Per questo, in attesa che sia nominato quello Nazionale, anche dalla Calabria, chiediamo l’aiuto del Garantista, così impegnato sui temi del diritto e della legalità (anche della pena) affinché al neo Presidente della Regione Mario Oliverio arrivi un messaggio semplice e diretto: i Radicali, anche in Calabria, chiedono d’istituire subito il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà. Richiesta che, contemporaneamente, estendiamo a tutti i Sindaci dei comuni calabresi sede di istituti penitenziari: anche loro possono istituire il Garante come del resto ha già fatto Reggio Calabria.

 

PS: Ringraziamo le Cronache del Garantista che ha pubblicato l’appello a pagina 20 lunedì 8 dicembre, per la festa dell’Immacolata.

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Proibizionismi #Radicali

di Giuseppe Candido
Leggo con piacere tra le pagine calabresi delle Cronache del Garantista un’interessante inchiesta di Simona Musco sulla marijuana e sugli effetti del proibizionismo rubricato come ‘canapa, l’oro verde’ e il cui titolo a quattro colonne non lascia dubbi: “Il proibizionismo ingrassa i clan: perché non cambiare?”.
Bella domanda! Anche perché non è certo di oggi, né di ieri l’altro. La proposta di legalizzare i consumi, specialmente quelli riferiti alle droghe leggere, è una proposta ultra trentennale dei Radicali e di Marco Pannella. E parliamo non già di liberalizzazione come qualche incauto giornalista spesso ci attribuisce, ma di legalizzazione che è cosa ben diversa. Non è un fatto di semantica. La droga è già libera di essere acquistata nelle piazze di tutta Italia. E la ‘ndrangheta, con qualche altra criminalità organizzata, festeggiano perché ne sono monopolisti.
La tesi dei Radicali, quella del fallimento del proibizionismo, è una tesi che ha acquistato, negli anni, sempre più numerosi e autorevoli sostenitori, fino ad arrivare, nel 2011, al rapporto della Commissione mondiale per le politiche sulle droghe dell’ONU in cui si parla chiarmente del fallimento del proibizionismo sia nel ridurre i consumi sia nel ridurre i traffici illegali da cui le criminalità organizzate di tutto il mondo traggono ingenti profitti.
“La guerra globale alla droga è fallita,” – scrivono i commissari – “con conseguenze devastanti per gli individui e le società di tutto il mondo”. E si aggiunge: “Cinquanta anni dopo la Convenzione Unica delle Nazioni Unite sugli Stupefacenti, e a 40 anni da quando il presidente Nixon lanciò la guerra alle droghe del governo americano, sono urgenti e necessarie riforme fondamentali nelle politiche di controllo delle droghe nazionali e mondiali”.
Tutto ciò è ancor più vero per la cannabis i cui usi legali, come pure ricorda l’inchiesta della Musco, sono assai molteplici. Si pensi alla cannabis terapeutica. Nonostante in Italia il ricorso alla marijuana per fini terapeutici sia legale dal 2007, e anche se alcune recenti leggi regionali ne hanno agevolato quest’uso, sono ancora tante le difficoltà che i pazienti hanno a reperire farmaci a base di cannabis. I dati del Ministero della salute parlano chiaro: nel 2013 sono state rilasciate poco più di duecento autorizzazioni all’importazione di medicinali a base di cannabis. Ma poiché ogni paziente è tenuto ad importare il farmaco per un dosaggio non superiore alle necessità di tre mesi di terapia, il dato dei 213 pazienti autorizzati dal Ministero va diviso per quattro. Si capisce che meno di 60 persone sono riuscite a ottenere il farmaco legalmente. Poiché trattasi di migliaia di persone malate, tutti gli altri evidentemente ricorrono al mercato illegale. Ma la cosa davvero esilarante è un’altra: cioè il fatto che, dall’Italia, l’erba la dobbiamo importare a costi stratosferici dall’Olanda. Nella Calabria delle infinite piantagioni sequestrate alla ‘ndrangheta, nella Calabria baciata dal sole dove, se per sbaglio ti fai una canna e ti cade un seme, l’erba cresce su da sola, non troviamo un posticino, un cantuccio, per coltivarla legalmente e venderla ai malati delle Regioni d’Italia? Sarebbe un modo per creare lavoro legale e sottrarre manovalanza alla ‘ndrangheta. No, una cultura proibizionista ormai radicata vuole che la importiamo dall’Olanda anche per fini terapeutici per cui, dal 2007, è legale.
Su questo tema, giustamente sollevato dalla Musco, bisognerebbe che, anche la politica calabrese aprisse, senza tabù, una discussione seria. Un confronto tra ragioni di chi è favorevole alla legalizzazione e di chi, invece, sostiene posizioni proibizioniste intransigenti.
Al fatto che qualcuno sostenga che, anche se si legalizzassero i consumi, le ‘ndrine venderebbero comunque a prezzi più bassi, sarebbe infatti facile rispondere che, non perché ci sono le sigarette di contrabbando si pensa minimamente di proibire la vendita dei tabacchi e che, nonostante faccia certamente più male alla salute l’alcol che la cannabis, nessuno pensa – neanche i proibizionisti più agguerriti alla Giovanardi – di ritornare agli anni ’30 del proibizionismo americano quando, con la vendita degli alcolici diventati illegali, Hal Capone e le sue bande criminali si erano ingrassate di dollari. Proprio come, oggi, il proibizionismo sulle droghe, anche quelle leggere, continua a far ingrossare le casse delle criminalità non solo calabre.
Non è un caso che Saviano, su l’Espresso di un anno fa, parlava chiaramente, anche lui, di fallimento delle politiche proibizioniste sulle droghe che hanno alimentato enormi introiti pure per le camorre campane. Anche lui, però, come la Musco, aveva dimenticato che in Italia un partito antiproibizionista che si batte per la legalizzazione c’è, e si chiama Partito Radicale.
Rita Bernardini, Laura Arconti e Marco Pannella – civilmente disobbedienti a una legge irragionevole che aveva equiparato la cannabis all’eroina e alla coca – hanno portato a termine pubblicamente – annunciandola con video e messaggi dalla radio radicale, una coltivazione di ben 18 piantine di marijuana il cui raccolto sarà gratuitamente ‘ceduto’ a malati che ne hanno diritto come cura. Trattasi – tecnicamente – di associazione per delinquere che, però, non viene arrestata stante la flagranza sia resa pubblica e con l’aggravante dell’associazione. Rita continua a postare su Facebook le foto delle sue piante illegali sperando di trovare ‘un giudice a Berlino’ che intervenga. Se a farlo fossero tre giovani calabresi, si sarebbero mossi persino gli elicotteri. Ma per loro, invece, nessuno fa niente. E i media consapevolmente li ignorano. Perché? Probabilmente perché non se ne vuole parlare pubblicamente, perché si preferisce non affrontare un dibattito cui sarebbero costretti dopo l’arresto di Marco Pannella, Rita e Laura. E forse perché, se mandassero Rita a spiegarlo in televisione romperebbero quel silenzio assordante, creato dai media su tutte le politiche dei Radicali. Mentre l’attualità politica è piena dei temi dell’agenda radicale, di noi non c’è traccia. Ad eccezione del Garantista, che rimane mosca bianca, gli altri giornali e telegiornali nazionali, sia quelli del servizio pubblico radiotelevisivo, sia quelli delle TV private nazionali, hanno una regola sola: vietato far parlare Pannella e i Radicali.

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Per la Calabria non bastano i soldi, serve una nuova classe dirigente

Giuseppe Candido
pubblicato su Cronache del Garantista sabato 12 luglio 2014

L’Italia è finita se non riesce a dare lavoro ai giovani, ha detto domenica 6 luglio, Giorgio Napolitano; mentre il Papa, il giorno prima, aveva detto che “tornare a casa senza portare lo stipendio, senza pane per la famiglia, annienta la dignità delle persone”.
Dalle colonne delle Cronache del Garantista, il direttore Sansonetti rilancia dicendo, in sostanza, che per la Calabria con la disoccupazione al 60% “sereve un nuovo piano Roosvelt”, un piano di investimenti per rilanciare la Regione e l’intero mezzogiorno perché, scrive Sansonetti, “l’Italia può agganciare la ripresa solo se parte dal Sud”. Il modo per affrontare “questo dramma”, scrive il giornalista, è quello di “varare un gigantesco piano di investimenti al Sud”, come quello americano degli anni ’30 messo in atto da Roosvelt: cinquecento miliardi per annullare il gap di infrastrutture tra Nord e Sud. Investire i soldi dello Stato per rilanciare l’impresa e l’economia. Verissimo. Ma sarebbe la stessa cosa per la Calabria e il Mezzogiorno?
La Calabria, nei prossimi anni, dovrà gestire e spendere, attraverso il POR 2014-2020, circa 11 miliardi di euro; il 50% dei fondi comunitari previsti per le cinque regioni Obiettivo1.

Soldi che, se ossero spesi bene, basterebbero a ricostruire la regione ex novo. Purtroppo, però, come tristemente ci dicono i dati ufficiali, il Sud spende, in media, soltanto la metà dei fondi europei a disposizione (il 48,3%, per la precisione) e, soprattutto, li spende male, in rivoli di progetti che spesso poco hanno di strutturale e di primario.
Di quasi due miliardi di euro del Programma Operativo Regionale (POR 2007-2013) relativi al “Fondo Europeo di Sviluppo Regionale” (FESR), in Calabria, a febbraio 2014, la spesa certificata era di 729 milioni di euro.

Lo scorso 17 marzo, l’On.le Giacomo Mancini, assessore al Bilancio della giunta Scopelliti dal 2010, ha tracciato un bilancio dei fondi 2007/2013 annunciando, guarda caso, di non voler più ripetere gli errori del passato.
Per questo, si leggeva sui quotidiani locali, sarà introdotto “un percorso di discontinuità nella programmazione dei fondi europei”.
Ecco, ciò che serve alla Calabria è un po’ di discontinuità col passato. Dopo aver governato ben quattro delle sette annualità del POR Calabria 2007-2013, quelcuno almeno si rende conto che c’è bisogno di discontinuità.
In effetti, il 14 luglio dell’estate scorsa, Enrico Marro e Valentina Santarpia, pubblicarono sul Corriere della Sera, proprio su questo tema dei fondi comunitari, un articolo dal titolo assai eloquente: “Fondi UE, l’Italia spende poco e male. Ora si rischia di perdere 5 miliardi”.
Si parlava di un tesoretto di trenta miliardi che, con questi chiari di luna, è allucinante che ancora non fosse stato speso in porgetti adeguati.

Alla data cui si riferiva l’articolo, secondo i giornalisti, c’erano “17 miliardi di euro di fondi europei assegnati all’Italia” ai quali si aggiungevano “13 miliardi di cofinanziamenti nazionali, per un totale appunto di 30 miliardi che possono, anzi debbono, essere spesi entro il dicembre 2015, altrimenti Bruxelles i soldi se li tiene e li dà a qualche Paese più sveglio”.
Tant’è che l’ex governo presieduto da Enrico Letta, in un primo momento, aveva persino pensato di dirottare quel tesoretto su lavoro e povertà.
Purtroppo, o forse per fortuna, quei soldi che ora si rischia di perdere, sono vincolati per “interventi strutturali” e non possono essere utilizzati per “tamponare la congiuntura economica”.
In pratica, i trenta miliardi di cui parlavano i due giornalisti sono ciò che restava dei 49,5 miliardi di fondi UE assegnati all’Italia per il settennato 2007/2013. “Entro quest’anno vanno tutti assegnati e poi c’è tempo fino al dicembre 2015 per spenderli”, scrivevano a chiare lettere.

Ma, – notavano ancora gli autori – “i 20 miliardi finora spesi hanno performance diverse”.
Il Centro-Nord, infatti, ha speso il 49% delle somme a sua disposizione mentre il Sud il 36%; e peggio della Calabria, riesce a fare solo la Campania che dei fondi a disposizione aveva speso il 30,3%.

E’ da questi numeri che appare evidente l’incapacità delle classi dirigenti del Mezzogiorno. Nell’inchiesta emergeva chiaramente in quali regioni si spendono male i soldi e, la Calabria, non spiccava in positivo, anzi.
Per fare solo “qualche esempio”, i giornalisti ricordavano come, “Tra fondi Ue e nazionali abbiamo già dovuto ridimensionare il miliardo disponibile per i cosiddetti «attrattori culturali» (progetti riguardanti arte e cultura) ancora una volta nelle tre regioni maglia nera (Calabria, Sicilia, Campania) con l’aggiunta della Puglia”.

E anche sul “come” i soldi europei finora sono stati spesi, c’è da notare che i tantissimi “micro progetti” finanziati nei più fantasiosi settori (9.994,70 euro per la «Giostra del castrato» di Longobucco (Cosenza) 2009; 7.600 euro la Festa dell’uva a Catanzaro del 2011; 14.026,50 euro per «Le conversazioni del Venerdì» a Vibo Valentia nel 2010), si scontrano, cozzano decisamente, con quella «concentrazione delle risorse su pochi obiettivi ritenuti prioritari», più volte invocata dall’ex commissario Hahn e che anche il semplice buon senso pretenderebbe.

In Calabria avremmo straordinari obiettivi prioritari da centrare: in primis, la situazione dei rifiuti, che vede ancora la regione, dopo 15 anni di commissariamento dal ’97 al 2013 e un’emergenza mai finita, una regione priva di impianti idonei a produrre cdr, priva di discariche di servizio per detti impianti perché stracolme e con una raccolta differenziata, salvo poche eccezioni, assolutamente inadeguata. Altro obbiettivo “prioritario” è sicuramente la bonifica dei tantissimi siti regionali inquinati (sono oltre 600) ma che non sono siti di interesse nazionale; tra gli obiettivi prioritari per questa regione sarebbero sicuramente da individuare il risanamento del dissesto idrogeologico e il monitoraggio delle aree a rischio frana e alluvione; e potremmo inserire persino un piano di adeguamento strutturale degli edifici pubblici ad alta vulnerabilità sismica censiti come tali già dal 1999 da uno studio di protezione civile rimasto lì. Di obbiettivi prioritari, la Calabria, ne ha sicuramente. Sono obbiettivi, tutti, in grado di innescare lavoro e occupazione.
Per la Calabria servirebbe un piano ecologico nazionale, di stampo post keynesiano, con interventi pubblici mirati, senza timore di far crescere il debito pubblico con politiche che non sarebbero affatto delle spese, non sarebbero sprechi, ma dei veri investimenti utili a risparmiare in ricostruzioni, in gestione dell’emergenza e, soprattuto, utili a evitare continue stragi di popoli. Un piano ecologico d’interventi pubblici che rilanci l’economia proprio attraverso quelle necessarie e urgenti opere di messa in sicurezza idrogeologica, sismica, vulcanica del territorio oltreché di bonifica ambientale. Il censimento della vulnerabilità sismica, realizzato con progetti di pubblica utilità, l’adeguamento antisismico o la rottamazione dei fabbricati “spazzatura” non in grado di resistere alle scosse; un piano nazionale di bonifiche dei siti inquinati dai rifiuti e un piano di fito-depurazione integrativa, potrebbero rappresentare proposte di svolta radicale nelle politiche ecologiche in Calabria, ma non solo.
La domanda quindi non è tanto il ‘come’ spenderli né ‘dove’ trovare i soldi, ma piuttosto: la classe politica e dirigente calabrese sarà in grado di fare meglio rispetto ai disastri finora combinati?
Perché, come cittadini, dovremmo fidarci proprio di coloro che, finora, quei problemi non solo non li hanno risolti, e con anni di gestione commissariale, li hanno persino aggravati?

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IL GIUSTIZIALISMO SERVE QUANDO MUOIONO GIUSTIZIA E STATO DI DIRITTO

di Giuseppe Candido

L’On.le Angela Napoli, ex parlamentare PdL poi Futuro e Libertà, “alla luce degli ultimi fatti”, scrive testualmente su suo profilo di Facebook, si sente “molto preoccupata”. E cos’è che preoccupa l’Onorevole?

Per Angela Napoli,

 

Alcune sentenze delle Corti di Appello calabresi, le ultime sentenze della Cassazione su vicende giudiziarie calabresi e, anche se” – specifica “apparentemente sembrerebbe un’altra vicenda, l’uscita del quotidiano il Garantista, non possono che farmi pensare che sia in atto una forma di delegittimazione nei confronti di chi contrasta la ‘ndrangheta e le sue collusioni”.

Poi, intervistata da Davide Varì de il Garantista Calabria (pubblicata il 28 giugno 2014 su il Garantista a patina 4) aggiunge non solo di essere “giustizialista”, ma di pensare che “ogni forma di garantismo, almeno qui in Calabria, sia decisamente pericolosa”.

Beh io, invece, sono garantista. E anch’io, se volessimo dirla tutta, me ne vanto. Ma non credo che il problema sia questo: lo scontro tra giustizialisti e garantisti.
Il giustizialismo è necessario solo quando la Giustizia giusta fallisce e quando muore lo Stato di Diritto.

La giustizia nei confronti dell’individuo, fosse anche il più umile è tutto. Il resto viene dopo”, scriveva Gandhi.

Mentre Montesquieu, nei suoi aforismi, ricordava che “Giustizia ritardata è uguale a giustizia negata”. Ma andiamo con ordine.

Nessuno vuole essere minimamente tollerante coi mafiosi né con le famiglie di ‘ndrangheta, e nessuno pensa minimamente di delegittimare gli inquirenti che, nel silenzio, fanno il loro lavoro.

La giustizia muore, però, quando non arriva per tempo, oltre il diritto umano degli imputati ad avere un processo di durata ragionevole. Allora diventa necessario il giustizialismo e, conseguentemente, diventa regola la carcerazione preventiva perché si sa che non si arriverà a una sentenza definitiva di condanna. In quel caso viene addirittura la voglia di sospendere, come dice la Napoli “almeno qui in Calabria”, i diritti umani e i diritti costituzionali perché la Calabria è terra di ‘ndrangheta, terra di politica collusa e corrotta.
Il ministro Alfano, d’altronde, Ministro della Repubblica con un post si è letteralmente sostituito a una Corte d’Assise, a una Corte di Assise d’Appello e alla Cassazione: “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio”. Punto.
Ma la giustizia cessa di essere giusta anche quando le persone detenute, anche quelle che i reati li hanno realmente commessi, sono ristrette in condizioni inumane e degradanti, tali da violare i diritti umani sanciti dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni europee; quando lo stato vìola quei diritti che, almeno in teoria, dovrebbero essere inviolabili cessa la Giustizia e, per contro, cresce la voglia di giustizialismo.
Vorrei ricordare all’On.le Angela Napoli che se, da un lato, Papa Francesco a Cassano ha scomunicato senz’appello chi opera nel male e nelle consorterie criminali di ogni tipo, ha anche detto, altrettanto chiaramente, durante l’Angelus del giorno dopo, che la tortura, da chiunque essa sia fatta, è un peccato mortale. E, aggiungo io, che forse intendeva dire anche quando a farlo è lo Stato in violazione delle sue stesse leggi.
E la giustizia “giusta”, quella vicino ai cittadini, muore letteralmente, come fu per Enzo Tortora e come avviene oggi per i tanti casi “Tortora” meno noti, quando i magistrati inquirenti possono tranquillamente fare inchieste a tutto campo, senza poi neanche avere i risultati sperati, ma usare tranquillamente la propria popolarità acquisita con le inchieste come trampolino di lancio per una propria candidatura in elezioni politiche o europee che siano.
Ecco, personalmente credo che, non solo in Calabria, ma anche in tutte le edicole d’Italia sia necessario avere un giornale “garantista” e, magari, anche uno “giustizialista”, quando vengono a mancare Giustizia e Stato di Diritto. E quando i cittadini non possono conoscere queste cose. E un giornale garantista, comunque, fa dire la propria anche al più accanito sostenitore del giustizialismo.
“Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinché tu possa dirlo”, diceva saggiamente Voltaire, ricordandoci, però, che la civiltà di un Paese si misura proprio dalla civiltà delle sue prigioni.

Per completezza, di seguito riportiamo il post di Angela Napoli

 

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Papa Francesco e la riflessione appannata sulla Calabria

di Giuseppe Candido

Con l’editoriale pubblicato in forma di lettera a pagina tre dell’edizione calabra del Garantista di oggi, sabato 21 giugno, in occasione della visita di Papa in Calabria il direttore Piero Sansonetti chiede a Francesco di non credere a ciò che “Le diranno”.

Le diranno – scrive Sansonetti – che qui c’è un solo problema: la ‘ndrangheta, la malavita. Le faranno capire che il popolo calabrese, in fondo in fondo, è incline al delitto. Le spiegheranno – dice ancora Sansonetti rivolgendosi al Papa degli ultimi, – che la questione calabrese è una questione criminale” e che “Per risolverla servono poliziotti, giudici, carcere, manette, forse anche l’esercito”.

L’immaginazione di Sansonetti su ciò che avrebbero potuto raccontare al Papa e, conseguentemente, consigliargli di dire non sembrano discostarsi da ciò che deve essere poi stata la realtà.

La ‘ndrangheta – dice il Papa – è adorazione del male, i mafiosi non sono in comunione con Dio sono scomunicati”. Senza appello, senza possibilità di perdono né di redenzione.

A Cassano allo Jonio, una terra martoriata dalla guerra tra ‘ndrine”, è l’incipit di TMNews e rimarca che qui si è “aperto l’anno con la barbara uccisione di un bambino di 3 anni, Cocò Campolongo, ucciso insieme al nonno e alla sua compagna”.

Il Papa in Calabria scomunica i mafiosi” diventa, addirittura, il ritornello delle principali testate giornalistiche. E su questo ricamano di tutto e di più.

La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati”, sottolinea il Fatto Quotidiano.

Papa Francesco
Papa Francesco, foto Avvenire.it

Papa Francesco, infatti, dopo poche parole sul “perdono” che Gesù chiedeva e sul fatto di “accompagnare” il reinserimento sociale rivolte ai detenuti del carcere di Castrovillari, ha parlato poi di “’ndrangheta” e della piaga che attanaglia questa terra, come “adorazione del male e disprezzo del bene comune”.

E non ha parlato invece delle cose con le quali Sua Santità ha di fatto cambiato lo Stato Vaticano: cioè l’abolizione dell’ergastolo e l’introduzione, nel codice canonico, del reato di tortura; quelle torture che in Italia ci sono proprio nelle carceri e per le quali l’Europa ha condannato l’Italia nel gennaio 2013 proprio a causa dei trattamenti inumani e degradanti. Il Papa vicino agli ultimi che nella sua Argentina da Vescovo chiedeva perdono e invocava amnistia per i carcerati, per la Calabria criminale solo timide parole su Gesù e il perdono al carcere di Castrovillari, ma affondo e scomunica irrevocabile alla ‘ndrangheta.

Il pregiudizio creato dai media è forte e della visita di Francesco in Calabria resta in evidenza la “scomunica” di chi segue la ‘ndrangheta, senza alcun perdono possibile, e la politica così è salva, le responsabilità sono solo della ‘ndrangheta.

Ma la Calabria non è solo ‘ndrangheta, anzi. Tutto questo sia per Sansonetti sia per il sottoscritto è un grave pregiudizio: “i grandi mezzi di comunicazione e l’intellettualità del Nord hanno deciso così”.

La ‘ndrangheta qui è forte perché la povertà sociale è dilagata, è diventata miseria, miseria culturale e sottomissione del popolo ai “padroni”, ai detentori di potere dello Stato e delle Istituzioni rappresentative. Ma, in realtà, sono più d’una le ragioni condivisibili che si ritrovano nell’editoriale-lettera a Papa Francesco di Piero Sansonetti: mi riferisco a quando dice che la Calabria è povera perché le sue ricchezze le sono state portate via dal Nord, e mi riferisco pure a quando Sansonetti sostiene che in Calabria manca una classe dirigente e che, al suo posto, ci sono “padroni”, capi popolo, “che hanno accettato il predomino del Nord post unitario”.

Come ci ha ricordato il Prof. Antonio Carvello, docente di diritto di “organizzazione pubblica economica e società” presso l’Università degli Studi La Magna Grecia di Catanzaro, di una “Questione meridionale” propriamente detta se ne parla “dall’integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61”.

Già “all’inizio delle annessioni, nel momento in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l’intervento regio l’ipoteca politica della dittatura di Garibaldi”, – ricorda Carvello – “Cavour ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a prendere drammatica coscienza dell’esistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativamente, ma anche in termini sociali e morali”.

Aggiungendo che,

Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governativa diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l’alleanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terriera del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l’iniziativa dell’opera di propaganda e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illuministicamente riluttanti a chiudere gli occhi sui problemi che la bruciante realtà meridionale (brigantaggio, fame di terra da coltivare, arretratezza economica complessiva, agricoltura arcaica clientelismo diffuso, ecc .) proponeva.

Nel secondo dopoguerra si pone un nuovo meridionalismo, meno polemico e più propositivo rispetto ai “mali” antichi e nuovi del Mezzogiorno, che ha i suoi maggiori esponenti in Emilio Serni, Rosario Villari, Giuseppe Galasso, Francesco Compagna, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Mario Alicata, Augusto Graziani, ecc; intellettuali e politici di diverso orientamento, che hanno posto all’attenzione generale del paese il problema del Mezzogiorno come “questione nazionale”, nel senso cioè che sarebbe utopia parlare di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, impensabile senza una politica d’orientamento e indirizzo da parte dello Stato di fronte a quelli che ancora oggi sono i problemi irrisolti del Sud: la mancanza d’industrie, un’agricoltura non competitiva, la cementificazione delle coste, la debolezza organica delle istituzioni, esplodere della criminalità organizzata, la crescente disoccupazione giovanile, l’assistenzialismo sempre più diffuso, ecc.

In questi ultimi tempi si va sempre più “appannando” la riflessione sui problemi del Mezzogiorno: una riflessione, quindi, per nulla comparabile, quanto ad intensità ed eco, ai dibattiti svoltisi negli anni ’50-60, quando ci si spinse ad affermare l’esistenza di un “pensiero” e di una “cultura” non solo meridionali, ma “meridionalisti”. Sembra ora, per diversi aspetti che i problemi della parte meridionale ed insulare del Paese non siano più sentiti come una “questione nazionale”, salvo che in poche dichiarazioni ufficiali, tanto inevitabili quanto spesso formali ed inutili”.1

garibaldi webL’alleanza tra borghesia industriale del Nord e proprietà terriera del Sud si è oggi trasformata in convivenza tra partitocrazia leghista del Nord e partitocrazia pseudo democratica o pseudo liberale al Sud.

Cristo si è fermato a Eboli anche perché, noi del Sud non abbiamo ancora capito che “la Questione meridionale” – come scrisse il filosofo Norberto Bobbio – “è una questione dei meridionali”.

Per capire come sta, oggi, la Calabria non basta quindi sentire qualche Prefetto e scomunicare la ‘ndrangheta, non basta neanche estirparla con l’esercito. Farlo, ridurre a ciò tutti i problemi di questa magnifica terra, significa mantenere una riflessione “appannata”, debole, che non porta alla soluzione dei problemi che, in Calabria, vanno invece ben oltre la ‘ndrangheta.

Dovremmo ricordarci che, come giustamente nota pure Carvello, “Il Mezzogiorno in questi ultimi 40 anni ha subìto processi di profonda trasformazione”, ma nel senso che

Sono cresciuti i consumi e sono diminuite l’occupazione e la produttività; si vive o si tende a vivere con uno stile di consumo – e anche con una relativa possibilità – simile a quello delle altre parti del Paese, ma non attraverso un’autonoma produzione di ricchezza: i trasferimenti di risorse hanno accresciuto i consumi ed i redditi, ma non la produzione l’occupazione ed il risultato che si constata oggi é questo: un Sud no povero, ma più “dipendente” o, come l’ha definita qualche studioso, “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno”.

il brigante Vizzarro uccide il suo bambinoE in questo scenario l’illegalità è diventata regola, le Istituzioni si sono colluse a vicenda e si è smarrito lo Stato perché è venuto a mancare, appunto, lo Stato di diritto.

La Questione meridionale è è stata lasciata irrisolta dalla partitocrazia che dal bisogno, dalla miseria, dalla mancanza di libertà economica ha creato consenso, potere, e ha potuto alimentare clientele. I miliardi di vecchie lire della vecchia Cassa del Mezzogiorno e le centinaia di milioni di euro della Comunità europea sono andati sprecati.

Se non si tiene conto di questo, se si dimentica che le istituzioni rappresentative sono state occupate e piegate dai Partiti ai loro interessi, non se ne uscirà.

1 Carvello A., La “Questione meridionale”: dalle origini al dibattito contemporaneo, Abolire la miseria della Calabria, Anno V, Aprile-Dicembre 2011

 

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