Riceviamo e pubblichiamo volentieri la lettera di Alessandro Figliomeni, ex sindaco di Siderno detenuto in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Palmi
EMERGENZA PIANETA GIUSTIZIA-CARCERI:ANALISI E PROPOSTE
L’Italia sembra sempre di più un paese in preda ad una schizofrenia di massa, capace più di farsi del male, che promuovere il bene comune dei suoi cittadini, dove: le istituzioni quotidianamente si delegittimano fra loro, la politica è impanata in una palude stagnante e incapace di assumere decisioni, i cittadini perdono progressivamente fiducia nello Stato e il tutto è reso ancora più grave da una crisi economica che cresce ogni giorno di più. Senza voler entrare nelle problematiche generali che affliggono il paese, la cui risoluzione richiederebbe una vera e propria “Rivoluzione Copernicana”, intendiamo focalizzare la nostra attenzione sulla situazione relativa alla questione giustizia e carceri, cercando di evidenziare criticità e suggerire scelte migliorative, da un osservatorio privilegiato che ci consente, purtroppo, di osservare la questione dell’interno. Ormai è noto a tutti che la situazione del sistema di giustizia e di detenzione del nostro paese ha raggiunto un livello di inefficienza e degrado al limite del collasso. Oltre diecimila procedimenti, tra penale e civile, congestionano la nostra giustizia e oltre 65.000 detenuti, su 45.000 posti disponibili implodere i nostri 207 istituti penitenziari, con presenza diffusa di detenzione in condizioni disumane e degradanti, che la Corte Europea dei diritti dell’uomo equipara a tortura vera e propria. Il 27 Maggio 2014 scadrà il termine utile entro cui l’Italia dovrà ottemperare agli obblighi imposti recentemente dalla Corte di Strasburgo, pena il pagamento di ingentissime risorse per il ristoro dei danni provenienti dalla violazione dei diritti umani. In queste condizioni si richiedono urgenti e indifferibili provvedimenti da parte del nostro legislatore, bisogna portare il numero dei procedimenti ad un livello di compatibilità con le capacità del nostro sistema di giustizia e il numero dei detenuti ad un livello di compatibilità con le capacità del nostro sistema detentivo. Quotidianamente, nei vari tribunali Italiani, nella completa indifferenza ed ipocrisia delle istituzioni, migliaia di procedimenti si prescrivono senza assicurare giustizia ai cittadini. Il Governo il Parlamento e i poteri politici non possono più continuare a tenere la testa nascosta nella sabbia come lo struzzo, ma devono adoperarsi al più presto, facendosi carico delle responsabilità assegnate loro dalla costituzione, per accertare le cause che, nel corso degli anni, hanno prodotto tale grande situazione e, conseguentemente, porre in essere i necessari rimedi. Il permanere di questo stato di cose, oltre che minare la credibilità dell’Italia nel contesto internazionale, incide molto pesantemente nel già disastroso bilancio dello Stato per un importo annuo di alcuni miliardi di euro. Tutti ricordiamo che meno di un anno fa il Governo Letta è stato costretto ad aumentare l’aliquota IVA per reperire un miliardo di euro, necessario a far contenere il deficit del bilancio dello Stato nel limite del 3% del PIL. Mantenere nel carcere 20.000 detenuti in più costa allo Stato quasi 2 miliardi di euro. La popolazione penitenziaria registra circa 40.000 detenuti in custodia cautelare (senza una sentenza definitiva), di cui oltre 14.000 sono in attesa della sentenza di primo grado. Questo comporta che, quotidianamente, nei vari tribunali Italiani, dove si celebrano i processi, si assiste ad un continuo pendolarismo di detenuti tradotti e scortati dal carcere al tribunale e viceversa, con impegno di ingenti risorse economiche e umane. Considerato che i processi durano anni, avviene anche l’assurdo che quando tra una udienza e l’altra, intercorre un periodo superiore al mese, i detenuti vengono trasferiti nelle carceri di provenienza, dai quali vengono successivamente ritrasferiti, nel mese successivo, per partecipare ai processi. L’utilizzo del buon senso, dovrebbe indurre chi di competenza, a lasciare i detenuti presso gli istituti detentivi ubicati in prossimità dei tribunali per tutta la durata del processo , al termine del quale, in base all’esito, possono tornare in libertà o essere tradotti nei luoghi di destinazione. Altra causa di danno economico è costituita dall’eccessivo ricorso all’istituto della custodia cautelare in carcere, spesso per la durata di numerosi anni. L’esperienza insegna che alla fine dei tre anni di giudizio, una significativa percentuale di imputati viene assolta, ciò determina il pagamento certo, da parte dello Stato dei danni di ingiusta detenzione per importi molto esosi. Il problema potrebbe essere molto ridimensionato con una revisione della custodia cautelare, limitandola sola ai casi strettamente necessari e sostituendola con misure alternative, tipo braccialetti elettronici , pagamento di una cauzione, etc. Concludiamo questa breve riflessione con alcuni suggerimenti per il nostro legislatore, la cui attuazione potrebbe contribuire notevolmente a migliorare l’attuale situazione:
1) Approvazione di un provvedimento di indulto e amnistia;
2) Riforma dell’istituto della custodia cautelare in carcere;
3) Abolizione dell’art. 4 bis del regolamento penitenziario;
4) Riforma delle legge Bossi-Fini sull’immigrazione clandestina, sulla Bossi-Giovanardi fortunatamente si è già espressa la Corte Costituzionale;
5) Ripristino delle legge Gozzini.
Siamo consapevoli che i provvedimenti suggeriti implicano l’assunzione di coraggio e responsabilità, ma siamo convinti che altri tipi di intervento non produrranno cambiamenti significativi.
LOCRI,MARZO 2014
Emma Bonino, a differenza di Marco Pannella che addirittura ha fatto una conferenza stampa per dirlo pubblicamente, non è in polemica con la dirigenza radicele uscente. Il Ministro degli esteri, al XII congresso comincia il suo discorso ricordando le battaglie in Kosovo, e il fatto che lì oggi, proprio il 3 novembre di 20 dopo, si voti: ricorda le battaglie del 1993, del 1999 e del 2005. “Promuovere democrazia e diritti umani” – ricorda Emma Bonino ai suoi compagni – “è un processo lungo e difficoltoso”. Questa cosa, dice, “ci deve ricordare chi siamo, il nostro senso transnazionale”. Poi salta all’attualità. “Serve per cercare di capire i rischi che tutti corriamo nell’area del mediterraneo. La primavera è una parola inadeguata. Risveglio, è la parola che descrive ciò che sta succedendo”. Quel compito che gli è stato assegnato di dialogo con i Paesi del mondo, Emma Bonino riesce a farlo e può farlo perché – dice – “La scuola che ho vissuto con voi mi dà la capacità di leggere quello ciò che succede”. Poi, per Bonino c’è “La fiducia nella legge”. Nelle leggi del nostro Paese e delle leggi internazionali che, sottolinea Bonino, l’ha portata ad essere così determinata come nel caso della Siria, in cui – ricorda – “ho ribadito come per quell’area non ci fosse nessuna possibile soluzione militare. Mi si rimprovera non di non fare ma di essere invisibile. Non ho molta partecipazione alle chiacchiere da caffè dei saloni televisivi ma segnalo che ci sarei andata se mi avessero invitata. Sono virtuosa – dice – per mancanza di tentazioni”.
“Manca una politica coerente di immigrazione e asilo a livello europeo”. Per il Ministro degli Esteri, “Lampedusa è semplicemente la punta di un iceberg” costituito da “milioni di persone in movimento per sfuggire a fame, guerre, repressioni”. Ciò comporta una crescente attività di criminalità organizzate di traffici umani, e non solo umani. “Se questa è la fotografia” e “se viene meno la speranza di un processo politico” questa gente si metterà in movimento. Questi sono problemi che non sono problemi dai singoli stati. È importante che ci si metta a lavorare assieme. Intanto l’operazione mareNostrum, per evitare che il mediterraneo continui ad essere un cimitero. Per interpretare i fenomeni è necessario avere una bussola, un punto di vista è necessario per dialogare. Il dialogo. Queste cose le ho imparata dopo una lunga storia di vita nel partito radicale. E ho imparato che le riforme sono un processo lungo. E la cocciutaggine per perseguirle, io l’ho imparate qui. Attività faticosa di dialogo e perseveranza, per i detenuti nelle carceri straniere, per i marò in India … ecc.
Poi nel discorso al congresso del Ministro Bonino non manca il passaggio sulla necessaria e urgente riforma della Giustizia. “Con l’alibi di Berlusconi”, dice, “l’amministrazione della giustizia, il suo apparato, si è completamente putrefatto. Da qui la posizione di Marco (Pannella ndr) e da noi tutti condivisa, dell’amnistia per la Repubblica, per far tornare lo Stato nella legalità e la relativa lista Amnistia, Giustizia Libertà”.
“Chi ha bisogno dello Stato di Diritto” – ricorda la Bonino – “sono sempre i più deboli: le donne, immigrati, tossicodipendenti. I potenti dello stato di diritto possono anche farne a meno. Promuovere lo stato di diritto è la nostra ragion d’essere. Questa ragione sociale si rafforza se guardiamo quello che sta succedendo e sempre più deteriora questo Paese. Abbiamo ancora voglia di continuare a fare queste battaglie? Se vogliamo essere speranza, questa speranza deve nascere da qui”.
Elezioni Regionali in Basilicata e Congresso di Radicali italiani sono la stessa cosa: la lotta per la giustizia e il diritto.
Alla trasmissione radio carcere del 29 ottobre su radio radicale, Marco Pannella spazia come al solito, a 360°: dal discorso del Papa ai cappellani delle carceri, al prossimo congresso di Radicali italiani che si terrà venerdì sabato e domenica prossimi a Chianciano; in mezzo la diffida fatta ai pm e ai direttori delle carceri, a non continuare a rinchiudere persone in posti dove le condizioni sono accertate essere condizioni inumane e degradanti. Ma la vera notizia è che Pannella annuncia la sua finora dubbia partecipazione al XII congresso di Radicali italiani: “sarà un confronto chiaro tra chi vorrà succedere l’eredità dell’attuale segretario, Mario Staderini”, che Pannella bolla come autore di “un biennio di vuoto politico” e che pare essere intenzionato a ritornare al suo lavoro di avvocato e chi, invece, – dice Pannella- “ha sostenuto la lotta nonviolenta per l’amnistia, la giustizia giusta e la libertà”. “È su questo che noi abbiamo radicamento sociale”.
Impegnato direttamente nella battaglia di legalità nelle elezioni regionali in Lucania che lo vedono candidato assieme al Ministro Bonino, Elisabetta Zamparutti, Maurizio Bolognetti e altri compagni, per Marco Pannella le due cose non sono affatto slegate. In Lucania, infatti, i Radicali stanno denunciando (in)brogli nella presentazione delle liste da parte di alcuni movimenti politici.
Il congresso di Radicali italiani, che “corre il rischio di trasformarsi di radicali all’italiana”, deve diventare invece il luogo di rilancio della futura battaglia referendaria per la giustizia giusta oltreché per il sostegno a quel messaggio del Presidente Napolitano alle Camere per le disumane condizioni delle carceri. E per questo che Marco Pannella propone al prossimo congresso, come nuova segretaria, proprio l’Onorevole Rita Bernardini, pannelliana ante litteram, deputata dal 2008 al 2013 3 e che già è stata, nel recente passato, segretaria di Radicali italiani. Rita Bernardini, della battaglia per l’amnistia e la giustizia, da anni, insieme ad altri compagni come Maurizio Turco, Maurizio Bolognetti e Antonella Casu, è stata l’alfiere in prima linea. Impossibile dargli torto! Il ragionamento non fa una piega. Al congresso, nel pomeriggio di Sabato 2 novembre, sarà presente anche il Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri.
Carceri, il messaggio integrale di Giorgio Napolitano alle Camere
Giorgio Napolitano
Onorevoli Parlamentari,
nel corso del mandato conferitomi con l’elezione a Presidente il 10 maggio 2006 e conclusosi con la rielezione il 20 aprile 2013, ho colto numerose occasioni per rivolgermi direttamente al Parlamento al fine di richiamarne l’attenzione su questioni generali relative allo stato del paese e delle istituzioni repubblicane, al profilo storico e ideale della nazione.
Ricordo, soprattutto, i discorsi dinanzi alle Camere riunite per il 60° anniversario della Costituzione e per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. E potrei citare anche altre occasioni, meno solenni, in cui mi sono rivolto al Parlamento. Non l’ho fatto, però, ricorrendo alla forma del messaggio di cui la Costituzione attribuisce la facoltà al Presidente.
E ciò si spiega con la considerazione, già da tempo presente in dottrina, della non felice esperienza di formali “messaggi” inviati al Parlamento dal Presidente della Repubblica senza che ad essi seguissero, testimoniandone l’efficacia, dibattiti e iniziative, anche legislative, di adeguato e incisivo impegno.
Se mi sono risolto a ricorrere ora alla facoltà di cui al secondo comma dell’articolo 87 della Carta, è per porre a voi con la massima determinazione e concretezza una questione scottante, da affrontare in tempi stretti nei suoi termini specifici e nella sua più complessiva valenza. Parlo della drammatica questione carceraria e parto dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Quest’ultima, con la sentenza – approvata l’8 gennaio 2013 secondo la procedura della sentenza pilota – (Torreggiani e altri sei ricorrenti contro l’Italia), ha accertato, nei casi esaminati, la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea che, sotto la rubrica “proibizione della tortura”, pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti a causa della situazione di sovraffollamento carcerario in cui i ricorrenti si sono trovati.
La Corte ha affermato, in particolare, che “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone” e che “la situazione constatata nel caso di specie è costitutiva di una prassi incompatibile con la Convenzione”.
“Contro il sovraffollamento pene alternative” – Per quanto riguarda i rimedi al “carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario” in Italia, la Corte ha richiamato la raccomandazione del Consiglio d’Europa “a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione, allo scopo, tra l’altro, di risolvere il problema della crescita della popolazione carceraria”.
In ordine alla applicazione della Convenzione, la Corte ha rammentato che, in materia di condizioni detentive, i rimedi ‘preventivi’ e quelli di natura ‘compensativa’ devono considerarsi complementari e vanno quindi apprestati congiuntamente. Fermo restando che la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti.
La stessa decisione adottata, con voto unanime, dalla Corte di Strasburgo ha fissato il termine di un anno perché l’Italia si conformi alla sentenza ed ha stabilito di sospendere, in pendenza di detto termine, le procedure relative alle “diverse centinaia di ricorsi proposti contro l’Italia”; ricorsi che, in assenza di effettiva, sostanziale modifica della situazione carceraria, appaiono destinati a sicuro accoglimento stante la natura di sentenza pilota.
Il termine annuale decorre dalla data in cui la sentenza è divenuta definitiva, ossia dal giorno 28 maggio 2013, in cui è stata respinta l’istanza di rinvio alla Grande Chambre della Corte, presentata dall’Italia al fine di ottenere un riesame della sentenza. Pertanto, il termine concesso dalla Corte allo Stato italiano verrà a scadere il 28 maggio del 2014.
Vale la pena di ricordare che la sentenza del gennaio scorso segue la pronunzia con cui quattro anni fa la stessa Corte europea aveva già giudicato le condizioni carcerarie del nostro Paese incompatibili con l’art. 3 della Convenzione (Sulejmanovic contro Italia, 16 luglio 2009), ma non aveva ritenuto di fissare un termine per l’introduzione di idonei rimedi interni.
Anche perciò ho dovuto mettere in evidenza – all’atto della pronuncia della recente sentenza “Torreggiani” – come la decisione rappresenti “una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena e nello stesso tempo una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose”.
L’art. 46 della Convenzione europea stabilisce, invero, che gli Stati aderenti “si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”. Tale impegno, secondo l’interpretazione costante della Corte costituzionale (a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007), rientra nell’ambito dell’art. 117 della Costituzione, secondo cui la potestà legislativa è esercitata dallo Stato “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
In particolare, la Corte costituzionale ha, recentemente, stabilito che, in caso di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo che accertano la violazione da parte di uno Stato delle norme della Convenzione, “è fatto obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino”.
La cessazione degli effetti lesivi si ha, innanzitutto, con il porre termine alla lesione del diritto e, soltanto in via sussidiaria, con la riparazione delle conseguenze della violazione già verificatasi. Da qui deriva il dovere urgente di fare cessare il sovraffollamento carcerario rilevato dalla Corte di Strasburgo, più ancora che di procedere a un ricorso interno idoneo ad offrire un ristoro per le condizioni di sovraffollamento già patite dal detenuto.
Questo ultimo rimedio, analogo a quello che la legge 24 marzo 2001 n.89 ha introdotto per la riparazione nei casi di violazione del diritto alla durata ragionevole del processo, lascerebbe sussistere i casi di violazione dell’art. 3 della Convenzione, limitandosi a riconoscere all’interessato una equa soddisfazione pecuniaria, inidonea a tutelare il diritto umano del detenuto oltre che irragionevolmente dispendiosa per le finanze pubbliche.
Da una diversa prospettiva, la gravità del problema è stata da ultimo denunciata dalla Corte dei Conti, pronunciatasi – in sede di controllo sulla gestione del Ministero della Giustizia nell’anno 2012 – sugli esiti dell’indagine condotta su “l’assistenza e la rieducazione dei detenuti”. Essa ha evidenziato che il sovraffollamento carcerario – unitamente alla scarsità delle risorse disponibili – incide in modo assai negativo sulla possibilità di assicurare effettivi percorsi individualizzati volti al reinserimento sociale dei detenuti. Viene così ad essere frustrato il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, stante l’abisso che separa una parte – peraltro di intollerabile ampiezza – della realtà carceraria di oggi dai principi dettati dall’art. 27 della Costituzione.
Il richiamo ai principi posti dall’art. 27 e dall’art. 117 della nostra Carta fondamentale qualifica come costituzionale il dovere di tutti i poteri dello Stato di far cessare la situazione di sovraffollamento carcerario entro il termine posto dalla Corte europea, imponendo interventi che riconducano comunque al rispetto della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti umani.
La violazione di tale dovere comporta tra l’altro ingenti spese derivanti dalle condanne dello Stato italiano al pagamento degli equi indennizzi previsti dall’art. 41 della Convenzione: condanne che saranno prevedibilmente numerose, in relazione al rilevante numero di ricorsi ora sospesi ed a quelli che potranno essere proposti a Strasburgo. Ma l’Italia viene, soprattutto, a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Convenzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita. E tale violazione dei diritti umani va ad aggiungersi, nella sua estrema gravità, a quelle, anche esse numerose, concernenti la durata non ragionevole dei processi. Ma l’inerzia di fronte al dovere derivante dalla citata sentenza pilota della Corte di Strasburgo potrebbe avere altri effetti negativi oltre quelli già indicati.
Proprio in ragione dei citati profili di costituzionalità, alcuni Tribunali di sorveglianza hanno, recentemente, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale (norma che stabilisce i casi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena), per la parte in cui non prevede che si possa ordinare il differimento della pena carceraria anche nel caso di un prevedibile svolgimento della pena (in relazione alla situazione del singolo istituto penitenziario) in condizioni contrarie al senso di umanità. Il possibile accoglimento della questione da parte della Corte costituzionale avrebbe consistenti effetti sulla esecuzione delle condanne definitive a pene detentive.
Sottopongo dunque all’attenzione del Parlamento l’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo: esse si configurano, non possiamo ignorarlo, come inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro paese ha legato i suoi destini.
Ma si deve aggiungere che la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale. Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza, convivendo – senza impegnarsi e riuscire a modificarla – con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari. Il principio che ho poc’anzi qualificato come “dovere costituzionale”, non può che trarre forza da una drammatica motivazione umana e morale ispirata anche a fondamentali principi cristiani. Com’è noto, ho già evidenziato in più occasioni la intollerabilità della situazione di sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari.
Nel 2011, in occasione di un convegno tenutosi in Senato, avevo sottolineato che la realtà carceraria rappresenta “un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Orbene, dagli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia – aggiornati al 30 settembre 2013 – risulta che il numero di persone detenute è pari a 64.758, mentre la “capienza regolamentare” è di 47.615.
Secondo i dati statistici relativi alla percentuale dei detenuti sul totale della popolazione dei diversi Paesi, pubblicati dal Consiglio d’Europa, nell’anno 2011 in Italia vi erano 110,7 detenuti ogni 100.000 abitanti. Nel confronto con gli altri Paesi europei tale dato è sostanzialmente pari a quello della Grecia e Francia (rispettivamente, 110,3 e 111,3) e viene superato da Inghilterra e Spagna (entrambe oltre quota 150). Peraltro, l’Italia – nello stesso anno 2011 – si posizionava, tra i Paesi dell’Unione Europea, ai livelli più alti nell’indice percentuale tra detenuti presenti e posti disponibili negli istituti penitenziari (ossia l’indice del “sovraffollamento carcerario”), con una percentuale pari al 147%. Solo la Grecia ci superava con il 151,7%.
Per il 2012 non sono ancora disponibili i dati del Consiglio d’Europa; da una ricerca di un’organizzazione indipendente (International Center for prison studies), risulta comunque confermato l’intollerabile livello di congestione del sistema carcerario italiano che, nonostante una riduzione percentuale rispetto all’anno precedente, ha guadagnato il – non encomiabile – primato del sovraffollamento tra gli Stati dell’Unione Europea, con la percentuale del 140,1%, mentre la Grecia ci seguiva con un indice pari al 136,5%.
E vengo ai rimedi prospettati o già in atto. Per risolvere la questione del sovraffollamento, si possono ipotizzare diverse strade, da percorrere congiuntamente.
A) RIDURRE IL NUMERO COMPLESSIVO DEI DETENUTI, ATTRAVERSO INNOVAZIONI DI CARATTERE STRUTTURALE QUALI:
1) l’introduzione di meccanismi di probation. A tale riguardo, il disegno di legge delega approvato dalla Camera e ora all’esame del Senato, prevede, per taluni reati e in caso di assenza di pericolosità sociale, la possibilità per il giudice di applicare direttamente la “messa alla prova” come pena principale. In tal modo il condannato eviterà l’ingresso in carcere venendo, da subito, assegnato a un percorso di reinserimento;
2) la previsione di pene limitative della libertà personale, ma “non carcerarie”. Anche su questo profilo incide il disegno di legge ora citato, che intende introdurre la pena – irrogabile direttamente dal giudice con la sentenza di condanna – della “reclusione presso il domicilio”;
3) la riduzione dell’area applicativa della custodia cautelare in carcere. A tale proposito, dai dati del DAP risulta che, sul totale dei detenuti, quelli “in attesa di primo giudizio” sono circa il 19%; quelli condannati in primo e secondo grado complessivamente anch’essi circa il 19%; il restante 62% sono “definitivi” cioè raggiunti da una condanna irrevocabile. Nella condivisibile ottica di ridurre l’ambito applicativo della custodia carceraria è già intervenuta la legge n. 94 del 2013, di conversione del decreto legge n. 78 del 2013, che ha modificato l’articolo 280 del codice di procedura penale, elevando da quattro a cinque anni di reclusione il limite di pena che può giustificare l’applicazione della custodia in carcere;
4) l’accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine. In base ai dati del DAP, la percentuale dei cittadini stranieri sul totale dei detenuti è circa il 35%. Il Ministro Cancellieri, parlando recentemente alla Camera dei Deputati, ha concordato sulla necessità di promuovere e attuare specifici accordi con i Paesi di origine dei detenuti stranieri (l’Italia ha aderito alla Convenzione europea sul trasferimento delle persone condannate e ha già stipulato nove accordi bilaterali in tal senso). Ella ha tuttavia dato notizia degli scarsi (purtroppo) risultati concreti conseguiti sinora. Nel corso del 2012 solo 131 detenuti stranieri sono stati trasferiti nei propri Paesi (mentre nei primi sei mesi del 2013 il numero è di 82 trasferimenti). Ciò, secondo il Ministro, dipende, in via principale, dalla complessità delle procedure di omologazione delle condanne emesse in Italia da parte delle autorità straniere. Il Ministro si è impegnato per rivedere il contenuto degli accordi al fine di rendere più rapidi e agevoli i trasferimenti e per stipulare nuove convenzioni con i Paesi (principalmente dell’area del Maghreb) da cui proviene la maggior parte dei detenuti stranieri. Tra i fattori di criticità del meccanismo di trasferimento dei detenuti stranieri, va annoverata anche la difficoltà, sul piano giuridico, di disporre tale misura nei confronti degli stranieri non ancora condannati in via definitiva, che rappresentano circa il 45% del totale dei detenuti stranieri;
5) l’attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l’ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione carceraria; in tal senso un primo passo è stato compiuto a seguito dell’approvazione della citata legge n. 94 del 2013, che ha anche introdotto modifiche all’istituto della liberazione anticipata. Esse consentono di detrarre dalla pena da espiare i periodi di “buona condotta” riferibili al tempo trascorso in “custodia cautelare”, aumentando così le possibilità di accesso ai benefici penitenziari;
6) infine, una incisiva depenalizzazione dei reati, per i quali la previsione di una sanzione diversa da quella penale può avere una efficacia di prevenzione generale non minore.
B) AUMENTARE LA CAPIENZA COMPLESSIVA DEGLI ISTITUTI PENITENZIARI.
In tale ottica è recentemente intervenuto il già richiamato (e convertito in legge) decreto-legge n. 78 del 2013, che ha inteso dare un nuovo impulso al “Piano Carceri” (i cui interventi si dovrebbero concludere, prevedibilmente, entro la fine del 2015). Il Ministro della Giustizia, Cancellieri, ha dichiarato, intervenendo alla Camera, che “entro il mese di maggio 2014 saranno disponibili altri 4 mila nuovi posti detentivi mentre al completamento del Piano Carceri i nuovi posti saranno circa 10 mila”. In una successiva dichiarazione, il Ministro, nel confermare che al completamento del Piano Carceri la capienza complessiva aumenterà di 10.000 unità, ha precisato che “entro la fine del corrente anno saranno disponibili 2.500 nuovi posti detentivi” e che “è in progetto il recupero di edifici oggi destinati ad ospedale psichiatrico giudiziario e la riapertura di spazi detentivi nell’isola di Pianosa”. Ma, in conclusione, l’incremento ipotizzato della ricettività carceraria – certamente apprezzabile – appare, in relazione alla “tempistica” prevista per l’incremento complessivo, insufficiente rispetto all’obbiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla sentenza della Corte di Strasburgo.
Tutti i citati interventi – certamente condivisibili e di cui ritengo auspicabile la rapida definizione – appaiono parziali, in quanto inciderebbero verosimilmente pro futuro e non consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea.
Ritengo perciò necessario intervenire nell’immediato (il termine fissato dalla sentenza “Torreggiani” scadrà, come già sottolineato, il 28 maggio 2014) con il ricorso a “rimedi straordinari”.
C) CONSIDERARE L’ESIGENZA DI RIMEDI STRAORDINARI
La prima misura su cui intendo richiamare l’attenzione del Parlamento è l’indulto, che – non incidendo sul reato, ma comportando solo l’estinzione di una parte della pena detentiva – può applicarsi ad un ambito esteso di fattispecie penali (fatta eccezione per alcuni reati particolarmente odiosi). Ritengo necessario che – onde evitare il pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da parte di condannati scarcerati per l’indulto, come risulta essere avvenuto in occasione della legge n. 241 del 2006 – il provvedimento di clemenza sia accompagnato da idonee misure, soprattutto amministrative, finalizzate all’effettivo reinserimento delle persone scarcerate, che dovrebbero essere concretamente accompagnate nel percorso di risocializzazione. Al provvedimento di indulto, potrebbe aggiungersi una amnistia.
Rilevo che dal 1953 al 1990 sono intervenuti tredici provvedimenti con i quali è stata concessa l’amnistia (sola o unitamente all’indulto). In media, dunque, per quasi quaranta anni sono state varate amnistie con cadenza inferiore a tre anni. Dopo l’ultimo provvedimento di amnistia (d.P.R. n. 75 del 1990) – risalente a ventitré anni fa – è stata, approvata dal Parlamento soltanto una legge di clemenza, relativa al solo indulto (legge n. 241 del 2006). Le ragioni dell’assenza di provvedimenti di amnistia dopo il 1990 e l’intervento, ben sedici anni dopo tale data, del solo indulto di cui alla legge n. 241 del 2006, sono da individuare, oltre che nella modifica costituzionale che ha previsto per le leggi di clemenza un quorum rafforzato (maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera), anche in una “ostilità agli atti di clemenza” diffusasi nell’opinione pubblica; ostilità cui si sono aggiunti, anche in anni recenti, numerosi provvedimenti che hanno penalizzato – o sanzionato con maggior rigore – condotte la cui reale offensività è stata invece posta in dubbio da parte della dottrina penalistica (o per le quali è stata posta in dubbio l’efficacia della minaccia di una sanzione penale).
Ritengo che ora, di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo – morale e giuridico – di assicurare un “civile stato di governo della realtà carceraria”, sia giunto il momento di riconsiderare le perplessità relative all’adozione di atti di clemenza generale.
Per quanto riguarda l’ambito applicativo dell’amnistia, ferma restando la necessità di evitare che essa incida su reati di rilevante gravità e allarme sociale (basti pensare ai reati di violenza contro le donne), non ritengo che il Presidente della Repubblica debba – o possa – indicare i limiti di pena massimi o le singole fattispecie escluse. La “perimetrazione” della legge di clemenza rientra infatti tra le esclusive competenze del Parlamento e di chi eventualmente prenderà l’iniziativa di una proposta di legge in materia.
L’opportunità di adottare congiuntamente amnistia e indulto (come storicamente è sempre avvenuto sino alla legge n. 241 del 2006, di sola concessione dell’indulto) deriva dalle diverse caratteristiche dei due strumenti di clemenza. L’indulto, a differenza dell’amnistia, impone di celebrare comunque il processo per accertare la colpevolezza o meno dell’imputato e, se del caso, applicare il condono, totale o parziale, della pena irrogata (e quindi – al contrario dell’amnistia che estingue il reato – non elimina la necessità del processo, ma annulla, o riduce, la pena inflitta).
L’effetto combinato dei due provvedimenti (un indulto di sufficiente ampiezza, ad esempio pari a tre anni di reclusione, e una amnistia avente ad oggetto fattispecie di non rilevante gravità) potrebbe conseguire rapidamente i seguenti risultati positivi:
a) l’indulto avrebbe l’immediato effetto di ridurre considerevolmente la popolazione carceraria. Dai dati del DAP risulta che al 30 giugno 2013 circa 24.000 condannati in via definitiva si trovavano ad espiare una pena detentiva residua non superiore a tre anni; essi quindi per la maggior parte sarebbero scarcerati a seguito di indulto, riportando il numero dei detenuti verso la capienza regolamentare;
b) l’amnistia consentirebbe di definire immediatamente numerosi procedimenti per fatti “bagatellari” (destinati di frequente alla prescrizione se non in primo grado, nei gradi successivi del giudizio), permettendo ai giudici di dedicarsi ai procedimenti per reati più gravi e con detenuti in carcerazione preventiva. Ciò avrebbe l’effetto – oltre che di accelerare in via generale i tempi della giustizia – di ridurre il periodo sofferto in custodia cautelare prima dell’intervento della sentenza definitiva (o comunque prima di una pronuncia di condanna, ancorché non irrevocabile).
c) inoltre, un provvedimento generale di clemenza – con il conseguente rilevante decremento del carico di lavoro degli uffici – potrebbe sicuramente facilitare l’attuazione della riforma della geografia giudiziaria, recentemente divenuta operativa.
La rilevante riduzione complessiva del numero dei detenuti (sia di quelli in espiazione di una condanna definitiva che di quelli in custodia cautelare), derivante dai provvedimenti di amnistia e di indulto, consentirebbe di ottenere il risultato di adempiere tempestivamente alle prescrizioni della Corte europea, e insieme, soprattutto, di rispettare i principi costituzionali in tema di esecuzione della pena.
Appare, infatti, indispensabile avviare una decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti, offrendo loro reali opportunità di recupero. La rieducazione dei condannati – cui deve, per espressa previsione costituzionale, tendere l’esecuzione della pena – necessita di alcune precondizioni (quali la non lontananza tra il luogo di espiazione e la residenza dei familiari; la distinzione tra persone in attesa di giudizio e condannati; la adeguata tutela del diritto alla salute; dignitose condizioni di detenzione; differenziazione dei modelli di intervento) che possono realizzarsi solo se si eliminerà il sovraffollamento carcerario.
A ciò dovrebbe accompagnarsi l’impegno del Parlamento e del Governo a perseguire vere e proprie riforme strutturali – oltre le innovazioni urgenti già indicate sotto la lettera A) di questo messaggio – al fine di evitare che si rinnovi il fenomeno del “sovraffollamento carcerario”. Il che mette in luce la connessione profonda tra il considerare e affrontare tale fenomeno e il mettere mano a un’opera, da lungo tempo matura e attesa, di rinnovamento dell’Amministrazione della giustizia. La connessione più evidente è quella tra irragionevole lunghezza dei tempi dei processi ed effetti di congestione e ingovernabilità delle carceri.
Ma anche rimedi qui prima indicati, come “un’incisiva depenalizzazione”, rimandano a una riflessione d’insieme sulle riforme di cui ha bisogno la giustizia: e per giungere a individuare e proporre formalmente obbiettivi di questa natura, potrebbe essere concretamente di stimolo il capitolo V della relazione finale presentata il 12 aprile 2013 dal Gruppo di lavoro da me istituito il 31 marzo che affiancò ai temi delle riforme istituzionali quelli, appunto, dell’Amministrazione della giustizia. Auspico che il presente messaggio possa valere anche a richiamare l’attenzione sugli orientamenti di quel Gruppo di lavoro, condivisi da esponenti di diverse forze politiche.
Onorevoli parlamentari,
confido che vorrete intendere le ragioni per cui mi sono rivolto a voi attraverso un formale messaggio al Parlamento e la natura delle questioni che l’Italia ha l’obbligo di affrontare per imperativi pronunciamenti europei. Si tratta di questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia.
di Carmelo Puglisi
E’ fatta; i Radicali hanno consegnato le firme raccolte presso la Corte di Cassazione. Buone notizie per quelle che riguardano i sei quesiti referendari sulla Giustizia Giusta, che ammontano a circa 532.000. Non sono invece state raccolte abbastanza firme sui sei quesiti referendari in materia di Libertà e Diritti Civili, che recavano proposte importanti quali l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e il divorzio breve. Proposte ch’erano condivisibili, ma che qualche Partito ha volutamente ignorato.
Il Partito Democratico ha fatto orecchie da mercante, facendo mancare il suo appoggio anche sulle proposte riguardanti Lavoro e Immigrazione. In molti casi non si sono nemmeno espressi, astenendosi. In altri hanno addirittura ostacolato la raccolta, cacciando radicali ch’erano intenti a raccogliere firme con regolare permesso, solo perchè li aveva firmati anche Berlusconi.
Rimandato con debito anche Grillo, che dopo un iniziale dichiarazione nella quale aveva detto che li avrebbe appoggiati, ha stranamente fatto marcia indietro.
Per SEL e PSI, va fatto un discorso a parte. Avevano entrambi promesso di sostenere la raccolta firme – anche se limitata solo ad alcune proposte che condividevano – ma, concretamente, hanno fatto molto poco.
Fatta eccezione per sparse realtà politiche locali che fanno riferimento ai sopracitati partiti, i dirigenti nazionali e i due leader (Nichi Vendola e Riccardo Nencini) non si sono ahimè impegnati per come avrebbero potuto, forse anch’essi frenati dall’appoggio di Silvio Berlusconi, il cui contributo, piaccia o non piaccia, sia in termini di visibilità che di numeri, è stato determinante. Se Psi e SeL si fossero impegnati con tutte le loro forze, non avrebbero avuto problemi a raccogliere firme sufficenti anche per quanto riguarda gli altri sei quesiti referendari. Forse ancora troppo legati a certe logiche di Partito che gli impediscono, in larga parte, di comprendere che le idee non si dividono in “Idee di Sinistra” e “Idee di Destra”, ma che esse sono, molto più semplicemente, Buone o Cattive idee.
Anche il PDL, tuttavia, ha qualche colpa. Il Popolo delle Libertà, infatti, si è in gran parte attivato solo per fare firmare le proposte referendarie sulla Giustizia Giusta, un boomerang che potrebbe ritorcersi contro.
E’ infatti altamente probabile che, quando andremo a votare per i referendum, il PD punterà sullo spaccare in due l’Italia, gridando ai megafoni il falso slogan “Non votateli, sono i Referendum per Berlusconi”.
Balle. Sono i Referendum degli italiani e per gli italiani, atti a risolvere in gran parte il problema legato al sovraffolamento delle carceri che costringe migliaia di detenuti a vivere in condizioni disumane, per le quali – ricordiamolo ancora – la Corte di Strasburgo ci condanna ogni anno.
Responsabilità Civile dei Magistrati, abolizione dell’Ergastolo, uso adeguato del carcere preventivo, rientro dei magistrati fuori ruolo e separazione delle carriere fra giudici e Pm.
Dell’approvazione di quale di queste proposte beneficerebbe Silvio Berlusconi? Nessuna, in quanto il suo caso giudiziario, passato in giudicato, non ha elementi in comune con chi da anni aspetta Giustizia, con chi dev’essere risarcito dopo un errore giudiziario (non coi soldi dei cittadini, ma con quelli di chi ha sbagliato ad emettere la sentenza), con chi viene condannato per reati lievi al carcere preventivo (per poi risultare innocente nel 50% dei casi).
Sono i problemi di milioni di italiani, non di Silvio Berlusconi.
Teniamolo bene a mente, per quando verrà il momento di votare.
In questi giorni se n’è parlato a seguito delle dichiarazioni di Berlusconi al comizio di Brescia. Ma anche oggi, proprio come trent’anni fa nel momento del suo arresto, il “caso Tortora” dovrebbe essere, soprattutto, “simbolo e bandiera di un riscatto che non può più tardare”. Domani, martedì 28 maggio 2013, a venticinque anni dalla morte e trenta dall’arresto di Enzo Tortora, una delegazione del “Comitato promotore dei referendum” presieduto da Marco Pannella con il coinvolgimento formale anche della “Lista Pannella”, depositerà presso la Corte di Cassazione altri cinque quesiti referendari “per la giustizia giusta”: Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, custodia cautelare, incarichi extragiudiziali, progressione delle carriere. (altri 5 sono stati presentati nei giorni scorsi su legalizzazione droghe, immigrazione clandestina, 8×1000, finanziamento partiti e divorzio breve)
Come scrisse lo stesso presentatore nell’articolo del 14 marzo del 1984 titolato “Occorreva un Tortora”, anche oggi, quotidianamente, “sentiamo ogni giorno testimonianze agghiaccianti sui soprusi, le infamie, le illegalità che quotidianamente vengono compiute”. E anche oggi, come venticinque anni fa per colpa di una politica impegnata in tutt’altre riforme ad personam, “l’Italia è tutto un’immenso “Muro Lucano”, che”, scriveva Tortora, “eleggerei davvero a capitale di questa Repubblica fondata non più sul lavoro, ma sul sopruso, cementato nel silenzio”. Anche oggi il silenzio dei media che avvolge i nuclei di Shoah attivi presenti nelle carceri del nostro Paese è davvero assordante! Tortora aveva compreso, in quei giorni che da detenuto era candidato al Parlamento europeo, “come persino la verità, quando si tinge di parola “radicale”, diventi sospetta, non più vera, o meno di prima, e oggetto di attacchi velenosi, irresponsabili, abbietti”. Quant’attualità in quelle parole. “Sto attraversando l’intera programmazione di un’Italia incredibile e invivibile, che mai come in questo momento, proprio perché l’ho vista, e la vedo vivere, sento il bisogno, sento l’urgenza di contribuire a cambiare. Cambiare nel profondo, cambiare nelle sue strutture marcite e putrescenti: cambiarla non “contro”, ma per amore della democrazia”. E si domandava se, proprio a questa nostra Repubblica, “occorreva un uomo chiamato Tortora, esibito in catene come un trofeo di caccia, in un osceno carosello televisivo, per destare il Ministro Martinazzoli da un sonno lungo quanto quello di Aligi”. La Giustizia italiana e la sua appendice rappresentata da carceri sovraffollate in maniera inumana e degradante continuano a mostrasi vicende sempre più Kafkiane e dimenticate: “A fare il punto sul problema della giustizia in Italia, mi pare che il caso Tortora si configuri come esemplare”. Scriveva così Leonardo Sciascia aggiungendo, tanto per esser chiari, che usava “il caso Tortora” soltanto per “abbreviazione”. “Potrei anche dire: il caso di numerosi arrestati, insieme a Tortora perché omonimi, di persone indicate dai “pentiti” come camorristi – che mi pare caso, qualitativamente e quantitativamente, anche più grave. Voglio dire che non è soltanto quello della carcerazione preventiva il nodo che viene al pettine, ma anche quello dell’affidabilità conferita ai partiti e del mandato di cattura facile, dello strapotere della magistratura inquirente, del suo essere al riparo da responsabilità”. Ancora oggi ci sono ingiustizie che potrebbero essere vedute da chi queste le commette e anche oggi, come allora sosteneva lo scrittore di Racalmuto, “Un argine bisogna metterlo, un rimedio bisogna trovarlo: a fronte della giungla giudiziaria”. Anche oggi, come allora, il “1984 di Orwell può”, in questo nostro Stato che sembra aver smesso di essere Stato di Diritto, “assumere specie giudiziaria”. Ce ne sono non soltanto “i presentimenti” e “gli avvisi”: oggi ci sono anche le condanne europee della Corte dei Diritti dell’Uomo che mettono l’Italia in condizioni di essere tecnicamente criminale contro i suoi stessi cittadini. E, se non si pone rimedio, “questo Paese sarà veramente finito”. “Il caso Tortora” per Sciascia era allora “l’ennesima occasione per ribadire la gravità della situazione” in cui versava l’amministrazione della giustizia in Italia. “Il tutto”, scriveva Sciascia, “porta a riflettere sui giudici e sui loro errori: bisognerebbe far fare ad ogni magistrato, appena vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere o, meno utopisticamente, “caricarli di responsabilità” (civile) senza togliergli l’indipendenza”. Se la politica non cambia, allora cambiamo noi. Ecco perché servono quei 5 referendum per una Giustizia Giusta: ancora oggi “c’è la manetta facile in un paese dove tutto è diventato facile, tranne l’onestà, tranne il carattere”.
Lamezia Terme, 09/02/2013. Lista Amnistia Giustizia Libertà: presentazione dei candidati alla Camera dei Deputati per le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio.
Chianciano 13 nov. 2009. Il testo dell’intervento del Professor Mario Patrono a Chianciano sul caso del giovane Stefano Cucchi, in cui si ritrovano anche alcune rilevanti osservazioni sul mercato del lavoro nel Sud.
Cari compagni radicali, Cari compagni socialisti,
abbiamo oggi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni morto di morte violenta dopo essere “transitato” nelle celle di sicurezza di Piazzale Clodio.
Osservo di sfuggita, per chi non lo sapesse, che qui parliamo delle celle di sicurezza del Tribunale penale di Roma, parliamo cioè del luogo dove lo Stato garantisce per antonomasia il rispetto della legalità; e lo garantisce nei confronti di chiunque, privati cittadini e pubblici funzionari.
Abbiamo quindi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi.
Una è di immediata evidenza. Persiste in Italia una concezione autoritaria dello Stato, che usa il distacco e la prepotenza – e a buon bisogno usa anche la violenza – come strumento per esercitare il controllo sociale. Una concezione autoritaria dello Stato che non accenna a venir meno, malgrado siano trascorsi ben più di 60 anni dalla caduta del fascismo. Una concezione autoritaria dello Stato che sembra anzi essersi rafforzata in questi ultimi anni e mesi.
Questa concezione autoritaria dello Stato si manifesta in forma individuale e in forma sistemica. La morte violenta di Stefano Cucchi, quella altrettanto violenta di Federico Aldrovandi, che la rubrica “Un giorno in Pretura” ha fatto rivivere in questi giorni, e poi la registrazione avvenuta nel carcere di Castrogno a Teramo su pestaggi a detenuti come pratica di contenzione: <<…abbiamo rischiato la rivolta…non si può massacrare un detenuto…si massacra sotto…>>, sono esempi di uso illegale della forza in relazione a casi singoli. Un uso illegale della forza da parte di agenti e funzionari della Polizia, penitenziaria e non, selezionati male, addestrati male, educati male, controllati male, pagati peggio che male e comunque all’interno di una mentalità autoritaria dello Stato. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che accetta e consente l’interminabile durata delle procedure giudiziarie che significa disprezzo per i diritti dei cittadini. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che sopporta senza batter ciglio il fatto che dentro una cella di 3 metri per 2, cesso compreso, possano ammassarsi per mesi e per anni 7 detenuti i quali hanno a disposizione 2 sole ore di “aria” al giorno; e tutto ciò avviene, malgrado che l’articolo 27, III comma, della Costituzione proibisca perentoriamente quei trattamenti di pena che appaiono contrari al senso di umanità.
A livello sistemico cioè delle istituzioni pubbliche, la presenza nello Stato di un forte residuo autoritario si manifesta in modo particolare nella giustizia, nella burocrazia, nella dirigenza politica sotto il profilo del loro rapporto con i cittadini.
La prima evidenza di una concezione autoritaria dello Stato si manifesta nel campo della giustizia e segnatamente nel processo penale. La giustizia penale è diseguale. La diseguaglianza è di vario tipo. Per cominciare, l’accusa ha nel processo penale facoltà sconfinate rispetto a quelle di cui dispone la difesa. E questo ha un peso negativo in particolare per il cittadino economicamente debole, nei confronti del quale questa situazione di disparità è semplicemente insostenibile. Si pensi al processo accusatorio che si fonda spesso su perizie costosissime. L’accusa non paga le perizie, mentre il costo delle perizie finisce sempre e comunque sulle spalle della difesa, non importa se la sentenza dichiarerà alla fine l’imputato colpevole o innocente. Vi sono persone che per sostenere le spese relative alle perizie, si sono rovinate economicamente. In altre parole, l’accusa esercita poteri investigativi e processuali larghissimi, e nel contempo può disporre di risorse finanziarie illimitate e del cui uso in relazione ai singoli processi nessuno è chiamato a rispondere.
C’è poi il potere della pubblica accusa di “selezionare” l’esercizio dell’azione penale, che è un potere vastissimo ed esorbitante. Ancora. L’esercizio dell’azione penale non è contenuto entro tempi definiti, là dove la civiltà giuridica moderna – viceversa – impone che l’azione penale debba esercitarsi entro limiti di decadenza molto brevi. Non è possibile che il cittadino abbia sospesa sul collo la mannaia dell’accusa penale a tempo indeterminato.
Né vi è in Italia una regolazione precisa della facoltà dell’imputato di ricusare il giudice. Nei Paesi anglosassoni la possibilità di ricusare i membri della giuria popolare, dalla quale dipende il verdetto, è larghissima. Il giudice popolare può essere ricusato anche solo se ha notizie relative al processo. In Italia il giudice non è ricusabile a causa di un capovolgimento, operato dalla Corte costituzionale, dei valori da bilanciare in questa materia: si è posto l’articolo 21 della Costituzione, libertà di manifestazione del pensiero, al di sopra del diritto alla vita e alla libertà personale. All’evidenza, è vero il contrario: la libertà di non finire in galera e magari di non morirvi va considerata senz’altro prevalente, e di gran lunga, rispetto alla libertà del giudice come privato cittadino di manifestare pubblicamente apprezzamenti e giudizi nei confronti dell’imputato. Questo è ovvio.
Infine, non è garantita nel nostro Paese l’imparzialità del giudice e la sua alterità strutturale, e non solamente funzionale, di fronte all’accusa. Giudice e pubblico ministero sono entrambi magistrati dell’ordine giudiziario, svolgono la stessa carriera, sono tra loro “colleghi”. Questo non va bene. Al riguardo, nessun effetto sembra aver avuto finora la norma sul giusto processo, entrata a far parte della Costituzione nel 2001. La quale norma si è dovuta scontrare in questi anni con l’atteggiamento ultraconservatore della Corte costituzionale e che comunque ha avuto vita applicativa assai modesta.
Un altro aspetto dove si manifesta in Italia una concezione autoritaria dello Stato è nel rapporto burocrazia/cittadini. Vi è stata negli ultimi venti anni una crescita dimensionale della burocrazia, e vi è stata di pari passo una crescita nel numero degli alti burocrati i quali sono venuti di fatto assumendo un ruolo di decisori politici. Si è verificata cioè negli anni scorsi una crescita di potere politico della burocrazia nei confronti dell’autorità politica e partitica. A ciò si aggiunge la circostanza dello spoil system all’italiana, per cui ogni governo che approda a Palazzo Chigi si affretta a nominare con contratti “a termine” i dirigenti generali che retribuisce secondo criteri di larga discrezionalità.
Tutto ciò determina una forte disparità tra cittadino e burocrazia nella misura in cui il cittadino è posto di fronte ad un ceto che di fatto è irresponsabile. Non si può cioè nei loro confronti esercitare quel giudizio di responsabilità politica “diffusa”, teorizzato a suo tempo da Giuseppe Ugo Rescigno, per cui il cittadino al momento e per mezzo del voto riesce “a sfiduciare” il “cattivo” politico. Da questo punto di vista la burocrazia gode anzi della più totale inamovibilità, accompagnata da un crescente peso politico. E anche questo non va bene. Negli Stati Uniti, che qui assumo come termine di paragone, tutti i poteri pubblici sono elettivi e tutti rispondono quindi ad una logica democratica. Perfino la Corte suprema (un misto tra la nostra Corte di Cassazione e la nostra Corte costituzionale) è eletta su base democratica: dal Presidente in contraddittorio con il Senato. In Italia, vi sono poteri pubblici eletti accanto a poteri pubblici non eletti: e questi ultimi rispondono ad una logica loro tutta “interna”. È questa una delle grandi debolezze della democrazia italiana.
A completare il quadro vi sono poi gli scarsi poteri del cittadino rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative: perché le norme sulla trasparenza si bloccano di fronte alla discrezionalità del decidere cosa “ammettere” alla trasparenza, e cosa no. Ancora. Non c’è un regolamento sulle priorità e sui tempi delle varie procedure, e qui ha origine l’arbitrio della burocrazia che si alimenta della oscurità e della complessità della legislazione italiana, tessuta di rimandi e contro rimandi a commi e sottocommi di leggi e leggine di varia epoca.
Una terza evidenza della concezione autoritaria dello Stato chiama in causa la dirigenza politica. Questa tende in Italia a nascondersi in aree segrete disseminate da cartelli <<vietato l’ingresso>>. Raramente i frammenti della catena accessibili alla vista formano un sistema coeso con punti d’ingresso chiaramente contrassegnati.
Al contrario gli ostacoli a un efficace controllo a vasto raggio dei cittadini sono numerosi e molti di essi sono invalicabili.
In Paesi meglio civilizzati del nostro una funzione di vigilanza continua, penetrante e a vasto raggio sul potere pubblico e chi lo detiene è esercitata dai mezzi di informazione. In Italia, però, i grandi giornali, quelli che “fanno opinione”, sono nelle mani di potenti gruppi industriali variamente intrecciati alla dirigenza politica, o sono collegati direttamente a partiti politici. La televisione pubblica, la sola di cui merita di parlare, è lottizzata “a tappeto” dai partiti politici: i quali, rotti finalmente gli indugi, la usano ormai anche come strumento al fine di difendere, per interposta persona, gli interessi personali del loro leader: l’editoriale “in video” di Augusto Minzolini, direttore del Tg1, di lunedì scorso, non saprei definirlo in altro modo che come uno spot a favore di Berlusconi. Una cosa mai vista in un Paese di democrazia accettabile.
D’altra parte, il referendum abrogativo delle leggi, voluto dal Costituente quale tipico mezzo di controllo popolare sulle scelte legislative operate in Parlamento dalle dirigenze politiche, è stato ben presto soffocato e reso ormai quasi inservibile, a seguito dell’affermarsi dell’idea di sottrarre a <<plebisciti>> e a <<voti popolari>> quelle che sono state definite <<le complesse, inscindibili scelte politiche dei partiti>> (Corte cost., sent. n. 16 del 1978). Si aggiunga, dulcis in fundo, che la legge elettorale in vigore consente alle dirigenze politiche di designare uomini e donne che andranno a sedere in Parlamento accanto e allo stesso titolo dei rappresentanti eletti dai cittadini.
Tutto ciò significa che si è spezzato in Italia il rapporto, che sussiste in qualunque democrazia consolidata, tra alcuni elementi fisiologicamente correlati: rappresentanza, controllo, responsabilità e giudizio politico al momento del voto.
Una dirigenza politica che può contare sull’indifferenza o sulla non/interferenza dei cittadini è fuori di un sistema democratico.
Naturalmente la causa di questa debolezza della democrazia italiana deriva in ultima analisi dal fatto che in Italia non c’è il primato della società civile sullo Stato, non c’è il primato del cittadino sullo Stato, a cui si accompagna una insufficiente coscienza sociale dei propri diritti.
Sta di fatto che il degrado del costume democratico nel nostro Paese è ormai intollerabile. Suscita indignazione in ciascuno di noi.
La domanda di oggi è: cosa dobbiamo fare per rimettere in moto la democrazia italiana? Io penso che abbiamo tutti del lavoro da fare, del gran lavoro: nelle Università, nelle scuole, dovunque possiamo esercitare la nostra influenza. Ma sono fiducioso che riusciremo, attraverso una pedagogia “mirata”, a creare una svolta attitudinale verso la politica; che riusciremo a suscitare nei cittadini un’attenzione permanente nei confronti del potere pubblico e le sue modalità di esercizio. Bisogna che si formi a livello di coscienza collettiva l’idea dell’obbligo per le istituzioni pubbliche di dare conto nei dettagli ai cittadini del loro operato. A partire da un punto. Ciascuno di noi ha diritto di sapere l’uso che si fa del denaro pubblico. Di sapere se il denaro pubblico è stato speso bene; se è stato sperperato; se è stato illegalmente sottratto. L’uso del denaro pubblico deve diventare un uso trasparente. Io come contribuente ho il dovere di partecipare alle spese pubbliche. Ma io come contribuente ho il diritto di sapere come il mio denaro è stato speso dagli amministratori pubblici. Per qualunque istituzione pubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Camera dei Deputati al Senato, dalla Corte di Conti agli uffici giudiziari grandi e piccoli fino ai minimi enti pubblici, il contribuente ha il diritto di sapere la quantità di denaro che serve per pagare gli stipendi del personale interno e per procurarsi e gestire i mezzi con cui erogare i servizi. Perciò il contribuente ha il diritto di sapere, ad esempio, chi sono i fornitori di qualunque istituzione pubblica, dalle maggiori alle minori; a quale prezzo – in relazione al prezzo corrente di mercato – la singola istituzione pubblica paga le forniture che acquista o prende in uso; e chi gestisce per la singola istituzione pubblica l’acquisto e la dismissione dei beni di proprietà o in uso all’ente. Si dovrà arrivare a tanto, facendo cadere uno ad uno i tanti “segreti di Stato” che oggi coprono – legalmente o illegalmente – questa materia.
A quel punto, diventerà allora chiaro anche il diritto dei cittadini di saperne di più circa la vita privata degli amministratori pubblici. Se il presidente della Regione X ha le emorroidi, o è gay, o fa uso di sostanze stupefacenti, a me contribuente non interessa né deve interessare. Ma se quel presidente (dico cose a caso) subisce ricatti a causa delle sue peculiari abitudini, o se ha sul groppone debiti ingenti e riesce malgrado ciò a sostenerli; se possiede ville a Capri, yacht, terreni a Cortina d’Ampezzo o discoteche a San Babila, io contribuente ho il diritto sacrosanto di sapere quale è la fonte di quelle ricchezze: se i risparmi di una vita certosina, se lo zio d’America che lo ha lasciato unico erede dei suoi beni, se l’appropriazione indebita di denaro pubblico (e quindi anche del mio denaro), se la corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Questo i cittadini hanno il diritto di saperlo. L’appello alla privacy, che oggi si fa da parte di amministratori pubblici e che riempie i giornali e le trasmissioni televisive, altro non è che l’ultima trincea del tentativo di sottrarsi al controllo dei cittadini. Questa trincea dovrà finalmente essere abbattuta. Una concezione davvero liberale e democratica dello Stato e della politica non può consentirne la sopravvivenza.
Sono utili le riforme istituzionali per cambiare dal profondo questo stato di cose? Certo, lo sono senz’altro: a patto, naturalmente, che si tratti di riforme giuste cioè di riforme necessarie ed appropriate. A patto che si tratti di riforme che mettano il cittadino al centro della politica e costruiscano l’ordinamento dello Stato, e dell’Unione europea, e delle autonomie locali a misura del cittadino e dei suoi diritti, allo stesso modo di come il sarto confeziona l’abito sulla misura del cliente.
Tuttavia, prim’ancora di qualunque riforma del quadro istituzionale, la possibilità stessa di aprire un varco nella fortezza chiusa della politica è legata, secondo me, ad una riforma in senso democratico dei partiti politici. Aprire i partiti politici a libere discussioni e votazioni sull’intero territorio nazionale; rendere elettiva la scelta delle rappresentanze politiche a tutti i livelli di governo e in ogni sede istituzionale; trasformare i partiti politici in ciò che essi sono per loro stessa natura e cioè articolazioni del sociale. A me sembra che questa debba essere la prima delle riforme da fare. Questa riforma, è chiaro, non basta. Ma almeno sarebbe (per usare la memorabile frase di Winston Churchill) <<la fine dell’inizio>>.
Vi è poi almeno un’altra ragione per occuparsi del caso di Stefano Cucchi.
Hanno scritto i giornali che Stefano Cucchi era uno spacciatore, e come tale fu arrestato. Non ho elementi per sapere se ciò fosse vero, o no. Quello che so per certo è che la vita di Stefano Cucchi sarebbe stata diversa se egli avesse trovato sulla sua strada una chance di lavoro dignitoso. Questo vale per lui come vale per i tanti giovani che conducono una vita grama, come lo era per lui. Questo però pone il problema dei giovani e del loro accesso ad un mercato chiuso del lavoro, dove ormai il solo lasciapassare che conta è la “raccomandazione”. Questa è una piaga italiana. Lo è soprattutto al Sud, dove l’economia privata è variamente intrecciata con l’economia pubblica. Qui la raccomandazione è la risorsa indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Risulta così contraddetto uno dei principi base della civiltà moderna, vale a dire il diritto al lavoro. Il diritto al lavoro significa che chiunque può competere sul mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri. Questa condizione di parità nel Sud non esiste. C’è una specie di forca caudina che molti giovani devono passare per accedere ad un posto di lavoro. Si ha quindi una stortura rispetto alle regole della libera ed eguale competizione nel mondo del lavoro. Un principio di giustizia proclamato dalla Rivoluzione francese è quello che lo status di cittadino, che l’ingresso verso una carriera professionale non deve dipendere né dalla condizione sociale né da quella economica, ma solamente dalle capacità personali. Del resto, il sistema della “raccomandazione” non è soltanto ingiusto. Esso crea condizionamento, dipendenza; crea umiliazione. Negli esclusi, uccide la speranza di una vita migliore.
Questa situazione chiama in causa il ruolo dei sindacati. Negli ultimi anni i sindacati si limitano a tutelare i lavoratori e i pensionati. Cioè si limitano a tutelare il diritto di lavorare e di godersi la pensione dopo aver lavorato. Quello che i sindacati, per difetto di cultura e a causa della loro stessa struttura oligarchica, invece non fanno è la difesa del diritto dei giovani al lavoro cioè il loro diritto di accedere al lavoro. Anche qui, un grande passo avanti sarebbe quello di dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che i sindacati debbano avere <<un ordinamento interno a base democratica>>. Questo determinerebbe una svolta attitudinale dei sindacati nei confronti del lavoro. Il percorso su questa strada è però ancora lungo.
(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura