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L’ESERCIZIO ASCETICO VERSO LA LIBERTA’ MISTICA

DE TRISTITIA CHRISTI DI THOMAS MORE

di Maria Elisabetta Curtosi

Paura, preghiera, dolore fisico e sofferenza interiore. Siamo nel 1535 quando quel 6 luglio, dopo un lungo periodo di isolamento nelle carceri della Torre di Londra, Thomas More presto verrà decapitato. Conosciuto per le sue doti di politico rigoroso, colto umanista e pensatore, rimase alla storia per il suo capolavoro “Utopia”, ma fu anche un cristiano appassionato e fervido fedele.

A prova di ciò è importante citare il suo scritto “ De tristitia Christi” che nella traduzione in italiano è indicato come Gesù al Getsemani, in cui troviamo la Passio di Cristo, che agonizzante nell’orto degli ulivi, isolato dagli apostoli assonnati, supplichevole domanda al Padre << di allontanare il calice della sofferenza e della morte >>. Ma nella scena dell’arresto di Cristo il testo rimane incompiuto perché More viene allontanato dalla sua cella e gli vengono sottratti carta e inchiostro.

Così che la tristezza, il tradimento e la solitudine si fanno voci comuni di un solo grido di salvezza e consolazione sia per il Cristo, sia per l’integerrimo cancelliere del re tiranno d’Inghilterra Enrico VIII che vive gli stessi attimi nell’ultima fase della sua vita.

Un viaggio nella letteratura spirituale con grande accuratezza e acutezza è stato percorso da Mons. Gianfranco Ravasi che citando More propone un trittico che procede verso “il genio della mistica” Juan de la Cruz (Giovanni della Croce) e il suo scritto Salita al Monte Calvario dove predomina nell’oscurità del tema, <<l’eclisse della luce divina per cui l’anima procede in un gelido e drammatico cono d’ombra>>. Anche in quest’ opera incompiuta leggiamo la crisi dell’autore per un percorso troppo arduo nella contemplazione che porta ad una ascesa-ascesi di catarsi dello spirito e dei sensi -afferma Ravasi- che continua con un ultimo autore Jean-Joseph Surin che scrisse “Un Dio da gustare”, fu gesuita nel Seicento, afflitto da una grave malattia mentale e strane possessioni diaboliche nel monastero delle orsoline di Loudun di cui era cappellano, aveva grandi doti, non tanto nelle sue opere ma nel sua epistolario variegato e suggestivo, di intellettuale e mistico presto dimenticate per questi due eventi tragici.

Per questo Enzo Bolis offre un particolare ritratto di quest’autore definendolo un intelligente laico prematuramente scomparso; e Mino Bergamo lo indica come il più grande e dimenticato dei contemplativi seicenteschi, basta leggerlo una volta e non lo si abbandona più, proprio come una medicina efficace o un amico al quale chiedere consiglio.

Ravasi ne rimase particolarmente colpito e lo definì sotto un profilo << di raffinatezza letteraria che si coniuga con una teologia viva e intensa, l’esercizio ascetico sfocia nella gioiosa libertà mistica, il linguaggio spirituale illumina le vicende umane, l’esperienza interiore s’incrocia con la testimonianza operosa >> .

Concludiamo con uno tra i suoi eccezionali e razionali aforismi:

Che io possa avere la forza

Di cambiare le cose che possono cambiare,

che io possa avere la pazienza

di accettare le cose che non possono cambiare,

che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”

 

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Giuda, pentimento e perdono, cose su cui riflettere

di Giuseppe Candido

Pubblicato su il Domani della Calabria del 24 aprile 2011

Nella storia della letteratura e delle tradizione la figura di Giuda è stata riproposta con infinite variazioni. L’orientamento è stato quello di cercare una giustificazione trascendente al suo atto. A sostenere questa tesi, nel 2007 in un’intervista rilasciata a Repubblica, fu il Cardinale Gianfranco Ravasi, già prefetto della biblioteca ambrosiana di Milano, “chiamato” a scrivere, con Benedetto XVI, i testi delle meditazioni lette durante le solenne Via Crucis del Venerdì Santo.

“E’molto probabile” – sostiene Ravasi – “che Giuda abbia tradito per una delusione politica. Lui aveva sognato forse di vedere in Gesù un messia di tipo nazionalistico. Poi vede che quest’uomo scardina le strutture più all’interno che all’esterno. Quello che vuole mutare sono le coscienze degli uomini”. Così Giuda tradisce, poi si dispera e, infine, si toglie la vita. Qualunque atto immaginario ci induce quindi a collocare Giuda, il suicida, nel girone dantesco dei traditori. Ma, suggerisce ancora Gianfranco Ravasi, “Questo non possiamo dirlo come non potremmo mai dichiararlo di nessuno. Nell’assoluto momento di solitudine che è l’istante supremo della morte, quando si è tra il tempo e l’infinito, resta ancora una possibilità di scegliere”. Ravasi scorge, nelle ultime ore della tragedia interiore di Giuda e nello scagliare i trenta denari e che anche Mel Gibson ha rappresentato nella sua Passione, “il fiorire del pentimento”. Un pentimento che, ricorda il giornalista, è sempre “presente nella tradizione cristiana”. Anche Caterina Fieschi Adorno, considerata grande mistica e meglio conosciuta come Santa Caterina da Geneva, racconta della visione in cui le appare Cristo e in cui essa esprime la sua curiosità chiedendo a Gesù: “Che ne è stato di Giuda”. Allora Cristo le risponde sorridendo: “Se tu sapessi che cosa io ho fatto di Giuda …”, dimostrando che Giuda era stato “riassorbito nell’amore redentore di Cristo”. È il filone del pensiero teologico secondo cui, “nel momento ultimo non possiamo mai giudicare quale sia la scelta di una persona”.

La linea che va nella direzione della riabilitazione di Giuda fiorisce nel romanzo Un modesto, modestissimo libro, scritto idealmente dal figlio di Giuda di Jerey Archer. Giuda Iscariota è “strumento di Dio finché si possa compiere il percorso terreno di Gesù, fino alla sua crocifissione. Ma Giuda non è neanche una marionetta “usata da Dio”, in modo “crudele”. Jaques Bosset, vescovo e grande predicatore del ‘600, sosteneva che “Dio scrive dritto nelle righe storte degli uomini” potendo trasformare “un atto negativo in un disegno superiore”. D’altronde è proprio Gesù Cristo che, contro ogni regola di allora e di oggi, introduce la scelta del perdono: il suo ultimo gesto sulla croce è infatti il perdono del ladrone che, convertitosi, dice a Gesù: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dopo Giuda, un’altro malfattore da riabilitare a cui Gesù risponde: “Oggi sarai con me nel regno di Dio”. Potremmo ricordarcelo anche noi, in questi giorni di Pasqua che spesso viviamo tra un’agnello e una colomba, che è il perdono, non la rivendicazione e la vendetta, la vera strada per cambiare il mondo.
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