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Abolito il finanziamento dei partiti? Macché, giocano come sempre con la volontà popolare da trent’anni!

Che il finanziamento pubblico ai partiti non sia affatto morto come invece sostiene il governo di Enrico Letta Sergio Rizzo lo scrive oggi a chiare lettere sul Corriere della Sera! “Gli errori di una scelta insufficiente” è il titolo che però non rende bene l’idea! Sono trentacinque anni, dal primo referendum per la sua abolizione, che i partiti si sottraggono alla volontà degli elettori. Le vie del finanziamento pubblico dei partiti sono infatti infinite e più volte abolito è sempre rientrato dalla finestra sotto forma di 4 per mille e di rimborsi elettorali. Sgravi fiscali, rimborsi truffa non legati alle spese effettivamente sostenute, esenzione dell’Imu per le sedi dei partiti, contributi ai gruppi nei Consigli Regionali. Ma andiamo con ordine. L’articolo 75 della Costituzione afferma che l’esito referendario è vincolante: purtroppo come per il finanziamento pubblico dei partiti, per molti referendum la partitocrazia non ne considerò affatto vincolante l’esito: responsabilità civile dei magistrati, nucleare. La lista dei tradimenti della volontà popolare ad opera del partito unico della spesa è lungo. Il finanziamento pubblico dei partiti fu introdotto nel nostro Paese dalla legge Piccoli nel 1974. La legge era giustificata dagli scandali Trabucchi del 1965 e petroli del 1973; il Parlamento intendeva rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto più bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi interessi economici. Già da subito tale previsione fu smentita dagli scandali che a breve seguirono: Lockheed e Sindona. Tant’è che già nel settembre del ’74 il Partito Liberale Italiano tenta di raccogliere le firme senza riuscirvi. Nel 1978, i Radicali riescono a raccogliere le firme necessarie e, 11 giugno del 1978 si tenne il primo referendum per tentare di abolirlo: Nonostante l’invito a votare “no” da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell’elettorato, il “si” raggiunge il 43,6%. Per i Radicali, lo Stato avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini, non solo quelli già rappresentati in parlamento, attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire strutture e apparati che, per i promotori, dovevano essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti. Ma siccome all’ingordigia non c’è fine, nel 1981 con la legge 659, i finanziamenti pubblici vengono raddoppiati; partiti ed eletti (ma anche candidati o aventi cariche di partito) hanno il divieto di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica. Viene introdotta una nuova forma di pubblicità dei bilanci che prevedeva che i partiti dovessero depositare un rendiconto finanziario annuale su entrate e uscite anche se nessun controllo effettivo viene previsto. Poi gli scandali di tangentopoli e, nell’aprile del 93, il referendum  abrogativo promosso dai Radicali Italiani raggiunge il quorum col 53% e vede il 90,3% dei votanti a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. Ma la partitocrazia, quella partitocrazia che Pannella chiama anche “partito unico della spesa” che in sessant’anni ha prodotto 20.000 miliardi di euro di debito pubblico, è subito pronta, anche questa volta, a tradire la volontà dei cittadini (costituzionalmente vincolante). Appena otto mesi dopo, con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993, il Parlamento, in modo truffaldino, aggiorna la già esistente legge sui rimborsi elettorali! Subito applicata con le elezioni del marzo del 1994: 47 milioni di euro per l’intera legislatura vengono divorati dai partiti proprio nei cinque anni successivi il referendum che avrebbe dovuto essere vincolante a fronte di spese documentate poco superiori a 36 milioni di euro. Un furto di oltre 10 milioni dalle tasche dei cittadini (sic!). Ma al peggio non c’è fine.

Neanche trascorsi quattro anni dal referendum che li aveva aboliti, non sazio dei rimborsi, il Parlamento approva la curiosa legge 2/1997, candidamente intitolata “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, reintroducendo, di fatto, anche il finanziamento a pioggia pubblico ai partiti. Il provvedimento prevede la possibilità per i contribuenti, al momento della dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito), per un totale massimo di 56.810.000 euro, da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. Per il solo anno 1997 viene introdotta una norma transitoria che fissa un fondo di 82.633.000 euro per l’anno in corso (nonostante le adesioni fossero minime). I Radicali percepiscono quei fondi per toglierli agli altri partiti e li restituiscono ai cittadini legittimi proprietari durante apposite manifestazioni.

Nel 1999, dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” si nasconde l’altro furto. Il rimborso elettorale previsto non ha infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. La legge 157/99 prevede cinque fondi: per elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, Regionali, e per i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa.

Tre anni dopo, la normativa viene ulteriormente modificata dalla Legge 156/2002, recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”: il fondo diviene annuale (ma mantiene la stessa entità) e viene abbassato dal 4% all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. Partiti che non siedono sugli scranni del Parlamento ma che percepiscono ugualmente i rimborsi. L’ammontare del finanziamento, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa sale da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.

Dulcis in fundo, con la Legge 5122/2006, l’erogazione dei rimborsi è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla durata effettiva. Nel 2008 si vota di nuovo e molti partiti si ritrovano in tasca molti rimborsi mentre partiti ormai non più esistenti continuano a percepire i soldi della legislatura precedente (anche la Margherita assieme all’Udeur di Mastella, e fino al 2011, ha continuato  percepire i rimborsi elettorali per la tornata del 2006). L’aumento prodotto è esponenziale. Le tasche dei cittadini si impoveriscono ma non quelle dei partiti e dei loro eletti.

L’entità del furto ai cittadini.

La differenza tra spese sostenute e rimborsi erogati cresce di elezioni in elezioni: 22.649.220 di euro per le regionali del ’95 che diventano 27.105.163 di euro per le politiche del ’96.

Nel 1999 alle europee si arriva quasi a 47 milioni di euro di differenza tra spese documentate e rimborsi incassati dai partiti. Cifra astronomica che però, nel 2000, in occasione delle regionali cresce ancora a 57 milioni e 200 mila euro.

Ma è per le politiche del 2001 che avviene il salto di qualità: i partiti arrivano ad incassare, a fronte di neanche 50 milioni di euro di spese, la cifra astronomica di 476 milioni e mezzo di euro con una differenza di quasi 427 milioni di euro.

Nel 2004, per le europee, la differenza tra spese e contributi incassati è di quasi 160 milioni di euro, 147 milioni di euro di differenza tra spese e contributi per le regionali del 2005. Per le politiche del 2006 la differenza tra spese sostenute dai partiti e i contributi erogati è di 376.771.092 euro e di quasi 393 milioni di euro per le politiche del 2008. Dal 1994, da dopo che era stato abolito il finanziamento pubblico, la casta ha continuato a dissanguare le casse dello Stato per un totale oltre 1,6 miliardi di euro.

Gli unici a rimborsarsi meno soldi delle spese effettivamente documentate e sostenute, come adeguatamente documentano Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo ne “La Casta”, sono sempre e solo i Radicali con la Lista Marco Pannella.

Si sperava che col finanziamento pubblico i partiti evitassero di essere corrotti o poter essere tentati da collusioni. Oggi, dopo gli scandali di Lusi, Belsito e dei vari Batman Fiorito sparsi nei consigli regionali di tutta Italia che hanno attraversato trasversalmente quasi tutti i partiti, sappiamo che è andata esattamente all’opposto. La corruzione e la collusione della e nella politica e delle classi dirigenti di questo Paese, a tutti i livelli, si è ingigantita. E’ aumentata a dismisura. Gli apparati burocratici dei partiti sono cresciuti proprio perché alimentati da un valanga di denaro.

Il dubbio che non ci sia da fidarsi anche in questo caso è legittimo: il Governo Letta è il governo delle “larghe intese” proprio tra chi, fino ad ora, le intese le ha trovate per i loro comodi e per disattendere la volontà popolare.

I Radicali non mollano e ci riprovano con un nuovo referendum con un testo che interviene sulla legge n. 96 del luglio 2012 che ha creato un fondo unico per finanziamento pubblico e rimborso spese elettorali (70% del totale) e un altro per il cofinanziamento dello Stato in aggiunta alle donazione private (30%). Io li sostengo.

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Tagliare i costi della partitocrazia e non quelli della democrazia

di Giuseppe Candido

Articolo pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” del 27 agosto 2010

Non c’è dubbio, la questione dei costi della politica e del funzionamento delle istituzioni, anche quelle regionali, è un punto che, in un momento come questo in cui il governo centrale impone una manovra finanziaria lacrime e sangue, tocca profondamente la sensibilità dei cittadini. Ed anche al palazzo Campanella del consiglio regionale si pensa ai tagli. Ma sarà sufficiente ridurre il numero delle commissioni e dei relativi presidenti, diminuire di qualche spicciolo i finanziamenti ai gruppi consiliari e limare le consulenze di giunta e consiglio? E siamo davvero sicuri che tornerà utile alla democrazia rappresentativa, ridurre il numero degli assessori e dei consiglieri regionali? O tutto ciò, ancora una volta, si tradurrà nell’ennesima beffa verso i cittadini ed il rafforzamento della partitocrazia? Sia a livello nazionale sia sul piano delle istituzioni regionali si fa finta di non sapere che il vero costo della politica che i cittadini avevano inteso abolire con la scelta referendaria dell’aprile del 1993, è quello del finanziamento pubblico dei partiti: nel clima di sfiducia che seguì lo scandalo di tangentopoli, il 90,3% dei cittadini si era chiaramente espresso a favore dell’abrogazione. Oggi si limano i costi delle consulenze, si pensa a diminuire il numero di eletti che, tra l’altro, renderebbe ancora più basso il rapporto degli eletti con gli elettori, ma neanche lontanamente si pensa a dimezzare stipendi, indennità e rimborsi elettorali. Secondo chi scrive sono infatti condivisibili le parole di Bobo Craxi quando afferma che “dimezzare il Parlamento equivale a dimezzare la democrazia. La democrazia italiana – ricorda ancora Craxi – è stata già abbastanza lesionata per prestare il fianco a demagogiche ristrutturazioni con l’alibi del risparmio”. Già, perché solo di alibi si tratta e non di vero risparmio. Dopo alcuni scandali del ’65 e del ’73, il Parlamento intese rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostegno dello stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusioni con i grandi poteri economici. Il finanziamento pubblico ai partiti venne introdotto dalla legge Piccoli nel maggio 1974 ed interpretava il sostegno all’iniziativa politica come puro finanziamento alle strutture dei partiti presenti in Parlamento, con l’effetto di penalizzare le nuove formazioni politiche: si ebbe l’effetto di rafforzare gli apparati burocratici interni dei partiti disincentivando la partecipazione interna. Già nel giugno del 1978 si tenne il primo referendum indetto dai Radicali per l’abrogazione della legge 195/1974. Nonostante l’invito a votare “no” da parte di tutti i partiti che rappresentano il 97% dell’elettorato, il “si” arrivò al 43,6% dei consensi. Secondo i promotori del referendum lo Stato avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire le strutture e gli appartati di partito, che invece devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti in maniera trasparente sul modello di quanto avviene in America e in Inghilterra. Ma l’Italia, si sa, non è un Paese anglosassone e la partitocrazia conta più della democrazia. Nel 1981 con la legge n°659 vengono raddoppiati i finanziamenti pubblici e vengono eliminati i divieti, per partiti ed eletti, di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione. I Radicali manifestarono in aula facendo ostruzionismo per bloccare la proposta di aumento dei finanziamenti ed ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché dei controlli efficaci. Ma è nell’aprile del 1993, sull’onda degli scandali e del relativo clima di sfiducia di tangentopoli, che il nuovo referendum abrogativo proposto dai Radicali Italiani raggiunse il quorum con il il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti che avrebbero dovuto ristrutturarsi e autofinanziarsi col sostegno dei propri iscritti e simpatizzanti. Niente di tutto questo: già nel dicembre del ’93, appena otto mesi dopo il referendum, la partitocrazia aggiorna, con la legge n°515, la già esistente norma sui rimborsi elettorali definiti “contributo per le spese elettorali”. Subito applicata con le elezioni del 1994, per l’intera legislatura vengono erogati ai partiti la bellezza di 47 milioni di euro in un’unica soluzione. La stessa cosa avviene due anni dopo per le elezioni politiche del 1996. Non ancora soddisfatta dalla fame di soldi, nel 1997 la partitocrazia inventa il 4 per mille ai partiti politici di fatto reintroducendo il finanziamento pubblico ai partiti. La legge n°2 del 2 gennaio del 1997 prevede infatti la possibilità per i contribuenti di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento dei partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito destinarli), per un totale massimo di circa 57 milioni di euro da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. I Radicali, promotori di quel referendum che, appena quattro anni prima, aveva abrogato il finanziamento pubblico tentarono il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario ma, pur essendo stato riconosciuto in precedenza come potere dello Stato, gli viene negata dalla Corte Costituzionale la possibilità di depositare tale ricorso. Il furto di democrazia si completa nel giugno del 1999 con la legge n°157 che dietro all’altisonante titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” nasconde, ma neanche troppo, la reintroduzione di un finanziamento pubblico dei partiti poiché quello che viene chiamato “rimborso elettorale” non ha nessuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. Applicata per la prima volta durante le elezioni politiche del 2001 la norma prevede ben cinque fondi: per l’elezione della Camera, per il Senato, per il Parlamento europeo, per le elezioni Regionali e per i referendum, erogati in rate annuali, per un totale di 193.713.000 € in caso di legislatura completa. Ma al peggio non vi è mai limite e, nel 2002, con la legge n°156 del 26 luglio il fondo diventa annuale, il quorum per ottenere il rimborso scende dal 4% al 1% e l’ammontare complessivo da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa balza dai precedenti 194 milioni di euro circa a 468.853.675 euro. Il paradosso totale per il finanziamento pubblico ai partiti abolito per referendum e reintrodotto dalla finestra si raggiunge con la legge n°51 del 23 febbraio dei 2006 che prevede che l’erogazione annuale del fondo è dovuta ai partiti per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata. Per cui, con la crisi del 2008 e le nuove elezioni politiche i partiti iniziarono a percepire il doppio dei fondi giacché intascano simultaneamente, le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura.

Va benissimo il dimezzamento delle commissioni regionali, dei relativi presidenti e delle loro auto blu. Bene pure il taglio delle consulenze e la riduzione dei componenti di strutture speciali di giunta e consiglio regionale. Ma il dimezzamento del numero dei parlamentari (ed anche quello dei consiglieri regionali), determinando collegi troppo ampi, non solo porterebbe ad un risparmio minimo rispetto alla grossa fetta dei rimborsi elettorali e, tale scelta, vanificherebbe persino l’introduzione di un sistema elettorale uninominale maggioritario, dal momento che il rapporto tra elettori ed eletti diventerebbe troppo elevato, impedendo l’effettivo controllo dei secondi da parte dei primi. Siamo sicuri che, per tagliare i costi che la politica fa gravare sui cittadini, si debba per forza tagliare anche la rappresentanza democratica?

 

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Altro che mille euro al mese

di Giuseppe Candido

pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 29.07.2010

La Camera ha approvato con voto di fiducia la manovra fiscale e, assieme alle misure di austerity con cui si bloccano gli stipendi al pubblico impiego per tre anni e con cui si tagliano i fondi agli enti locali che saranno costretti ad aumentare le tasse, ha deciso di tagliare di mille euro anche le indennità dei parlamentari. Per dare il buon esempio ai cittadini. Considerando i 945 Parlamentari e Senatori si otterrà un risparmio di 11.340.000 euro ogni anno. Lodevole? Macché, ben poca cosa rispetto a quanto poteva essere fatto soltanto riducendo i rimborsi elettorali che, dopo il referendum che l’aveva abolito, ha di fatto reintrodotto il finanziamento pubblico dei partiti. Una vera e propria truffa ai danni dei cittadini, grazie alla quale, ben 500 milioni di euro di finanziamento pubblico finiscono ogni legislatura nelle casse dei partiti a fronte di poco più di 100 milioni di spese effettivamente documentate. In questa direzione era stato presentato, dai deputati Radicali eletti nel PD, un emendamento alla manovra che intendeva limitare i rimborsi elettorali alle sole spese effettivamente documentate. Ciò avrebbe comportato una riduzione dell’80% del finanziamento pubblico. L’emendamento, manco a dirlo, è stato bocciato dalla Camera, in continuità con le scelte che sin dal ’93 vedono sabotata la volontà referendaria degli elettori che aveva detto un chiaro “No” al finanziamento pubblico dei partiti. Altro che buon esempio: anche nei momenti di crisi “la Casta” continua a succhiare denaro pubblico dalle casse dello Stato.

Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto nel ’74 dalla Legge Piccoli (L. n.195/1974), che interpretava “il sostegno all’iniziativa politica” come puro finanziamento alle strutture dei partiti presenti in Parlamento. Il referendum dell’aprile 1993 vide il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. L’Italia però si liberò di questa ruberia medievale solo per pochissimi mesi.

Con quello che potremmo definire, senza paura di venir smentiti, come uno dei più grandi tradimenti del volere popolare nello stesso dicembre 1993 il Parlamento aggiorna (con la Legge 515/1993) la legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”, subito applicata in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Per l’intera legislatura vengono erogati in un’unica soluzione 47 milioni di euro.

Insomma, aggirato il referendum e modificato un paio di definizioni i partiti tornano a appropriarsi impunemente e legalmente del denaro dei cittadini. Ma al peggio non c’è fine e la Legge 2/1997, intitolata “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, reintroduce di fatto il finanziamento pubblico ai partiti. Il provvedimento prevede la possibilità per i contribuenti, al momento della dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito), per un totale massimo di 56.810.000 euro, da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. Per il solo anno 1997 viene introdotta una norma transitoria che fissa un fondo di 82.633.000 euro per l’anno in corso (nonostante le adesioni siano minime).

Nel 1999, dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” si nasconde un’altro furto. Il rimborso elettorale previsto non ha infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. La legge 157/99 prevede cinque fondi: per elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, Regionali, e per i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa.

La normativa viene ancora modificata dalla Legge 156/2002, recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”, e che trasforma in annuale il fondo e abbassa dal 4 all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. Per cui abbiamo partiti che non siedono sugli scranni del Parlamento ma che percepiscono ugualmente i rimborsi truffa. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa sale da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro. Infine, con la Legge 5122/2006, l’erogazione dei rimborsi è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. L’aumento prodotto è esponenziale. Con la crisi del governo Prodi del 2008 e le conseguenti nuove elezioni, i partiti, anche quelli non più presenti in Parlamento, iniziano a percepire il doppio dei fondi, poiché ricevono contemporaneamente le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura. Per capirci: fino al 2011 anche l’Udeur di Mastella continuerà a percepire i rimborsi elettorali per la tornata del 2006, mentre i partiti che hanno raccolto almeno l’1% dei consensi stanno prendendo i rimborsi sia relativamente al 2006 che alle elezioni 2008 e sono sistemati fino al 2013. Per loro niente blocco degli stipendi e, forse, magari qualche aggiustamento all’ultimo minuto aumenterà ulteriormente il malloppo.

Per le politiche del ’94 a fronte di 36.264.124 euro di spese effettivamente documentate il rimborso ottenuto è di 46.917.449 euro con un surplus di 10.653.324 euro. Una differenza tra spese sostenute e rimborsi erogati che va aumentando di elezioni in elezioni: 22.649.220 di euro per le regionali del ’95 che diventano 27.105.163 di euro per le politiche del ’96. Nel 1999 alle europee si arriva quasi a 47 milioni di euro di differenza tra spese documentate e rimborsi incassati dai partiti. Cifra astronomica che, nel 2000, in occasione delle regionali aumenta ancora a 57 milioni e 200 mila euro. Ma è per le politiche del 2001 che avviene il salto di qualità: i partiti arrivano ad incassare, a fronte di neanche 50 milioni di euro di spese, la cifra astronomica di 476 milioni e mezzo di euro con una differenza di quasi 427 milioni di euro. Nel 2004, per le europee, la differenza tra spese e contributi incassati è di quasi 160 milioni di euro, 147 milioni di euro di differenza tra spese e contributi per le regionali del 2005. Per le politiche del 2006 la differenza tra spese sostenute dai partiti e i contributi erogati è di 376.771.092 euro e di quasi 393 milioni di euro per le politiche del 2008. Dal 1994, da dopo che era stato abolito il finanziamento pubblico, la casta ha continuato a dissanguare le casse dello Stato per un totale oltre 1,6 miliardi di euro. Altro che mille euro al mese di diaria in meno.

Paradossalmente, una crisi di governo con scioglimento anticipato delle Camere prima del 2011 costerebbe agli italiani i contributi ai partiti per ben 3 legislature (seppure non terminate): 2006, 2008 e 2010/2011. Speriamo perciò, se non proprio il governo, che duri almeno la legislatura.

Il finanziamento pubblico dei partiti dal 94 al 2010
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