Può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno in ufficio. Pure Einaudi l’aveva capito: “La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità”
Giuseppe Candido (*)

“Il minimo di vita civile, come noi lo intendiamo” – scriveva nel ’42 Ernesto Rossi in Abolire la Miseria – “implica anche un minimo di cultura e di preparazione per mettere in grado tutti i cittadini di partecipare consapevolmente alla vita pubblica e di apprezzare i valori della nostra civiltà. L’insegnamento elementare gratuito non basta. Occorrerebbe che la scuola accompagnasse tutti i giovani fino ai diciassette o ai diciotto anni”.
“L’apparato della Scuola pubblica dello Stato, se fosse paragonato agli apparati del corpo umano, dovrebbe essere considerato” – scriveva Piero Calamandrei – “come l’organo che nel nostro corpo produce il sangue: l’organo che dona alla nostra società le cellule di cui esso stesso si costituisce e che, ovviamente, sono da considerarsi i cittadini”.
Aggiungendo che,
“La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente, … non solo nel senso di classe politica, …, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie”.
Invece, immemori di tutto ciò, negli ultimi anni, a partire dal maestro unico, passando poi dalla riforma delle secondarie superiori fatta con tagli di ore e l’introduzione del “nuovo modo” per assolvere l’obbligo scolastico, ossia la formazione professionale delle regioni, la scuola è stata mortificata, svilita. Si è assistito ad una serie continua di tagli. Tagli ai fondi d’istituto, tagli al miglioramento dell’offerta formativa assieme al blocco degli scatti contrattuali.
Gli insegnanti delle scuole secondarie inferiori raggiungono, in media nei Paesi OCSE, il livello più alto della loro fascia retributiva dopo appena 24 anni di servizio, mentre in Italia, sono necessari ben 35 anni di servizio. E mentre nei paesi OCSE, tra il 2000 e il 2009, gli stipendi degli insegnanti sono aumentati mediamente di un 7%, in termini di potere d’acquisto, nel nostro bel Paese, sono invece diminuiti di oltre l’1%; a ciò si aggiunga il successivo blocco degli scatti d’anzianità. Negli ultimi 4 anni gli insegnanti hanno perso, in media, oltre 8mila euro del loro potere d’acquisto.
La scuola pubblica statale sembra essere diventata la fonte d’ogni spreco, per cui passibile di tagli. Tagli che si sono fatti, negli anni, badando solo al risparmio, alla diminuzione della spesa, ma senza un minimo di visione riformatrice unitaria in grado di dare alla scuola una nuova forma.
I dati rilevati nel 2011 dall’OCSE, l’osservatorio per la cooperazione e lo sviluppo economico, ci dicono che nel solo anno 2008, l’Italia ha speso il 4,8% del PIL per l’istruzione (posizionandosi al 29 posto su 34 Paesi), quasi un punto e mezzo percentuale in meno rispetto alla media dei paesi OCSE che è invece del 6,1%.
A tutto ciò si devono aggiungere gli effetti deleteri della nuova riforma col sistema della “formazione professionale” affidato alle Regioni e, da queste, a soggetti esterni privati che, spesso, hanno il solo fine del lucro e in una regione come la Calabria sono tutte attenzionate dalla magistratura. Tanto per fare esempi concreti basti solo ricordare le 106 persone denunciate dalla Guardia di Finanza perché i fondi europei regionali della formazione professionale venivano “utilizzati per finanziare corsi fantasma”. E la scuola pubblica cade a pezzi, le strutture sono spesso inadeguate dal punto di vista antisismico e molto spesso manca persino la carta per fare le fotocopie.
“Nessuna riforma potrebbe condurre ad un aumento più rapido della ricchezza nazionale quanto un miglioramento delle nostre scuole, specialmente quelle medie, purché” – sottolineava già nel 1895 Alfred Marshall nei suoi Princìpi di Economia – “fosse accompagnato da un generoso sistema di borse di studio, che permettesse al figlio intelligente di un operaio di salire gradualmente da una scuola a quella superiore, finché non avesse ricevuta la migliore istruzione teorica e pratica che i tempi gli possano dare”.
Quando era il centrodestra ad approvare le riforme coi tagli sulla scuola, il centrosinistra tuonava ricordando Piero Calamandrei. Nel 2010, addirittura, il Partito Democratico lanciava l’allarme sulla scuola e, partendo dagli obiettivi di Europa 2020, sviluppava “dieci proposte per la scuola di domani”, ufficialmente approvate dall’assemblea di Varese quasi a mo’ di comandamenti. “Per il futuro dell’Italia, per tornare ad avere alti tassi di occupazione, produttività e coesione sociale”, si leggeva in premessa, “dobbiamo raggiungere un risultato molto concreto: dimezzare il nostro tasso di dispersione scolastica e triplicare il numero dei laureati”. Aggiungendo a chiare lettere che, “solo se sapremo investire sui saperi, scommettendo sulla qualità del capitale umano del nostro Paese e su una società della conoscenza diffusa, potremo tornare a crescere”. E scrivevano che, per raggiungere tali obiettivi sarebbe stato necessario “arricchire l’offerta formativa”, “attribuire alla scuola autonoma e all’autonomia di insegnamento quelle risorse necessarie per innovare la didattica della scuola superiore di primo e secondo grado”. Ecco, non avevano spiegato, però, che avrebbero voluto fare il tutto sensa metterci un euro.
Si potrà obbiettare che c’è stata la crisi. Ma allora bisognerebbe andare a rileggersi ciò che disse sulla scuola, Matteo Renzi per farsi dare la fiducia al Senato, forse in un eccesso d’ottimismo:
“Al 1° luglio” – aveva solennemente dichiarato Renzi – “avendo affrontato i temi costituzionali, istituzionali, elettorali, di lavoro, di fisco, di pubblico impiego, di giustizia e impostato un diverso atteggiamento verso la scuola. … Noi pensiamo che non ci sia politica alcuna che non parta dalla centralità della scuola. (…) Qual è la priorità che questo paese ha nei confronti degli insegnanti? Sicuramente lo sa il Ministro dell’istruzione pubblica e dell’università: coinvolgere dal basso in ogni processo di riforma gli operatori della scuola. Ma c’è una priorità a monte: recuperare quella fiducia, quella credibilità, recuperare quella dimensione per cui se qui si fanno le cose, allora nelle scuole si può tornare a credere che l’educazione sia davvero il motore dello sviluppo. Chi di noi tutti i giorni ha incontrato cittadini, insegnanti, educatori e mamme sa perfettamente che c’è una bellissima e straordinaria richiesta che è duplice. Da un lato si chiede di restituire valore sociale all’insegnante, e questo non ha bisogno di alcuna riforma, ma di un cambio di forma mentis. (…) Ci sono fior di studi di economisti che dimostrano come un territorio che in veste in capitale umano, in educazione, in istruzione pubblica è un territorio più forte rispe tto agli altri. … Mi recherò nelle scuole, come facevo da sindaco, per dare un segnale simbolico, se volete persino banale, per di mostrare che da lì riparte un Paese. … È chiaro che il tema della scuola è parziale rispetto al grande tema dell’educazione. Si inizia con gli asili nido. Gli Obiettivi di Lisbona vedono oggi un Paese drammaticamente diviso in due, tra una parte dell’Italia che ha già raggiunto quegli obiettivi (con alcune città che stanno sopra il 40 per cento) e una parte dell’Italia … Metto a verbale che la scuola è il punto di partenza, e intervengo sulle quattro riforme che vi proponiamo, che vi proporremo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.”
Questo è quello che era stato detto in Senato. Belle parole. Oggi, però, come nota Lorenzo Misuraca dalle pagine del Garantista, si parla di accorciare gli studi a 4 anni di superiori e di portare l’orario di lavoro dei docenti dalle attuali 18 ore settimanali a 36 ore. Neanche a 24 ore settimanali come inizialmente ipotizzato dal ministro Profumo col governo Monti dovendo fare marcia indietro a causa delle proteste dei sindacati, ma addirittura a 36 ore, di cui sei ore (oltre le attuali 18) da dedicare frontali in classe per le supplenze dei colleghi e, ovviamente, senza il benché minimo aumento dello stipendio. La fabbrica del fiato. Col caldo estivo, quasi nel silenzio dei grandi media televisivi troppo attenti a tenere d’occhio la riforma del Senato per notare ciò che avviene nella scuola, il ministro dell’Istruzione Giannini e il suo sottosegretario Reggi, con lo slogan populista “più ore di lavoro, più qualità e più soldi per gli insegnanti”, preparano l’ennesima mortificazione dei docenti. Dimenticando ciò che, molto semplicemente, diceva Einaudi sulla scuola: “La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità”.
Il 21 aprile del 1913, sul Corriere della Sera, in un articolo titolato “La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi”, Luigi Einaudi smontava la teoria di “Renzi e Giannini” che all’epoca pure si andava diffondendo.
“Da vent’anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari è andata spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all’ufficio, seduti ad emarginare pratiche. A costoro” – scriveva Einaudi – “può sembrare che i professori con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola, deve riconoscere che nessuna iattura può essere più grande di questa. La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l’insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell’orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracce, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l’orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età ed un ufficio il quale rilascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola secondaria d’oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l’esponente e nello stesso tempo un’aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media”.
Una lezione, quella di Luigi Einaudi, che andrebbe certamente riletta attentamente prima di proporre riforme. Senza contare che, come hanno scientificamente dimostrato molte sigle sindacali del comparto con loro studi specifici, tra ore funzionali all’insegnamento, preparazione delle lezioni e correzione dei compiti, le 36 ore la settimana i prof italiani già li fanno.
* Giuseppe Candido, docente scuola media, militante partito radicale, dirigente provinciale Gilda degli insegnanti