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Tagliare i costi della partitocrazia e non quelli della democrazia

di Giuseppe Candido

Articolo pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” del 27 agosto 2010

Non c’è dubbio, la questione dei costi della politica e del funzionamento delle istituzioni, anche quelle regionali, è un punto che, in un momento come questo in cui il governo centrale impone una manovra finanziaria lacrime e sangue, tocca profondamente la sensibilità dei cittadini. Ed anche al palazzo Campanella del consiglio regionale si pensa ai tagli. Ma sarà sufficiente ridurre il numero delle commissioni e dei relativi presidenti, diminuire di qualche spicciolo i finanziamenti ai gruppi consiliari e limare le consulenze di giunta e consiglio? E siamo davvero sicuri che tornerà utile alla democrazia rappresentativa, ridurre il numero degli assessori e dei consiglieri regionali? O tutto ciò, ancora una volta, si tradurrà nell’ennesima beffa verso i cittadini ed il rafforzamento della partitocrazia? Sia a livello nazionale sia sul piano delle istituzioni regionali si fa finta di non sapere che il vero costo della politica che i cittadini avevano inteso abolire con la scelta referendaria dell’aprile del 1993, è quello del finanziamento pubblico dei partiti: nel clima di sfiducia che seguì lo scandalo di tangentopoli, il 90,3% dei cittadini si era chiaramente espresso a favore dell’abrogazione. Oggi si limano i costi delle consulenze, si pensa a diminuire il numero di eletti che, tra l’altro, renderebbe ancora più basso il rapporto degli eletti con gli elettori, ma neanche lontanamente si pensa a dimezzare stipendi, indennità e rimborsi elettorali. Secondo chi scrive sono infatti condivisibili le parole di Bobo Craxi quando afferma che “dimezzare il Parlamento equivale a dimezzare la democrazia. La democrazia italiana – ricorda ancora Craxi – è stata già abbastanza lesionata per prestare il fianco a demagogiche ristrutturazioni con l’alibi del risparmio”. Già, perché solo di alibi si tratta e non di vero risparmio. Dopo alcuni scandali del ’65 e del ’73, il Parlamento intese rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostegno dello stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusioni con i grandi poteri economici. Il finanziamento pubblico ai partiti venne introdotto dalla legge Piccoli nel maggio 1974 ed interpretava il sostegno all’iniziativa politica come puro finanziamento alle strutture dei partiti presenti in Parlamento, con l’effetto di penalizzare le nuove formazioni politiche: si ebbe l’effetto di rafforzare gli apparati burocratici interni dei partiti disincentivando la partecipazione interna. Già nel giugno del 1978 si tenne il primo referendum indetto dai Radicali per l’abrogazione della legge 195/1974. Nonostante l’invito a votare “no” da parte di tutti i partiti che rappresentano il 97% dell’elettorato, il “si” arrivò al 43,6% dei consensi. Secondo i promotori del referendum lo Stato avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire le strutture e gli appartati di partito, che invece devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti in maniera trasparente sul modello di quanto avviene in America e in Inghilterra. Ma l’Italia, si sa, non è un Paese anglosassone e la partitocrazia conta più della democrazia. Nel 1981 con la legge n°659 vengono raddoppiati i finanziamenti pubblici e vengono eliminati i divieti, per partiti ed eletti, di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione. I Radicali manifestarono in aula facendo ostruzionismo per bloccare la proposta di aumento dei finanziamenti ed ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché dei controlli efficaci. Ma è nell’aprile del 1993, sull’onda degli scandali e del relativo clima di sfiducia di tangentopoli, che il nuovo referendum abrogativo proposto dai Radicali Italiani raggiunse il quorum con il il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti che avrebbero dovuto ristrutturarsi e autofinanziarsi col sostegno dei propri iscritti e simpatizzanti. Niente di tutto questo: già nel dicembre del ’93, appena otto mesi dopo il referendum, la partitocrazia aggiorna, con la legge n°515, la già esistente norma sui rimborsi elettorali definiti “contributo per le spese elettorali”. Subito applicata con le elezioni del 1994, per l’intera legislatura vengono erogati ai partiti la bellezza di 47 milioni di euro in un’unica soluzione. La stessa cosa avviene due anni dopo per le elezioni politiche del 1996. Non ancora soddisfatta dalla fame di soldi, nel 1997 la partitocrazia inventa il 4 per mille ai partiti politici di fatto reintroducendo il finanziamento pubblico ai partiti. La legge n°2 del 2 gennaio del 1997 prevede infatti la possibilità per i contribuenti di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento dei partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito destinarli), per un totale massimo di circa 57 milioni di euro da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. I Radicali, promotori di quel referendum che, appena quattro anni prima, aveva abrogato il finanziamento pubblico tentarono il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario ma, pur essendo stato riconosciuto in precedenza come potere dello Stato, gli viene negata dalla Corte Costituzionale la possibilità di depositare tale ricorso. Il furto di democrazia si completa nel giugno del 1999 con la legge n°157 che dietro all’altisonante titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” nasconde, ma neanche troppo, la reintroduzione di un finanziamento pubblico dei partiti poiché quello che viene chiamato “rimborso elettorale” non ha nessuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. Applicata per la prima volta durante le elezioni politiche del 2001 la norma prevede ben cinque fondi: per l’elezione della Camera, per il Senato, per il Parlamento europeo, per le elezioni Regionali e per i referendum, erogati in rate annuali, per un totale di 193.713.000 € in caso di legislatura completa. Ma al peggio non vi è mai limite e, nel 2002, con la legge n°156 del 26 luglio il fondo diventa annuale, il quorum per ottenere il rimborso scende dal 4% al 1% e l’ammontare complessivo da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa balza dai precedenti 194 milioni di euro circa a 468.853.675 euro. Il paradosso totale per il finanziamento pubblico ai partiti abolito per referendum e reintrodotto dalla finestra si raggiunge con la legge n°51 del 23 febbraio dei 2006 che prevede che l’erogazione annuale del fondo è dovuta ai partiti per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata. Per cui, con la crisi del 2008 e le nuove elezioni politiche i partiti iniziarono a percepire il doppio dei fondi giacché intascano simultaneamente, le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura.

Va benissimo il dimezzamento delle commissioni regionali, dei relativi presidenti e delle loro auto blu. Bene pure il taglio delle consulenze e la riduzione dei componenti di strutture speciali di giunta e consiglio regionale. Ma il dimezzamento del numero dei parlamentari (ed anche quello dei consiglieri regionali), determinando collegi troppo ampi, non solo porterebbe ad un risparmio minimo rispetto alla grossa fetta dei rimborsi elettorali e, tale scelta, vanificherebbe persino l’introduzione di un sistema elettorale uninominale maggioritario, dal momento che il rapporto tra elettori ed eletti diventerebbe troppo elevato, impedendo l’effettivo controllo dei secondi da parte dei primi. Siamo sicuri che, per tagliare i costi che la politica fa gravare sui cittadini, si debba per forza tagliare anche la rappresentanza democratica?

 

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La forbice poteva tagliare altrove

di Giuseppe Candido

Il Governo approva le misure di austerità per risanare i conti pubblici. L’Italia è uno dei paesi europei con il più alto debito pubblico e il consistente pacchetto voluto da Tremonti è necessario per evitare che l’Italia affronti lo stesso destino della Grecia. Una manovra con oltre 24 miliardi di euro di tagli che incideranno notevolmente sulla vita degli italiani nei prossimi due o tre anni. I capitoli sui quali maggiormente si interverrà sono essenzialmente tre. In primis il blocco, per tre anni, del rinnovo dei contratti del pubblico impiego che da solo produrrà un gettito di 5,3 milardi di euro; altri 5 miliardi e 200 milioni proverranno dalla riduzione delle “finestre” di pensionamento dalle attuali tre ad una sola e dall’aumento, da 60 a 62 anni, dell’età cui potranno andare in pensione le donne. Poi c’è la fetta grossa da 13 miliardi di euro di tagli alle autonomie locali mediante la revisione dei parametri del patto di stabilità. Soldi in meno ai comuni e alle regioni che per far quadrare i loro bilanci dovranno aumentare le aliquote di competenza. Quindi, a guardar bene, non sarà certo coi tagli dei costi dei politici né tanto meno con l’abolizione di qualche provincia minore (e non invece di tutti gli enti inutili) che gli italiani usciranno dalla crisi. Poliziotti, dipendenti degli enti locali, professori, non vedranno aumentare il loro stipendio per tre anni mentre vedranno crescere le tasse locali a loro carico. A ciò aggiungiamo che in molte famiglie italiane i conti non tornano perché la crisi si è fatta sentire realmente, in tanti hanno perso il lavoro, gli incassi dei piccoli commercianti e delle piccole imprese si sono ridotti, i giovani non trovano lavoro o, quando ci riescono, non hanno uno stipendio adeguato e le donne hanno difficoltà ancora maggiori. Per questo contemporaneamente si annunciano limatine ai ministri e politici. Ma siamo davvero sicuri che non si poteva tagliare altrove, siamo sicuri che i costi della politica, i costi della non democrazia, si ridurranno davvero? Dopo essere stato abolito con referendum nel ’93 il finanziamento pubblico dei partiti è stato reintrodotto dalla finestra con il sistema dei rimborsi elettorali. A fronte di spese realmente dimostrate di 579 milioni di euro, dal 1994 al 2008 i partiti si sono spartiti 2,25 miliardi di euro, con un utile di ben 1,67 miliardi di euro. Poi c’è il capitolo della manomorta pubblica che, Sergio Rizzo nei “Rapaci”, spiega essere il vero problema dell’Italia: “il torbido impasto fra gli interessi dei partiti di destra e di sinistra, quelli del sindacato che producono clientele e spese”. Gli enti inutili come le Province, le comunità montane che si diceva di voler abolire. Ed è discriminatoria la norma che vorrebbe abolire soltanto le nove province con meno di 220.000 abitanti salvando le poltrone inutili di tutte le altre. Non si interviene nemmeno su quel “dedalo inestricabile di ambiti territoriali, consorzi di bonifica” che rimane tal quale consentendo la moltiplicazione delle poltrone per la sistemazione in posti dirigenziali dei politici trombati: “Le migliaia di società a controllo pubblico sono le uniche discariche che funzionano in questo Paese” le aveva definite l’ex presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. Sono i costi della democrazia, che il libro di Cesare Salvi e Massimo Villone ci mostra in dettaglio e che si sarebbe potuto tranquillamente titolare “I costi della non democrazia”, degli sprechi a tutti i livelli, degli enti inutili per garantire poltrone elettive e nomine dirigenziali. L’Italia è il Paese dove si fanno società pubbliche per tutto: anche per dare consulenze milionarie senza nessun tipo di gara favorendo le cricche degli amici. E’ il Paese che paga il conto salato di aziende pubbliche come l’Alitalia che non starebbe sul mercato di nessun altro Paese e che vanta “il record mondiale dei menager bruciati”. Il Paese dove “è normale che un’azienda statale faccia causa a un’altra azienda statale e metta in conto agli italiani seicentomila euro di parcelle”. Nel Paese di Pulcinella dove è normale che ai politici tocchi percepire la pensione già dopo appena due anni di legislatura, siamo sicuri che la forbice non poteva tagliare anche altrove?

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