Le fallite trattative, le sedute spiritiche, fughe compiacenti…
di Valter Vecellio
Commissione sostanzialmente inutile, si dice da più parti a proposito della commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda Moro; già ce n’è stata un’altra, e del caso, a livello parlamentare, a suo tempo se ne sono occupate anche la Commissione d’inchiesta sulle stragi, e (anche se non principalmente) quella sulla P2 e l’antimafia; per non parlare dei tanti processi e inchieste, una delle quali ancora in corso. Molti dei protagonisti e dei testimoni diretti sono morti, da Giulio Andreotti a Francesco Cossiga e Amintore Fanfani, da Paolo VI a Giovanni Leone…dunque, c’era davvero bisogno di una nuova Commissione, tenendo anche conto della battuta (che però quasi mai è uno scherzo), che se si vuole insabbiare e ingarbugliare qualcosa, basta fare una Commissione?
Che si può ancora ricavare, da una Commissione che ascolta personaggi già ascoltati, accerta fatti già accertati, rinviene documentazione già esaminata e conosciuta? Messa così, nulla si potrebbe rispondere; non ce ne facciamo nulla: anche se non si può mai davvero dire.
Una commissione parlamentare potrebbe ripercorrere tutta quella vicenda e analizzarla a distanza di tanti anni facendo l’opportuna tara delle contingenti polemiche, dei silenzi e delle interessate prese di posizione che avevano un senso (non da condividere, ma all’epoca almeno comprensibili, rubricabili nella cosiddetta “ragione di Stato”, per quanto malintesa). Roba ormai per gli storici, si potrebbe obiettare; certo. E molti storici, infatti, se ne sono occupati, anche se non sempre con quell’acume e quell’attenzione di cui è stato capace uno che storico non era: Leonardo Sciascia, che in molte delle sue “inquisizioni” precedenti all’ “Affaire Moro” aveva saputo cogliere dal passato moniti e “lezioni” per il presente e il futuro incombente.
Ma è pur vero che forse non è materia da lasciare ai soli storici. Per dire: forse, anzi quasi sicuramente, non è stato analizzato compiutamente, e compreso, quel grande capitolo che vede Paolo VI mobilitarsi per salvare Moro, una “trattativa” che non raggiunge il suo scopo; e che viene ostacolata, da fazioni chiamiamole anti-fucine, o anti-paoline, presenti all’interno dello stesso Vaticano. Perché all’epoca dei fatti c’è il Pontefice che vuole fare “qualcosa”; c’è il presidente della Repubblica Giovanni Leone che è disposto a fare “qualcosa”; c’è il presidente del Senato (la seconda carica dello Stato), che “sente” di dover fare “qualcosa”; e poi c’è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, che “sente” di dover impedire che quel “qualcosa” si faccia, e lo dice chiaramente, nella lettera inviata a Paolo VI, dopo la visita che il segretario di Stato vaticano monsignor Agostino Casaroli gli fa, per incarico del papa; lettera importante, che enumera tutte le ragioni perché “qualcosa” non si può e non si deve fare; da parte dello Stato italiano, e da parte, anche, del Vaticano.

E quel “qualcosa”, la trattativa, effettivamente non si fa. Andreotti, anche lui fucino, anche lui legatissimo agli ambienti vaticani, dice No; al suo fianco trova l’allora ministro dell’Interno Cossiga; che quella posizione assume coscientemente, e certamente in modo sofferto, al punto di somatizzarla… Chi e cosa è stato più forte e potente del pontefice, del presidente della Repubblica, del presidente del Senato? E quali argomenti (e obiettivi) oltre quelli dichiarati e facilmente rintuzzabili? Perché per Moro non si tratta (mentre si tratta, in seguito, per Ciro Cirillo), ma si tratta anche prima (per il giudice Mario Sossi). E per restare in tema di trattativa il PCI, pilastro della cosiddetta “fermezza” (o meglio: dell’immobilismo, che tale era), capisce che partita si gioca facendo leva sulla sua disponibilità, o non se ne rende conto? Perché se comprende, siamo in quel perimetro (ancora Sciascia!) che possiamo definire da “Contesto”; se al contrario, erano “semplicemente” ottusi, incapaci di comprendere che uso veniva fatto della loro “fermezza”, beh: ognuno poi ne tiri le somme. Resta comunque il fatto, doloso anche se colposo, che in quei 55 giorni le istituzioni semplicemente si “dimettono”, chiudono, il presidente della Camera Pietro Ingrao ripetutamente sollecitato, nega perfino una parvenza di dibattito parlamentare come sarebbe stato giusto e logico fare (ed è quello che con beffarda ironia rimprovera don Mennini nella sua ultima audizione). Tecnicamente, ma non siamo esperti, vorremmo lo dicessero loro, una situazione da colpo di Stato.
In quei 55 giorni si fa largo uso di “veggenti”, “sensitivi”, c’è la famosa seduta spiritica che vede attorno a un tavolino Romano Prodi, Mario Baldassarri, Alberto Clò, tra gli altri. Non sappiamo bene cosa si sia mosso, se il piattino, se il cucchiaino, se entrambi gli oggetti (interrogati, i presenti, danno versioni con particolari che divergono), c’è un accordo, un patto: accreditare l’inverosimile storia, certificarne la verità pur sapendo che nessuno crede sia vera. Perché lo hanno fatto? Perché continuano a farlo ora? Diamo per buona la spiegazione di quanti sostengono che si tratta di “artifici” più volte usati per poter giustificare notizie comunicate da confidenti, e “innominabili” fonti. Allora, da tutelare, non “nominare”. Ma il veto c’è ancora? Quella fonte va ancora protetta, tutelata? Quella fonte che indica il nome di Romano Prodi e tutti corrono nel paese, invece che dare un’occhiata nella via romana; una via di cui si nega perfino l’esistenza, e la signora Moro insiste, e caparbia la cerca, trovandola, nello stradario cittadino; e pur tuttavia nulla accade, se non dopo la provvidenziale manina che lascia aperto un rubinetto… Tutto questo ancora deve essere coperto da omertà e silenzio? E magari Prodi potrà tornare a raccontare d’aver visto con i suoi occhi il tavolino muoversi. Così noi con più agio potremo credere a Berlusconi quando dice che era convinto, telefonando alla questura di Milano, che Ruby era la nipotina di Mubarak. Ci potremo fare la seconda, amarissima, risata…
Dal momento che siamo nel discorso. Tra i buchi neri dell’“affaire Moro” c’è anche la latitanza di Alessio Casimirri, ex brigatista del commando di via Fani. Una fuga, la sua “protetta”. Ora vive in Nicaragua, si era prima rifugiato in Francia, con un passaporto, si dice, fornito dai servizi segreti, sulle sue tracce un magistrato e un alto ufficiale dei Carabinieri, che però vengono bloccati. Casimirri poi decide di rifugiarsi nel Nicaragua sandinista (sempre secondo i si dice gode della protezione dell’allora ministro dell’Interno Thomas Borge), ma per arrivare in Nicaragua, racconta al settimanale “L’Espresso”, passa da Mosca; la Mosca di Andropov, quella ancora comunista. In aeroporto “soggiorna” tranquillamente per due o tre giorni, nessuno lo disturba, infie arriva a Managua, dove acquisisce, caso più unico che raro, la cittadinanza pur non avendo alcun titolo per farlo, e da allora è un intoccabile. Ecco, facciamoci qui la seconda risata come quella che ci siamo fatti a proposito della seduta spiritica. Poi, è proprio vero che tutte le strade portano a Roma e al Cupolone: che Alessio è figlio di Luciano, capo dell’ufficio stampa e portavoce di tre pontefici, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quest’ultimo, in persona, celebra la sua prima comunione. Certo non avrebbe mai potuto immaginare che quel bambino sarebbe poi diventato uno dei rapitori di Moro. Si sostiene tuttavia da più parti che Casimirri abbia una certa dimestichezza con i servizi segreti. Quelli dell’Est europeo, ma qualche contatto anche con quelli italiani se è vero che un paio di agenti dell’allora SISDE lo contattarono nel suo ristorante “Magica Roma”, a Managua. C’è poi chi sostiene che nel giugno 1987, sul tavolo dell’allora direttore del Sisde, Riccardo Malpica, sia arrivato un appunto riservato: “Fonte confidenziale solitamente attendibile ha riferito che i brigatisti latitanti Casimirri Alessio e Algranati Rita si troverebbero presso una missione cattolica dell’ Africa centrale. Il loro espatrio sarebbe stato favorito dall’intervento di un soggetto che opera in Vaticano, probabilmente legato da vincoli di parentela al Casimirri”.
Fatto è che oltre rapimento Moro (per questo è stato condannato all’ergastolo, estradizione non concessa), Casimirri il 10 ottobre 1978 prende parte anche all’omicidio del magistrato Girolamo Tartaglione. Su di lui pendono sei ergastoli (mai un giorno di galera), emessi nel processo Moro-ter. Ora divide il suo tempo tra il ristorante di Managua e le battute di caccia subacquea a San Juan Del Sur, dove ha aperto il suo secondo ristorante, “Doña Ines”, e ha messo su famiglia: moglie e due figli…
Anche se solo riuscisse a dare una sola risposta a tutte queste domande e fare un po’ di luce su questi “buchi neri”, si potrebbe dire che non è inutile aver istituito la Commissione parlamentare Moro. Ovviamente, non basta augurarsi che una cosa si realizzi, perché questa accada.