Formazione obbligatoria di regime

Un provvedimento destinato a cambiare completamente lo status professionale e la carriera dei docenti

di Giuseppe Candido

Secondo il professor Giovanni Corasotti, intervistato da Paola Tongiorgi per Gilda TV, il nuovo documento emanato dal ministero dell’istruzione sulla formazione obbligatoria dei docenti, rappresenta una vera e propria svolta. Un provvedimento destinato a cambiare completamente lo status professionale e la carriera dei docenti. Ovviamente peggiorandola. Ma quel che è peggio è il fatto che rovinerà la scuola italiana una volta per tutte trasformandola nella scuola del regime.

Concordo con il sindacalista sul fatto che, il nuovo Piano per la formazione dei docenti 2016-2017, non è certo elogiativo per gli insegnanti. Nè per chi è entrato da poco in ruolo né per chi ha insegnato per anni con risultati anche gratificanti.

formazioneobbligatoria
Guarda il video

Gli insegnanti devono imparare nuovamente tutto. Il bagaglio professionale non conta più nulla perché ciò a cui ci siamo dedicati finora non è neanche previsto in minima parte come attività di formazione e, come ha detto la ministra molto chiaramente, dobbiamo “ritornare sui banchi di scuola”.

Un documento che mai è stato così esplicitamente rivolto contro i docenti. Sinora, ricorda Corasotti, <<c’era sempre stata una sorta di “captatio benevolentia” per cercare di considerare gli insegnanti professionalmente affidabili e, loro, i veri protagonisti della scuola”.

Leggendo attentamente il piano si capisce – in realtà – quello che è, invece, il vero fine del provvedimento: l’ammaestramento degli insegnanti. Obbligarli ad utilizzare delle metodologie definite dall’alto e rispetto alle quali non hanno possibilità alcuna di scelta. Metodologie che non hanno alcun fondamento scientifico né teoretico.

I presupposti teorici. Ma l’aspetto più inquietante del provvedimento – nota ancora il prof. Carosotti – “è un altro e – senza fondamento – mette a serio rischio il principio costituzionale della libertà di insegnamento”, tutelato dall’articolo 33.

Qual’è l’aspetto inquietante? E’ il fatto che si presenta il tutto come documento fondato su criteri pedagogico didattici offerti come frutto, ormai indiscutibile, di una ricerca metodologica, cognitivista, scientifica senza alcuna possibilità di contraddittorio. In realtà non è così.

Il concetto di “competenza” su cui ruota l’intero provvedimento e che la gilda degli insegnanti ha più volte analizzato, è un concetto inesistente. Senza le conoscenze disciplinari le competenze non esistono. Salvatore Sechi, storico, ha recentemente detto che le “conoscenze” sono la cosa più importante dell’insegnamento e che le competenze non servono a nulla.

Un documento onesto avrebbe dovuto portare avanti le proprie posizioni, ma fare anche riferimento alle tesi contrarie esposte dalle intelligenze più importanti della nostra cultura e che, tra l’altro, sono maggioritarie. Niente di tutto ciò. Il nuovo piano per la formazione dei docenti procede come un documento tipico dei regimi autoritari, auto elogiandosi con riferimenti interni in cui si dà per scontato senza che quanto viene abbia un minimo di riscontro fattuale.

La didattica per competenze, per i meno esperti, è la metodologia che prevede il passaggio dall’insegnamento dei saperi disciplinari e delle conoscenze, a quello del sapere costruito dagli alunni. Anziché insegnare le discipline, insegnare con le discipline. Tutte belle parole che, però, hanno un vuoto contenutistico assoluto. Tutti gli snodi su cui si articolerà la formazione dei docenti (competenze digitali, la CLIL e la loro preparazione linguistica, la didattica inclusiva per i BES e i DSA, l’alternanza scuola lavoro) sono tutte strategie per imporre queste metodologie. Il caso più eclatante è forse quello dei DSA, la pedagogia per i BES che, ovviamente, ha una grande importanza civile e culturale.

RenziPinocchio
Leggi altri articoli su La buona scuola

Quello che viene proposto non è, però, una metodologia adatta ai bisogni educativi speciali, per gli alunni in difficoltà che con qualche misura compensativa o con qualche semplificazione della richiesta, potrebbe arrivare ad acquisire conoscenze e concetti fondamentali secondo un percorso adatto a quello studente. No, in realtà questa metodologia deve riguardare tutti: una metodologia basata su contenuti semplificati, su mappe concettuali, diagrammi e uso dell’informatica. Fine della lezione frontale.


Ma fosse solo questo, resterebbe il solito proclama sulle competenze (che perseguita gli insegnanti dall’epoca del ministro Berlinguer), e resterebbe anche questo un documento di principi, ma fuori dalle attività didattiche.

Il problema è che l’organizzazione stessa della nuova formazione obbligatoria degli insegnanti, di fatto obbligherà tutti gli insegnanti ad utilizzare – acriticamente – queste “nuove” metodologie che gli vengono calate dall’alto senza possibilità alcuna di scegliere. E la cosa curiosa è che il tutto viene fatto attraverso parole belle e formule retoriche: “Coinvolgimento di tutta la comunità scolastica”, deve però leggersi come gestione unitaria cui tutti dovranno adeguarsi; più “autonomia scolastica” non significa che ci sarà maggiore autonomia dei collegi docenti, ma, al contrario, va letta come maggiore autonomia delle figure gerarchiche di ciascun istituto ad imporre al loro corpo docente tutte le decisioni che provengono dall’alto.

 

La peste ecologica e il caso Calabria
La peste ecologica e il caso Calabria. Il libro di Giuseppe Candido con la prefazione di Carlo Tansi e l’introduzione di Marco Pannella e Rita Bernardini

La rete di scuole non sarà una fattiva collaborazione tra diverse plurime sperimentazioni didattico-disciplinari, ma un sistema di controllo per far sì che tutti gli istituti si adeguino ai medesimi criteri metodologici.

 

E anche il ruolo dei Dirigenti scolastici cambia: il sistema di valutazione dei dirigenti serve ad obbligarli ad imporre ai loro docenti l’uso di metodologie determinate. Se non ci riescono, se non piegano la resistenza dei docenti, pagano loro i costi dal punto di vista professionale.

Per esser sicuri che tutti applicheranno le metodologie pre ordinate, della stessa formazione dei docenti ci sarà un monitoraggio: quanto appreso dovrà subito essere messo in pratica, applicato in classe e si dovrà dimostrare di aver fatto un tot di lavori di carattere digitale, per laboratori o simili.

L’esigenza del Paese. L’intero documento relativo alla formazione obbligatoria, viene presentato come un’esigenza del Paese e, se è un’esigenze del Paese come corollario ne deriva che il piano di formazione obbligatoria sovrasta il principio costituzionalmente tutelato della libertà di insegnamento.

Quali sono le esigenze del Paese? Semplice: le lingue straniere e la digitalizzazione. Detto così sembra quasi coerente, invitante, quasi come un bonus. Ha un forte impatto mediatico: siamo tutti d’accordo che un giovane, all’uscita dal liceo, debba saper padroneggiare un computer e almeno una lingua straniera. Bisognerebbe aumentare le ore di insegnamento dedicate alle lingue e all’informatica: invece, dopo aver tagliato le ore di lingue e tolto l’ora di informatica alla scuola media, adesso si chiede a tutti i docenti di insegnarle non le discipline ma attraverso le loro discipline.

L’idea che però non convince è che queste esigenze del Paese debbano cambiare il paradigma della scuola e dell’insegnamento: il
docente non deve più diventare bravo e competente nell’uso degli strumenti digitali, ma deve diventare più bravo ad usarli nella didattica: ogni insegnante deve essere anche un insegnante di informatica e insegnare – attraverso la sua materia – anche i principi dell’informatica. La ministra addirittura ha affermato che, ogni insegnante dovrà diventare anche un insegnante di lingua straniera e utilizzare la propria disciplina per promuovere le competenze nell’uso delle lingue straniere. E dovrà essere anche un insegnante di sostegno. Tutto questo, in pratica, non diventa una competenza d’appoggio alla competenza disciplinare perché diventa esclusivo e sovrastante rispetto a quello disciplinare.

E’ significativo che nel nuovo piando per la formazione dei docenti, tutte le aree di approfondimento formativo non prevedono l’approfondimento disciplinare. Lo escludono totalmente e sono tutte le attività improntate a queste nuove metodologie che – come detto – non hanno alcun fondamento scientifico.

Significativo è quando si scrive che per i docenti che faranno fatica ad acquisire queste nuove metodologie, saranno forniti “quadri teorici consistenti, esempi e modelli significativi immediatamente applicabili”. In pratica, se un insegnante non sarà in grado di applicare quelle metodologie da solo, gli saranno fornite unità didattiche già pronte e confezionate.

Della libertà di insegnamento non rimane nulla perché viene meno la competenza disciplinare. Ci dicono che così la professionalità dei docenti si arricchisce, si informa, avremo più qualità da spendere con cui differenziarsi e, quindi ecco il legame con la chiamata diretta, sulla base di quelle nostre qualifiche che rientreranno nel portafoglio personale i presidi avranno maggiore facilità per poterci scegliere e selezionare in un gioco che diventa, nel linguaggio del documento, un gioco di domanda e offerta. Un gioco di domanda-offerta che s’intreccia con la chiamata diretta dei docenti. Quasi tutti i docenti che insegnano con successo, con sacrificio, dedizione, non potranno dare un’offerta adeguata alla domanda perché la loro “offerta”, quella seria, fatta di saperi e conoscenze disciplinari, quella che come dicono Salvatore Sechi, Giulio Ferrone e tutti i grandi intellettuali che si sono occupati di scuola, non sarà “offerta” richiesta dai dirigenti scolastici. Un preside, infatti, che cerca e troverà un docente di storia e filosofia molto preparato, se ne appare un altro con poca esperienza, poco qualificato dal punto di vista disciplinare, ma che dimostra di conoscere bene la lingua inglese e l’uso dell’informatica nella didattica, o semplicemente perché ha fatto un corso per BES e DSA, quel preside dovrà scegliere il secondo perché sarà in grado di usare quella metodologia di trasmissione del sapere – con competenze digitali e linguistiche – che sacrifica però i contenuti disciplinari.

Se questo è il quadro, che fare? Secondo il professor Giovanni Corasotti, “la partita è quasi chiusa”. Chiusa perché “l’anno scorso è stato l’anno cruciale, un anno in cui i docenti – malgrado avessero fatto uno sciopero in massa per contrastare la legge – dopo averla vista votata in parlamento e approvata con meccanismo della fiducia e tecnica del maxi emendamento, non hanno neanche firmato tutti per il referendum abrogativo di cui i sindacati si erano fatti promotori.

L’anno scolastico passato era l’anno in cui bisognava approvare un Piano Triennale dell’offerta formativa (PTOF) tutti insieme, condiviso, concordato dai collegi dei docenti e che ribadisse quelle che sono le condizioni professionali della stragrande maggioranza dei docenti italiani.

Non serviva diversi tra chi diceva: “c’è qualcosa di buono”, e chi invece vedeva il bicchiere vuoto e gridava allo scandalo. Bisognava capire che l’intento del governo era (ed è) lo stravolgimento della scuola italiana.

D’altra parte ci rendiamo conto che non possiamo cedere, non possiamo mollare la lotta, almeno sul piano intellettuale perché sappiamo, come docenti, di essere dalla parte della ragione, delle ragioni della cultura e della scienza della formazione.

Per primo bisogna battersi affinché si evitino corsi di formazione online. Avere formatori in presenza ci consentirà di dover sentire stupidaggini senza poter interagire.

Secondo, parlare con i genitori per spiegare ciò che sta avvenendo. Spiegare ai genitori che spesso sono suggestionati da queste nuove metodologie e quando iscrivono i loro figli chiedono, si informano proprio sulle aperture della scuola in cui iscrivono i propri figli verso queste forme di “didattica innovativa”.

Quando a scuola si lavora bene, quando capiscono l’importanza del lavoro disciplinare perché lo constatano nei progressi dei loro figli, è quello il momento che bisogna intervenire. Intervenire per sostenerli e far capire loro un cosa chiara: se passa questo tipo di scuola fondato su queste metodologie d’insegnamento calate dall’alto, la possibilità di competizione dei loro figli diminuirà drasticamente. Ciò che ancora li rende, che ci rende come italiani, competitivi verrà drasticamente meno perché ci sarà una dequalificazione cognitiva assoluta che non permetterà ai nostri ragazzi di mettersi in concorrenza nei mercati globali. Questo i genitori sono in grado di capirlo. Quando vedono che il lavoro disciplinare fatto a scuola serva, che la metodologia – come diceva un grande studioso americano che già vent’anni fa era scettico sul sistema delle competenze – si apprende attraverso il contenuti disciplinari e non rinunciandovi.

Terzo fronte di lotta possibile: cerchiamo di costituire reti di scuole dal basso, una rete di esperienze didattiche condivise, e non la rete come quella che prevede questo nuovo decreto che, di fatto, è una rete di controllo. Altrimenti, al posto di una scuola laica e libera da tutti i potenti come chiedeva Salvemini – ci si dovrà accontentare della scuola di regime.

 

Guarda l’intervista al prof. Corasotti.

Share