“Fimmani e omani”.

di Maria Elisabetta Curtosi

Se verrà un giorno in cui smetteremo di chiederci se Vincenzo Ammirà, monteleonese, classe 1821, sia o no il più grande poeta calabrese,riconoscimento del quale l’interessato stesso non farebbe salti di gioia, vista anche l’amarezza con cui il poeta del Carmine-ex rione del paradiso terrestre vibonese che tanto decisivo nei suoi versi appare, oggi definitivamente deturpato da un progresso senza sviluppo. Fimmani, omini, natura, cultura e mondo: i temi della poesia ammiriana sono spesso risolvibili in tensioni irrisolvibili che hanno accompagnato lo scorrere dell’ultimo decennio dell’ 800 poetico esplorandone quella che sarebbe troppo facile definire una società profondamente corrotta. Le due leggendarie figure della poesia calabrese hanno plasmato con entusiasmo l’anima della gente, non solo in Calabria,ma la loro opera si è appannata, nel tempo. “L’atmosfera romantica che stupì il mondo della letteratura meridionale con le sensuali poesie si fa fatica a ritrovarla là dove la poesia è artificio, retorica, buona soprattutto nei salotti della domenica. La pratica diffusa oggi è una non celata forma di prostituzione che offenderebbe una come Cecia: qui da noi, e forse anche altrove, una signora desiderosa di occupare alacremente la propria vacanza  può comprare in un comune un incarico qualunque. La nostra coscienza è molto sporca”.

Quale dunque l’interesse di queste raccolte, a parte il gusto per lo scandalo.  Solo e semplicemente per amore della verità della conoscenza a tutto tondo come direbbe qualcuno ,nel senso che la conoscenza di qualcuno o di qualcosa non può nascondere o escludere nessuna parte di se o della sua opera.  Se vogliamo per davvero prendere le misure del Monteleonese Vincenzo Amnmirà e dell’apriglianese Domenico Piro alias Donnu Pantu, accanto ai versi sonori, cantabili, sfumati e sfuggenti, gioiosi e dilettevoli e rispettabili delle loro liriche note, si deve, appunto per amore di verità e di conoscenza.

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