di Giuseppe Candido
Mentre di mattina volano cazzotti tra i lavoratori dell’”Alcoa” e la polizia che cerca di contenerne la disperazione durante la manifestazione contro il ritiro della cassa integrazione all’azienda sarda, nella serata dello scorso 26 ottobre abbiamo visto i lavoratori di Eutelia, oggi svenduti al costo di un euro alla società “Agile” per essere poi licenziati, manifestare sotto al palazzo del governo mentre i sindacati trattavano sulla sorte per i lavoratori di quell’azienda che Tremonti, ad Annozero, ha definito “un caso di cattiva gestione aziendale”. Ma i casi si susseguono: dal lodo mondadori passando per il caso parmalat e, arrivando all’oggi, con i casi Alcoa e Eutelia-Agile si ha la prova che il problema sia diffuso. Il problema è che in Italia, non essendoci delle ferree regole e dei seri sistemi di controllo delle società di capitali, si è perpetuata per decenni una sorta di deviazione del libero mercato che ha ingenerato quello che, Ernesto Rossi già nel 1952, aveva definito “capitalismo inquinato” prevedendo dettagliatamente le corruttele e gli intrecci tra politica affari e banche, quarant’anni prima, ciò che sarebbe poi di fatto avvenuto con tangentopoli e la fine della prima repubblica. Il caso Eutelia venduta per un euro alla Agile e quello dell’Alcoa, azienda sarda cui si toglierebbe oggi la cassa integrazione per evitare di mantenere un’azienda che non sta più, senza interventi statalisti, sul mercato testimoniano che l’inquinamento non solo persiste, ma anzi, dilaga ed è contagioso. Parmalat vendeva bond senza valore, Eutelia vende un’azienda di 1192 dipendenti ad un euro ad una società che, come le scatole cinesi, si suddivide in otto società “regionali” per poi prevedere il licenziamento dei dipendenti ci dimostrano che si tratta non di “un caso” isolato ma di un sistema diffuso e fallimentare di “non controllo” del libero mercato che, come ricordava quasi sessant’anni or sono lo stesso Rossi, se regolato dal solo desiderio individualistico di accumulare profitti può fare danni anche maggiori di quelli che facevano i regimi collettivistici comunisti. Oggi quel volume la cui ristampa è stata curata da Roberto Petrini (Ernesto Rossi, Capitalismo inquinato, Ed. Laterza, Bari, 1993) e che portava la prefazione di Eugenio Scalfari, meriterebbe forse una rilettura attenta. Un libro scritto nel 1952 ma dimostratosi già previgente e veritiero per gli anni novanta, di un sistema capitalistico distorto foriero di corruzione e di conseguenze nefaste verso gli strati più deboli. Scalfari, nella prefazione all’edizione del ’93, ricorda come Rossi fu “la bestia nera di forze e istituzioni potentissime: Il fascismo prima … e il nemico pubblico numero uno della “grande industria i cui capi, se l’avessero potuto avere dalla loro o ridurre al silenzio chissà cosa non avrebbero dato”. Quello che muoveva le critiche con articoli di giornale contro “I padroni del vapore”, “Non era un comunista, un socialista o comunque un fautore di soluzioni stataliste… Bensì un liberista, un liberal – democratico, un avversario leale del PCI, un amico di Luigi Einaudi e di Gaetano Salvemini, sostenitore della grande riforma roosveltiana del new deal.
Secondo Rossi il capitalismo italiano era (ed oggi dobbiamo constatare rimane) inquinato e la sua analisi, già nel ’52, prevedeva che “il libero mercato, la libera concorrenza e la libertà di accesso al mercato sono condizioni permanentemente a rischio, che debbono essere create e mantenute da apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e di sanzione”. In secondo luogo, l’economia mista, quella cioè fatta da aziende a partecipazione statale che ancora oggi è diffusamente presente nel nostro paese, “si risolve di fatto in una privatizzazione dei profitti e in una pubblicizzazione delle perdite”. Il capitalismo italiano, “a causa della ristrettezza del mercato dei capitali e della struttura duale del paese (nord-sud), è stato fin dal suo nascere fortemente intrecciato ai gruppi politici dominanti e al sistema bancario” ingenerando “una reciproca interdipendenza tra gruppi politici, gruppi industriali e gruppi bancari”. Un’interdipendenza che non solo perdura tutt’oggi ma che, anzi, si è andata aggravando con la presenza, nelle pubbliche amministrazioni e nell’economia legale, della criminalità organizzata che, nel mezzogiorno e la Calabria, rappresenta l’azienda privata più grossa in grado di inquinare il mercato anche con capitali illecitamente accumulati.
Ancora oggi, l’analisi di Ernesto Rossi centra il problema: quello delle regole e delle autorità necessarie a farle rispettare. Il problema, anche in Calabria, è quello delle regole e degli imprenditori onesti sostituiti dai soliti “prenditori” di finanziamenti pubblici, di contributi, di casse integrazioni in una sorta di capitalismo tarocco, inquinato appunto.