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Illustrissimo Signor Presidente Napolitano: “LA CALABRIA RISCHIA DI DIVENTARE LA SOMALIA DELL’OCCIDENTE”

LETTERA APERTA DELL’INDUSTRIALE PIPPO CALLIPO, CANDIDATO ALLA PRESIDENZA DELLA REGIONE, AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO: “LA CALABRIA RISCHIA DI DIVENTARE LA SOMALIA DELL’OCCIDENTE”

Illustrissimo Signor Presidente Napolitano,

il movimento politico dell'imprenditore Pippo Callipo

dopo i terribili fatti di Rosarno, che anzitutto chiedono il rispetto per l’umanità delle persone, intervenga Lei per la Calabria abbandonata. La Sua decisione di venire in Calabria in qualche modo è rincuorante. La reazione di alcuni Ministri, l’inesistenza della Regione persino sul fronte dell’assistenza socio-sanitaria, l’impotenza del volontariato e di tutte le benemerite “agenzie” in favore degli immigrati, dopo il fuoco e le fiamme di Rosarno nella Piana di Gioia Tauro, ci dicono che vi è una sottovalutazione drammatica del “caso” Calabria. Rosarno non è che un punto critico di un quadro regionale che oggi è già fuori dalle regole democratiche. Chi Le scrive non è una “Cassandra” ma un imprenditore che vive ed opera in Calabria. Non soltanto Rosarno è un problema grave, ma la Calabria intera è una polveriera sociale. Se le Istituzioni nazionali, compresi i vertici dei partiti, non interverranno per tempo, la Calabria ha il destino segnato: sarà un’area senza sviluppo, senza regole, con un’infima qualità della vita, con ampie sacche del territorio inquinate e con una delle mafie più pericolose; e la Calabria è Italia, Europa.

L’Occidente, egregio Presidente, sta lasciando che la Calabria diventi la sua Somalia. Ecco il punto su cui, sommessamente, La invito a riflettere. Non si diventa la Somalia solo per i rifiuti tossici lì scaricati in cambio di armi. Si diventa come la Somalia per l’estrema povertà di larghe fasce della popolazione; per l’erosione di affidabilità di un sistema istituzionale ed economico in cui la politica, chiusa nel Palazzo, è separata dalla società civile; per l’assenza di regole e per l’alto tasso di corruzione, nonché per la presenza di una criminalità invasiva e ostativa a qualsiasi forma di sviluppo. Ecco a cosa l’Italia sta andando incontro. Altro che festeggiamenti per il 150mo anniversario dell’Unità. A Lei, che rappresenta autorevolmente il Paese, rivolgo un appello ad intervenire, per evitare che la solitudine della Calabria si tramuti in rancore sociale e dopo la protesta violenta di Rosarno, le cui condizioni erano a tutti note da anni, possano accadere episodi di ribellione più gravi o che la Calabria si consegni mani e piedi alla ‘Ndrangheta. La bomba al portone della Procura Generale di Reggio Calabria, l’esplosione violenta della guerriglia di Rosarno, la crisi dello scalo di Gioia Tauro il più importante porto del Mediterraneo: queste sono soltanto alcune delle criticità sulle quali l’attenzione del Governo dovrebbe essere straordinaria e non, com’è al momento, effimera e interamente indirizzata a fabbricare slogan come il Ponte sullo Stretto e la Banca del Sud. La democrazia in Calabria è sospesa e di fatto sono sospesi alcuni dei piuimportanti diritti costituzionali dei cittadini: il lavoro, la libertà, la sicurezza, la salute. Dinanzi agli indicatori economici che la pongono agli ultimi posti di ogni classifica, al divario crescente di sviluppo rispetto al Paese e alle stesse regioni del Sud, alla fuga dei cervelli e dei giovani, il silenzio delle Istituzioni è inquietante. Dinanzi a tutto ciò non c’è alcuna mano tesa dello Stato alla Calabria migliore che chiede un aiuto e un sostegno che chiede di poter stringere un “patto” per uscire dal tunnel e guardare con speranza alla vita. Da Roma, anzi, si guarda agli inciuci della politica politicante calabrese con indifferenza o condivisione, si assiste all’esclusione dei giovani, delle donne e dei talenti dalla politica senza operare alcuna correzione nei metodi di selezione prevalenti, che esigono servilismo, dedizione ai voleri dei cacicchi, nessun senso critico ma obbedienza e ossequio. Egregio Presidente, questa è diventata la mia regione! Eppure le risorse dello Stato e dell’Unione europea non sono mancate, anzi sono state e sono massicce ma finiscono nelle tasche di “prenditori” che non il rischio d’impresa hanno in animo, bensì le ruberie e le truffe di ogni colore. A questo punto, c’è da domandarsi: cosa aspetta ancora l’Italia? Cos’altro deve accadere, in Calabria, perché l’Italia intervenga risolutamente per tranciare il connubio fra la malapolitica e il malaffare? La parte migliore del Paese che ha compreso, dovrebbe dare un appoggio alla parte migliore che vive nell’inferno calabrese per aiutarla a venire fuori, ad avere magari più coraggio, più fiducia. Ma se questo non dovesse accadere, sono del parere che ci aspettano giorni peggiori. In queste condizioni difficilmente, in Calabria, il cittadino crederà che l’unica via da percorrere sia quella del rispetto delle leggi.

Pippo Callipo, Imprenditore.

13 gen. 2010

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Il capodanno radicale … nel carcere di Padova

Guarada la scheda sul sito di Radio Radicale

Marco Pannella, Michele Bertoluzzi e Rita Bernardini in carcere a Padova

Al Carcere*

Come va al centro ogni cosa pensante
dalla circonferenza, e come ancora
in bocca al mostro che poi la devora,
donnola incorre timente e scherzante;
così di gran scienza ognuno amante,
che audace passa alla morta gora
al mar del vero, di cui s’innamora,
nel nostro ospizio alfin ferma le piante.
Ch’altri l’appella antro di Polifemo,
palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta
il laberinto, e chi l’Inferno estremo
(che qui non val favor, saper, né pietà),
io ti so dir; del resto, tutto tremo,
ch’è rocca sacra a tirannia segreta.
E’ Chiaro

*Poesia Filosofica di Tommaso Campanella

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La forza della verità e l’apostolo della nonviolenza

di Giuseppe Candido

Gandhi

Gandhi – Wiki

Pubblicato il 27 dicembre su “Il Domani della Calabria” Avremmo voluto ricordare la figura storica di Gandhi in occasione della sessantaduesima ricorrenza della sua scomparsa il prossimo 30 gennaio ma, con il termine violenza ritornato straordinariamente di attualità politica per i fatti che hanno visto Berlusconi ferito da una statuetta e in un momento in cui tutti fanno gara di dichiarazioni ispirate alla condanna di ogni tipo di violenza, ci sembra corretto anticipare il tema e porre la figura di Gandhi al centro della discussione per chiederci se, il suo esempio, serva anche a chiarire la differenza che esiste tra la semplice condanna della violenza e l’uso, continuo perpetuato e costante, della pratica della nonviolenza come mezzo di lotta politica coerente con i fini. Violenza fisica e violenza verbale.

La parola satyagraha significa “forza della verità” e deriva dai termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat significa “Essere”, e Agraha (fermezza, forza). Il satyagrahi è il “rivoluzionario” non violento che fa proprio il compito di “combattere la himsa – la violenza, il male, l’ingiustizia – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità”. Egli dà prova di essere dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome della Verità: «La dottrina della violenza riguarda solo l’offesa arrecata da una persona ai danni di un’altra. Soffrire l’offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell’essenza della nonviolenza e costituisce l’alternativa alla violenza contro il prossimo.»

Il 30 gennaio di sessantadue anni fa, Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma, grande anima, politico ma anche guida spirituale del popolo indiano, veniva ucciso a Nuova Delhi. Mentre si recava nel giardino per la consueta preghiera pomeridiana, un fanatico indù con legami con il gruppo estremistra Mahasabha lo fredda con tre colpi di pistola.

Dopo l’omicidio, nel discorso alla nazione via radio, Jawaharlal Nehru, si rivolge all’india:“Amici e compagni, la luce è partita dalle nostre vite e c’è oscurità dappertutto, e non so bene cosa dirvi o come dirvelo. Il nostro bene amato leader Bapu, il padre della nazione, non è più. Forse mi sbaglio a dirlo, nondimeno non lo vedremo più come l’abbiamo visto durante questi anni, non correremo più da lui per un consiglio o per cercare consolazione e questo è un terribile colpo, non solo per me ma per milioni e milioni in questa nazione”.

Ricordarlo non significa fare storia o nuovi appelli a non dimenticare ma significa, piuttosto, ragionare se, oggi, serva ancora o no il suo esempio. Significa chiedersi se ha senso assurgerlo a modello di lotta per proporre, oggi e nel nostro paese, una rivolta politica, sociale e morale. Le ragioni per una rivolta ci sono, ci sono tutte e, per questo siamo convinti che il modello di lotta debba essere quello del Mahatma. Pioniere del satyagraha, la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa, Gandhi ha portato l’India all’indipendenza. “Le future generazioni – diceva di lui Einstein – a stento potranno credere che un uomo di siffatta statura morale sia passato in carne e ossa sulla terra”.

In Italia è stato Aldo Capitini a proporre di scrivere la parola senza il trattino separatore, per sottolineare come la nonviolenza non sia semplice negazione della violenza bensì un valore autonomo e positivo. Il Mahatma sottolineava proprio questo elemento negativo. Oggi, il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito di Marco Pannella è l’unico soggetto politico che non solo scrive senza il trattino la parola ma applica quotidianamente il metodo di lotta gandhiana sino ad assurgerlo a vero e proprio strumento di rivolta politica sociale e morale. Una rivolta per la giustizia che non funziona e, con le carceri stracolme, uccide Cucchie e i più deboli mentre si mostra eccessivamente tollerante per i colletti bianchi come quelli della Parmalat o della Tiessen che, col processo breve, non pagheranno più il loro debito causa prescrizione. E’ per questo Rita Bernadini, deputata radicale in rivolta, poco tempo fa è scesa in sciopero della fame per la giustizia e per la grave situazione delle carceri italiane. Per questo motivo Sergio D’Elia, ex terrorista di prima linea, sostiene il governo italiano a presentare la richiesta di una moratoria universali delle esecuzioni capitali con uno sciopero della fame. Ed è per questo che i malati di SLA e Maria Antonietta Farina Coscioni scioperano per proporre l’adozione del nuovo nomenclatore tariffario che, ancora oggi, non prevede la sovvenzione di importanti sussidi per i malti. La nonvolenza non è tattica né strategia ma soltanto un mezzo di lotta coerente con il fine, perché non è vero che il fine giustifica i mezzi ma anzi, la storia ci insegna, è vero il contrario e cioè che i mezzi utilizzati sempre condizionano e prefigurano il fine.

L’ingiusto, secondo Gandhi, afferma i suoi interessi egoistici con la violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e, nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata sulla nonviolenza (ahimsa) che la verità è qualcosa che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte l’istintiva paura della sofferenza e della morte. E’ la ricerca della verità di cui parla Benedetto XVI, ma anche la verità che chiedono i parenti di Aldo Banzino e Stefano Cucchi morti tra le mani delle Istituzioni. Nel Vangelo si direbbe che, di fronte l’ingiustizia perpetrata, il “combattente” nonviolento “porge l’altra guancia”, affermando la richiesta di verità e, in questo modo, la bontà della sua causa. La nonviolenza non è tattica né strategia, ma è soltanto il mezzo coerente con il fine. Se si vuole migliorare la società in cui si vive, se si vuole la rivolta, questa non può che essere una rivolta gandhiana, perché altrimenti, il mezzo violento che ha caratterizzato le rivolte passate, sarà in grado di comprometterne il fine. E’ per questo crediamo che, alla domanda che qualche tempo fa anche Sofri su La Repubblica si poneva, se serva o meno il suo esempio, la risposta sia candidamente si. In un tempo in cui il Natale è sempre più un fatto “consumistico” c’è da credere che, l’esempio dell’apostolo della nonviolenza che con la marcia del sale guidò un paese alla rivolta e alla disobbedienza civile serva ancora al mondo intero, e serve al nostro paese che ha bisogno sempre di più di una rivolta gandhiana, ecologista, democratica, politica, civile.

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Migrazione, una sfida per la democrazia

di Mario Patrono (*)

Vorrei sviluppare il mio intervento su tre livelli in modo da passare dal primo, più generale, fino al terzo, particolarmente dedicato alla proposta che l’UE pervenga, da un lato, alla redazione di uno Statuto europeo dei diritti del non cittadino, e, dall’altro, a stabilire essa stessa i criteri per l’acquisto della cittadinanza europea da parte dei migranti.

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Fino a tempi non troppo remoti, la maggior parte dei movimenti transnazionali avveniva dai Paesi più sviluppati a quelli meno sviluppati. Nel corso dell’ultima parte del secolo scorso, invece, è iniziato un movimento contrario. Il primo movimento ha corrisposto al processo di colonizzazione, il secondo si riferisce invece a un contro-movimento che vede gli ex colonizzati muoversi verso i centri dai quali le passate colonizzazioni erano partite. Mi riferisco al fenomeno epocale delle migrazioni dai Paesi poveri verso le società ricche e democratiche.

Per la verità, si è anche avuta, nel ‘700, nel ‘800 e nei primi decenni del ‘900, una migrazione di massa di gente povera dai Paesi europei. Però, con una differenza. La migrazione dai Paesi europei si dirigeva verso territori sterminati e a bassissima densità abitativa: l’America del Nord, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Argentina e altri Paesi del Sud America. La migrazione dei giorni nostri ha invece determinato una inondazione sociale di enormi proporzioni su un’area geografica ristretta e densamente popolata. Questa inondazione, un vero cataclisma, rischia di determinare uno scontro durissimo tra popolazioni e tra interessi, uno scontro che mette sul banco di prova i valori etici che sono un patrimonio irrinunciabile della civiltà europea: il rispetto per la dignità di ogni essere umano, l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà verso i poveri e verso i bisognosi: non importa se uomini o donne, se bianchi o neri, se cristiani ebrei o islamici, non importa se nazionali o stranieri.

Non intendo proporre ricette né definire i principi che dovrebbero indicarci quando è giusto regolare più o meno severamente il flusso alle frontiere. Quello che mi sentirei di escludere, al riguardo, è che la soluzione di questo difficile problema possa consistere nella proposta- avanzata da alcuni esponenti del fondamentalismo liberale ( parlo di R. E. Goodwin, parlo di J.H. Carens) – secondo la quale se vogliamo davvero che gli abitanti dei Paesi più poveri abbiano una qualche possibilità di vita anche remotamente simile a quella degli abitanti dei Paesi più ricchi, allora la via più diretta consisterebbe nel concedere ai primi di trasferirsi liberamente nei Paesi dei secondi. Questa mi pare francamente una sciocchezza! La soluzione giusta a me pare un’altra e cioè che l’immigrazione andrebbe eliminata come problema grave per la semplice ragione che le cause dell’emigrazione dovrebbero scomparire. Dovrebbe cioè scomparire in una società globale “ragionevolmente giusta” l’ineguaglianza eccessiva della ricchezza nella sua distribuzione territoriale. Questa soluzione va perseguita “di concerto” dai popoli europei senza risparmio di energia e di denaro. Si tratta di un obiettivo vitale per il futuro dell’Occidente, un obiettivo che coincide del resto con l’interesse dei popoli poveri della Terra.

Certo, si tratta di un impegno di lunga durata. E nel frattempo?

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Nel frattempo occorrono politiche regolative del fenomeno migratorio. Gli obiettivi sono due: non travalicare la capienza del sistema economico dell’Unione europea; sviluppare un’azione di contrasto alla delinquenza straniera non meno che a quella nazionale.

Quando un governo europeo ( tedesco, francese, spagnolo e così via ) mette in cantiere una legislazione restrittiva del fenomeno migratorio, preferisce di solito mettere l’accento sul secondo obiettivo, lotta alla delinquenza, piuttosto che sul primo: impedimento all’ingresso di migranti che non hanno ma che cercano lavoro. La ragione è semplice: la delinquenza non solleva, nell’animo degli europei, problemi di coerenza rispetto ai principi etici della civiltà europea. La povera gente che vuole un lavoro onesto, si.

Parliamo allora di contrasto alla delinquenza. La mia tesi è: tra integrazione e delinquenza la relazione è strettissima. Una integrazione che funziona bene riduce la delinquenza; una integrazione che funziona male genera delinquenza. Il miglioramento delle strategie integrative costituisce lo strumento principale per combattere la criminalità straniera. Le norme repressive, sebbene anch’esse necessarie, sono uno strumento ausiliario.

Da questo punto di vista mi pare importante stabilire un criterio di metodo. Le strategie di integrazione non possono ripetere all’infinito lo stesso errore di cecità sociologica che è stato fatto sino a oggi. L’errore consiste nel non considerare le diversità che pure sussistono all’interno della massa degli immigrati, e spesso si tratta di diversità notevolissime. L’errore consiste, appunto, nel trattare gli immigrati come una massa indifferenziata senza studiare le diversità che tra di essi si registrano.

In altre parole, l’errore (che a mio giudizio è un errore madornale), l’errore che si commette è quello di applicare la stessa strategia di integrazione a gruppi sociali ben differenziati. A me sembra che la strada da battere possa e debba essere un’altra: una eguale integrazione, come risultato finale, richiede politiche di integrazione diverse per gruppi disomogenei. Gli sciiti, ad esempio, hanno comunque una cultura più aggressiva rispetto ai sunniti; gli immigrati provenienti dalle Filippine, la maggior parte dei quali è di fede cattolica, presentano una disponibilità all’integrazione molto alta, come molto alta è anche quella degli immigrati provenienti dallo Sri Lanka. Tra gli immigrati dell’India vi sono musulmani e vi sono indù, e le due comunità hanno caratteristiche molto diverse che non si possono trascurare. E potrei continuare. Voglio dire che l’atteggiamento verso il problema dell’integrazione visto come problema la cui soluzione debba essere eguale per tutti, è un atteggiamento sbagliato. Voglio dire, molto semplicemente, che il processo di integrazione deve seguire percorsi differenziati. Voglio dire anche che l’integrazione è un problema nazionale e una funzione pubblica della massima delicatezza, il cui esercizio non può essere dato in appalto alla Caritas, né ad altri soggetti privati, ma deve essere esercitato dallo Stato in prima persona. L’integrazione non ammette supplenze!

Vorrei a questo punto segnalare un secondo argomento di metodo che riguarda questa volta la criminalità straniera operante in Italia. Il nostro Paese sembra essere, tra gli Stati membri dell’UE, un polo di attrazione della delinquenza straniera: la quale va così a sommarsi alla strabocchevole delinquenza indigena, organizzata o disorganizzata che sia. Questo fatto, almeno in larga misura, dipende dalla circostanza che in Italia il diritto penale è “dolce”, per cosi dire: le condanne arrivano dopo anni, la certezza della pena è un bene prezioso che in Italia però non conosciamo, nel carcere si entra e esce, prescrizioni e decadenze si succedono ininterrotte. Adesso, sotto la pressione dell’ennesima emergenza ( l’Italia, lo sapete meglio di me, è il Paese dell’emergenze: personalmente, ho ricordo della emergenza casa, dell’emergenza terrorismo, della ciclica emergenza incendi boschivi, dell’emergenza corruzione della classe politica, dell’emergenza mafia a cui sono aggiunte la camorra, la ‘ndrangheta e altre consimili, dell’ emergenza spazzatura in Campania; ora siamo all’emergenza immigrazione) – ; sotto la spinta dell’ennesima emergenza, dicevo, il governo in carica si è deciso a varare una legislazione più restrittiva nei confronti della delinquenza straniera. Osservo. L’Italia è membro dell’UE. L’UE è un soggetto unitario. Questo significa che vale all’interno dell’UE il principio dei vasi comunicanti, quel principio cioè relativo al comportamento dei liquidi in un sistema di recipienti che comunicano tra di loro: se la pressione è uguale, il liquido si porta alla stessa altezza nei diversi recipienti; se la pressione è diversa, il livello del liquido si abbassa in un recipiente e si alza negli altri. Mi spiego. La legislazione dell’Italia diventa più severa. La delinquenza straniera emigra dall’Italia e va in altri Paesi europei. Il problema nel suo complesso non si risolve. Quando un altro Paese europeo farà la stessa cosa, la delinquenza emigrerà di nuovo e magari rientrerà in Italia. Si avrà una spirale al rialzo della repressione penale nei confronti degli stranieri che non può essere sostenuta a lungo da Paesi democratici. La strada giusta è un’altra. Occorre una legislazione unica per l’intero territorio dell’UE. Questa è la soluzione giusta, la sola possibile soluzione. Naturalmente, quando parlo di una legislazione unica in Europa, parlo anche di un unico criterio di applicazione di quella legislazione, parlo di analoga durata dei processi, parlo di una magistratura organizzata e che operi in modo analogo nei diversi Stati europei. Questo intendo per legislazione unica in Europa.

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Quando parlo di legislazione unica in tema di immigrazione per l’intero territorio dell’UE, mi riferisco alla necessità di pervenire alla redazione di un grande Patto di civiltà che contenga lo Statuto europeo dei diritti del non cittadino.

Il Patto va mirato all’obiettivo di scrivere regole europee per le condizioni di entrata e circolazione dei cittadini dei Paesi terzi nel territorio degli Stati membri, nonché per le condizioni del loro soggiorno. Del resto, già gli articoli 1 e 2 del Trattato di Amsterdam avevano sottratto la materia dell’immigrazione e dei visti d’ingresso alla mera cooperazione intergovernativa, elevandola a oggetto di politica e di formazione comuni. Il carattere europeo delle regole destinate a disciplinare il fenomeno migratorio impone di accettare l’idea che l’UE possa stabilire essa stessa i criteri per l’acquisto della cittadinanza europea. Questo significa che, mentre oggi la cittadinanza europea si limita a completare la cittadinanza nazionale, dalla quale dipende, un domani sarà la cittadinanza dello Stato membro a completare la cittadinanza europea, eventualmente aggiungendovi altre e più ricche garanzie.

Il Patto dovrà inoltre rispondere alle finalità dell’Unione europea, le quali consistono (dalla Dichiarazione di Copenaghen del 14 dicembre 1973, fino al Preambolo della Carta dei diritti fondamentali facente parte del Trattato di Lisbona e agli articoli 2 e 3 dello stesso Trattato) nell’osservare i <<principi della democrazia rappresentativa, il regno della legge, la giustizia sociale – finalizzata al progresso economico – e il rispetto dei diritti dell’Uomo che costituiscono gli elementi fondamentali dell’identità europea>>. Il mancato rispetto di un livello accettabile di garanzia dei diritti umani per i non cittadini è destinato inevitabilmente a provocare, nel corso degli anni, una serie di azioni e reazioni tali da offuscare l’immagine dell’Europa e da ferire la coscienza europea.

Il Patto di civiltà dovrà essere discusso e approvato non solo dall’insieme degli Stati membri dell’UE, ma anche dalle maggiori rappresentanze in Europa dei non cittadini. In tal modo, il Patto non avrà i caratteri di un diktat fatto piovere dall’alto sui migranti poveri, ma avrà il carattere di un atto voluto da coloro stessi che ne saranno i destinatari.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

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Stefano Cucchi, un caso su cui riflettere

di Mario Patrono (*)

Chianciano 13 nov. 2009. Il testo dell’intervento del Professor Mario Patrono a Chianciano sul caso del giovane Stefano Cucchi, in cui si ritrovano anche alcune rilevanti osservazioni sul mercato del lavoro nel Sud.

Cari compagni radicali, Cari compagni socialisti,

abbiamo oggi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni morto di morte violenta dopo essere “transitato” nelle celle di sicurezza di Piazzale Clodio.

Osservo di sfuggita, per chi non lo sapesse, che qui parliamo delle celle di sicurezza del Tribunale penale di Roma, parliamo cioè del luogo dove lo Stato garantisce per antonomasia il rispetto della legalità; e lo garantisce nei confronti di chiunque, privati cittadini e pubblici funzionari.

Abbiamo quindi molte ragioni per riflettere sul caso di Stefano Cucchi.

Una è di immediata evidenza. Persiste in Italia una concezione autoritaria dello Stato, che usa il distacco e la prepotenza – e a buon bisogno usa anche la violenza – come strumento per esercitare il controllo sociale. Una concezione autoritaria dello Stato che non accenna a venir meno, malgrado siano trascorsi ben più di 60 anni dalla caduta del fascismo. Una concezione autoritaria dello Stato che sembra anzi essersi rafforzata in questi ultimi anni e mesi.

Questa concezione autoritaria dello Stato si manifesta in forma individuale e in forma sistemica. La morte violenta di Stefano Cucchi, quella altrettanto violenta di Federico Aldrovandi, che la rubrica “Un giorno in Pretura” ha fatto rivivere in questi giorni, e poi la registrazione avvenuta nel carcere di Castrogno a Teramo su pestaggi a detenuti come pratica di contenzione: <<…abbiamo rischiato la rivolta…non si può massacrare un detenuto…si massacra sotto…>>, sono esempi di uso illegale della forza in relazione a casi singoli. Un uso illegale della forza da parte di agenti e funzionari della Polizia, penitenziaria e non, selezionati male, addestrati male, educati male, controllati male, pagati peggio che male e comunque all’interno di una mentalità autoritaria dello Stato. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che accetta e consente l’interminabile durata delle procedure giudiziarie che significa disprezzo per i diritti dei cittadini. La stessa mentalità autoritaria dello Stato che sopporta senza batter ciglio il fatto che dentro una cella di 3 metri per 2, cesso compreso, possano ammassarsi per mesi e per anni 7 detenuti i quali hanno a disposizione 2 sole ore di “aria” al giorno; e tutto ciò avviene, malgrado che l’articolo 27, III comma, della Costituzione proibisca perentoriamente quei trattamenti di pena che appaiono contrari al senso di umanità.

A livello sistemico cioè delle istituzioni pubbliche, la presenza nello Stato di un forte residuo autoritario si manifesta in modo particolare nella giustizia, nella burocrazia, nella dirigenza politica sotto il profilo del loro rapporto con i cittadini.

La prima evidenza di una concezione autoritaria dello Stato si manifesta nel campo della giustizia e segnatamente nel processo penale. La giustizia penale è diseguale. La diseguaglianza è di vario tipo. Per cominciare, l’accusa ha nel processo penale facoltà sconfinate rispetto a quelle di cui dispone la difesa. E questo ha un peso negativo in particolare per il cittadino economicamente debole, nei confronti del quale questa situazione di disparità è semplicemente insostenibile. Si pensi al processo accusatorio che si fonda spesso su perizie costosissime. L’accusa non paga le perizie, mentre il costo delle perizie finisce sempre e comunque sulle spalle della difesa, non importa se la sentenza dichiarerà alla fine l’imputato colpevole o innocente. Vi sono persone che per sostenere le spese relative alle perizie, si sono rovinate economicamente. In altre parole, l’accusa esercita poteri investigativi e processuali larghissimi, e nel contempo può disporre di risorse finanziarie illimitate e del cui uso in relazione ai singoli processi nessuno è chiamato a rispondere.

C’è poi il potere della pubblica accusa di “selezionare” l’esercizio dell’azione penale, che è un potere vastissimo ed esorbitante. Ancora. L’esercizio dell’azione penale non è contenuto entro tempi definiti, là dove la civiltà giuridica moderna – viceversa – impone che l’azione penale debba esercitarsi entro limiti di decadenza molto brevi. Non è possibile che il cittadino abbia sospesa sul collo la mannaia dell’accusa penale a tempo indeterminato.

Né vi è in Italia una regolazione precisa della facoltà dell’imputato di ricusare il giudice. Nei Paesi anglosassoni la possibilità di ricusare i membri della giuria popolare, dalla quale dipende il verdetto, è larghissima. Il giudice popolare può essere ricusato anche solo se ha notizie relative al processo. In Italia il giudice non è ricusabile a causa di un capovolgimento, operato dalla Corte costituzionale, dei valori da bilanciare in questa materia: si è posto l’articolo 21 della Costituzione, libertà di manifestazione del pensiero, al di sopra del diritto alla vita e alla libertà personale. All’evidenza, è vero il contrario: la libertà di non finire in galera e magari di non morirvi va considerata senz’altro prevalente, e di gran lunga, rispetto alla libertà del giudice come privato cittadino di manifestare pubblicamente apprezzamenti e giudizi nei confronti dell’imputato. Questo è ovvio.

Infine, non è garantita nel nostro Paese l’imparzialità del giudice e la sua alterità strutturale, e non solamente funzionale, di fronte all’accusa. Giudice e pubblico ministero sono entrambi magistrati dell’ordine giudiziario, svolgono la stessa carriera, sono tra loro “colleghi”. Questo non va bene. Al riguardo, nessun effetto sembra aver avuto finora la norma sul giusto processo, entrata a far parte della Costituzione nel 2001. La quale norma si è dovuta scontrare in questi anni con l’atteggiamento ultraconservatore della Corte costituzionale e che comunque ha avuto vita applicativa assai modesta.

Un altro aspetto dove si manifesta in Italia una concezione autoritaria dello Stato è nel rapporto burocrazia/cittadini. Vi è stata negli ultimi venti anni una crescita dimensionale della burocrazia, e vi è stata di pari passo una crescita nel numero degli alti burocrati i quali sono venuti di fatto assumendo un ruolo di decisori politici. Si è verificata cioè negli anni scorsi una crescita di potere politico della burocrazia nei confronti dell’autorità politica e partitica. A ciò si aggiunge la circostanza dello spoil system all’italiana, per cui ogni governo che approda a Palazzo Chigi si affretta a nominare con contratti “a termine” i dirigenti generali che retribuisce secondo criteri di larga discrezionalità.

Tutto ciò determina una forte disparità tra cittadino e burocrazia nella misura in cui il cittadino è posto di fronte ad un ceto che di fatto è irresponsabile. Non si può cioè nei loro confronti esercitare quel giudizio di responsabilità politica “diffusa”, teorizzato a suo tempo da Giuseppe Ugo Rescigno, per cui il cittadino al momento e per mezzo del voto riesce “a sfiduciare” il “cattivo” politico. Da questo punto di vista la burocrazia gode anzi della più totale inamovibilità, accompagnata da un crescente peso politico. E anche questo non va bene. Negli Stati Uniti, che qui assumo come termine di paragone, tutti i poteri pubblici sono elettivi e tutti rispondono quindi ad una logica democratica. Perfino la Corte suprema (un misto tra la nostra Corte di Cassazione e la nostra Corte costituzionale) è eletta su base democratica: dal Presidente in contraddittorio con il Senato. In Italia, vi sono poteri pubblici eletti accanto a poteri pubblici non eletti: e questi ultimi rispondono ad una logica loro tutta “interna”. È questa una delle grandi debolezze della democrazia italiana.

A completare il quadro vi sono poi gli scarsi poteri del cittadino rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative: perché le norme sulla trasparenza si bloccano di fronte alla discrezionalità del decidere cosa “ammettere” alla trasparenza, e cosa no. Ancora. Non c’è un regolamento sulle priorità e sui tempi delle varie procedure, e qui ha origine l’arbitrio della burocrazia che si alimenta della oscurità e della complessità della legislazione italiana, tessuta di rimandi e contro rimandi a commi e sottocommi di leggi e leggine di varia epoca.

Una terza evidenza della concezione autoritaria dello Stato chiama in causa la dirigenza politica. Questa tende in Italia a nascondersi in aree segrete disseminate da cartelli <<vietato l’ingresso>>. Raramente i frammenti della catena accessibili alla vista formano un sistema coeso con punti d’ingresso chiaramente contrassegnati.

Al contrario gli ostacoli a un efficace controllo a vasto raggio dei cittadini sono numerosi e molti di essi sono invalicabili.

In Paesi meglio civilizzati del nostro una funzione di vigilanza continua, penetrante e a vasto raggio sul potere pubblico e chi lo detiene è esercitata dai mezzi di informazione. In Italia, però, i grandi giornali, quelli che “fanno opinione”, sono nelle mani di potenti gruppi industriali variamente intrecciati alla dirigenza politica, o sono collegati direttamente a partiti politici. La televisione pubblica, la sola di cui merita di parlare, è lottizzata “a tappeto” dai partiti politici: i quali, rotti finalmente gli indugi, la usano ormai anche come strumento al fine di difendere, per interposta persona, gli interessi personali del loro leader: l’editoriale “in video” di Augusto Minzolini, direttore del Tg1, di lunedì scorso, non saprei definirlo in altro modo che come uno spot a favore di Berlusconi. Una cosa mai vista in un Paese di democrazia accettabile.

D’altra parte, il referendum abrogativo delle leggi, voluto dal Costituente quale tipico mezzo di controllo popolare sulle scelte legislative operate in Parlamento dalle dirigenze politiche, è stato ben presto soffocato e reso ormai quasi inservibile, a seguito dell’affermarsi dell’idea di sottrarre a <<plebisciti>> e a <<voti popolari>> quelle che sono state definite <<le complesse, inscindibili scelte politiche dei partiti>> (Corte cost., sent. n. 16 del 1978). Si aggiunga, dulcis in fundo, che la legge elettorale in vigore consente alle dirigenze politiche di designare uomini e donne che andranno a sedere in Parlamento accanto e allo stesso titolo dei rappresentanti eletti dai cittadini.

Tutto ciò significa che si è spezzato in Italia il rapporto, che sussiste in qualunque democrazia consolidata, tra alcuni elementi fisiologicamente correlati: rappresentanza, controllo, responsabilità e giudizio politico al momento del voto.

Una dirigenza politica che può contare sull’indifferenza o sulla non/interferenza dei cittadini è fuori di un sistema democratico.

Naturalmente la causa di questa debolezza della democrazia italiana deriva in ultima analisi dal fatto che in Italia non c’è il primato della società civile sullo Stato, non c’è il primato del cittadino sullo Stato, a cui si accompagna una insufficiente coscienza sociale dei propri diritti.

Sta di fatto che il degrado del costume democratico nel nostro Paese è ormai intollerabile. Suscita indignazione in ciascuno di noi.

La domanda di oggi è: cosa dobbiamo fare per rimettere in moto la democrazia italiana? Io penso che abbiamo tutti del lavoro da fare, del gran lavoro: nelle Università, nelle scuole, dovunque possiamo esercitare la nostra influenza. Ma sono fiducioso che riusciremo, attraverso una pedagogia “mirata”, a creare una svolta attitudinale verso la politica; che riusciremo a suscitare nei cittadini un’attenzione permanente nei confronti del potere pubblico e le sue modalità di esercizio. Bisogna che si formi a livello di coscienza collettiva l’idea dell’obbligo per le istituzioni pubbliche di dare conto nei dettagli ai cittadini del loro operato. A partire da un punto. Ciascuno di noi ha diritto di sapere l’uso che si fa del denaro pubblico. Di sapere se il denaro pubblico è stato speso bene; se è stato sperperato; se è stato illegalmente sottratto. L’uso del denaro pubblico deve diventare un uso trasparente. Io come contribuente ho il dovere di partecipare alle spese pubbliche. Ma io come contribuente ho il diritto di sapere come il mio denaro è stato speso dagli amministratori pubblici. Per qualunque istituzione pubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale, dalla Camera dei Deputati al Senato, dalla Corte di Conti agli uffici giudiziari grandi e piccoli fino ai minimi enti pubblici, il contribuente ha il diritto di sapere la quantità di denaro che serve per pagare gli stipendi del personale interno e per procurarsi e gestire i mezzi con cui erogare i servizi. Perciò il contribuente ha il diritto di sapere, ad esempio, chi sono i fornitori di qualunque istituzione pubblica, dalle maggiori alle minori; a quale prezzo – in relazione al prezzo corrente di mercato – la singola istituzione pubblica paga le forniture che acquista o prende in uso; e chi gestisce per la singola istituzione pubblica l’acquisto e la dismissione dei beni di proprietà o in uso all’ente. Si dovrà arrivare a tanto, facendo cadere uno ad uno i tanti “segreti di Stato” che oggi coprono – legalmente o illegalmente – questa materia.

A quel punto, diventerà allora chiaro anche il diritto dei cittadini di saperne di più circa la vita privata degli amministratori pubblici. Se il presidente della Regione X ha le emorroidi, o è gay, o fa uso di sostanze stupefacenti, a me contribuente non interessa né deve interessare. Ma se quel presidente (dico cose a caso) subisce ricatti a causa delle sue peculiari abitudini, o se ha sul groppone debiti ingenti e riesce malgrado ciò a sostenerli; se possiede ville a Capri, yacht, terreni a Cortina d’Ampezzo o discoteche a San Babila, io contribuente ho il diritto sacrosanto di sapere quale è la fonte di quelle ricchezze: se i risparmi di una vita certosina, se lo zio d’America che lo ha lasciato unico erede dei suoi beni, se l’appropriazione indebita di denaro pubblico (e quindi anche del mio denaro), se la corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Questo i cittadini hanno il diritto di saperlo. L’appello alla privacy, che oggi si fa da parte di amministratori pubblici e che riempie i giornali e le trasmissioni televisive, altro non è che l’ultima trincea del tentativo di sottrarsi al controllo dei cittadini. Questa trincea dovrà finalmente essere abbattuta. Una concezione davvero liberale e democratica dello Stato e della politica non può consentirne la sopravvivenza.

Sono utili le riforme istituzionali per cambiare dal profondo questo stato di cose? Certo, lo sono senz’altro: a patto, naturalmente, che si tratti di riforme giuste cioè di riforme necessarie ed appropriate. A patto che si tratti di riforme che mettano il cittadino al centro della politica e costruiscano l’ordinamento dello Stato, e dell’Unione europea, e delle autonomie locali a misura del cittadino e dei suoi diritti, allo stesso modo di come il sarto confeziona l’abito sulla misura del cliente.

Tuttavia, prim’ancora di qualunque riforma del quadro istituzionale, la possibilità stessa di aprire un varco nella fortezza chiusa della politica è legata, secondo me, ad una riforma in senso democratico dei partiti politici. Aprire i partiti politici a libere discussioni e votazioni sull’intero territorio nazionale; rendere elettiva la scelta delle rappresentanze politiche a tutti i livelli di governo e in ogni sede istituzionale; trasformare i partiti politici in ciò che essi sono per loro stessa natura e cioè articolazioni del sociale. A me sembra che questa debba essere la prima delle riforme da fare. Questa riforma, è chiaro, non basta. Ma almeno sarebbe (per usare la memorabile frase di Winston Churchill) <<la fine dell’inizio>>.

Vi è poi almeno un’altra ragione per occuparsi del caso di Stefano Cucchi.

Hanno scritto i giornali che Stefano Cucchi era uno spacciatore, e come tale fu arrestato. Non ho elementi per sapere se ciò fosse vero, o no. Quello che so per certo è che la vita di Stefano Cucchi sarebbe stata diversa se egli avesse trovato sulla sua strada una chance di lavoro dignitoso. Questo vale per lui come vale per i tanti giovani che conducono una vita grama, come lo era per lui. Questo però pone il problema dei giovani e del loro accesso ad un mercato chiuso del lavoro, dove ormai il solo lasciapassare che conta è la “raccomandazione”. Questa è una piaga italiana. Lo è soprattutto al Sud, dove l’economia privata è variamente intrecciata con l’economia pubblica. Qui la raccomandazione è la risorsa indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Risulta così contraddetto uno dei principi base della civiltà moderna, vale a dire il diritto al lavoro. Il diritto al lavoro significa che chiunque può competere sul mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri. Questa condizione di parità nel Sud non esiste. C’è una specie di forca caudina che molti giovani devono passare per accedere ad un posto di lavoro. Si ha quindi una stortura rispetto alle regole della libera ed eguale competizione nel mondo del lavoro. Un principio di giustizia proclamato dalla Rivoluzione francese è quello che lo status di cittadino, che l’ingresso verso una carriera professionale non deve dipendere né dalla condizione sociale né da quella economica, ma solamente dalle capacità personali. Del resto, il sistema della “raccomandazione” non è soltanto ingiusto. Esso crea condizionamento, dipendenza; crea umiliazione. Negli esclusi, uccide la speranza di una vita migliore.

Questa situazione chiama in causa il ruolo dei sindacati. Negli ultimi anni i sindacati si limitano a tutelare i lavoratori e i pensionati. Cioè si limitano a tutelare il diritto di lavorare e di godersi la pensione dopo aver lavorato. Quello che i sindacati, per difetto di cultura e a causa della loro stessa struttura oligarchica, invece non fanno è la difesa del diritto dei giovani al lavoro cioè il loro diritto di accedere al lavoro. Anche qui, un grande passo avanti sarebbe quello di dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che i sindacati debbano avere <<un ordinamento interno a base democratica>>. Questo determinerebbe una svolta attitudinale dei sindacati nei confronti del lavoro. Il percorso su questa strada è però ancora lungo.

(*) Ordinario di Diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura

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Obama, il Darfur e il genocidio nel deserto

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 18.07.2009

Dopo il G8 dell’Aquila, il passaggio in Africa di Barack Obama è stato salutato come un momento storico. Un discorso, quello tenuto ad Accra nella capitale dello stato del Ghana, di cui gli africani sentivano il bisogno anche se non sono stati affrontati temi cruciali come il genocidio che si sta perpetuando in Darfur o come l’esodo dei profughi somali che in questi giorni allarma l’alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. Come faceva notare Drew Hunshaw su tocqueville.it, il suo unico passaggio alle violenze in Darfur è stato quello di affermare che “quando c’è un genocidio, questo non è semplicemente un problema americano”. Un passaggio troppo scarno che non chiarisce la posizione americana sull’emergenza in Darfur e sull’esistenza o meno di un genocidio in corso. Ci si poteva aspettare di più da un presidente americano le cui origini risalgono proprio dal continente nero. Era lecito sperare in qualche parola in più soprattutto se si considerano gli scarni aiuti economici stanziati dagli otto grandi durante il vertice dell’Aquila che, come faceva notare Gian Antonio Stella, sono veramente una miseria: “cinque euro e 18 centesimi all’anno per ciascun africano; 43 centesimi al mese” che, se annunciati con la cifra di 20 miliardi in tre anni, sembrano invece una grande cosa. Poco per il clima, pochi gli aiuti economici e poche anche le parole sui genocidi e sui massacri africani in corso. Qualche mese fa, il Darfur è tornato al centro dell’attenzione dei media internazionali quando la Corte Penale Internazionale ha emesso il mandato di arresto nei confronti del suo presidente Omar al Bashir. Ma l’emergenza umanitaria non si è risolta e non si risolverà senza andare alle radici del conflitto: la desertificazione e la perdita di terre fertili che spinge etnie diverse alla prevaricazione continua. La regione occidentale del Sudan ha già visto seppellire dalle 200 mila alle 400 mila vittime, 39 villaggi cancellati, distrutti. E’ il genocidio nel deserto del nuovo millennio. Stefano Cera, rappresentante dell’associazione “Italians for Darfur” ha spiegato, in una recente intervista rilasciata al Cecilia Tosi per la rivista Left, che il problema è che “si parla di emergenza umanitaria ma non del conflitto e dei modi per risolverlo.” Ma dei modi per risolvere il conflitto in Darfur non vi è indicazione nel discorso “storico” di Obama. “Questa è una guerra – ha spiegato ancora Cera – che non si può liquidare come scontro di civiltà. (…) Non ci sono, infatti, differenze religiose né di colore della pelle tra i gruppi che si combattono. C’è invece la lotta per la conquista di terre fertili, esacerbata dalle strumentalizzazioni politico ideologiche e da un problema globale come il surriscaldamento del clima, che ha portato desertificazione e siccità”. La crisi in Darfur è iniziata negli anni Ottanta, quando divenne il luogo di transito dei ribelli del Chad che lottavano contro il loro governo con il sostegno della Libia. La loro presenza – spiega ancora la Tosi su Left – congiuntamente alla progressiva diminuzione delle terre fertili coltivabili ha portato nei pastori nomadi di etnia araba “il senso di appartenenza ad una comunità più ampia, distinta da quella degli africani di etnia fur, tradizionalmente coltivatori stanziali. (…) Negli anni successivi l’arabismo si è diffuso e le ondate di siccità hanno inaridito acri di terra fertile. Così, le armi lasciate dai ribelli chadiani sono finite nelle mani di altri ribelli noti come Janjaweed, le milizie del deserto”. Da allora è iniziato uno sterminio dell’etnia fur che ancora continua: un genocidio che ha per causa primaria la desertificazione. Un genocidio per le terre fertili e per il quale non sono certo sufficienti i 5 euro e 18 centesimi all’anno stanziati dai grandi del G8 per ogni africano. “Guerriglieri e massacratori – ha dichiarato Stefano Cera – che combattono una guerra per procura del governo sudanese, anche se Bashir ha sempre negato di aver orchestrato le loro azioni”. E così, un’intera popolazione è costretta da anni a fuggire dalle proprie case e a costruire una “nazione parallela fatta di campi profughi disseminati su tutto il territorio del Darfur e al di là del confine occidentale, in Chad e nella Repubblica Centroafricana”. “Due milioni di persone – ha dichiarato Sulliman Ahmed, rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia – che sopravvive lungo il confine”. E dopo la decisione della Corte Penale Internazionale di spiccare il mandato di arresto nei suoi confronti, il Presidente Bashir se l’è presa con le Organizzazioni Non Governative cacciandone 13 che rappresentavano, da sole, il 40% degli aiuti umanitari presenti in Darfur e la situazione non è certo migliorata. Ecco perché dal presidente americano ci si aspettava qualche parola in più sui dittatori africani e sui massacri in corso in quel continente. Perché quella del Darfur non è l’unica emergenza umanitaria del continente nero: in Somalia, ha dichiarato in una nota dello scorso 26 giugno l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, 26.000 civili in fuga da Mogadiscio in soli 24 giorni. Una “forte preoccupazione” quella espressa dall’UNHCR, “per la spirale di violenza e per l’aggravarsi della crisi in Somalia che sta mettendo in fuga la popolazione. Gli scontri in corso tra le forze governative e i gruppi di opposizione (…) stanno mietendo una lunga scia di vittime, distruzione e nuovi esodi”. Lo scorso 19 aprile i rifugiati del Darfur in Italia si sono ritrovati, in una manifestazione sotto al Colosseo, per chiedere pace e giustizia per la loro terra. Pace e giustizia senza le quali non è possibile arrestare il genocidio in corso e che avrebbero dovuto trovare un posto di maggiore rilievo nello storico discorso di Barck agli africani e ai suoi dittatori.

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Per non dimenticare Srebrenica

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 11.07.2009

11 luglio 1995. I soldati serbo bosniaci comandati da Ratko Mladic uccidono più di 7000 mussulmani, traditi dalle Nazioni Unite e dall’Europa. Nel luglio di 40’anni fa l’uomo metteva piede sulla luna. Una ricorrenza che tutti si affrettano a ricordare. Ma l’11 luglio dovrebbe poter essere occasione anche per non dimenticare quel genocidio che, 14 anni fa nel 1995, fu compiuto a Srebrenica nella Repubblica Serba della ex Jugoslavia. La città in teoria era stata dichiarata area protetta dall’ONU ma diventò il teatro dell’unico caso legalmente provato di genocidio verificatosi sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1993, un rapporto dei volontari dell’UNHCR, l’alto commissariato per i rifuggiati delle Nazioni Unite, descrisse l’inferno di Srebrenica: “i profughi erano accampati nelle strade bloccate dalla neve. Intere famiglie soffrivano la fame e sopravvivevano masticando radici e mangiando foglie. La scabbia e i pidocchi imperversavano”. Per proteggere la popolazione civile, Srebrenica era stata designata come area protetta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva anche chiesto la proclamazione del cessate il fuoco e il disarmo delle unità bosniaco-mussulmane. Un promessa di protezione e un piano che che convinse molti civili, che avrebbero potuto lasciare Srebrenica, a rimanere. Le forze di pace dell’Onu avevano un mandato limitato, ma i bosniaci affamati guardavano a quelle truppe, coi loro giubbotti antiproiettili, i caschi blu e i blindati, come ad un protettore. Ma come avrebbero scoperto, vivere in un’area protetta non comportava alcuna garanzia di protezione.

Srebrenica
Srebrenica - foto www.sfgate.com

I bosniaci mussulmani, in termini di razza, sono identici ai serbi e ai croati con i quali condividono il loro paese. Sono tutti slavi del sud di pelle bianca. Parlano la stessa lingua. L’unica differenza è la religione. Eppure, l’11 luglio del 1995 fu realizzato il genocidio di più di settemila uomini e ragazzi mussulmani. Al momento del massacro la protezione doveva essere garantita da un battaglione olandese assegnato alla missione ONU. Ma il battaglione era dotato di armamenti inadeguati e privo di un supporto sufficiente, non fu in grado di agire mentre i serbi conquistavano Srebrenica. Quattordici anni fa l’area protetta di Srebrenica cadde nelle mani dei militari serbo-bosniaci dopo che le Nazioni Unite avevano “deciso” che non era più possibile proteggere l’area.

La stampa internazionale raccontò il fallimento dell’ONU: “quella mattina, migliaia di uomini, donne, bambini ed anziani mussulmani implorarono l’aiuto dei caschi blu di stanza nella vecchia fabbrica di batterie di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. Il soccorso venne negato: quei caschi blu olandesi furono taciti complici di quel massacro”. “La notte e i cinque giorni successivi l’aria intorno a Srebrenica risuonò delle urla degli uomini e dei ragazzi che venivano mutilati, massacrati, sepolti vivi, oppure uccisi e gettati nelle fosse comuni”.

Si dice che chi è sopravvissuto alla strage di Srebrenica porta negli occhi il dolore immenso e la paura vissuta in quei giorni. In occasione dei dieci anni dal massacro Lorna Martin, su “the observer” noto quotidiano britannico, ha raccontato la storia di Fatima e Damir e di una foto che sconvolse il mondo. La foto di Ferida Osmanovic è stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: una donna con una abito bianco e un cardigan rosso, impiccata ad un albero con un cappio ricavato dalla cintura e dallo scialle. Fatima e Damir Osmanovic hanno solo quella foto della loro madre, ma non hanno la forza di guardarla. Una foto che ancora oggi resta l’icona di quel genocidio perpetuato su suolo europeo e che sollevò numerosi interrogativi nel senato statunitense di allora: qual era il nome di quella donna? Da dove veniva? Quali torture e umiliazioni aveva subito?

In occasione del decimo anniversario del massacro, Fatima e Damir sono tornati per la prima volta in quella che un tempo era la loro casa a Srebrenica ed hanno raccontato la storia di quella foto: “Quando sono qui provo una grande rabbia” ha esclamato Fatima alla giornalista che l’accompagnava. “Non posso davvero credere che tutto questo sia successo a noi e alle altre famiglie”.

Nei giorni successivi circa 40.000 persone furono deportate, le donne vennero sistematicamente violentate e più di 7.000 uomini e ragazzi furono trucidati. Mentre Ratko Mladic – ancora ricercato dal tribunale penale internazionale per il suo ruolo nel massacro – entrava a Srebrenica, migliaia di persone fuggirono verso Potocari, dove c’era il quartiere generale olandese il cui comandante aveva assicurato che l’Onu avrebbe autorizzato attacchi aerei per proteggerli. Ma di aerei non se ne videro. Mentre il massacro era già in corso i serbi dissero agli olandesi che avrebbero evacuato Potocari, passando al vaglio gli uomini per individuare i “criminali di guerra”. Invece portarono via uomini e ragazzi e li uccisero in massa nei boschi circostanti il villaggio. Noi oggi dobbiamo ricordare per non dimenticare cosa è avvenuto, di così atroce, a due passi da casa nostra e non permettere più, in futuro, che simili avvenimenti abbiano a ripetersi.

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Quando eravamo tutti migranti

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 14.05.2009

Migranti italiani
Migranti italiani

Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto (Esodo 23, 9). E’ il tema della memoria che s’intreccia con quello dell’alterità e che nella Bibbia si ritrova sovente. L’invito a ricordare, ad avere memoria, in particolare, quando si parla dell’atteggiamento da avere verso gli stranieri, verso coloro che non fanno parte della comunità “identitaria” dovrebbe essere raccolto da chi si occupa di politiche, ancor di più se chiamato a governare. Se non serve ricordare, come ha fatto con l’ orda di Gian Antonio Stella, che migranti lo siamo stati anche noi italiani; se non è sufficiente, per noi calabresi, rileggere le pagine dell’Avvenire Vibonese che pubblicava, alla fine dell’ottocento, le notizie sui migranti che dalla Calabria partivano verso le Americhe e i relativi provvedimenti dell’allora Commissario dell’emigrazione, forse è il caso di rileggere la Bibbia che ci rammenta che il primo straniero è stato proprio il Cristiano. E’ strano davvero: impieghiamo un sacco di tempo ad imparare qualcosa, ci costa tanta fatica e poi, in breve lasso di tempo, dimentichiamo. Eppure anche noi abbiamo conosciuto la puzza delle stive, l’amaro in bocca del lasciare – forse per sempre – la propria terra, i propri cari, per la ricerca di una vita meno misera. Ci guardiamo allo specchio ma non riusciamo più a scorgere quel figlio, quel nipote, di migranti quali siamo. Se la terra da cui ci sfamiamo si inaridisce dovremmo morire sul posto? Abbiamo piedi o radici? Noi siamo rimasti sul posto quando a “seccare” di miseria era la nostra terra? La nostra Calabria? Non amiamo essere costretti a ricordare e dimentichiamo. Thomas Eliot forse aveva ragione nell’affermare che “il genere umano non può sopportare molta realtà”. E noi italiani vogliamo dimenticare, vogliamo fingere di essere diversi da quello che siamo o da quello che siamo stati. Un bel Paese ma dalla gente immemore che l’Europa e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifuggiati (UNHCR) devono “richiamare”. Proprio mentre cultura e letteratura italiane sono in fiera a Torino sotto il titolo “Io, gli altri” e parlano all’attualità con titoli come “La morte del prossimo” di Luigi Zoja, “Mai senza l’altro” di Michel de Certau, o ancora più espliciti, come “Ricordati che eri straniero” di Barbara Spinelli, proprio mentre fiumi di parole si spendono sul tema delle nuove e vecchie migrazioni, in Italia la politica del Governo è chiara: rispedire a casa lo straniero, senza preoccuparsi neanche se queste persone abbiano, o no, diritto ad asilo perché perseguitati nel loro paese d’origine. Duecento trenta migranti soccorsi dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza italiane nelle acque internazionali di competenza maltese, sono stati “ricondotti” in Libia (paese, tra l’altro, non aderente ai trattati internazionali sui rifugiati) e senza neanche un’adeguata valutazione della loro possibile necessità di protezione internazionale. Anche se non sono disponibili informazioni sulle nazionalità dei 230 migranti – ha specificato con una nota l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite – nell’anno 2008 circa il 75% delle persone che sono giunte in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e, al 50% di costoro, è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale perché ne avevano il diritto. Solo sulla base di questi dati è leggittimo ipotizzare percentuali simili tra quelle 230 persone riaccompagnate in Libia con la “nuova linea” del Governo Italiano e del suo Ministro degli Interni Maroni. Non solo gente in fuga dalla miseria e in cerca, legittima, di una vita migliore, ma anche perseguitati politici in fuga dal loro paese. Persone che possono essere individuati e uccisi. Non basta nascere per esistere, è necessario avere una cittadinanza. Non ci sono diritti dell’uomo in quanto tale? Abbiamo o non abbiamo diritti, non perché siamo esseri umani, persone, ma perché cittadini, perché abbiamo passaporti di una certa nazione dove abbiamo avuto fortuna di nascere. E se dovesse tornare ad inaridirsi di nuovo anche la nostra di terra?

L’appello dello scorso 7 maggio rivolto alle autorità italiane e maltesi da Antònio Guterres, Alto Commissario per i rifugiati, era chiaro: “assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale, il pieno accesso al territorio e alla procedura d’asilo nell’Unione europea”. Invece no, l’appello è rimasto inascoltato e ha vinto l’Europa dei dei Governi Nazionali: le 230 persone sono state “riaccompagnate” in Libia dalle nostre motovedette “guidate” da Maroni. Perché loro, ha dichiarato il Presidente del Consiglio, “non sono come la sinistra, non sono per un’Italia multietnica”. Un radicale mutamento delle politiche migratorie del Governo italiano che ha fatto indignare non soltanto l’Alto Commissario per i Rifugiati ma anche la chiesa Cattolica e tutti coloro memori che emigranti lo eravamo pure noi.

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Cuore nero

di Giovanna Canigiula

Ultimo compito in classe in una quarta ginnasiale, quasi ultima fatica dell’anno. La traccia richiedeva un’opinione sul monito dell’Europa all’Italia per l’ondata di razzismo e xenofobia che dilagano nel nostro paese. Sorpresa! Altro che villaggio globale, intercultura, accoglienza: nella terra dei migranti emarginati, i benestanti nipotini coltivano l’odio. Percepiscono l’indistinto universo degli “stranieri” (marocchini, rumeni, rom) come nemico da scacciare. Gli extracomunitari (ma non gliel’abbiamo detto che i rumeni sono comunitari? Mi sorge il dubbio) sono ladri, stupratori, rapitori di bambini, usurpatori di lavori e diritti. Inducono, addirittura, a lasciare la patria, non foss’altro che per la salvaguardia della prole a venire. O loro o noi. E chi ha la forza, ora, di spiegare agli impermeabili mostri in erba che sarebbero stranieri altrove, comunitari o non, dunque da scacciare perché piccoli neri e mafiosi italiani, italiani del sud, calabresi? Il bello è che premettono: non sono razzista. Ma… Mi arrabbio. Mi si gonfiano le vene. Sono furibonda. Sei razzista e come. Non lo sai ma sei un piccolo mostro viziato e bastardo, che non misura pensieri e parole. Che non ha pietà. Crudele crudelissimo. E non c’è lettura, approfondimento, dibattito, conversazione, convegno, spettacolo, concerto che possano: gli stranieri di serie B vanno cacciati e subito. Sono brutti sporchi e cattivi. Insozzano le città (dev’essere per questo che Napoli è sepolta da cumuli di spazzatura!).  Ci fanno vivere nel terrore e stare rintanati nelle case (in teoria, perché nella pratica tra palestre, passeggiate, cinema e ritrovi bisogna uscire per forza. Magari li facessero stare a casa sui libri!). Hanno rovinato l’immagine dell’Italia con crimini, furti, abusi (sicuramente in tempi non sospetti avranno esportato la ‘ndrangheta dai loro terribili paesi. L’avranno portata con le navi. Maledetti!). Quante cose scopro. E mi arrendo. La lettura dei quotidiani in classe? Inutile. Li leggeremo male. Far meditare con Bilal? Inutile. Costrizione noiosa. E’ scuola. Un preside che promuove in ogni modo l’incontro con l’altro da noi perché diventi parte di noi? Inutile. Perché è scuola.  Tutto ciò che si è fatto, detto, letto, discusso in un anno: fatica inutile. E di che mi stupisco? Proprio qualche giorno fa, un quindicenne mio vicino di casa, figlio non di noto professionista ma di migrante, prima in Germania e poi nel milanese, mi spiegava che “questi clandestini non devono entrare, li devono lasciare sui barconi e se annegano dispiace ma pazienza: perché devono venire da noi, rubarci il lavoro e mandare i soldi guadagnati in Italia alle famiglie  che poi mandano anche i figli all’Università coi nostri soldi? E perché sono trattati meglio degli italiani poveri e se un rumeno ubriaco e senza patente ammazza tre persone con la macchina lo mandano in un albergo a cinque stelle anziché in carcere e poi lo liberano?” Questa dell’albergo a cinque stelle non la sapevo, ma so che l’ho scalfito appena, il tempo di un’ impercettibile apnea, quando gli ho ricordato –e con una stretta al cuore- di chi era figlio, perché si è ripreso subito: sì, ma mio padre era italiano. Viva l’Italia dunque, con il suo cuore nero, chiunque si decida di votare, paese di gran lusso come gli alberghi in cui mandiamo a soggiornare gli “stranieri” che delinquono. Abbasso i clandestini e chi cerca di capirli e la scuola che, hanno ragione, è fatta di mediocri, tanta l’incapacità di dialogare, educare, comunicare, trasmettere. Hanno detto in televisione che…Viva la televisione. Più forte e più brava. E povera sinistra, consentitemelo. Lo vedo difficile il cammino.

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Moratoria esecuzioni capitali: In sciopero della fame ad oltranza

di Giuseppe Candido

Essere contrari alla pena di morte è, per noi italiani una cosa così ovvia e scontata che forse a volte rischia di diventare retorico colui che si batte per ottenerla, subito, durante l’assemblea generale dell’ONU in corso. L’associazione Nessuno Tocchi Caino e il Partito Radicale si battono per questo sin dal 1993. Come si legge nella sintesi del dossier sulla pena di morte dell’associazione [Nessuno Tocchi Caino](http://www.nessunotocchicaino.it/): “*La moratoria si è rivelata essere una via ragionevolmente pragmatica ed efficace contro la pena di morte. In questi 14 anni, 45 paesi hanno deciso di non praticare più la pena di morte e moratorie (spesso seguite da abolizioni) ovunque nel mondo hanno potuto salvare dal patibolo migliaia di persone. Sin dal 1994 e a più riprese nel corso di questi anni e mesi, l’Unione europea e il Governo italiano hanno di fatto dissipato la forte probabilità di un pronunciamento dell’Assemblea generale dell’Onu a favore di una moratoria universale delle esecuzioni capitali in vista dell’abolizione della pena di morte. Nel 1994, ad esempio, tale proposta italiana fu battuta perché mancarono i voti di alcuni Governi europei. Nel 1999, poi, come precisamente testimoniato e ribadito di recente dall’allora ambasciatore italiano al Palazzo di Vetro, Francesco Paolo Fulci, venne da Bruxelles l’ordine di ritirare la risoluzione già depositata perchè non vi sarebbe stata la certezza assoluta di avere una forte maggioranza. Nel 2003, il precedente governo dovette affrontare durissime polemiche anche in sede di Parlamento europeo e di parlamento italiano per non aver ottemperato all’impegno e al mandato di depositare all’Assemblea generale dell’Onu, finalmente, la risoluzione a favore della moratoria. Nel luglio 2006, la Camera dei deputati aveva ribadito con fermezza e all’unanimità il mandato al governo di presentare all’Onu, sin dall’inizio dell’Assemblea generale del 2006 tuttora in corso, la risoluzione pro moratoria. Nell’ottobre scorso, di fronte all’inerzia del Governo, la Camera dei deputati – in grave polemica con il governo che aveva definito “stimoli” o “appelli” i puntuali e stringenti atti di indirizzo del parlamento – ha approvato, di nuovo all’unanimità, una risoluzione che chiedeva al governo di “dare tempestiva e piena attuazione” alla mozione di luglio. Il Governo ha invece scelto di limitarsi ad una iniziativa politica e non istituzionale con la sottoscrizione da parte di 85 membri dell’Assemblea generale dell’Onu, il 19 dicembre 2006, di una mera dichiarazione di intenti contro la pena di morte senza nessun valore formale e impegno preciso. Il 27 dicembre 2006, Marco Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete per sostenere la proposta “Nessuno tocchi Saddam” e, dopo l’esecuzione di Saddam Hussein, lo sciopero della fame e della sete di Pannella è rilanciato e convertito sull’obiettivo più generale della moratoria universale delle esecuzioni capitali. Si chiede al Governo italiano di assumere un impegno formale e concreto a presentare una risoluzione all’Assemblea Generale dell’ONU in corso. Il 2 gennaio 2007, in relazione alla iniziativa di Pannella, Palazzo Chigi rende noto che “Il Presidente del Consiglio e il Governo si impegnano ad avviare le procedure formali perché questa Assemblea Generale delle Nazioni Unite metta all’ordine del giorno la questione della moratoria universale sulla pena di morte.” Il 6 Gennaio 2007, in un incontro a Palazzo Chigi con il Vice Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, la delegazione del Partito radicale guidata da Marco Pannella presenta al Governo un Memorandum sui passi formali e politici da compiere: riapertura del punto 67 dell’agenda dell’Assemblea Generale in corso per la presentazione di una Risoluzione; preparazione da parte del Governo di una bozza di Risoluzione con un chiaro dispositivo sulla moratoria; inizio della raccolta firme sul testo di risoluzione. Il 1° febbraio, con un voto quasi unanime, il Parlamento europeo “sostiene fermamente l’iniziativa della Camera dei deputati e del governo italiani, sostenuta dal Consiglio e dalla Commissione UE nonché dal Consiglio d’Europa; invita la Presidenza UE ad adottare con urgenza un’opportuna azione per garantire che tale risoluzione sia presentata in tempi brevi all’Assemblea generale ONU in corso.” Molte volte si è stati vicini a questo obiettivo senza mai raggiungerlo. L’iniziative più recenti dopo l’appello “Nessuno tocchi Saddam” è la marcia di Pasqua tenuta a Roma lo scorso 8 aprile e lo sciopero della fame che, dal 21 marzo, Marco Pannella; questa forma di lotta nonviolenta il 16 aprile ha preso forma, assieme ad altri quattro compagni radicali (Sergio D’Elia, deputato della RNP e segretario dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Walter Vecellio, Guido Biancardi e Claudia Sterzi) di sciopero della fame AD OLTRANZA. Il motivo è sostenere il governo italiano affinché faccia la sua parte portando ufficialmente all’Onu la risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali. Alla marcia di Pasqua organizzata dal Partito Radicale, dall’Associazione Nessuno Tocchi Caino e dalla Comunità di Sant’Egidio aveva avuto il patrocinio del Comune di Roma e, a dimostrare la con divisibilità dell’iniziativa se ce ne fosse bisogno, è il fatto che con tre semplici telefonate siamo riusciti a far subito aderire simbolicamente, ma ufficialmente, i sindaci di Sellia Marina, Cropani e Botricello. In piazza a Roma hanno partecipato alcune migliaia di persone e a noi è dispiaciuto non esserci personalmente. Ieri (19 aprile), dalle colonne del L’Unità, Marco Pannella lancia un appello: “non fermiamoci ora”. Pannella ha spiegato come i mandati del Parlamento Italiano e gli stessi impegni assunti dal Governo “non menzionano minimamente la condizione di consenso dell’Unione Europea, bensì la formula in “consultazione” con i paesi europei*” Pannella si trova a sostenere quello che il Governo italiano ha dichiarato di volere e a cui lo vincola un mandato del Parlamento votato all’unanimità trasversalmente ai due schieramenti. Per questo Pannella – ormai a un mese di sciopero della fame – con la sua iniziativa ad oltranza ha inteso chiamare a mobilitazione tutti. Donne e Uomini di buona volontà che considerino improcrastinabile e non più rinviabile alla prossima assemblea la presentazione di una risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali. Ad oggi, infatti, il Governo italiano non ha ancora depositato la risoluzione della moratoria nonostante l’adesione alla Marcia. Tutto ciò lascia stupiti e anche le dichiarazioni di Fassino a riguardo la moratoria dal palco del congresso dei DS sembrano deboli e volte a non depositare subito la risoluzione. Per questo rispondo alla richiesta di aiuto e aderisco a sostegno dell’iniziativa con una forma di lotta alternativa, che già Luca Coscioni adottò per le sue battaglie di libertà e di diritto: quella dell’auto riduzione dei farmaci. Dell’insulina – nel mio specifico caso – di cui necessito in quanto diabetico. Dalla mezzanotte di giovedì 19 aprile sino alla mezzanotte di domenica 22.

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