Archivi categoria: Storia

Realtà deformata

di Maria Elisabetta CUrtosi

 

La televisione cominciò a muovere i primi passi sperimentali poco prima della seconda guerra mondiale, per poi affermarsi alla fine degli anni Quaranta, aprì sicuramente una nuova fase del giornalismo. L’informazione o meglio ala comunicazione delle notizie per mezzo delle immagini nel tempo cosiddetto “reale” cioè la telecamera lo registra e lo trasmette in “tempo reale” che tiene conto di passaggi dal filtro politico a quello giornalistico così l’immagine che giunge all’occhio dello spettatore può essere assolutamente deformata. Ma è quell’immagine a diventare realtà, perché è quella stessa immagine che diventa “ fonte d’informazione” per il giornalista-scrittore, tenuto lontano dagli avvenimenti.

 

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Il cinema e il giornale

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Il cinema aveva provocato un terremoto nel sistema della comunicazione, già nel 1915-18 aveva fatto la sua apparizione nel mondo giornalistico con l’affermazione del “giornale cinematografico” che portava le immagini della guerra e i volti dei soldati in tutti i paese industrializzati. Nel 1919 Pasquale Parisi nel suo libro “Il giornale e il giornalismo” scriveva: << Nel passato le guerre si combattevano e si vincevano col valore dei condottieri, con lo slancio e l’eroismo dei soldati e con le armi che, di guerra in guerra, si andavano trasformando, perfezionando e moltiplicando. L’ultima grande guerra, nella quale quasi tutti i popoli della terra sono stati in vario modo travolti, ha gettato nel furore della battaglia molte armi nuove e tutte le conquiste della scienza e della civiltà; ma un arma inusitata, formidabile invincibile è stata impegnata; un’arma che ha costituito una forza indomabile, da non potersi contenere né valutare, e quest’arma è stata il Giornale …>>. Così è stata data la possibilità alla gente di vedere le immagini vere, tuttavia “trattate”, censurate e controllate in modo tale che la verità voluti si identificasse con il realismo inoppugnabile di ciò che passava sullo schermo.

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Abolire la povertà, un dovere per l’Europa di domani

di Anthony Barnes Atkinson (*)

La Stampa 19.5.14

Il grande economista inglese Anthony Atkinson rilancia il progetto di un reddito-base per tutti

Quarantacinque anni fa pubblicai un libro, Poverty in Britain and the Reform of Social Security, in cui avanzavo proposte che puntavano a realizzare nel Regno Unito l’aspirazione del Piano Beveridge del 1942.
Ossia, di «mettere l’uomo al riparo dal bisogno assicurando sempre a ogni cittadino che voglia servire secondo le proprie energie un reddito sufficiente per far fronte alle sue responsabilità».

Antony Atkinson
Antony Atkinson, premio Nobel per l’economia nel 2012

A parte i toni un tantino maschi, questa affermazione della nostra aspirazione a garantire un reddito minimo nazionale appare importante ai nostri giorni come lo era allora.
Oggi, il problema della povertà è urgente allo stesso modo. Nel 1969, il tasso di povertà nel Regno Unito era, secondo gli standard attuali dell’Unione Europea (la quota di persone che vivono con un reddito inferiore al 60% del reddito disponibile mediano equivalente), del 14%. Nel 2011, è stata registrata al 16%. Eppure, la risposta della politica sembra camminare all’indietro.

Nel marzo del 2014, il parlamento britannico ha approvato a larga maggioranza un tetto ai sussidi della previdenza sociale. Il cosiddetto Welfare cap stabilisce un limite, suscettibile di adeguamenti solo in rapporto all’inflazione, alla spesa complessiva di tutte le prestazioni previdenziali (a parte le pensioni statali di base e certi sussidi di disoccupazione) per gli anni dal 2015-16 al 2018-2019. Questo è un provvedimento che va ad aggiungersi alla precedente legge, approvata nel 2012 dal governo di coalizione britannico, per limitare l’ammontare dei sussidi che possono essere percepiti settimanalmente da una singola famiglia. Il tetto alla spesa per il Welfare viene così messo in due modi.
La cosa sconcertante, per me, è che i tetti ai costi globali del Welfare sono stati approvati in Inghilterra avendo scarsa o nessuna considerazione delle conseguenze per gli obiettivi propri che la spesa previdenziale vuole raggiungere. Vuol dire questo che il Regno Unito ha voltato le spalle all’obiettivo di Beveridge di garantire un reddito minimo nazionale? Vuol dire che a una persona che non è in grado di lavorare – ad esempio per un incidente – dovremo dire che non ci sono più soldi nel bilancio del ministero del Lavoro e delle Pensioni? Che i sussidi per l’infanzia dovranno essere tagliati per le ristrettezze di bilancio imposte da altri programmi? […]
Delle nuove forme di previdenza sociale, la più discussa è forse l’idea di un «reddito di cittadinanza» o «reddito di base», che prevede un sussidio universale da pagarsi individualmente a tutti i cittadini, variabile da uno dei paesi membri all’altro a seconda delle loro specifiche circostanze. L’entità della somma potrebbe essere legata ad alcuni parametri determinati da caratteristiche personali, come l’età, ma non sarebbe legata al fatto di essere o no occupati.
Il reddito di cittadinanza è una vecchia idea, che però non è stata adottata come parte della protezione sociale europea. A livello nazionale, è stato in genere molto discusso in tempi di ricostruzione, come dopo la Seconda guerra mondiale, e in questo senso potrebbe essere naturale per l’Ue riprenderla come elemento di un più grande «balzo in avanti» del dopo recessione. Essa tuttavia solleva la questione del fondamento della idoneità. Il reddito di base viene spesso presentato come «incondizionato», ma deve comunque esserci una condizione qualificante. Questa viene di solito individuata nella cittadinanza, ma la cittadinanza non è la stessa cosa che la base per la tassazione e evidentemente non è la base giusta nel contesto della Ue. Il criterio della cittadinanza significherebbe che un lavoratore svedese in Francia riceverebbe il reddito di base svedese, non il reddito di base francese, il che non sarebbe coerente con la libertà di movimento della manodopera.
La razionalità di un reddito di base che varia da paese a paese dovrebbe essere nel fatto che il reddito di base vari in relazione al costo della partecipazione a una società particolare. Un approccio alternativo perciò è di rendere il reddito di base condizionato, ma non alla cittadinanza, bensì alla partecipazione nella società. […]
Proponendo un simile «reddito di partecipazione», piuttosto che un universale reddito di base, sono ben consapevole che esso presta il fianco a due obiezioni: che il suo essere condizionato rischia di escludere persone vulnerabili, e che comporta un notevole impegno amministrativo. Ma il reddito universale è una chimera. Tutti i progetti attuali prevedono una condizione di idoneità e quindi il rischio di esclusione. La cittadinanza sarebbe di tutta evidenza un criterio altamente discriminatorio, e probabilmente contrario alle leggi europee. Le regole esistenti per stabilire l’idoneità a ricevere sussidi si sono rivelate politicamente tossiche, e parecchie difficoltà nascono quando si tratta di applicare le regole a persone che vivono in un paese ma che non vi hanno domicilio per motivi fiscali. Tutti questi elementi evidenziano la necessità di un accordo esplicito sulla nozione di partecipazione a una particolare società. Una volta stabilito un accordo del genere, l’applicazione delle regole richiederebbe naturalmente un apparato amministrativo. Per esempio, la qualificazione di attività non di mercato richiede una certificazione. Ma il sistema esistente di assicurazione sociale richiede un analogo apparato se dev’essere adeguato al XXI secolo, per cui il tema dovrà essere comunque affrontato.
Lanciare un’iniziativa europea per un reddito di partecipazione sarebbe una mossa politica ardita. Proporre un’iniziativa del genere può apparire come una sfida ai decenni di incapacità dell’Ue di fare progressi nell’armonizzazione della previdenza sociale. Ma ci sono due ragioni di ottimismo. La prima è che essa offre una soluzione a problemi con cui i governi nazionali stanno oggi combattendo – esattamente come le prime istituzioni europee offrirono una soluzione a problemi nazionali di ristrutturazione economica. La seconda è che il reddito di partecipazione è – salvo un’eccezione – una forma nuova di previdenza sociale.

Non ci sarebbe il problema di imporre un modello nazionale a tutti gli Stati membri. Non sarebbe un’assicurazione sociale alla Bismarck o alla Beveridge. Sarebbe una strada del XXI secolo verso un’Europa sociale.
C’è un’eccezione all’affermazione che un reddito di base non è ancora entrato nella protezione sociale europea: l’erogazione di un sussidio universale alle famiglie per tutti i figli, magari variabile per età, può essere vista come una forma specifica di reddito di base. Erogazioni del genere sono comuni nei paesi Ue. Se la Ue vuole incamminarsi lungo la strada del reddito universale, il punto di partenza naturale è di cominciare con un reddito di base europeo per i bambini.

Una decina d’anni fa, il Gruppo ad Alto Livello sul futuro della politica sociale in un’Unione Europea allargata fece una proposta simile, come elemento di un possibile «patto intergenerazionale». In termini concreti, ciò può significare un reddito di base in tutta la Ue per bambini, fissato, diciamo, al 10% del reddito mediano pro capite in ciascuno degli Stati membri per ogni bambino. Sarebbe amministrato e finanziato, con clausole di sussidiarietà, da ciascuno degli Stati membri. Un programma del genere – rifinito nei dettagli – permetterebbe all’Europa di investire sul suo futuro.
Quarantacinque anni fa, proponevo riforme al sistema di previdenza sociale britannico che miravano a realizzare l’obiettivo di Beveridge di abolire la povertà. All’epoca credevo che il suo Piano di assicurazione sociale, portato pienamente a compimento, fosse il percorso giusto da seguire. Non è accaduto, e oggi, purtroppo, il problema della povertà rimane – in Inghilterra e in tutta l’Unione Europea.

Quali risposte possiamo dare alla ricerca di riformare il Welfare State europeo oggi?
– La prima priorità è di ri-affermare l’aspirazione a offrire previdenza sociale per tutti;
– Partire da un tetto alla spesa per il Welfare è il modo più sbagliato; abbiamo invece bisogno di partire da obiettivi sociali;
– Il Welfare State deve adattarsi ai radicali cambiamenti del mercato del lavoro e della società;
– Ciò significa ripensare tutto a fondo, e da parte mia propongo un «reddito di partecipazione» e un reddito di base in tutta l’Unione Europea per i bambini.
Sto di nuovo sognando?

Anthony Atkinson ha ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2012 – La Stampa 19.5.14 – Traduzione di Michele Sampaolo – © Eutopia

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Divorzio: quarant’anni fa i Radicali conquistarono la più grande vittoria laica …

Nel Paese più cattolico del mondo, nel 1974, i Radicali conquistarono la prima grande vittoria laica in Italia. Ne seguì un’epoca di battaglie e vittorie straodinarie. Il video propone immagini dal documentari “Lo scandalo initegrabile” e “Il furto dei referendum, un golpe italiano”, prodotti da Radio Radicale. Con Gianfranco Spadaccia, Marco Pannella, Adriano Sofri e Massimo D’Alema.
Il contenuto video è reso disponibile su YouTube da RadioRadicale.it

Di seguito il link  una sintesi di Pannella del 1 maggio 2013 sui fatti del 12 maggio 1977 quando morì a Ponte Garibaldi, Giorgiana Masi

I fatti di Roma del 12 maggio 1977, l’assassinio di Giorgiana Masi, i divieti di manifestare del ministro Cossiga, la nonviolenza radicale

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La censura sui mezzi d’informazione

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Sulla censura sui mezzi d’informazione si è soffermato un altro storico del giornalismo, Georges Weill: << La guerra del 1914 mostrò la forza e la debolezza della stampa politica; la sua forza, perché giammai gli uomini, nel mondo intero, provarono un simile desiderio di leggere i giornali ridussero o soppressero la sua libertà, le imposero una sorveglianza minuziosa … frenare la stampa come organo d’informazione, svilupparla come organo di propaganda …>>. Pertanto le guerra hanno influito  sullo sviluppo e sul sistema di informazione. Anche la Guerra del Golfo fu vissuta dal mondo intero attraverso immagini censurate, controllate, filtrate, velinate e addirittura prefabbricate. Indirizzare l’opinione pubblica verso il volere della propaganda con una novità assoluta: la centralità dell’informazione.

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La società ha bisogno di innovatori ed innovatrici

di Maria Elisabetta Curtosi

 

L’attenzione delle lettrici e dei lettori si è spesso concentrata solo sulle raccomandazioni da usare quando si scrive, forse perché è più facile presa o perché la parte più operativa, certo le raccomandazioni non sono da intendere nel loro autentico significato se estraniate dal conteso che la precede. La rilevazione delle dissimmetrie non intende essere una sterile e lamentosa protesta fine a sé stessa, ma piuttosto vuole essere documentazione di una situazione che si ritiene debba cambiare. La lettura dovrebbe suscitare, in particolare nelle donne, un senso di fastidio convinto per come la lingua le condiziona, oscura, occulta.

A questo punto acquistano il giusto significato le raccomandazioni, le quali non vogliono rappresentare una rivoluzione linguistica, né la cancellazione di una lingua per inventarla un’altra. Esse suggeriscono una scelta più attenta delle forme grammaticali e sintattiche, e magari richiedono un po’ di innovazione. Ma tutte le società hanno avuto bisogno di innovatori e di innovatrici per progredire.

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La nascita del primo servizio radiofonico

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Nel 1933 ci fu un’altra importante rivoluzione in campo giornalistico e delle comunicazioni di massa e cioè  quando Guglielmo Marconi inaugura  dopo 38 anni di esperimenti il primo servizio radiofonico tra la Città del Vaticano e Castelgandolfo. Fu sconvolgente perché alla parola scritta si sostituisce o meglio si aggiunge la parola “parlata” facendo così una divulgazione sempre maggiore di informazioni e di idee. Così il potere si impadronì subito della radio e lo fa strumento di divulgazione, infatti proprio sulla radio che regimi come il fascismo puntarono per la loro propaganda, inoltre è sempre attraverso la radio che viene preparata la seconda guerra mondiale usando slogan, celebre rimane l’anatema del giornalista di regime Appelius contro l’Inghilterra per ingenerare odio negli italiani e condurli per mano al conflitto<. << Dio stramaledica gli Inglesi>>.

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Alcune “Raccomandazioni….”

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Uno spazio particolare è dedicato ai titoli e a quelle enunciazioni in cui la strumentalizzazione dell’immagine femminile quale richiamo. E’ evidente anche l’importanza su altre parti incluse nel testo. E’ interessante soffermarci, però,  nelle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” che è indirizzato a chi scrivendo o parlando intende eliminare le deformazioni di una lingua così strutturata e usata. Questo è un testo che sia per la personalità dell’autrice sempre proiettata verso innovazione e libera da condizionamenti che riteneva immotivati, sia per l’epoca in cui uscì –  1985  – portava con sé un preciso intento provocatorio. Anche se le raccomandazioni appaiono molte volte forti perché prive di una loro logica e di una potenziale attuabilità. Ma dal punto di vista del senso comune, che per quanto riguarda la lingua risente di quell’alone di sacralità che troviamo nei dizionari e grammatiche, anche se a tutti p noto che sono proprio questi che attestano la non neutralità della lingua e la perpetuano.

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La #Scienza è conoscenza s’è pubblica e disponibile

a cura di Giuseppe Candido

Conoscere per deliberare è il motto di Luigi Einaudi che però, anche in materia di dati sull’inquinamento ambientale, viene troppo spesso dimenticato.

Secondo Jürgen Renn1, direttore dell’Istituto Marx Plank per la Storia della Scienza di Berlino, viviamo oggi nell’Antropocene, una nuova era geologica nella quale “più del 75% della superficie terreste non ricoperta da ghiaccio è stata trasformata dall’uomo. L’era in cui la natura incontaminata non esiste più”. Nell’ampia prolusione2 tenuta oggi, 3 marzo del 2014, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Bergamo, l’illustre cattedratico ha posto seri interrogativi “ai responsabili del pianeta”.

“Abbiamo creato cambiamenti irreversibili, consumando le risorse naturali, liberando materiale radioattivo, alterando sia la biosfera sia l’atmosfera. Questo significa che il futuro del nostro pianeta sarà in larga parte forgiato dall’azione umana. Come possiamo essere – si chiede Jürgen – all’altezza delle responsabilità che ci siamo presi? Che tipo di conoscenza serve? Come possiamo essere certi che la conoscenza guiderà la nostra risposta alle grandi sfide che ci attendono?”. E ancora: “chi può garantire che la scienza fornirà le risposte ai problemi creati da questi interessi politici ed economici? E anche se otteniamo le risposte, quali strutture saranno richieste per implementarle?”.

Interrogativi «enormi» di cui, lo stesso Jürgen ammette che «nessuno conosce le soluzioni».

«Nelle società moderne, la scienza interagisce con gli sviluppi economici, politici e culturali».

Per Jürgen, «La scienza è stata spesso vista come un’attività che si svolge in una torre d’avorio, dove si esplorano idee astratte che possono anche non riferirsi al mondo reale».

Eppure, sostiene Renn nella sua lezione,

« Isolando la scienza dai suoi contesti sociali, non si comprendono le sue relazioni effettive. La scienza » – aggiunge Jürgen – « è soltanto una forma particolare di conoscenza. La conoscenza è un aspetto fondamentale della cultura umana, ben più ampio della scienza. La conoscenza deriva dalla riflessione sulle nostre azioni precedenti, consentendoci di progettare quelle future. Se vogliamo comprendere il progresso della scienza, dobbiamo studiare l’evoluzione della conoscenza ». Ai responsabili del pianeta e, in generale, della cosa pubblica, Jürgen Renn fa notare che « la conoscenza non ha soltanto una dimensione cognitiva, ma anche sociale e materiale. Può essere comunicata, condivisa e immagazzinata tramite rappresentazioni esterne come congegni, manufatti e testi».

Con la rivoluzione scientifica di Einstein, per Jürgen Renn, «vi è stata una trasformazione che ha riguardato non solo la scienza, ma più in generale le strutture della conoscenza. L’evoluzione della conoscenza è prodotta dalle strutture sociali ».

Emersa dalle prime società complesse assiro-babilonesi, la Scienza,

« per un lungo periodo rimase comunque un’attività marginale. Agli inizi dell’età moderna, tuttavia, l’esplorazione del potenziale intellettuale si indirizzo verso lacune tecnologie della società, come le infrastrutture urbane, l’architettura, la costruzioni di navi e di armi da guerra. Così, la conoscenza scientifica si rivelò ancor più utile nel miglioramento di queste tecnologie. Inoltre, la combinazione della conoscenza pratica con quella scientifica si trasformò in una matrice ampiamente diffusa, favorita dalla tecnologia delle stampa e da nuove istituzioni. (…) Le società implicano un’economia della conoscenza che produce e distribuisce non solo la conoscenza di cui hanno bisogno, ma anche un eccesso di conoscenza che può innescare sviluppi imprevisti. Alcuni di questi effetti diventano poi le condizioni per nuovi sviluppi. Così, la scienza emersa originariamente soltanto come un effetto collaterale, si è trasformata in una condizione essenziale per l’esistenza delle società moderne. Ma questo non deve farci dimenticare l’importanza delle sue connessioni con le economie della conoscenza delle nostre società e con l’evoluzione della conoscenza». Per Jürgen Renn, «è dunque necessario superare la tradizionale frammentazione della conoscenza scientifica, sfruttando il potenziale del Web per renderla pubblicamente disponibile e connetterla in nuove forme. E sarà cruciale esplorare le modalità in cui essa può essere integrata, con altre, che sono forse forme vitali di conoscenza soltanto a livello locale, per esempio, in merito a come impiegare le risorse in modo sostenibile, a come far fronte alle malattie e alla morte, a come mantenere la pace o, semplicemente, a come condurre una “vita felice” »

La conoscenza dei dati ambientali, la conoscenza dei luoghi a rischio dissesto e della vulnerabilità del patrimonio edilizio, sarebbero fondamentali.

Per capire, invece, quanto poca importanza sia data, oggi, da parte di una regione inquinata come Calabria, devastata dall’emergenza ambientale e dalle mancate bonifiche, alla conoscenza dei dati ambientali e dell’uso delle risorse naturali che pure dovrebbero essere pubblici, è stato sufficiente andare a cercare sul sito ufficiale del Consiglio regionale (www.consiglioregionale.calabria.it) nella sezione dedicata all’amministrazione trasparente. Ci siamo resi tristemente conto che, a fine febbraio 2014, non si trova nulla. Neanche quelle informazioni ambientali la cui trasparenza oltreché dalla convenzione di Aarhus, dovrebbe essere garantita dalla semplice applicazione dell’articolo 40 del D.Lgs. n. 33 del 2013.

Nell’ambito delle informazioni ambientali, sul sito della regione Calabria, sia che si cerchino i dati sullo stato dell’ambiente, sia che si voglia sapere quali siano i fattori di rischio o le misure incidenti sull’ambiente con le relative analisi di impatto, sia che si voglia conoscere le misure adottate a protezione dell’ambiente, sia che si cerchi la relazione sull’attuazione della legislazione o, soprattutto, quella sullo stato di salute e della sicurezza umana, la risposta che, in automatico, costantemente si genera, è sempre la stessa: “Sezione in aggiornamento”. Di dati ambientali, nelle pagine dell’amministrazione trasparente, non ce ne sono.

1  Jürgen Renn è direttore dell’Istituto Marx Plank per la Storia della Scienza di Berlino, docente di Storia della Scienza all’Università Humboldt e Visting, e docente presso la Boston University. Tra i più conosciuti e apprezzati studiosi del pensiero e dell’opera di Albert Einstein, ha scritto e curato numerosi lavori tra cui, in italiano, il libro Sulle spalle di giganti e nani: la rivoluzione incompitua di Albert Einstein, (Bollati Boringhieri, Torino, pp.360)

2  Il testo della prolusione citato è stato anticipato, in sintesi, nella rubrica Scienza e Filosofia, su Il Domenicale, inserto de Il Sole 24 Ore, Domenica 2 Marzo 2014, n°60

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“Il sessismo mentale”

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Prendendo in cosiderazione le dissimmetrie semantiche, l’analisi investe soprattutto l’uso della lingua, vale a dire il << il sessismo mentale>> che si esplicita con le sue forme stereotipate, patriarcali, attraverso aggettivi, sostantivi e forme alterate come diminuitivi, vezzeggiativi che sono numeroso quando il discorso verte su donne/personaggio. Un esempio lo troviamo in un periodico dell’epoca:<<  il tragitto terreno di Indira Ganndhi sarebbe stato già straordinario se lo avesse percorso un uomo. Diventa unico perche lo ha percorso una piccola donna fragile mite minuta e rotondetta una piccola donna fisicamente Indira proseguì con un tocco… di femminile nevrosi>>.

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