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“La peste ecologica e il caso Calabria”. L’introduzione di Rita Bernardini e Marco Pannella, la nota di Valerio Federico e Paolo Farina

La peste ecologica e il caso Calabria di Giuseppe Candido, prefazione di Carlo Tansi, introduzione di Rita Bernardini e Marco Pannella
Prefazione di Carlo Tansi, introduzione di Rita Bernardini e Marco Pannella

E’ andato in stampa il volume di Giuseppe Candido, con una prefazione di Carlo Tansi, la postfazione di Franco Santopolo, una nota di Valerio Federico e Paolo Farina e l’introduzione di Rita Bernardini e Marco Pannella che di seguito pubblichiamo.

Uscirà a breve, nella prossima settimana, per i tipi di Non Mollare edizioni, la casa editrice dell’associazione di volontariato culturale Non mollare che edita on line anche Abolire La Miseria della CalabriaLa Peste ecologica e il caso Calabria, l’ultimo libro di Giuseppe Candido.


 

Nell’Abstract del volume si legge che …

Dove c’è strage di leggi c’è sempre strage di popoli. Rischio sismico, idrogeologico e ambientale, mal governo del territorio, rifiuti tossici interrati, mala depurazione e un’emergenza rifiuti infinita per alimentare clientele e “fare progetti”; storie (vere) di frane, alluvioni, terremoti e disastri ambientali aventi tutti come denominatore comune il disastro politico che li ha causati!La peste ecologica e il caso Calabria, è un libro-dossier in cui si ripercorrono fatti, eventi spesso tragici sul dissesto idrogeologico, sui rischi sismici e su quelli ambientali del nostro Paese con particolare rifermento, per quest’ultimo aspetto, al caso dei veleni e dei rifiuti in Calabria. Cos’hanno in comune rischi, mal governo del territorio, dissesti e veleni? La peste ecologica è la violazione sistematica delle leggi che ha, per conseguenza, una strage di popoli.


La peste ecologica e il caso Calabria, di Giuseppe Candido. Prefazione di Carlo Tansi, introduzione di Rita Bernardini e Marco Pannella, postfazione di Franco Santopolo e una nota di Valerio Federico e Paolo Farina – Non Mollare edizioni, euro 18,00; Pagine 394 – ISBN 9788890504020 – Per prenotarne una copia è sufficiente inviare una mail all’indirizzo associazionenonmollare@gmail.com


L’Introduzione di Rita Bernardini e Marco Pannella

Con il suo bel libro Giuseppe Candido presenta al lettore una seria e documentata proposta che, affondando le sue radici nello specifico calabro, rafforza la complessiva urgenza nazionale (e non solo!) di contrastare i connotati illiberali e ormai anti-democratici dello Stato italiano –renziano– arroccato in accanita difesa proprio di ciò che è oggetto, da decenni, delle massime imputazioni e condanne delle giurisdizioni europee. Imputazioni e condanne seriali richiamate dal “Massimo Magistrato” italiano, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il suo messaggio costituzionale alle Camere, una straordinaria testimonianza, completa di “obblighi” e di proposte indirizzate al nostro Paese e, non a caso, trattata in modo indegno dal Parlamento, suo naturale destinatario.

Gli “obblighi” che l’Italia disattende, e che derivano anche dal Diritto comunitario da anni costituzionalizzato, riguardano altresì – in grandissima parte – l’ambiente sfregiato dei nostri territori. Grazie alla visione transnazionale del Partito Radicale, questi “obblighi” verso l’ambiente non hanno confini e ci costringono a farcene carico, studiandolo per ciò che è: una “funzione” vitale del pianeta, che nessuno può permettersi di sacrificare.

Citando Aldo Loris Rossi, Marco Pannella lo ripete in modo assillante: “Il genere umano ci ha messo due milioni di anni per arrivare – nel 1830 – al primo miliardo; cento anni per arrivare al secondo, 30 per il terzo, 15 per il quarto, 13 per il quinto, 12 per il sesto, e ancora 13 anni per il settimo miliardo.

Mentre scrivo, un sito internet (http://www.worldometers.info) ci conta e censisce, a noi umani, in tempo reale. Girando vorticosamente, ci informa che in questo preciso istante siamo 7 miliardi 243 milioni 471.433 e che fino a questo momento in questa giornata sono nate 328.443 persone e ne sono morte 135.528. Molto probabilmente questo contatore, grazie a un’elaborata formula matematica, ci azzecca. Non dico all’unità, ma quasi. E allora mi chiedo se nell’implacabile calcolo offertoci in diretta ci siano già finiti i morti di cui ho avuto notizia poco fa: due detenuti suicidati; un altro, morto per malattia incompatibile con lo stato di detenzione, mentre – infine – un agente di polizia penitenziaria di 42 anni e un suo amico sono morti per overdose di eroina.

Certamente, nel contatore sono finiti i morti che ci segnala Giuseppe Candido: morti per alluvione, frane, tumori causati dai rifiuti tossici o dai veleni industriali o per micidiali concessioni edilizie rilasciate senza rispetto delle leggi. Ci sono anche i morti censiti dai libri di Maurizio Bolognetti e Massimiliano Iervolino. Via via, il contatore ingloberà anche i morti delle analoghe stragi, che fin da oggi si possono tranquillamente prevedere senza che nulla venga fatto per fermarle nonostante le denunce e le soluzioni prospettate da quella che Pannella definisce “letteratura militante”.

Se puntiamo l’implacabile strumento su questo o quello dei continenti del pianeta, osserveremo che la velocità del fenomeno varia: sarà molto più lento in Europa, più veloce nell’America del sud, velocissimo in Africa o in Asia. Ma quel che è certo è che il dilagante aumento della popolazione mondiale sta facendo crescere il consumo dei suoli, dell’acqua e di energia, per sopperire a esigenze non solo alimentari in crescita esponenziale. Fulco Pratesi ci spiattella un altro ferma-immagine impressionante: visto che siamo oltre 7 miliardi e 200 milioni, ciascuno di noi umani ha a disposizione – contando anche luoghi invivibili come deserti, ghiacciai, montagne – poco più di due ettari a testa, corrispondenti a quattro campi di pallone. Se però prendiamo in considerazione le sole terre arabili, ogni umano ha a disposizione meno della metà (il 40%) di un solo campo di pallone. Ma i Paesi ricchi, in primis la Cina, si stanno muovendo da anni per acquistare e occupare terreni nel sud del mondo, in particolare in Africa: dovendo prevedere necessità energetiche e alimentari che, con il consumo e distruzione dell’ambiente in casa loro, rischiano di non poter più affrontare e governare, si recano altrove per continuare a consumare (e distruggere) suolo e risorse.

Da una parte quel contatore corre veloce, ammonendoci che la crescita vertiginosa della popolazione mondiale è insostenibile; dall’altra ci segnala anche morti – troppo spesso vere e proprie stragi – che potrebbero essere evitate se solo si rispettasse la legalità democratica, dove c’è. Dove non c’è, dovrebbe essere urgenza impellente di tutti i paesi democratici, di ciascun democratico, promuoverla e instaurarla.

Quel che il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito sta cercando di promuovere da più di vent’anni (con solide radici nel passato) è che nessun fenomeno del nostro tempo può essere più governato con una visione localistica e dunque occorrono istituzioni transnazionali democratiche per affrontare il futuro. Futuro che è destinato a divenire un incubo se si considera quanto straordinariamente spiegato nel documento politico, coordinato dal Prof. Aldo Loris Rossi, che il Partito Radicale ha presentato all’ONU in occasione del World Urban Forum 6 svoltosi a Napoli dall’1 al 7 settembre 2012: “dal dopoguerra – così esordisce e successivamente documenta – la terza rivoluzione industriale fondata sull’energia atomica, l’automazione, l’informatica, ha ristrutturato l’intero ciclo produttivo in senso post-fordista e spinto impetuosamente verso la globalizzazione, l’economia consumista e le megalopoli,provocando la più grande espansione demografica e urbana della storia”.

Anche se l’idea dello sfruttamento illimitato delle risorse è il modello di sviluppo oggi considerato normale, occorre tentare di sventare il conseguente ecocidio planetario, come si deve fare con una persona che si sta per suicidare. Impossibile? «Non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili»: questo ci dice Aldo Loris Rossi, citando Seneca. E la sostanza di questa verità ci dice – con tutta la sua vita di dialogo nonviolento -Marco Pannella.

Di fronte alla bomba demografica, che va governata così come va governato il consumo dissennato di terra, acqua, aria, occorre concepire con amore il nuovo possibile. Per questo il Partito Radicale – con i suoi connotati di nonviolenza, transnazionalità e transpartiticità – cerca il dialogo: anche e soprattutto con i “lontani”, come i cinesi tra gli altri. Perché sa come sia un’illusione il chiudersi nelle proprie mura nazionali e pensare di risolvere i problemi nell’egoismo isolazionista. I nazionalismi sono un cancro che uccide, ed è necessario contrapporgli la concezione di istituzioni federaliste, autonome e democratiche, che abbiano come regola etica il rispetto dei Diritti Umani fondamentali consacrati nella Dichiarazione Universale dell’ONU.

Dal transazionale si passerà poi, con una logica conseguente, al locale, ai “casi” Campania, Basilicata, Roma, fatti emergere dalla letteratura e dall’evidenza di compagni radicali che da sempre, in tutti i campi, producono letteratura ed evidenza del dissesto, innanzitutto democratico, che sta avvenendo nei loro paesi, nel nostro Paese.

Il libro di Giuseppe Candido è un altro bel tentativo, che partendo dalla realtà calabrese fornisce elementi di verità e di conoscenza per cambiare rotta in Italia, e non solo.

Rita Bernardini è Segretaria Nazionale di Radicali Italiani, Deputata radicale XVI legislatura (2008-2013), Membro Assemblea dei legislatori del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito


 

La “pillola” di un “ambientalista”

di Paolo Farina e Valerio Federico1

Questo poderoso volume, frutto dell’ammirevole lavoro di Giuseppe Candido, ci lascia spiazzati davanti alla conclamata e quasi scientifica devastazione di un territorio nonché alle cause e ragioni (o S-ragioni) che hanno portato a questa distruzione di un patrimonio naturale, umano e civile.

Quanto accaduto, capace di segnare indelebilmente i territori coinvolti e l’Italia in generale, non può non essere che l’esito dell’azione e della non azione delle maggioranze e delle opposizioni che hanno governato questa parte del Paese. Il prodotto della contemporanea inadempienza dei governanti e dei cosiddetti oppositori. Inadempienti rispetto al patto sociale che le forze politiche stipulano “naturalmente” con i cittadini.

Si tratta davvero, e bene ha fatto Candido a stigmatizzarlo già nel titolo del libro, di una “peste”, che distribuisce i suoi sintomi, i suoi effetti, in modo ramificato e distrugge oltre all’ambiente naturale anche i più diversi aspetti che regolano il diritto alla libertà, alla giustizia e alla conoscenza di una o più comunità umane. Il lavoro serio e scrupoloso, oltreché documentato, di Candido ha il pregio di fornire un contributo tanto scientifico quanto divulgativo. Scritto da un Geologo, ovvero da uno scienziato, e non semplicemente da un pur bravo giornalista d’inchiesta.

Un Geologo, appunto. Nella migliore delle semplificazioni oggi i geologi vengono definiti genericamente “ambientalisti” nel senso più negletto del termine. Spesso, attraverso uno scientifico lavoro di disinformazione e mistificazione, essi vengono privati del loro contributo dal carattere scientifico attribuendogli una fastidiosa etichetta di “ambientalisti” mossi da una sorta di frenesia ideologica. Ascoltando o leggendo i frutti dei loro lavori, si arriva a considerarli come figure di esaltati millenaristi che ci terrorizzano con i loro allarmistici scenari apocalittici di piaghe terribili ed irrimediabili distruzioni.

Questo è il primo effetto della “peste”, che inizia offuscando le coscienze e arriva ai risultati distruttivi quanto imbarazzanti ben descritti nel libro di Candido. Imbarazzanti perché? Non vi è nulla di più evidente e sperimentabile degli eventi naturali quali sono il dissesto idrogeologico di un territorio, inondazioni, terremoti, inquinamento e, non da ultimo, malattie concrete e gravissime che colpiscono la popolazione.

Eppure pervicacemente si prosegue in quest’opera di distruzione, frutto del malaffare, della distribuzione e gestione del potere fine a se stesso, a fini di lucro e in cui sono da sempre coinvolte le maggioranze politiche che amministrano regioni e territori ma anche le stesse minoranze che partecipano al banchetto. Un sistema clientelare partitocratico che non distingue maggioranze e opposizioni e che nutrono la metastasi di questa “peste” a loro esclusivo vantaggio.

La convergenza di interessi di un sistema dove gli insider, nel gioco delle parti di un impotente e apparente confronto, operano da un palcoscenico dove le repliche dello spettacolo si ripetono giorno dopo giorno lasciando inermi gli spettatori, indifferenti i cittadini. Quasi che i rischi di cui scrive Candido non li riguardino. Gli outsider, pochi, si oppongono e propongono, ma lo spazio di tribuna a loro non viene dato, e il palcoscenico, quel palcoscenico non è per loro. Vi sono, appunto, i Geologi come Candido che non si rassegnano allo status quo e si impegnano in lavori preziosi quale il suo libro ne è un esempio.

Dunque, se il conclamato ed evidente prodotto finale di questa “peste” è la devastazione di regioni e territori, nonché gli effetti sull’ambiente, sulla salute dei cittadini, sulla strage di legalità e il depauperamento di quel “contratto sociale” tra politica e cittadinanza, di contratto “naturale” tra politica-legalità-cittadinanza, allora i primi sintomi di questa “peste” si avvertono e si verificano anche per il diritto negato alla conoscenza.

Il “diritto alla conoscenza” è un’estensione delle facoltà di scelta, di controllo e di partecipazione del cittadino nell’amministrazione dello Stato e delle sue articolazioni regionali e locali, è un elemento di democratizzazione della società. Quanti atti pubblici avrebbero dovuto o hanno lasciato traccia di quanto stava avvenendo di quanto esposto da Candido?

E’ urgente attuare in pieno riforme che si ispirino al Freedom of Information Act (FOIA) statunitense per il quale il cittadino può accedere a tutti i documenti della Pubblica Amministrazione senza che debba dimostrare un interesse diretto. La trasparenza e la conseguente possibilità di controllo per il cittadino dell’attività delle pubbliche amministrazioni è il mezzo utile, tra un’elezione e l’altra, per esercitare effettivamente quella sovranità popolare dal basso promossa dalla Costituzione.

La “peste”, dunque, avanza, devasta e distrugge. Eppure potremmo disporre della cura che porterebbe alla guarigione, allo stato di diritto, al ripristino della legalità.

Il libro di Candido ne è, per esempio, una pillola. Utile, preziosa e salutare.

1 Valerio Federico è consigliere di Zona del comune di Milano, tesoriere di Radicali Italiani

 

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Dal paiolo al labirinto: storia e storie

di Francesco Santopolo

Premessa

La scelta di presentare contemporaneamnte quattro libri apparentemente diversi, nasce dall’esigenza di spiegare le ragioni della scrittura e trovare il filo rosso che tiene insieme un raccolta di versi, due “diari” a percorso differente e una vicenda in cui la biografia di una protagonista, diventata un’icona delle lotte democratiche del dopoguerra, è assunta a simbolo della storia dei subalterni in Calabria.

C’è, altrettanto importante, una seconda motivazione che giustifica questa scelta: questi libri meritano di essere letti ma riteniamo che non abbiano avuto e potrebbero non avere sufficiente diffusione.

Poetica e anti- poetica

Se partiamo dall’idea- cara a formalisti e strutturalisti- che «oggetto della poetica non è il testo letterario in se stesso, bensì […] la sua “letterarietà”» (Chatman, 2010), significa che prima della “qualità” di un’opera è necessario definire e collocare l’opera stessa.

Quando Jakobson scrive del Macbeth che il problema non è quello di stabilire se è un capolavoro ma piuttosto quali sono gli elementi che ci portano a definirlo una tragedia (in Chatman, l. c.), apre un problema non da poco per l’analisi poetica.

Ed è il problema che ci troviamo davanti con il libro di versi di Rosanna Talarico (Labirinti ed io dispersa), per tentare, prima di ogni giudizio critico, di cogliere gli elementi che ci consentono di definirlo un libro di poesia. L’autrice è nata a Cerva, nell’alta montagna interna della Presila catanzarese e da qui si è mossa verso spazi ambiziosi e, in qualche modo, laceranti.

Dopo essersi laureata alla “Bocconi” è andata a vivere a Parigi.

Due mondi lontani dalle sue radici e in cui la “matematica certezza” del dubbio si trasforma nella solitudine di un “lacerante immenso”.

L’autrice vive una condizione in qualche modo estraniante e, sebbene eviti di parlare in modo esplicito dei boschi e delle montagne, che pure ha nel cuore, risolve la propria esistenza in “Parentesi/graffe/dubbi” e solo la sera può abbandonarsi alla “vista sul mondo illuminato/dalla cima della montagna”.

Oppure può osservare che “i fiori crescono/inerpicandosi/sulle pareti del mondo”, quel mondo cui più non appartiene, ormai calata “nel rumore/di soffocante caos” fatto di “Volti, cemento, frenesia” che le fanno pensare con nostalgia a “strade/tra verdi montagne” e a “gente di poche ambizioni/ semplicità e silenzio”.

In altre parole, le sue strade e la sua gente. La poesia, in fondo, è uno dei tanti modi per guardare il mondo, con gli occhi di chi emerge dal “porto sepolto” e vede che “per le strade/della città deserta” appaiono “non più ombre di vita/ma fantasmi”.

Ci troviamo davanti a versi maturi, pervasi da una originale carica emotiva, pure in presenza di un ermetismo espressivo dominato dalla sapienza immaginifica di cui l’autrice fa uso nella scelta della parola.

Raccontare la vita, narrare la storia

Su tutt’altro piano si pongono i libri di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate), Francesca Rizzari Gregorace (Pagine dell’Ottocento catanzarese) e Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata), la cui lettura necessita di una premessa.

Se la narrativa è una struttura con un piano del contenuto e un piano dell’espressione, definiti, rispettivamente, storia e discorso (Chatman, l.c.), emergono alcune dicotomie.

La prima è rappresentata dal rappporto tra enunciati di processo ed enunciati di stasi, cioè tra il mondo dell’essere (esistenza) e il mondo del fare (azione). (Chatman, l. c.).

La seconda dicotomia è legata alla “rappresentazione” narrativa che può essere diretta o mediata.

Muovendosi all’interno di questi schemi, l’autore «scrivendo crea non soltanto un ideale, impersonale “uomo in generale” ma una implicita versione di “sé stesso”» o il proprio alter ego, per cui «il suo lettore si costruirà inevitabilmente l’immagine dello scrivente ufficiale, che è l’autore impicito, cioè l’autore «ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione» (Chatman, l.c.).

Di un libro, quindi, si può scrivere in termini formalmente “tecnici” ma ci sono operazioni narratologiche che nascono da un viaggio dentro sé stessi e finiscono col coinvolgere e contaminare il lettore.

Nel caso di Francesca Rizzari Gergorace diciamo subito che ha scritto un libro che mancava e nel suo bisogno di recuperare “i ricordi della nonna”, offre, attraverso una testimone privilegiata, una ricostruzione attenta della Catanzaro ottocentesca e apre spiragli importanti per capire una città improbabile.

Nonna Giuditta era figlia di Michele Maria Manfredi, ingegnere di altissimo profilo, cui si devono la stesura del primo Piano Regolatore di Catanzaro e opere di sistemazione urbanistica e di difesa idrogeologica d’avanguardia, in una regione devastata da calamità naturali e terremoti.

Tra il 1637 e il 1689, la Calabria era stata devastata da alluvioni con cadenza ventennale (ad eccezione di quelle del 1683 e del 1689), gelate ad intervalli di 4-6 anni tra il 1600 e il 1683 e, infine, tra il 1609 e il 1635 terremoti ogni 3-5 anni fino alla scossa terribile del 1693 che produsse 12 mila morti nell’area dell’attuale Lamezia Terme.

Circa un secolo dopo, il 5 febbraio 1783, una violenta scossa di terremoto, seguita da altre nello stesso mese e in quelli successivi, sconvolge l’assetto oroidrografico della Calabria e consegna alla distruzione interi paesi e comunità, con 30.000 morti pari al 7,5% della popolazione.

Andando indietro di una generazione, il nonno di Giuditta, l’avvocato Giuseppe Maria, definito “decoro del Foro catanzarese”, era nato a Cantalupo (CB) il 9 novembre 1788.

A otto anni si trasferisce con la famiglia in una Napoli appena uscita dalla tragica esperienza della Repubblica Partenopea e in cui si preparano gli eventi del ’48 e gli uomini che ne saranno protagonisti.

Per chi manifesta nostalgia della Napoli borbonica, è il caso di ricordare che i moti del ’48 si concluderanno con la condanna a morte di Filippo Agresti, Michele Aletta, il barone Gennaro Bellelli, il barone Francesco Antonio Mazziotti, Casimiro De Lieto, Salvatore Faucitano, Luigi De Matera, Stanislao Lupinacci, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Filadelfo Sodano, Antonio Lopresti (Petrusewicz, 1998).

Ad altri come Silvio Spaventa, Saverio Barbarisi, Salvatore Gigliarano e Michele Calafiore, viene comminato l’ergastolo (Petrusewicz, l. c.).

Poi ci furono i condannati a pene tra i 18 e i 30 anni e molti, come Guglielmo Pepe, Santorre di Santarosa, il poeta Gabriele Rossetti, Francesco De Sanctis, Giuseppe Poerio, Terenzio Mamiani, Nicolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, Carlo Pepoli, Pietro Giannone, Giuseppe Sirtori, Michele Amari, Pier Silvestro Leopardi, Giuseppe Ricciardi, Piero Emilio Imbriani, Giuseppe Massari, finirono in esilio (cfr., M. Petrusewicz, l. c.).

In questo clima è del tutto naturale che il giovane Manfredi venga contaminato dalle prime esperienze politiche e culturali, mediate dalla conoscenza di Basilio Puoti (maestro di Francesco De Sanctis) e la frequentazione assidua di Pietro Colletta.

Divenuto giacobino, nel 1812 entra nel battaglione dei Véliti nella grande armata della Campagna di Russia.

Ebbe modo di distinguersi nella vittoria di Lutezet (Sassonia, maggio 1813) e guadagnò il grado di sergente, prima di tornare in Calabria con Florestano e Guglielmo Pepe (Sinopoli et al., 2004)

Da avvocato penalista difese i tre fratelli Marincola nel processo farsa del 20-24 marzo 1823 che vide la condanna a morte di Francesco Monaco (ghigliottinato), Giacinto De Jesse e Luigi Pascali (afforcati), la condanna “ai ferri” per 11 imputati e l’assoluzione di 3 imputati, i fratelli Cesare, Odoardo e Giovanni Marincola.

I fatti addebitati risalivano ai moti rivoluzionari del 1821 e nel corso del processo furono ascoltati 36 testimoni a carico sui 98 citati e nessun testimone a discarico. Gli estensori di quella sentenza infame furono, poi, processati e condannati nel 1825 (Sinopoli et al, l. c.).

Probabilmente al lettore risulterà difficile ricostruire l’autore implicito di Pagine dell’Ottocento catanzarese, perché con sapienza e umiltà Francesca Rizzari Gregorace riesce a celarsi dietro i ricordi della nonna, alla cui voce offre una narrativa fluida, curata nei toni e, solo apparentemente, neutra.

Affatto diverse sono le operazioni narratologiche di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate) e di Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata) che si muovono nell’ambito della letteratura diaristica, diretta nel caso della Manna, mediata nel caso della Furfaro.

Trovandoci al cospetto di narrativa diaristica, l’errore da evitare è quello di considerarlo un racconto privato e non, invece, come l’amarcord della vita di ognuno di noi per quel poco o molto che ci accomuna al narratore.

Per spiegarmi meglio farò riferimento ad alcune operazioni narrative diaristiche “indirette” citandone soltanto tre.

Autobiografia della leggera (1966) in cui Danilo Montaldi da voce a cinque personaggi della leggera, quel mondo di emarginati, dai cento mestieri e dall’esistenza precaria.

Il mondo dei vinti (1977) in cui Nuto Revelli ha raccolto ottantacinque racconti di vita contadina e L’anello forte (1985) in cui, sempre Nuto Revelli, da voce alla figura più marginale della nostra società: la donna contadina emarginata dalla propria condizione suibalterna e da una storia scritta al maschile. Questo richiama subito alla mente la figura della nonna di Anna Manna, rievocata con l’enfasi di una nipote che ha ricostruito lo spirito di tempi tragici, quando anche una donna appartenente alla classe agiata, si trova ad attraversare la storia, ed è costretta a prendere decisioni importanti, mostrando di che pasta sono fatte le donne che hanno radici nelle campagne.

Il romanzo di Lina Furfaro assume valenza emblematica nelle rievocazione di una figura come Giuditta Levato e si carica di valori epici nella ricostruzione del modello economico e del sistema di valori di cui erano espressione i subalterni nella Calabria tradizionale.

Sono passati sessantasei anni dalla morte di Giuditta Levato, questa contadina carismatica che guiderà i braccianti “senza terra” nelle occupazioni di terre incolte e malcoltivate.

Per ricostruire il clima in cui sono maturate le vicende che porteranno alla morte di Giuditta Levato va ricordato che a fine ‘700, nel Regno di Napoli, 113 famiglie possedevano il 61% della terra e 64 enti ecclesiastici ne possiedono il 37% (Woolf, 1973).

In pratica, il 98% della terra era in possesso dei nobili e della manomorta: 15 famiglie possedevano i ¾ delle terre feudali e la sola famiglia Pignatelli possedeva 72 feudi ma le le imposte sui terreni rappresentavano poco meno di 1/5 del carico tributario, mentre tassazioni indirette, gabelle, imposte di consumo e dazi doganali, raggiungevano livelli così alti che chi lavorava la terra pagava in tasse più di chi la possedeva (Woolf, 1973).

Dopo la liquidazione dell’Asse Ecclesiastico e le leggi eversive della feudalità, in Calabria almeno dieci famiglie avevano accumulato proprietà superiori ai ventimila ettari, senza considerare le terre possedute in altre aree (Berlingeri in Basilicata, Barracco in Rhodesia e Brasile).

Il latifondo era dominato dalla rotazione sessennale: maggese, grano, ringrano e tre anni di riposo pascolativo e l’anno di ringrano (quello meno produttivo) veniva dato a terraggeria.

Alla fine della seconda guerra mondiale, si ripresentava quella “fame di terra” che era stata la rivendicazione principale dei giacobini napoletani.

Il movimento contadino, partito nel 1943 con l’occupazione del fondo “Lochicello” di Andali, si concluderà con l’eccidio di Melissa, sarà uno dei momenti alti delle lotte democratiche del dopoguerra e, proprio per questo, contrassegnato da episodi di inaudita: violenza: Portella delle Ginestre, Montescaglioso, Calabricata, Melissa.

Ma se a Portella della Ginestra era stata la mafia a sparare- sia pure per conto degli agrari e con la protezione degli apparati istituzionali- a Melissa è la polizia dello Stato ad usare le armi contro bracianti inermi per difendere il “diritto” di chi aveva usurpato il fondo “Fragalà”, demanio di uso civico.

Per un paradosso della storia, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, legittimi proprietari in qualità di “cittadini lavoratori manuali della terra”, furono uccisi per sancire il diritto degli usurpatori.

Diverso il destino di Giuditta Levato che muore per mano di Vincenzo Napoli, in circostanze che non furono chiarite durante il processo.

Napoli fu assolto per insufficienza di prove e i giudici espressero “dubbio se fu lui a sparare, dubbio se sparò volontariamente, dubbio se sparò per legittima difesa” (dalla sentenza del 3 agosto 1948. In Furfaro, l. c.)).

È veramente impagabile- se non celasse risvolti drammatici- l’ipotesi della legittima difesa che potrebbe indurci a credere che gli sputi o le minacce possano rendere legittimo l’uso delle armi.

Passando alla narrazione autobiografiche in prima persona che si muovono negli enunciati di processo, vorremmo citare alcuni esempi.

Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, per esempio, sono solo un racconto “privato” che, per quanto intrigante, sarebbe stato consegnato inevitabilmente all’oblio? O rappresentano la ricostruzione di un’epoca e di una generazione che vale fissare nella memoria?

Quale sarebbe oggi la nostra conoscenza della shoah senza il Diario di Anna Frank o le opere di Primo Levi? O, meglio, quale sarebbe oggi la nostra percezione di un etnocidio che non ha eguali nella storia dell’uomo e che meglio di ogni altro potrebbe fornire elementi per ricostruire quella Critica della ragion criminale in cui Gregory (2006) immagina coinvolto Immanuel Kant?

Più recentemente la narratologia diaristica ha acquistato una valenza storica e documentaria importante con Terra matta di Vincenzo Rabito e Ci trovammo bene nel futuro di Antonio Mele, due autori che hanno in comune il fatto di non essere “addetti ai lavori”.

Vincenzo Rabito era un bracciante semianalfabeta protagonista, a suo modo, di una storia minoritaria che ha atraversato tutto il ‘900. A un certo punto della sua vita, si chiude in casa a Chiaramonte Gulfi e, con l’ausilio della mitica “Lettera 32”, scrive 1300 pagine in spazio uno raccontando, in un misto di dialetto e qualche parola italiana appresa oralmente, una storia, la sua e quella di milioni di subalterni, che nessun altro avrebbe potuto raccontare con tanta efficacia.

Antonio Mele, ex bracciante, poi “contadino” su una quota di terra assegnata con la riforma fondiaria degli anni ’50, anche lui semianalfabeta ma “contaminato” da una cultura costruita attraverso la militanza politica nel partito socialista, o attraverso letture senza ordine che lo porteranno a scegliere un destino diverso per i suoi figli: uno avvocato, uno medico, uno agronomo e l’unica figlia libraia.

Il paiolo pieno di patate si presenta subito come opera aperta nel senso che si offre al lettore come stimolo verso atti di libertà interpretativa che rappresentano ”il peso della quota soggettiva nel rapporto di fruizione” (Eco, 1980). In altri termini, la maggior parte dei narratori guida il lettore e non lascia spazio alla sua interpretazione o, per dirla meglio, non lo contamina e non lo coinvolge.

Nel caso del “Paiolo”, leggere i ricordi di Anna Manna e sovrapporvi i nostri, obbedisce ad automatismi incosci ma profondamente contaminanti, per come l’autrice riesce a tenere in equilibrio la storia (il cosa) e il discorso (il come) (Chatman, l. c.).

Ma le due cose non sono separate perché gli eventi di una storia (cosa), quella che si chiama “intreccio” e che Aristotele chiamava mythos, acquistano senso dal discorso (come).

Il paiolo pieno di patate non è solo una operazione di recupero delle proprie radici ma acquista valore letterario per il fatto che storia e discorso si fondono armonicamente portandoci a dire che un libro su questi temi (cosa) poteva essere scritto solo in questo modo (discorso).

Ma ci sono altri aspetti del libro di Anna Manna che meritano di essere evidenziati.

Il libro è certamente un libro di ricordi o, meglio, una narrazione diaristica cui conferiscono grande dignità la storia (cosa) e il discorso (come) e il modo in cui l’autrice combina gli elementi della narrazione ma è anche un libro di antropologia o, meglio, di quella branca della disciplina definita antropologia sensoriale (Gusman, 2004) ed è anche un libro di storia.

Il paiolo pieno di patate si colloca autorevolmente nella rivoluzione culturale che ha attraversato queste due discipline. Quanto si è verificato negli ultimi 80 anni in campo storico, ne fa un libro di storia, così come raccontare i ricordi attraverso i sensi (la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto) lo collocano autorevolmente tra gli studi antropologici, nella branca dell’antropologia sensoriale nata a fine ‘900.

Veniamo agli aspetti storici entro i quali è possiile collocare il lavoro e che si muovono all’interno di quel grande movimento conosciuto come scuola delle “Annales”, raggruppata attorno a una rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre.

Il titolo iniziale della rivista era “Annales d’histoire économique et sociale”, divenuto dal 1946 “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” che porterà, nel 1947, all’istituzione della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, per cambiare ancora nome nel 1994 diventando “Annales. Histoire et sciences sociales“.

Attorno alla rivista ruotavano alcuni dei maggiori storici del ‘900: Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurrie e, in posizione più defilata, Ernest Labrousse, Pierre Vilar, Maurice Agulhon, Michel Voselle, Peter Burke, Roland Mousnier e Michel Focault (Burke, 2001). Vale a dire una generazione di intellettuali che hanno innescato una rivoluzione culturale paragonabile a quella provocata da Einstein con la teoria della relatività.

In Italia si sono collocati su questa scia Emilio Sereni, Massimo Montanari, Augusto Placanica, Piero Bevilacqua, Pietro Tino, Lina Scalise, Gabriella Corona e tutto il gruppo di storici che ruota attorno all’IMES e alla rivista “Meridiana”.

Senza immergersi nell’analisi approfondita di un processo che ha cambiato il modo di scrivere la storia, gli assunti fondamentali delle “Annales” sono:

  1. la sostituzione della tradizionale storia narrativa concentrata sugli avvenimenti con una storia analitica orientata ai problemi;

  2. la storia delle attività umane (alimentarsi, mangiare, vivere il territorio e il paesaggio), invece che una storia principalmente politica;

  3. la contaminazione della storia con discipline altre (economia, sociologia, psicologia).

Se partiamo da quanto scrive Braudel che “La storia forse non è condannata a studiare soltanto giardini ben chiusi da muri” (1976), dobbiamo ammettere che per uscire dal “giardino” è necessario contaminare la storia con l’economia e con la sociologia, riprendendo in chiave storica il disegno tracciato da Durkeim con la rivista ”Année sociologique”, con cui tentava di sancire l’egemonia della sociologia tra le scienze umane.

Dalla nascita della scuola delle “Annales”, la storia non è più storia di “eventi”, epopea di eroi, narrazione di vicende ma è alimentazione (Massimo Montanari), paesaggio (Bevilacqua, Sereni), economia e territorio (Placanica, Bevilacqua), cioè è “scritta” dai cambiamenti materiali di cui gli uomini sono attori e fruitori.

In questo senso, il mondo raccontato da Anna Manna, non è “Un mondo semplice che consentiva una vita pienamente vissuta”. È, semplicemente, il mondo così come lo abbiamo vissuto, reso epico da un nuovo modo di scrivere la storia.

Raccontare quanta storia c’è in “Nonna Giovanna…rimasta vedova a ventinove anni, con cinque figli da crescere”, per esempio.

E lei lo fa, senza indugio, scrivendo la propria storia che diventa il simbolo di una possibile storia che ci appartiene.

Da un punto di vista antropologico, il libro si muove su due livelli.

Il primo è relazionale, il secondo sensoriale.

I venditori ambulanti la cui presenza contribuiva a creare circuiti relazionali, la vita nei cortili, i rapporti di vicinato, la “nevicata in tazza” e, soprattutto, i sensi che usiamo per vedere i colori e i paesaggi, sentire gli odori, avvertire i rumori, capire dal tatto la forma di un oggetto, sentire il gusto delle cose che mangiamo.

Cosa dire della rappresentazione ecologica delle “galline [che] razzolavano libere nell’aia” se non che è una critica forte al mondo globalizzato in cui siamo costretti a vivere?

E l’immagine delle “galline che deponevano le uova secondo i tempi che madre natura consentiva loro, le mucche davano il latte che era possibile”?

Sono immagini potenti di ricordi che non sono solo “ricordi” ma indicano una possibile alternativa a un modello di vita “esasperato e calcolato”.

Nell’uso dei sensi, invece, c’è un marcato etnocentrismo.

Anna Manna usa tutti i cinque sensi per ricostruire i suoi ricordi: la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto, il tatto, tutte categorie sensoriali che appartengono al mondo occidentale. La vista, per esempio, che in alcune culture tribali è considerato un senso negativo consentito solo agli sciamani, nella cultura occidentale dominata dalle immagini “ha assunto un predominio assoluto” (Gusman, l. c.). Per contro, uno sciamano, proprio perché vede, non usa l’udito (Gusman, l.c.).

Anna Manna riscatta, però, l’etnocentrismo perché gli odori che la inducono a ricordare prima che nel suo naso sono nella sua cultura.

Bibliografia

Braudel, F. (1976), Civiltà e imperi del Medierraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi.

Burke, P. (2001), Introduzione a Una rivoluzione storiografica, in Insegnare la Storia, Agrigento, Imes.

Chatman, S. (2010), Storia e discorso, Milano, Il Saggiatore.

Eco, U. (1980), Opera aperta, Milano, Bompiani.

Frank, A. (1993), Diario, Torino, Einaudi.

Furfaro, L. (2012), Giuditta Levato. La contadina di Calabricata, Cosenza, Falco Editore.

Gregory, M. (2006), Critica della ragion criminale, Torino, Einaudi.

Gusman, A. (2004), Antropologia dell’olfatto, Bari, Laterza.

Levi, P. (1977), Se questo è un uomo, Torino, Einaudi.

Levi, P. (1978), La chiave a stella, Torino, Einaudi.

Levi, P. (1986), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.

Manna, A.(2012), Il paiolo pieno di patate, Soveria M.,. Calabria Letteraria Editrice.

Mele, A. (1997), Ci trovammo bene nel futuro, Argo.

Montaldi, D. (1966), Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi

Nievo, I. (2006), Le confessioni di un italiano, Milano, RCS.

Petrusewicz, M. (1998), Come il Meridione divenne una Questione, Soveria Mannelli, Rubbettino.

Rabito, V. (2007), Terra matta, Torino, Einaudi.

Revelli, N. (1977), Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi.

Revelli, N. (1985), L’anello forte, Torino, Einaudi.

Rizzari Gregorace, F. (2008), Pagine dell’Ottocento catanzarese, Catanzaro, Ursini.

Sereni, E. (1987), Storia del paesaggio agrario, Bari, Laterza.

Sinopoli, C.-Pagano, S.- Frangipane, A. (2004), La Calabria. Storia, geografia, arte, Soveria M., Rubbettino.

Talarico, R.( 1998), Labirinti ed io dispersa, Soveria M., Rubbettino.

Woolf, S. J. (1973),La storia politica e sociale, sta in Storia d’Italia, vol. III, Dal primo settecento all’Unità, Torino, Einaudi.

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Questione meridionale, la storia del pane, la rivoluzione di Tommaso Campanella e uno speciale di 4 pagine sul terremoto in Calabria del 1905

Sono questi i contenuti dell’ultimo numero di Abolire la miseria della Calabria che, da oggi, uscirà solo in versione pdf e, a breve, completamente rinnovato nella grafica
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Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

L’utopia accende una stella nel cielo della dignità umana, ma ci costringe a navigare in un mare senza porti

 

Care amiche e amici di Abolire la miseria della Calabria,

è con immensa soddisfazione che annunciamo l’uscita del volume

Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

Francesco Barbieri, l'anarchico di Briatico
Link in libreria

(Non Mollare edizioni, Agosto 2011, euro 10,00 (3,50 solo pdf), Pp 117, ISBN 9788890504013).

“Una vita rivoluzionaria. Un combattente per la libertà, la democrazia e la giustizia” sono le parole scelte per caratterizzare la prima pagina rigorosamente nera con scritte rosse per tre quarti e rossa con scritta bianca nella parte alta dove si leggono i nomi dei tre autori: Giuseppe Candido, Filippo Curtosi e Francesco Santopolo. Un lavoro a “sei mani e tre teste” che ha portato, dopo adeguate ricerche, ad un’analitica ricostruzione delle vicende storiche che coinvolsero l’anarchico calabrese antifascista e libertario, Francesco Barbieri.

Se è vero che la memoria collettiva è alla base dell’identità di un popolo, è altrettanto vero che un evento, per essere ricordato, necessita di un percorso di ricostruzione che permetta di segnare le linee di demarcazione tra ciò che vale la pena ricordare e ciò che può essere rimosso e consegnato all’oblio.

La società mediatica limita il tempo della memoria: gli eventi si accavallano con tempestività e tendono ad acquistare un’apparente neutralità che ne banalizza il significato e li priva di contenuto storico. Non è stato così per i subalterni la cui rimozione è stato un esercizio costante che il potere ha esercitato da sempre.

Così è stato per l’antifascista calabrese Francesco Barbieri (Briatico, 14 dicembre 1895- Barcellona 5 maggio 1937) detto “Cicciu u’ professuri”, schedato come “sovversivo anarchico” e, per questo, da rimuovere e cancellare e con lui il grande contributo che “i dannati della terra” (F. Fanon, 1961) hanno dato per la costruzione di una società a misura d’uomo”.

È con queste parole che si presenta ai lettori il saggio storico su Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico. Nell’ambito del progetto di valorizzazione del patrimonio storico e culturale calabrese, l’associazione di volontariato culturale Non Mollare, con la pubblicazione del volume su Francesco Barbieri, intende continuare a promuovere la conoscenza dei calabresi meno noti o, qualche volta, perlopiù ignoti ma che alla Storia hanno dato un loro personale contributo.

Nato in Calabria a San Costantino di Briatico, la storia di Francesco Barbieri, combattente antifascista, conosciuto col nomignolo di “Cicciu u’ professuri”, ha percorso i primi quarant’anni del ‘900. Partito da S. Costantino di Briatico a 26 anni, vi tornerà casualmente dopo l’estradizione dall’Argentina per riprendere subito il suo viaggio per il mondo, legando le sue vicende a quelle di grandi intellettuali come Camillo Berneri e Carlo Rosselli. Per Francesco Barbieri, l’Internazionalismo Proletario è stata una ragione di vita, fino all’estremo sacrificio consumato davanti alla canna di un mitra imbracciato da quelli che riteneva fossero della stessa parte.

Per sopravvivere, avrebbe dovuto scegliere: tra diventare ‘ndranghetista” o sbirro; Barbieri non sceglie né l’uno né l’altro: diventa libertario, socialista rivoluzionario, radicale e anarchico, con una pronta e decisa avversione al fascismo.

Un rivoluzionario libertario, assassinato da quelli che erano con lui a Barcellona per difendere la giovane repubblica, è l’evento più tragico che si consegna alla storia.

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Cibo, cultura, evoluzione: la straordinaria storia del pane

di Francesco Santopolo

Premessa

La storia proposta in queste note non ha inteso seguire l’intero percorso di un cibo che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino ma si ferma nel punto in cui la panificazione inizia a presentare una sostanziale omologazione di processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancora resistono in varie parti del mondo, conservando specificità ascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive e delle risorse di cui dispone.

Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definita nelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamenti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere di chi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifattura artigianale ad una manifattura industriale, non abbia modificato il processo ma si sia limitata ad imprimervi un’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a partire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dall’applicazione affidata a metodi e tradizioni della cultura popolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte di Pasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione (Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (Antibiotic Era).

In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è stato sostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” del processo ma questo è rimasto sostanzialmente invariato, salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo la manualità può conferire al prodotto.

Cibo come cultura

Sebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambito ristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rappresentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnologi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazioni tra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono in stretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini, dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali di ogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi che hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino.

Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, che preoccupano il nord del mondo perché considerate una minaccia per la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della Papua Nuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro e zinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico (Martin et al., 2000).

Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre funzioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici e antropologi abbiano fornito testimonianze importanti su queste interconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazione può essere “un buon punto di osservazione per ricostruire le condizioni di vita della popolazione e verificare l’incidenza concreta, quotidiana, che una certa struttura economico- sociale ebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non considerare il tema del consumo alimentare in modo aneddotico ma di coglierlo nella dimensione sociale- come a dire, storica- che gli è propria” (Montanari, 2004).

Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, a cominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono all’ordine «naturale», bensì a quello «artificiale» delle cose. Ovvero, alla cultura che l’uomo stesso costruisce e gestisce” (Montanari, 2004). Il cibo è cultura quando si produce, è cultura quando si trasforma, è cultura quando si consuma e questi atti, considerati singolarmente o come insieme, riflettono i valori di riferimento di un popolo e ne tracciano la storia.

Una storia che parte da lontano

Tra 3,7 (Tobias) e 5 milioni di anni fa (Jhoanson e White), dalle prime scimmie antropomorfe, comparse verso la fine dell’Era Terziaria, emergerà il genere Homo. Punto di partenza di questa fase evolutiva era stato il Ramapithecus che si era evoluto nell’Australopithecus afarensis.

A tre milioni di anni si genera un “cespuglio” genetico: gli Australopiteci vanno ad imbucarsi in due “nicchie” senza sbocco: da una parte A. africanus e A. robustus, dall’altra A. aethiopicus e A. boisei. Sul terzo ramo si colloca l’Homo habilis, seguito dall’Homo erectus e dall’Homo sapiens e, infine, dall’Homo sapiens sapiens che dovrebbe identificarsi con il nostro stadio evolutivo, salvo, ovviamente, alcune debite eccezioni che si muovono nel segno della regressione. Le ricerche e i ritrovamenti fossili non consentono ancora di stabilire con precisione come e perché sia avvenuto il passaggio dal Ramapithecus agli Austrolopiteci e alla specie Homo.(R. Leackey et al. 1979) ma sono state trovate sufficienti tracce per seguire l’evoluzione dell’Homo erectus, tra l’altro ricostruite magistralmente da Roy Lewis (1992) nel romanzo “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”.

Protagonisti del romanzo di Lewis, sono Edward e la sua famiglia.

Edward è il prototipo della ricerca evolutiva. Arriverà ad “inventare” il fuoco, semplicemente trasportandolo all’accampamento con un ramo acceso alla fiamma di un vulcano in eruzione, “fonderà” il matrimonio esogamico, la politica e la retorica. Accanto ad Edward troviamo altri due prototipi: il reazionario zio Vania che rifiuta l’innovazione e sceglie di continuare a vivere sugli alberi e il fratello Ian, tornato da un viaggio in Francia, Cina, India e Arabia e in procinto di ripartire per l’America (Lewis, l. c.). L’immaginazione letteraria di Lewis si basa su un dato accertato.

Circa un milione di anni fa, l’Homo erectus cominciò la sua lunga marcia spostandosi dall’Africa all’Asia e poi in Europa, mosso da una spinta evolutiva che lo porterà ad esplorare nuovi spazi e a sperimentare le proprie capacità di adattamento e acquisire nuovi caratteri (Leackey et al., l. c.)

Questa non è la sola eredità che ha lasciato il nostro antenato. Questo ominide aveva anche iniziato ad osservare la natura e ad utilizzarne i prodotti spontanei. Scoprì i cereali, cominciò a nutrirsene e, presumibilmente, dopo averne consumato per molto tempo i semi crudi che inumidiva nella bocca, iniziò a frantumarli fra due pietre e a bagnarli per renderne più agevole la masticazione.

Ma la fantasia dell’Homo erectus non si fermò al semplice rudimentale impasto e, casualmente, imparò che posto a riposare su una pietra esposta al sole, acquistava un sapore particolare.

Con la scoperta del fuoco imparò a cuocerlo regolarmente, come già aveva iniziato a fare con la carne degli animali abbattuti. Senza entrare nella controversia tra natura e cultura, possiamo convenire che il passaggio dal crudo al cotto rappresenta “il momento costitutivo e fondante della civiltà umana”(Montanari, l. c.). E non c’è alcuna contraddizione se con Il crudo e il cotto (1974) Lévi-Strauss fa emergere una contrapposizione tra stato di natura e stato di cultura e con Dal miele alle ceneri (1970) compie una svolta e mette in relazione un cibo già pronto (il miele) con uno che deve essere bruciato (il tabacco) perché questo “non toglie che nella rappresentazione simbolica che gli uomini hanno storicamente dato di sé, il dominio del fuoco e la cottura degli alimenti siano stati percepiti come il principale elemento di costruzione dell’identità umana e di evoluzione dallo stato «selvatico» alla «civilizzazione»”(Montanari, l. c.). L’uomo è il solo animale che “costruisce” il proprio cibo e anche quando si nutre di prodotti naturali tal quali, lo fa “preparandoli” (verdure condite con altri ingredienti) per renderli più nutrienti o appetibili o, semplicemente, per ostentare uno status (macedonie, dolci). Dalle prime esperienze dell’Homo erectus, la storia dell’uomo e del pane riparte con la scoperta e la successiva domesticazione dei cereali, processo che ha segnato il passaggio da una società di cacciatori- raccoglitori nomadi ad una società stanziale dedita all’agricoltura. Si può tentare di dare un senso a questo mistero evolutivo, ricostruendo per sommi capi la nascita dell’agricoltura che la maggior parte degli studiosi fissa a circa 8-9000 anni a. C. (Anderlini, 1981; McKibben, 1989; Leakey et al., 1979 e 1980), mentre per altri si sposta di qualche migliaio di anni (Bairoch, 1999, vol. I; Diamond, 2006). La differente datazione è legata a problemi di metodo (1) ma, in linea di massima, uno scostamento di mille- duemila anni in un tempo così lungo, non infirma la possibilità di tentare un esame comparato che ricostruisca il rapporto e il complesso di relazioni che l’uomo riesce a stabilire con l’ambiente e con gli altri organismi viventi con i quali divide spazio e risorse trofiche.

Questa ricostruzione deve necessariamente partire dalla scoperta dell’agricoltura, momento che si fa convenzionalmente coincidere con la fine della preistoria.

McCorriston e Hole (1991) sostengono che l’agricoltura sarebbe comparsa tra gli 80 e i 150 km dal Mar Morto attorno a 10.000 anni fa, ossia -8.500/-8.000 nel Medio Oriente, -6.000/-5.000 nell’Asia propriamente detta, – 5.000 in Africa, -7.000/-6.500 nelle Americhe -6000/-6500 in Europa (Bairoch, l. c.). Questo processo potrebbe aver seguito due vie: scoperta spontanea e diffusionismo.

Nonostante le discussioni che ancora affascinano alcuni ricercatori, crediamo che le due ipotesi coesistano, piuttosto che collidere. In Italia, per esempio il modello fu portato da immigrati che provenivano dall’oriente nel 5500 a. C. circa (Rossini et al., 1987) ma in zone del mondo lontane tra loro si hanno quasi contemporaneamente segni dell’inizio di un processo che doveva cambiare il modello di vita dell’uomo. Tracce sono state trovate alle foci dell’Indo, nella penisola di Shantung, tra Pechino e Nanchino, alle foci del Fiume Giallo (Leakey et al., 1979). Tuttavia, quando si dice che l’agricoltura si affermò nella Mezzaluna fertile, si intende che qui ebbe un carattere di continuità mentre in altre zone subì vicende alterne, come in Mesoamerica dove si tornò più volte all’economia di caccia e pesca e l’agricoltura, pur essendo comparsa da circa 10.000 anni, dovette aspettare 6-7.000 anni per diventare un modello stabile, con la coltivazione di mais, zucche e fagioli (Leakey et al., l. c.).

Il nuovo modello doveva determinare altri cambiamenti. Primo, fra tutti, la crescita demografica.

Si stima che, fino al 12- 10.000 a. C., nel mondo si contassero poco meno di un milione di abitanti e solo dalla rivoluzione neolitica in avanti, la popolazione mondiale comincia a crescere, sia pure lentamente, raggiungendo circa duecento milioni nel primo anno dell’era cristiana.

Con la nascita dell’agricoltura gli uomini potevano disporre di nuove risorse alimentari e si spostavano frequentemente alla ricerca di nuove specie vegetali da domesticare e di luoghi più adatti per coltivarli. La scoperta dell’allevamento ha consentito di percorrere la stessa strada, allargando gli orizzonti dell’uomo e fornendogli sufficienti risorse per riprodursi.

Questi eventi, solitamente indicati come spartiacque tra storia e preistoria, hanno fatto intravvedere nella nascita dell’agricoltura la fine della preistoria ma, in realtà, la storia non coincide con la produzione di beni ma con quella del surplus e degli scambi perché, quando alla “produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose ha corrisposto [] la riproduzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie” (Engels, 1963) che porterà, da una parte, alla produzione di surplus da scambiare e, dall’altra, alla divisione del lavoro.

L’uomo non è più soggetto alla natura ma inizia a dominarla per i propri interessi iniziando un percorso che doveva portarlo verso le società moderne.

Il dominio dell’uomo sulla natura comincia con la domesticazione di piante e animali:

Domesticazione indipendente di piante e animali indigeni:

Località Piante Animali Data*
Vicino Oriente Grano,piselli,olivo Pecora, capra 8.500 a.C
Cina Riso, miglio Maiale, baco <7.500 a.C
Mesopotamia Mais.fagiolo,zucca Tacchino <3.500 a. C.
Ande/Amazzonia Patata,manioca lama, cavia <3.500 a.C
USA est Girasole,chenopodio Nessuno 2.500 a:c.
Sabel (?) Sorgo,riso Gallina faraona <5.000 a. C.
Africa equatoriale Igname, palma Nessuno <3.000 a. C.
Etiopia (?) Caffè, teff Nessuno Non nota
Nuova Guinea (?) Banana, canna da zucchero Nessuno 7.000 a. C. (?)

E, analogamente, l’uomo fece con specie non indigene:

Località Piante Animali Data*
Europa ovest Papavero, avena Nessuna 6-3.500 a.C
Valle dell’Indo Sesamo, melanzana Bovini asiatici <7.000 a.C
Mesopotamia Mais, fagiolo,zucca Asino, gatto <6.000 a. C.

*Data più antica

Fonte: Diamond, l. c.. Modificato.

A supporto di una società in evoluzione compariranno “in varie parti del mondo i primi villaggi, i primi insediamenti umani certi in Nordamerica. Finisce, con l’ultima glaciazione, il Pleistocene e inizia l’era geologica più moderna, chiamata Olocene o Postglaciale” (Diamond, l. c.).

Siamo ancora in una fase in cui la densità della popolazione è molto bassa, varia con le condizioni climatiche e sarà solo dopo la comparsa dei primi villaggi che, con l’economia del surplus, si creeranno le premesse per la nascita delle città databile, almeno in Mesopotamia, attorno al 6-5000 a. C. (Sjoberg, 1980), perché “L’esistenza di un vero e proprio centro urbano non presuppone semplicemente un surplus alimentare, ma anche la possibilità di immagazzinare e scambiare questo surplus” (Bairoch, l. c.).

La nascita delle città, che gli Australiani hanno definito “tirannia della distanza che si aggiunge alla tirannia dell’agricoltura” (Bairoch, l. c.), riduce il valore economico del surplus. I costi e le difficotà di trasporto, abbinati alla bassissima densità di popolazione delle società preneolitiche, spiegano perché non fosse possibile la comparsa di città vere e proprie prima di questi eventi.

Quasi contemporaneamente alle città nasceranno la scrittura (Godart, 1992) e la matematica (Kline, 1999), come strumenti indispensabili per regolare gli scambi e supportare il nuovo modello.

All’inizio l’uomo è concentrato sui prodotti essenziali per la sopravvivenza (farro, grano, mais, riso) ma, quando con il surplus di produzione, cominciano gli scambi e fanno la loro comparsa i consumi di status, legati alla maggiore disponibilità di risorse, l’interesse si sposta su altri beni.

Con gli scambi ha inizio un massiccio ricorso all’emigrazione che, sebbene in tempi storici abbia assunto caratteri peculiari, è un fenomeno antico nella storia dell’uomo, anzi è iniziato nelle società pre- umane con l’Homo erectus. I gruppi di Homo erectus che, circa un milione di anni fa, attraversando una piccola striscia di terra arida, si spostarono dall’Africa in Asia e poi raggiunsero l’Europa se, da una parte, “rappresentavano le avanguardie della definitiva conquista della terra da parte della popolazione umana” (Leakey et al.,1979), dall’altra non può essere considerata soltanto “la migrazione di un popolo alla conquista di nuovi spazi” (Leakey et al., l.c.) se consideriamo che alla vigilia della rivoluzione neolitica, si stimava una densità di 9 abitanti per km quadrato per le aree tropicali, di 0,1 per l’Europa occidentale e di 1 ogni 150-350 per le zone artiche (Bairoch, l. c.)

È lecito, piuttosto, convenire che “La diffusione di Homo erectus nei continenti settentrionali fu [] la conseguenza inevitabile di un particolare sforzo evolutivo” (Leakey et al.,l. c.).

Il pane entra nella storia

Le prime sperimentazioni di coltivazione in Medio Oriente risalgono almeno al 7.000 a. C., ma è con l’arrivo dei Sumeri che l’agricoltura farà un grande balzo in avanti, grazie alla loro abilità nell’uso dell’acqua per l’irrigazione. A partire dal periodo di Uruk, venne introdotto l’aratro a trazione animale e l’irrigazione estensiva, favorendo così una ricca produzione agricola.

Per superare i problemi di siccità, i campi erano realizzati nelle aree adiacenti ai canali e posti più in basso rispetto a questi, per permettere all’acqua di defluire naturalmente.

I campi erano sistemati con il lato corto vicino al canale e venivano irrigati e arati in senso longitudinale disponendo le coltivazioni a “doppio pettine”. Il ricorso alla rotazione biennale (riposo/coltivo), consentiva economia di acqua e mantenimento della fertilità. Le zone adiacenti ai canali erano destinate alla coltivazione di cipolle, aglio, legumi e palme da dattero e solo i terreni non irrigabili venivano destinati a cereali, principalmente orzo e frumento. Alcuni campi venivano abbandonati per eccessiva salinizzazione dovuta al pessimo drenaggio che portava all’accumulo di sali nello strato arabile. Questo spiega perché nei territori pianeggianti del sud mesopotamico predominava l’orzo, notoriamente più resistente alla salinità, mentre nella parte settentrionale c’era un sostanziale equilibrio fra orzo e frumento. Per la semina dei cereali che, in generale, si effettuava contemporaneamente, veniva usata una seminatrice, mentre la mietitura prevedeva l’impiego di gruppi di tre uomini: uno per falciare, uno per formare i covoni e un terzo, probabilmente, per guidare l’attività degli altri due. Dopo la mietitura passavano i carri trebbiatori per separare le spighe dal culmo e un carro per raccogliere i chicchi. Il riparto del prodotto era pari a 1/3 per il coltivatore e 2/3 come riserva da portare nel magazzino del tempio o del palazzo.

Già nel terzo millennio a. C. si consumavano focacce, come è stato possibile rilevare da una tavoletta di Nippur in cui è scritto: «Quando mi alzavo presto la mattina, mi volgevo a mia madre e le dicevo: “Dammi la colazione, devo andare a scuola!”. Mia madre mi dava due focacce e io uscivo; mia madre mi dava due focacce e io andavo a scuola».

Importanti ritrovamenti archeologi, ci dicono che, già nel 4000 a. C., in Egitto si usava panificare in diverse varietà, tra cui il pane dolce e un’antenata della pizza.

La contemporanea disponibilità di orzo, farro e avena portava gli Egizi ad utilizzarli macinandoli e impastandoli contemporaneamente. Plinio il Vecchio (1984) ricorda che in Egitto si otteneva farina anche dall’olira” (la terza specie di spelta, n. d. r.).

L’iscrizione “io coltivai il grano, venerai il dio del frumento in ogni valle del Nilo. Nessuno ha mai conosciuto fame o sete durante il mio regno”, attribuita al faraone Amenemhat I (XII dinastia, circa 2040 a.C.), rende l’idea di come l’agricoltura fosse l’attività più importante dell’antico Egitto e la coltivazione del frumento quella cui si affidava la prosperità del paese.

L’inondazione corrispondeva per gli Egizi alla fase Alchet, quella successiva, quando il Nilo si ritirava lasciando i campi generosamente fertilizzati, era la fase Peret,. La terza fase,detta Shonon, corrispondeva al periodo meno piovoso dell’anno. Gli strumenti utilizzati erano l’aratro di legno, la zappa con una larga lama di legno e la falce per mietere.

La razione dei soldati reali comprendeva circa due chili di pane a testa ma il consumo maggiore era riservato alle classi più umili, tanto che gli Egizi erano stati soprannominati dai greci artophagoi (mangiatori di pane).

L’alimentazione era integrata con cipolle, porri, meloni, cetrioli, fagioli, sedano, fave, ceci, lenticchie e lattuga. Per l’irrigazione gli Egizi non avevano attinto alla scuola sumerica e il loro sistema consisteva nel trasportare l’acqua nelle giare, anche se, dal contatto con la Siria avevano appreso lo Shaduf che era un metodo per sollevare le acque

Gli Egizi, per fare mattoni, utilizzavano anche la paglia pressata, tagliuzzata, mischiata a fango e seccata al sole.

La macina del grano era affidata alle donne e con la farina ricavata si facevano pane e focacce salate o arricchite con semi di sesamo o di papavero. Con l’aggiunta di uva o miele, si facevano i dolci.

Tornando al pane, dopo i primi passi si trattava di affinare ulteriormente la tecnica e dopo qualche secolo si scoprirono casualmente gli effetti della fermentazione (5.000 a. C.) che si avviava spontaneamente se l’impasto veniva lasciato per un giorno all’aria prima di cuocerlo, anche se una leggenda riferisce che la fermentazione si era avviata accidentalmente quando le acque del Nilo avevano inondato i magazzini in cui era conservata la farina.

Gli Egizi utilizzarono ugualmente la farina bagnata ed ebbero modo di scoprire gli effetti della fermentazione.

Poi si passò alla frantumazione dei semi di cereali in un mortaio e alla separazione al setaccio della parte nutritiva del chicco dall’involucro che lo racchiude. Più tardi la cottura cominciò ad essere fatta al chiuso, in un vaso o in una buca scavata nel terreno e riscaldati dal fuoco.

Quando la temperatura era abbastanza alta, il fuoco veniva spento e, tolta la cenere, si introduceva il pane, prima di chiudere il vaso con un coperchio o la buca con una grossa pietra.

Poi vennero i primi forni in argilla che avevano forma conica. Sulla parte esterna veniva poggiato il pane che cadeva a terra quando la cottura si era completata.

Anche la lievitazione fu una scoperta casuale.

Il primo fattore lievitante utilizzato, oltre alla pasta acida, sembra essere stata la birra che una serva egizia avrebbe versato inavvertitamente sull’impasto. La paura di essere punita, la indusse a tacere sull’accaduto ma l’incidente consentì di ottenere un pane più soffice e fragrante che portò ad adottare la lievitazione come prassi normale nella preparazione del pane e la pratica fu in seguito adottata in Mesopotamia, Creta, Grecia e Magna Grecia.

Un’altra versione vorrebbe che siano stati i cuochi alla corte dei Medici di Firenze a utilizzare il lievito di birra per migliorare la lievitazione del pane, e che questa pratica sia poi stata esportata in Francia da Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV (Barbieri, 2006).

Successivamente si affinò la tecnica di cottura con la costruzione di forni internamente divisi in due parti: nella parte inferiore ardeva il fuoco, in quella superiore cuoceva il pane.

Dalla Mesopotamia e dall’Egitto, che erano state culla di civiltà dal Neolitico in avanti, il modello del pane cominciò a farsi strada in altre parti del mondo.

Secondo Strauss (2009), al tempo in cui gli storici collocano la guerra di Troia (ca. 1.200 a. C.), i Greci si nutrivano ancora di lenticchie e orzo tanto da osservare con meraviglia e invidia la piana di Troia coperta di messi di grano. Ma è solo la congettura di uno storico che tende a connotare di arretratezza la cultura alimentare e l’agricoltura greche, le cui caratteristiche generali si muovevano già attorno alle colture mediterranee: cereali, vite e olivo (Gallo, 1997) e “Per quanto riguarda i cereali, che hanno un ruolo di primo piano nel consumo alimentare (secondo una stima attendibile, forniscono il 70-75 per cento del fabbisogno calorico complessivo), ancora predominante in epoca classica […] è la coltivazione dell’orzo, che resiste meglio ai mutamenti climatici e assicura rendimenti più elevati” (Gallo, l.c.).

In realtà, la Grecia ha pochi terreni coltivabili e “La più limitata diffusione del frumento, che è il cereale più adatto alla panificazione […] è del resto sottolineata dalla marcata specializzazione regionale di tale coltivazione, che, ad eccezione della Tessaglia, appare per lo più tipica di aree situate al di fuori della madrepatria greca (la Libia, la Tracia e, soprattutto, il Ponto)” (Gallo, l. c.).

Disponiamo, però, di altre notizie che confermano che in Grecia si faceva uso di grano almeno tre secoli prima della guerra di Troia. Si tratta delle tavolette in Lineare B trovate a Pilo e Cnosso.

In “Una fondamentale tavoletta di Pilo [si] indica in quantità di semenza di grano” (Musti, 1989). Ritroviamo il pane e la focaccia in Aristofane (I Cavalieri, 424 a. C.), quando Salsicciaio dice ”E io giuro sui pugni e le coltellate che ho preso fin da ragazzo, che ti batterò invece, se no, inutilmente sarei cresciuto a tozzi di pane” e Demostene risponde“A tozzi di pane come un cane?” Poi, Paflagone dice a Salsicciaio: “Ti porto una focaccia impastata con l’orzo di Pilo” e Demostene “L’altro giorno avevo impastato a Pilo una focaccia laconia”. Per inciso, la focaccia laconia era fatta con grano comune (cfr. Plinio il Vecchio, l.c.).

Il nutrimento base della popolazione greca era costituito da cereali impastati con acqua e cotti per fare “polente” e minestre, oppure cotti direttamente sul fuoco in forme di pani e focacce.

Generalmente si accompagnavano a frattaglie cotte di animali, trippa arrostita in pentola; oppure a verdure crude o cotte condite con olio, insalata o formaggi. Da tutte le fonti (tra cui l’Odissea) risulta che nella Grecia antica si fece grande uso di frumento e di orzo.

I greci avevano ben 72 tipi di pane e il compito della panificazione era affidato alle donne, per divenire un lavoro maschile quando si cominciò a panificare di notte perché al mattino si potesse disporre di pane fresco.

Passando ad altre aree, nel Lazio, in piena età del ferro, non si coltivavano grani superiori a cariosside nuda ma orzo, il cui pappone sarà poi denominato polenta e, soprattutto, farro (far o adoreum) che in realtà era il Triticum dicoccum (Scrk.) e non il Triticum spelta (L.).come erroneamente è stato identificato da qualcuno (Pucci, l. c.).

Tuttavia, “poiché le due specie sono distinguibili con difficoltà all’analisi botanica, converrà limitarsi a dire che nei contesti più arcaici di Roma finora studiati (una ventina) farro e/o spelta assommano complessivamente al 58 per cento della produzione del Lazio tra X e VII secolo” (Pucci, l. c..) e, nonostante avessero a disposizione un territorio fertile per la coltivazione di cereali più pregiati, si dedicavano alla coltivazione del farro, da cui il termine farina per indicarne il prodotto di frantumazione. Carattere distintivo dell’agricoltura del Lazio, rispetto ad altre regioni, era la prevalenza dei cereali inferiori mentre in Etruria, per esempio,”si coltivavano le specie più nobili” (Pucci, l. c.). “Dovunque si poteva, diverse specie di cereali erano coltivate insieme [per] limitare il rischio di un cattivo raccolto [e] questo insieme di cereali, che comprendeva anche il miglio, il panico, l’avena e la segale (lo stesso che in età medioevale sarà chiamato mestura) costituiva la farrago” (Pucci, l. c.).

La farrago che, inizialmente, costituiva il cibo base dell’alimentazione umana, “col tempo decadde a foraggio per gli animali, e come tale viene trattata dagli scrittori de re rustica” (Pucci, l. c.).

Fino alla scoperta del maggese (tra VIII e VI secolo), le popolazioni del Lazio adottarono “i sistemi più elementari del «campo ad erba» ossia del campo abbandonato fino a che non ricostituisce la sua fertilità, o quello del debbio, per il quale si disbosca e poi si brucia il legno per fertilizzare la radura, coltivandola fino al suo esaurimento” (Pucci, l. c.).

Dalle focacce salate ricavate dalla farina di farro i Romani, a contatto con i greci, passarono al pane di frumento lievitato e costruirono i primi forni pubblici in cui lavoravano fornai greci portati a Roma come schiavi.

Ma “È noto tuttavia che per un lungo periodo i Romani si cibarono di puls e non di pane” (farinata ottenuta facendo bollire cereali macinati in acqua o latte, n. d. r.). e che “di tutti i cereali presso il popolo romano per 300 anni fu usato solo il farro” (Plinio il Vecchio, l. c.).

L’alimentazione antica di Roma e dei territori contermini era basata sui “cereali a cariosside vestita [che], per essere consumati, devono essere prima private delle glume. Perciò essi erano usualmente torrefatti” (Pucci l. c.) e “La preparazione della farina di farro […] presenta nella società arcaica un’importanza politico- sociale direttamente proporzionale all’importanza politico- religiosa di questo alimento” (Pucci, l. c. Si veda anche F. Toubert, 1973).

Per il suo carattere rituale, la preparazione della farina di farro era affidata alle Vestali, con un procedimento particolare: “I chicchi venivano prima torrefatti, poi battuti e infine macinati. Con la farina così ottenuta e il sale si preparava la mola salsa, indispensabile per ogni genere di sacrificio, immolare, ossia cospargere di mola salsa la vittima, divenne sinonimo di sacrificare” (Pucci, l. c.).

In febbraio si celebravano i Fornacalia, feste dedicate alla dea Fornax per celebrare la torrefazione del farro e l’immissione al consumo del prodotto dell’anno precedente (Pucci, l. c.), nota, anche, come Festa degli sciocchi “perché nei tempi antichi i coloni erano inesperti, tostavano troppo il farro e talvolta bruciavano anche le loro capanne” (Ferrari, l. c.).

Il farro da utilizzare per la semina non doveva essere tostato.

Nel mito di Ino, moglie di Atamante, si dice che abbia fatto tostare i chicchi destinati alla semina. Naturalmente il grano non spuntò e Ino fece accusare del misfatto, per sbarazzarsene, i figli di primo letto del marito, (Ferrari, 2008)

Per la panificazione, i romani utilizzavano due tipi di lievito.

Il primo consisteva di miglio mescolato al vino dolce e lasciato a fermentare per un anno, il secondo di crusca di frumento lasciata a macero per tre giorni nel vino dolce e poi fatta essiccare al sole (Plinio il Vecchio, l. c.).

In questo periodo erano già state messe a punto le macine di pietra di lava che si facevano ruotare con la forza motrice degli schiavi o degli animali. A Vitruvio si deve l’invenzione del mulino ad acqua ma la tecnica si diffuse solo dopo che Quinto Candido Benigno fece costruire in Francia otto mulini mossi contemporaneamente dall’acqua.

In epoca feudale i contadini, in cambio del lavoro nei campi, ricevevano una parte del raccolto ma erano obbligati a cuocere il pane nel forno del padrone.

Il pane del contadino era fatto con poca farina e molta crusca. Spesso venivano utilizzati cereali minori come il miglio e il pane destinato ai poveri si chiamava “pan rozzo”, mentre ricchi, nobili e “cittadini” consumavano carne e pane bianco di cereali.

Nel Medioevo, quindi, l’agricoltura comincia ad identificarsi con i cereali e questa scelta traccerà un preciso spartiacque che delinea lo status sociale.

Il frumento viene coltivato solo per i ricchi e i cittadini, per i poveri e i contadini vengono utilizzati in misura massiccia i cereali minori.

Questo non denota “la decadenza della coltura del frumento e il predominio assunto dai grani inferiori” (Montanari, 1979) ma rappresenta una scelta determinata dal fatto che la maggior parte della popolazioni è costituita dai poveri cui sono riservati la segale, il miglio, l’orzo e l’avena che, nei dati del polittico di Santa Giulia di Brescia, rappresentano il 72% delle riserve, con la segale che, da sola, occupa il primo posto con il 40% dei “grani” conservati (Montanari, l. c.).

Il sistema più diffuso di macinazione era quello romano con i mulini ad acqua e si dovette ricorrere a regole severe per tutelare i mugnai.

Coloro che utilizzavano i mulini dovevano pagare una tassa (tassa sul macinato). Il mugnaio doveva pesare il grano prima di macinarlo, restituire al proprietario la giusta quantità di farina e veniva retribuito in natura. Per assumere la qualifica di fornaio era necessario un lungo tirocinio come garzone e, raggiunta le necessaria esperienza, si doveva giurare davanti alle autorità di cuocere pane a sufficienza e di non barare sulla qualità e quantità di pane prodotto.

Ai garzoni competeva l’onere di trasportare il pane in una gerla e consegnarlo casa per casa e il consumatore era tutelato dall’obbligo del fornaio di produrre e consegnare pane ben cotto, pena un’ammenda in denaro e il risarcimento con un’altra infornata.

In giro per il mondo

Se il processo di panificazione ha raggiunto una certa standardizzazione (frantumazione di cereali, impasto, fermentazione, cottura), permangono ancora differenze, tanto in ordine agli ingredienti da cui si ricava la farina, quanto in alcuni valori simbolici.

Partiamo dalla definizione canonica del pane come prodotto ottenuto dalla lievitazione e cottura in forno di un impasto a base di farina di cereali e acqua, per avviare una riflessione.

La definizione proposta ha il vantaggio di un impatto immediato nel nostro immaginario ma, non v’è dubbio, che è tutta dentro una spirale culturale eurocentrica che afferisce al sistema di valori del mondo occidentale e non tiene conto che forme e modo di consumare il pane, sono il risultato delle risorse disponibili, dei rapporti sociali nelle diverse aree del mondo e rappresentano l’identità dei popoli e la loro storia,

Nel sud- est asiatico (India, Cina, Giappone) si fa uso di farina di riso, in Africa e nei Paesi Arabi farina di miglio o di sesamo, in Etiopia e in Eritrea farina di Teff (Eragrostis tef), nei paesi freddi del nord Europa farina di segale, in Mesoamerica farina di mais, quinoa, patata.

Queste differenze, sebbene riconoscibili nella tradizione, sono anche il risultato delle condizioni ambientali che hanno determinato l’elaborazione di specifici modelli alimentari.

L’uso del riso nel sud-est asiatico, non è una scelta determinata dalla maggiore diffusione e disponibilità di questo cereale ma trova le proprie ragioni nelle cause stesse che hanno determinato la domesticazione di questa pianta, qualche millennio dopo che nella Mezzaluna fertile era già stato domesticato il frumento.

Nel caso specifico, ma in tutti gli altri casi, prima di indagare sul processo di domesticazione, bisognerà indagare sui processi di selezione naturale che hanno determinato la struttura ecologica in un ambiente dato.

In altri termini se, per definizione, l’ecologia studia “tutte le relazioni o i modelli di relazione tra gli organismi e il loro ambiente” (Odum, 1988), l’azione antropica è preceduta dalla selezione naturale che determina la biocenosi di un ambiente dato.

Nel caso della Cina, l’agricoltura nasce e si sviluppa in un ambiente naturale difficile che ha richiesto grandi lavori di sistemazione e di bonifica.

La selezione è avvenuta sugli altipiani in cui predomina il loess che è “un suolo formato dall’accumulo millenario, durante il Pliocene, di sabbia e limo portati dal vento “ (Saltini, 2009)

V’è da aggiungere che “Il clima della regione del loess è quello tipico del monsone: d’estate i venti dell’Oceano portano precipitazioni copiose e continue, d’inverno spirano dalla Siberia venti freddi e asciutti” per cui si formavano “dopo le piene del monsone, isole galleggianti dalle quali dispiegavano i culmi” (Saltini, l. c.) di quelli che i paleobotanici hanno dimostrato essere i progenitori del riso, specie risultata vincente nella competizione con altre specie per l’adattamento a vivere nell’acqua.

La segale è il cereale più diffuso nel nord Europa, ma anche nell’Italia continentale, per la sua rusticità e perché adattato ai climi freddi..

Il Teff, cereale coltivato e utilizzato nell’alimentazione umana da 7.000 anni, è una pianta erbacea annuale che presenta semi di diametro inferiore a 1 mm e questo lo rende adatto alla vita seminomade delle popolazioni che ne fanno uso, dal momento che in una pugno si può trasportare un numero di semi sufficiente a seminare un intero campo.

Prima che fosse conosciuto il pane di frumento, nelle Americhe si consumava solo pane di farina di mais, cui si aggiungeva, nelle zone montane delle Ande, quello di farina di Quinoa (Chenopodium quinoa) che ha costituito un alimento base per quelle popolazioni, tanto che per gli Inca era la «chisiya mama» (madre di tutti i semi).

Dopo la conquista spagnola, la cultura andina dovette fare i conti con l’eurocentrismo cattolico che considerava sacro solo il pane di frumento, per cui la coltivazione della quinoa venne scoraggiata, se non proprio combattuta, fino a quando, anche l’ottuso fondamentalismo religioso, non dovette ammettere che l’ambiente andino è poco adatto alla coltivazione del grano, mentre la quinoa si avvantaggia dello sforzo di adattamento di migliaia di anni di storia evolutiva.

Nei momenti di crisi gli andini facevano ricorso a farina di patata, ottenuta con un procedimento singolare per ottenere quello che gli Inca chiamavano chuňu

Il procedimento consisteva nel lasciare le patate a gelare all’aperto e schiacciarle con i piedi al mattino per allontanare l’acqua. Il procedimento andava avanti per cinque giorni, finche il chuňu, completamente disidratato, poteva essere conservato integro o trasformato in farina bianca e leggera che poteva essere conservata per anni (von Hagen, l. c.), che è un bel risultato se consideriamo che “La patata fu messa al bando per tre secoli dagli europei, in quanto ritenuta causa della lebbra” (von Hagen, l. c).

Pane e conflitti

In questa rapida ricostruzione non vengono presi in considerazione i conflitti legati a momenti particolari della storia (economia di guerra) ma solo quelli che sono esplosi quando la disponibilità di pane è stata utilizzata come strumento di lotta politica e di repressione sociale.

A Roma, per esempio, l’istituzione dello schiavismo e la disponibilità di manodopera a basso costo, aveva indotto molti proprietari terrieri a trasformare i fertili territori del Lazio e di altre regioni italiane in orti e frutteti, per cui l’approvvigionamento di grano dell’impero dipendeva dalle province (Sicilia, Egitto, Africa).

Questo rendeva vulnerabile il potere centrale che, a partire dal VI secolo a. C. cominciò ad avere seri problemi di approvvigionamento e fu travagliato dallo spettro di carestie ricorrenti.

Nel 273 Firmo bloccò le forniture dall’Egitto per indebolire il potere di Aureliano.

Nel 397 in Mauretania, la ribellione capeggiata da Gildone ebbe come conseguenza immediata il blocco dei rifornimenti di grano e la conseguente carestia che mise in ginocchio l’impero.

Nel 409 Eracliano bloccò il rifornimento di grano per indebolire Prisco Attalo e nel 412 utilizzò lo stesso espediente contro Flavio Onorio.

Lo stesso farà nel 423 Bonifacio nei confronti di Primicerio.

In precedenza, quando il problema si era presentato, non erano mancate misure “illuminate” per venire incontro alle esigenze del popolo.

Nel 123 a.C. Caio Gracco aveva imposto il prezzo politico e la distribuzione gratuita ai poveri.

Augusto aveva istituito l’Annona per distribuire gratuitamente grano a circa centomila persone.

Queste misure, però, non portarono alla soluzione del problema e si rese necessario il sempre più frequente ricorso a cereali minori come orzo e segale e, qualche volta, piselli e fave.

Nei secoli successivi, la produzione di grano riprese con relativa abbondanza ma l’esplosione endemica della ruggine del grano (2) e della segale cornuta (3) riportarono di nuovo lo spettro della fame, parzialmente soddisfatta con le piante alimentari importate dalle Americhe.

Patate e mais posero fine alle carestie e furono alla base dell’esplosione demografica.

Ma altri conflitti erano in agguato.

Nel 1630 ci fu la rivolta dei milanesi che assaltarono i forni per procacciarsi grano e farina.

Nel 1748 Benedetto XIV emanò norme per la liberalizzazione del commercio, revocò alcuni privilegi delle classi egemoni ed emise un bando contro le privative.

Con l’Unità d’Italia e l’istituzione di una nuova moneta, il peso calmierato del pane fu fissato a 16 libbre e il prezzo a 20 centesimi al pezzo ma, nel 1868, l’istituzione di una nuova tassa sulla macina di 2 lire/quintale per il frumento e di 1 lira/quintale per il frumentone, vanificò la politica dei prezzi.

Tra il dicembre del 1868 e il gennaio del 1869, esplosero i “moti del macinato” finiti davanti ai fucili dei soldati che lasciarono “237 morti, 1099 feriti, 3.788 arrestati” (Foa, 1973).

Solo a S. Giovanni in Persiceto si contarono 10 morti.

A connotare, ancora, l’importanza del pane come alimento, vale ricordare il termine cumpanaticum con cui si indica ogni altro alimento che ne accompagna il consumo. Su questo binomio sono nate alcune espressioni popolari, come “mangiara pana e curteddu” (mangiare pane e coltello), usata dai braccianti meridionali per fornire un’immagine della propria povertà, sottolineata dalla mancanza di companatico, o ancora il proverbio contadino “col pane asciutto si fanno i bei bambini”, con la variante calabrese “Salute e pane asciutto”, amara consolazione dei poveri.

Conclusioni e un’appendice

Concludiamo qui la nostra storia per evitare il rischio di scivolare nell’aneddotica, ricordando che, se il cibo è linguaggio, il pane, cibo per antonomasia, si presenta con codici di comunicazione diversi, assumendo valori simbolici come il pane azzimo (Matzah) che gli Ebrei consumano per ricordare l’esodo dall’Egitto o come la complessa simbologia ancora riscontrabile nella tradizione calabrese. In Calabria si aggiungono- e questo giustifica la breve appendice proposta- oltre ai molti valori simbolici che afferiscono alla straordinaria ricchezza di capitale sociale che, attorno al pane, conserva una forte simbologia del dono attraverso lo scambio di pane o di pasta madre tra vicini, anche molti proverbi che aiutano a tracciare la storia dei subalterni.

Alcuni sono precetti come “Chi vô mangiàri pane e viviri vino simmina jermànu (segale) e chianta erbino (vite selvatica)” (Spezzano, 1992).

Altri esprimono lo stato di miseria dei poveri come “‘A casa ‘e pezzienti’un mancanu tozzi” (Caligiuri, 1999) che indicano anche l’ospitalità dei poveri e la loro capacità di adattamento perché “Chine ha pane e ‘jermanu ‘un more de fame” (Caligiuri, l. c.).

Altri ancora, sono espressioni di ribellismo sociale come “A chine te caccia llu pane, càcciacci la vita” (Caligiuri, l. c.), perché, come ebbe a scrivere Vincenzo Padula, “Il popolo calabrese è agricolo [] quando dunque gli mancano le terre irrompe violentemente nella Sila coi suoi strumenti rurali, o vi irrompe coi suoi strumenti da brigante” (Padula, 1878) e decide che è “megliu n’annu tauru ca cent’anni voe!” (è meglio un anno toro che cent’anni bue).

Il pane tradizionale in Calabria è identificato con due termini equivalenti: Pana ‘e casa o Pana casaloru. La valenza culturale del pane è evidente dalle tradizioni che si conservano e dal loro valore simbolico. Dal pane a cuddhura del periodo natalizio a quello pasquale, alla pitta ‘nchiusa, alla pitta collura per la commemorazione dei defunti, al pane di S. Antonio e a quelli che celebrano la nascita, il battesimo, il matrimonio.

Normalmente prodotto con farina di frumento tenero e duro, nei periodi di carestia si ricorreva anche a cereali minori come mais, orzo, avena, miglio, farro oppure a patate, castagne, ghiande o a prodotti ancora più poveri come il lupino e il grano saraceno, a riprova che la storia del pane in Calabria è anche storia della fame e della miseria delle popolazioni che hanno imparato a surrogare l’ingrediente principale con quanto la natura poteva offrire.

La fantasia femminile ha fatto il resto inventando il pane aromatizzato con sesamo, finocchio selvatico o peperoncino per fornire sapore e dignità al cibo dei poveri.

Dalle varie miscele di farina di cereali sono nati pani tipici come la pizzata di Nardodipace, il biscotto di grano di Reggio Calabria, il pane ai semi di finocchio di Serra S. Bruno, il pane di grano duro di Mangone, il pane con la giuggiulena (sesamo) di Reggio Calabria, il pane a cuddhura (ciambella) decorato con figurine a rilievo, la focaccia ai fiori di sambuco.

Il pane di Cutro e il pane di Donnici, pur nel passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale, conservano caratteristiche organolettiche uniche ma il solo Pane di Cerchiara- è un nostro parere personale- conserva qualità non riproducibili, legate a tradizioni secolari sostanzialmente non modificate dalla nuova tecnologia di processo.

Per la lievitazione del pana ‘e casa si usa la pasta madre o pasta acida, conservata appositamente dalla panificazione precedente.

L’impasto consistente in farina, acqua, sale marino, pasta madre ed eventuali erbe aromatiche, si esegue in una vasca di legno detta maidda o maiddra.

Una volta formate le pagnotte, si stende la metà di una tovaglia sul timpagnu (piano di legno), si posano le pagnotte e si ricoprono con l’altra metà della tovaglia sulla quale si stende una coperta di lana per facilitare la lievitazione.

Segue un rituale religioso che consiste nell’imprimere su ogni pagnotta un segno a forma di croce e recitando: “Crisci, crisci pasta, comu nostru Signuri ‘nta la fascia”.

Finita questa operazione si imprimono tre segni di croce equidistanti sull’impasto rimasto nella maddra, si baciano una per una con la mano, facendosi ogni volta il segno della croce.

Per la cottura si usa legna di bosco del genere Quercus ma il pane più fragrante e aromatico si ottiene con rami secchi di olivo e di arancio.

 

Note

(1) Di norma, la datazione al radiocarbonio (14C), applicato a tutti i materiali trovati che lo contengono, si basa sul fatto che l’isotopo, decade molto lentamente a 14N, isotopo stabile dell’azoto. Il 14C si produce continuamente nell’atmosfera in un rapporto con il 12C pari a 1:1 milione. In 5.700 anni, il 50% del 14C diventa 12C ed è diventato troppo scarso nel reperto da analizzare. Il metodo più attendibile è quello di datarlo in base al rapporto tra 14C e 12C. Questo metodo si chiama “calibrato” e si va affermando l’uso di scrivere le date non calibrate in tondo e quelle calibrate in maiuscoletto. (Diamond, 2006).

(2) L’agente di malattia della ruggine del grano è il fungo Puccinia graminis, definito dai romani maxima segetum pest.

(3) L’agente di malattia della segale cornuta è il fungo Claviceps purpurea, responsabile dell’ergotismo. Dalle ife di questo fungo si è partiti per sintetizzare LSD.

 

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Trischene, una città immaginata

Il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione”

di Francesco Santopolo

Tra medioevo e rinascimento, era consuetudine affidare ad autori di cronache il compito di “costruire” storie per dare lustro ad un casato o ad una città.
Questo ha costretto la storiografia successiva ad un difficile lavoro di ricerca per dimostrare l’attendibilità delle “invenzioni” di alcuni fantasiosi cronisti.
Da una di queste è nata la storia di Trischene città che, secondo le cronache, sarebbe stata edificata tra il Simeri, l’Alli e l’Uria e avrebbe subito l’attacco di corsari saraceni tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 1971), dando luogo ad un trasferimento in massa della popolazione scampata al massacro, il cui nucleo più consistente avrebbe fondato la nuova città di Taverna.
Le cronache, infatti, non erano interessate alle vicende di Trischene, quanto alla glorificazione di Taverna che si pretendeva esserne stata l’erede naturale.
Anche in ricostruzioni storiche recenti (U. Ferrari, 1971; M. Barberio, 1975), le vicende di Trischene, sono solo un passaggio per ricostruire la storia di Taverna.
Tuttavia, proprio perché le cronache più antiche hanno contribuito a creare un circuito cumulativo di inesattezze che hanno messo in secondo piano una ricostruzione storica del territorio, pensiamo che la vicenda meriti un approfondimento e una riflessione che, a partire dalle caratteristiche dell’area in cui la fantasia cronachistica avrebbe immaginato Trischene, ci permetta di capire se ci fossero le precondizioni perché sorgesse una colonia autonoma o una “dipendenza”, durante la grande colonizzazione greca o subito dopo. La storia inizia con la comparsa di un manoscritto del ‘200 che ha interessato, a vario titolo, diversi scrittori in epoca successiva (G. B. Nola- Molise, 1649; F. Ughelli, 1743-1762; G. Franconeri, 1891; G. Minasi, 1896; F. Lenormant, 1976, vol. II).
Nella cronaca, il cui titolo completo è “Chronica Trium Tabernarum, et quomodo Catacensis civitas fuerit edificata, quando Goffredus illustrissimus Catacensis Comes pro restauracione et edificacione Trium Tabernarum Episcopatus Greca undique et vetera coadunavit scripta et privilegia” (in Lenormant, l. c., corsivo nel testo), si narra di una città denominata Trischene, e “Si pretende che ne sia stato autore un certo Ruggiero (Ruggero Carbonello, in M. Giovene, Simeri e i suoi casali, 2000, n.d.r.), diacono e canonico di Catanzaro, il quale avrebbe dedicato il lavoro a Guglielmo II, duca di Puglia” (F. Lenormant, l. c.).
Secondo il cronista, Trischene “era ripartita in tre distinte membra di sito, l’un là ove abbiamo l’Uria, l’altro sotto a Simmari e ‘l terzo sotto Catanzaro”(in M. Barberio, 1975).
E qui il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione” (in M. Barberio, l. c.). In realtà, Uria è termine di origine preistorica (G. Rolhfs, 1975), probabilmente legato alla presenza dell’omonimo uccello di cui sopravvivono solo alcune specie come Uria lomvia, Uria grylle o colombo di mare, o dal greco Ũria con cui si designava una specie di anitra o, ancora, dalla radice araba al-hūr che significa “fanciulla dagli occhi neri”.

 

Taverana (Cz)

Ma potrebbe anche collegarsi alla presenza di grosse mandrie di Bos primigenius, Uro per l’appunto, progenitore della razza bovina Podolica, ancora diffusa nel territorio.
Nella versione tramandata dalle cronache, si accrediterebbe l’ipotesi che, tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 971) la città di Trischene, fino ad allora sotto il dominio di Costantinopoli, avesse subito l’assalto di corsari saraceni che avrebbero distrutto i tre siti in cui era ripartita e ucciso gli abitanti che non riuscirono a trovare scampo nella fuga. La maggior parte dei superstiti si spostò in quella che sarebbe diventata Taberna montana o Tabernarum, altri si rifugiarono a Simeri, Catanzaro e Sellia (in M. Barberio, l. c.). Ad avvalorare l’importanza di Trischene nella geografia politica di Costantinopoli, il cronista immagina che, dopo la morte del Duca longobardo, il generale Niceforo Foca inviasse in Calabria il Magister militiae Gorgolano che trovò Tabernarum ricostruita e popolosa (in M. Barberio M. l. c.), la riconobbe unica erede di Trischene e le restituì la sede episcopale (U. Ferrari, l. c.; F. Lenormant, l. c.). La ricostruzione storica successiva non si occupa più del sito di Uria che sarà abbandonato per la posizione facilmente espugnabile.
Nel 1450 Ferrante Galas, nella “Cronaca di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nel 1450”, compie un ulteriore sforzo di fantasia per risalire alle origine di Trischene, immaginando che “Antenore, fuggendo da Troia distrutta, conducesse con sé tre sorelle di Priamo: Astiochena, Medicastena ed Attila. Giunte in vista di un ampio golfo decisero di sbarcare presso la foce di un grande fiume per un breve riposo” (in Giovene, l. c.). Ma poiché non vi era luogo “migliore di sito né di temperie più soavi, né di campi più ameno, né di biade più fruttifero, né di boschi al di sopra più comodo, né di monti vicini ed aggiogati più sicuro, né di acque più abbondanti” (G. Franconeri, 1891) decidono di fermarsi, mentre Antenore proseguirà il suo viaggio, secondo la Chronica per fondare Mantova ma in realtà fonderà Padova (J. Berard, 1963; R. Graves, 1983).
Il luogo in cui fecero scalo era tra il Crocchio e il Simeri. Nel sito di Uria, Astiochena fondò una città e la chiamò Palepoli, in onore della dea Pale, nume tutelare della pastorizia, dea nella mitologia romana, dio in quella etrusca.
Medicastena, in onore di Hera, fondò Erapoli, alla foce del fiume Crocchio o su quella del Crotalo (Alli), luogo in cui, secondo quanto riferisce Stefano di Bisanzio, Ecateo di Mileto avrebbe immaginato la mitica città di Crotalla. Attila fondò una città alla foce del Simeri e, in onore di Atena, la chiamo Atenapoli, per saldare un debito verso la dea che invano aveva cercato di proteggere Troia.
Per la sua posizione. in prossimità della foce del Simeri, Atenapoli divenne il centro dell’attività commerciale. Nei mesi di aprile e maggio di ogni anno si svolgeva una fiera che richiamava mercanti anche dall’Africa e dal vicino Oriente e costituì la premessa per il formarsi di una forte comunità ebraica.
Presumibilmente si trattava della Floralia o Sacrum Florale che si teneva dal 28 aprile al 3 maggio in onore dell’antica divinità italica Flora, cui si attribuiva la fecondità delle donne e la protezione delle piante da frutto al momento della fioritura. Marziale, Varrone e Seneca parlano di Flora, Ovidio la identifica con una ninfa di origine greca (in L. Biondetti,1997) e Catone scrisse il De Re Flora, opera andata perduta ma ricordata da Gellio.
“Nel 238 a. C., in occasione della fondazione del tempio di Flora sul Quirinale” (A. Ferrari, 2008) la Floralia fu istituita anche a Roma (cfr. anche Plinio il Vecchio, 1972, vol. I).
Sia le date che i personaggi citati nelle “Cronache” vanno riesaminati. La pretesa del cronista che, per liberare Trischene, fosse venuto uno dei tre imperatori bizantini (Niceforo Logoteta, Niceforo Foca o Niceforo Botoniate), è, per l’appunto, solo una pretesa.
Più probabile che questo incarico fosse affidato al generale Niceforo Foca, del quale è certa la venuta in Calabria nell’885 (Ferrari U., l. c.).
Niceforo Foca trovò i nuclei scampati ai Saraceni dispersi nell’interno, lontano dalle zone costiere. La presenza del generale contribuì al rafforzarsi di questi nuclei in villaggi e città.
Fu così che nacquero o si rafforzarono Catanzaro, Settingiano, Simeri, Belcastro, Taverna e altre città (U. Ferrari, l. c.), almeno fino al ritorno degli Arabi che assediarono e conquistarono Squillace, costituendo un emirato indipendente durato fino al 922 (U. Ferrari, l. c.) e da qui mossero per espugnare Tiriolo, Simeri, Taverna, Belcastro e Catanzaro.
Secondo la cronaca, alcuni fuggiaschi, guidati da Giulio Catimeri, raggiunsero Catanzaro, si sistemarono sul monte Zaracontes, il cui nome deriverebbe dal torrente Zarepotamo che corrisponde all’attuale Fiumarella (G. Rolfs, 1974) e il nuovo sito, assegnato loro dal generale Niceforo Foca, si chiamò “Rocca di Niceforo” (l’attuale Bellavista). Trischene prese il nome di Taberna e poi Taverna, chi dice per attirare le popolazioni latine, chi sostiene che non esistendo più le tre chiese non c’era motivo di mantenere la vecchia denominazione (U. Ferrari, l. c.).
Taberna montana o Tabernarum o, più semplicemente, Taverna, accolse il maggior numero di fuggiaschi ed ebbe uno sviluppo iniziale maggiore, rispetto a Catanzaro.
Giovanni Filanzio, nella numerazione dell’Apogrifario dell’anno 1000, riporta 1.232 case e 5.288 abitanti, tra cui 53 sacerdoti, 6 monaci e 28 monache basiliane (M. Barberio, l. c.).
Ancora nel 1601, la distanza tra le due città era minima: Taverna contava 2.064 fuochi, Catanzaro 2.296 (M. Barberio, l. c.).
Circa l’attendibilità storica della Chronica, “Nessun dubbio che colui che la scrisse creò di sana pianta i fatti che racconta, frammischiandoli con mostruosi anacronismi e con documenti impudentemente falsificati”(F. Lenormant, l. c.) e, probabilmente, la ricostruzione di una città denominata Trischene o Trischine è “solo una miserabile supposizione, inspirata da pretese senza valore di vanità locale” (F. Lenormant, l. c.), poiché “nessun antico autore ricorda una città di Trischene o Trium Tabernarum nel Bruzio; nessun cronista autentico, né latino né greco né arabo, attesta la distruzione dell’uno o dell’altro nome ad opera dei Saraceni” (F. Lenormant, l. c.).
La tendenza a “costruire” falsi, anche clamorosi, tendenti a magnificare un sito o un personaggio e la scarsità di fonti, contribuiscono a creare delle nebulose tra le quali è difficile districarsi.
“Questa cronaca- aggiunge un altro cronista- è un vero guazzabuglio d’impostura, di notizie false e contraddittorie, un disordinato racconto di favole, come disordinato e confuso dovea essere il vivere del popolo delle Tre Taverne” (G. Minasi, 1896).
Poiché l’intento del cronachista era anche quello di dimostrare la presunta antichità delle chiese di Catanzaro, il Minasi aggiunge che il “cronista confondendo Giovanni vescovo di Squillace coll’omonimo di Velletri, a cui S. Gregorio Magno affidava nel 502 il governo della chiesa delle Tre Taverne (antica città del Lazio sulla via Appia, ove oggi incontrasi un paesetto chiamato Cisterna) senza badare ad altro, tosto spaccia, che la supposta diocesi delle Tre Taverne in Calabria fu unita nel 502 da S. Gregorio alla chiesa di Squillace” (G. Minasi, l. c.). Altri storici hanno messo in dubbio questa ricostruzione della Chronica (F. Ughelli, l. c.) e anche il Lenormant colloca le Tre Taverne nel Lazio.
Quanto, poi, alla pretesa dello sbarco di Antenore con le tre sorelle di Priamo sulle rive del Crocchio o del Simeri, ci sembra una altra colossale invenzione.
Bisogna ricordare che “Sebbene troiano, Antenore era amico dei Greci […] prendeva sempre le difese dei Greci nei dibattiti e possiamo immaginare che avesse interessi economici, parentele e legami matrimoniali che lo legavano ai Greci” (Strauss, l. c.). Così ce lo presenta Omero: “Primo il saggio Antenòr sì prese a dire: Dardanidi, Troiani, e voi venuti in sussidio di Troia, i sensi udite che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi con tutto il suo tesor l’argiva Elèna. Vïolammo noi soli il giuramento, e quindi inique le nostr’armi sono. Se non si rende, non avrem che danno. Così detto, s’assise. (Iliadie, VII)

Per Omero, la figura di Antenore è quella di un eminente troiano che più volte si schiera con le ragioni dei greci, riconoscendone la fondatezza.
Infatti, per diritto consuetudinario, il rapimento di una regina equivaleva ad una dichiarazione di guerra, per cui l’unica via per la pace sarebbe stata quella di riparare al torto di Paride restituendo Elena a Menelao.
Inoltre, in quanto padre di 15 figli maschi, Antenore temeva per la loro vita (durante la guerra ne periranno 10 per mano di Agamennone, Achille, Neottolemo, Aiace Telamonio. Filottete e Megeo).
Ma Antenore era anche uomo del suo tempo e quando va a trattare la pace con Agamennone, cerca di trarre vantaggio da una guerra che considera perduta. In cambio del suo aiuto dall’interno, chiede il regno e la metà del tesoro di Priamo (Ditti Cretese, IV 22 e V 8, in Graves, l. c.), aggiungendo che si poteva contare anche sull’aiuto di Enea (Graves, l. c.).
Ma se, secondo Ellanico, Ditti Cretese e Triflodoro, Antenore tradì i Troiani e, qualche secolo dopo, Dante Alighieri chiamerà Antenora la zona dell’Inferno in cui colloca i traditori della patria: («Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,/percotendo» (Inferno, XXXII), Enea non seguì la stessa sorte e sarà immortalato come un eroe nell’omonimo poema di Virgilio. Secondo Tito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà grazie al ruolo moderato svolto durante la guerra, e arrivato nel Veneto, fondò Padova che fu chiamata Antenorea (cfr. anche Berard, l. c.).
A parte il diverso itinerario di fuga da Troia distrutta e documentato da storici attendibili, ci sembra assolutamente fantasiaso che Antenore possa essersi preoccupato di salvare le tre sorelle di Priamo, visto il ruolo che gli si attribuisce nelle vicende di Troia.
Resta aperto il problema della possibilità che nell’area in questione possa esserci stata una colonia greca o italiota, o una dipendenza da altra colonia (Crotone, per esempio).
Partiamo dalle cause della colonizzazione greca la cui interpretazione “è rimasta a lungo impantanata nella falsa alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento” (D. Musti, 1989), tanto da aver dato origine a due scuole di pensiero.
La prima privilegiava la pressione demografica nella terra natale che spingeva verso la conquista di nuovi spazi e la fondazione di colonie. La seconda privilegiava l’aspetto mercantile dell’economia greca, incentrata sulla produzione di beni e sugli scambi. Sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, fu quasi del tutto eliminato il termine “pre- colonizzazione” con cui si designavano i contatti precedenti alla fondazione delle colonie (B. D.Agostino, 1985). In sostanza, i contatti tra il mondo greco e gli indigeni in epoca anteriore, sono da ascriversi ad iniziative individuali di mercanti, sul modello dell’emporia comune anche ai Fenici (B. D.Agostino, l- c.), mentre la fondazione di colonie corrisponde ad un disegno politico, di cui sono testimonianza concreta il loro assetto giuridico ed economico, come risulta evidente per la fondazione della colonia di Turi, dopo la distruzione di Sibari, riportata con dovizie di particolari da Diodoro Siculo nella Storia Universale.
L’adozione di uno schema geometrico che tende a segregare i campi coltivati da quelli incolti o destinati a pascolo (E. Sereni, 1987), è affidata a magistrati che operano in base ad un piano, come è stato possibile rilevare dalla Tavole di Eraclea, attraverso le quali Kaibel ha ricostruito la pianta delle terre di proprietà del tempio di Atena Polliade (E. Sereni, l. c.).
In realtà, sull’interpretazione delle cause della migrazione dei greci per fondare colonie fuori dalla madre patria, ha pesato molto un modello di emigrazione noto in epoca moderna e contemporanea, con il quale il modello greco non ha niente in comune, come hanno osservato Finley (1976) e Lepore (1978). Secondo Platone i coloni scaturiscono da una popolazione “divenuta eccedente in rapporto alla possibilità di alimentazione tratta dalla terra” (Leggi, 1967) oppure quando “accade anche che un intero partito di un solo stato sia costretto altrove in esilio per la dura necessità della lotta civile” (Platone, l. c.). Aristotele (Politica, 1973) aggiunge “la limitazione del numero dei cittadini, sul controllo delle nascite, sul mantenimento dei lotti familiari tramite l’adozione e sulla proibizione di alienare la proprietà terriera, in particolare i lotti attribuiti originariamente alla famiglia” (L. Cordano, 1985). In sostanza, “non si tratta di un numero eccessivo di abitanti, ma di un numero troppo grande di aventi diritto, rispetto alla disponibilità fondiaria” (L. Cordano, l. c.).
Quanto all’idoneità del territorio perché potesse sorgere una colonia greca o italiota, vale ricordare che Simeri e l’area attorno a Simeri, percorsa da due fiumi navigabili (Plinio il Vecchio, l. c.), era stata un luogo di traffici, se già nel 14°-13° sec. a.C. vi si lavorava il ferro e alla stessa epoca risalgono ritrovamenti di reperti ellenistici.
Questi contatti erano già iniziati nel XIII secolo a. C., quando le coste calabresi cominciavano a diventare meta di viaggiatori, Fenici e Greci.
Dei Fenici, prima delle guerre puniche, si hanno notizie certe in alcuni toponimi.
Il più noto è sicuramente “Botri”, che significa “fosso” o “burrone”, di cui Plinio riporta un solo toponimo ai piedi del Libano (Plinio il Vecchio, l. c.).
Botro è un toponimo in prossimità del Crocchio, Botricello il centro abitato che vi sorge attorno. Molto più ricca la toponomastica greca per la quale rinviamo alle opere di Gerald Rohlfs.
Il nome dei due torrenti, Scilotraco di Sellia, vicino al Simeri e Scilotraco di Rocca, vicino al Crocchio, ricordano l’antica abitudine di trasportare il legname proveniente dalla Sila.
Scilotraco significa, appunto, “portatore di legna” (G. Rohlfs, l. c.) e il termine deve avere una sua collocazione antica se dobbiamo credere a Strabone quando scrive che il legname “non presenta difficoltà di trasporto, né si trova lontano dai luoghi dove abbisogna, ma è facilmente trasportabile e lavorabile, grazie ai numerosi fiumi” (sta in C. Ampolo et al., 1989).
I motivi per cui si può ragionevolmente ritenere che l’area potesse avere interesse per i coloni greci o italioti sono tanti.
L’area risultava largamente trafficata da almeno 2 secoli prima della grande colonizzazione greca e i territori indicati nelle cronache, per essere territori costieri con un vasto entroterra pianeggiante e collocati lungo il corso di due fiumi navigabili (Semirus e Crotalus), non potevano sfuggire all’interesse dei coloni greci o dei coloni italioti;
Si chiamasse Trischene o in un altro modo, c’era spazio per una colonia ubicata in posizione felice tra Crotone e Palepoli Scolacium, a sua volta ubicata in prossimità di un altro fiume navigabile, il Carcinus (Corace).
Infine, è impensabile un vuoto antropico tra Skylletion-Scolacum e Crotone considerando che oltre che dal Semerus e dal Crotalo, il territorio è attraversato dal Thagines (Tacina), altro fiume navigabile.
Ma le conferme più importanti ci vengono dai ritrovamenti archologici.

Nel 1880, nel corso di scavi per la costruzione di una strada, in località “Donnumarcu” venne allo scoperto una tomba contenente “fibule di filo di ferro cilindrico girato a spirale, dei braccialetti, un anellino, delle catenelle, una cuspide di lancia e dei resti di ossa combuste” (M. Giovene, l. c.), mentre a Timpa delle Gallinelle fu rinvenuta una scure di bronzo e, probabilmente, altri oggetti andati perduti.
Sempre in “località Donnumarco, tra il 1881 e il 1884, furono scoperte altre tre tombe che, oltre al solito corredo, contenevano alcuni scarabei” (M. Giovene, l. c.).
Due degli scarabei ritrovati sono probabilmente di origine egizia e potrebbero essere stati oggetti di scambio nel corso di una Floralia o nelle attività di emporia.
Per concludere, se la pista di una città immaginata- a meno di ritrovamenti storico- letterari meritevoli di approfondimento- non può più essere ragionevolmente riproposta, resta la convinzione che i territori attorno al Simeri siano stati abitati da coloni greci a partire dalla grande colonizzazione o anche prima.
Per provarlo in via definitiva, al di là dei deboli indizi di cui disponiamo, sarebbe necessario ripartire con un lavoro di ricerca e di scavi che invece di dare corpo alle invenzioni, si muova sul terreno scientifico della ricerca storica e archeologica.

Bibliografia Alighieri, D. (2011), Inferno, Milano, Mondadori. Ristampa.
Aristotele (1973), Politica.Trattato sull’economia, Bari, Laterza.
Barberio, M. (1985), Da Uria a Mattia Preti, in Calabria Letteraria, n.10/11/12.
Berard, J, (1961), La Magna Grecia. Torino, Einaudi.
Biondetti, L. (1997), Dizionario di mitologia classica, Milano, Baldini & Castoldi.
Cordano, L. (1985), La fondazione delle colonie greche, in Magna Grecia, vol. I, Milano, Electa.
D’Agostino, B.(1985), I paesi greci di origine dei coloni e le loro relazioni con il Mediterraneo occidentale, sta in Magna Grecia, vol. I, Milano, Electa.
Diodoro Siculo (1991), Storia universale, Torriana, Orsa Maggiore.
Ferrari, A. (2008). Dizionario di mitologia, Milano, De Agostini.
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Finley, M. I, (1974), Gli antichi greci, Torino, Einaudi.
Fiore, G. (1743), La Calabria illustrata.
Franconeri,G. (1891), Memorie storiche di Taverna, Catanzaro.
Galas, F. (1450), Cronica di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nell’anno 1450, (manoscritto).
Giovene, M. (2000), Simeri e i suoi casali, Catanzaro, Vincenzo Ursini Editore.
Graves, R. (1983), I miti greci, Milano, Longanesi.
Lenormant, F. (1976), La Magna Grecia, 2° Vol., Chiaravalle C., Frama sud.
Lepore, E. (1978), La fioritura dell’aristocrazia e la nascita della polis, in Storia e civiltà dei Greci, vol.I, Milano, Bompiani.
Livio, Tito (1965), Storia di Roma, Bologna, Zanichelli.
Marafioti, F. (1601), Croniche e antichità di Calabria.
Minasi, G. (1896) Le Chiese di Calabria, Napoli, Lanciano e Pinto. Edizione anastatica, 1987, Oppido Mamertina, Barbaro.
Musti, D. (1989), Storia greca, Bari, Laterza.
Nola- Molise, G. B. (1649), Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone e della Magna Grecia, Napoli.
Omero (2010), Iliade, Milano, Mondadori. Ristampa.
Platone (1967), Opere, Bari, Laterza.
Plinio il Vecchio (1972), Storia Naturale, Libro III, pag. 96, Torino, Einaudi.
Rolhfs, G. (1974), Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina, Congedo Editore.
Strauss, B. (2009), La guerra di Troia, Bari, Laterza.
Ughelli, F. (1743-1762), Italia sacra sive de Episcopis Italiae, Venezia.

 

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La prima pagina

ALM Calabria Anno IV N°1 e 2 (Gennaio e Febbraio 2010)

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