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Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Presagi e moniti di Benedetto Musolino

E’ ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”

Un calabrese dalla “costante fede italiana” che “amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria”

Per una riforma radicale: l’imposta progressiva per combattere la lussuria irrompente del capitale

di Giuseppe Candido e  Filippo Curtosi

Quando la politica, anche quella calabrese, sembra perdere il suo senso d’Unità e pensa a secessioni e a partiti “meridionali” per competere con la La Lega del Nord, forse non è davvero tempo sprecato guardarci indietro, non per commemorare, ma per trarre, dai migliori, l’esempio.

In una piazza di Pizzo di Calabria, la bella epigrafe dettata da Ferdinando Martini fa ammenda dell’aspro giudizio di taluni contemporanei, e dice in sintesi della vita e delle gesta di Benedetto Musolino (Pizzo, 1808-1885), patriota e politico Senatore del Regno d’Italia nella XIII legislatura. A ricordarlo era Alfredo Gigliotti, direttore di una vecchia rivista di “Rassegna Calabrese”. Un mensile di vita, cultura, informazioni che, nel numero unico di novembre e dicembre del 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, ne ripercorreva la vita e le gesta per consentire ai posteri di “correggere le sentenze ingiuste”. Perché, scriveva il Gigliotti, “E’ ben vero che i posteri sono quasi fatti apposta per correggere le sentenze ingiuste dei predecessori”. La famiglia Musolino occupa uno dei cospicui posti della storia del Risorgimento: lo zio e il Padre di Benedetto erano stati patrioti del novantanove ed avevano dovuto emigrare a causa della persecuzione delle bande del Cardinale Ruffo; lo zio Domenico e il figlio primogenito Saverio, erano stati poi uccisi durante la reazione del ’48; una sorella del giovane Benedetto fu madre di Giovanni Nicotera. Ma tutte le virtù familiari e patriottiche sembrarono riassumersi in Benedetto Musolino, nato l’8 febbraio 1809.

Giovanissimo, visitò l’Impero Ottomano; studente a Napoli fondò con Settembrini una “Giovine Italia”, una setta conosciuta come “Figlioli della Giovine Italia”, men fortunata di quella del Mazzini; cospiratore soffrì il carcere, combattente all’Angitola, nel ’49 promosso Colonnello di Stato Maggiore, ritornò dall’esilio di Francia per raggiungere Garibaldi in Sicilia. Fu quindi capo dell’insurrezione calabrese del 1860 e “deputato garibaldino al parlamento fino alla XIII Legislatura, ove portò alta e generosa l’affermazione della sua costante fede italiana”.

L’8 maggio del 1839 venne arrestato e assieme a lui presero la via del carcere anche il fratello Pasquale, Saverio Bianchi, Raffaele Anastasio e Luigi Settembrini. Liberato tre anni più tardi gli venne imposto di raggiungere il proprio paese dove viveva sotto stretta sorveglianza con l’obbligo di non allontanarsi dall’abitato anche di giorno e il divieto di rimanere fuori casa dopo il tramonto.

Un sorvegliato molto speciale che anche in quelle condizioni ebbe però il coraggio di cospirare ancora, assieme ad Eugenio De Riso e altri, per preparare i moti che poi sfociarono nella rivoluzione del 1848.

Musolino, scriveva il Gigliotti, “aveva il fervore della fede e delle idee, talvolta senza conoscere il freno, onde fu spesso ritenuto piuttosto uno spirito bizzarro che sapeva dire stravaganze brutali e verità”. Un uomo di pensiero e azione, un patriota che “Amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria e dimostrò averne il senso e la perspicacia negli anni avanzati, così come, nei tempi della giovinezza, aveva avuto l’ardore dell’azione”.

Per un decennio si batté alla Camera quasi solo per la preparazione nazionale, lanciando proposte, illustrando progetti che ammiriamo ancora oggi.

Radicale nell’animo. In un discorso pronunciato alla Camera il 30 giugno del 1861, Benedetto Musolino domandava se la Francia avesse mai pronunciato una sola parola relativa all’unità italiana. E rispondeva: “No. E dunque come fondate voi la vostra speranza nell’aiuto di questa alleata? Io dico – continuava Musolino – che l’alleanza della Francia non esiste più. Questa è un’altra illusione che ci facciamo: pretendiamo o fingiamo pretendere di penetrare a forza di fantasia là dove ci vogliono cannoni e baionette. (…) L’Italia diverrà grande alla sua volta con saviezza delle sue istituzioni, con la sua industria e con la sua forza: allora essa darà alla Francia la sua libertà”. Considerando, inoltre, l’infido atteggiamento francese nei confronti di Roma dimostrava quanto fossero illusi coloro che avevano sempre predicato Napoleone III il più sincero promotore ed amico dell’Unità italiana ed ammoniva: “Bisogna fare causa comune con la Germania, armarsi poderosamente, prendere da una parte Roma e dall’altra invadere il territorio francese incominciando con l’occupazione di Nizza e Savoia”.

Più oltre, nello stesso discorso, Musolino, pensando di aver dinnanzi i francesi, dichiarava la volontà italiana: “Non temete, l’Italia non aspirerà a conquiste, siamo contenti della nostra terra, del nostro cielo, della nostra eredità: in Italia non abbiamo razze diverse, diversa lingua, istinti diversi: una è la lingua, una è la razza. La base della nazionalità sta nella razza e nella lingua”. Ancora ignaro – su questo – quante sciagure, proprio quei nazionalismi basati su razza e identità linguistiche, avrebbero a breve causato.

Dura la critica al socialismo che si andava profilando. Si intese di economia e il 18 marzo del 1863, quando alla Camera si prendeva in esame il fabbisogno finanziario della Nazione, Benedetto Musolino, “che ad ogni problema apportava competenza dotta e sicura”, pone all’ordine del giorno dei suoi colleghi deputati “una riforma radicale” del sistema contributivo proponendo “l’imposta progressiva”. Nel corso della sua esposizione sollevava, senza assumere atteggiamenti demagogici, le sue accuse contro l’ingiustizia sociale della distribuzione della ricchezza e precisa i rapporti tra capitale e lavoro criticando aspramente le “malsane deviazioni dell’incipiente nostro socialismo”: “Il lavoro è mal ripartito, afferma Musolino; il capitale assorbe tutto. L’operaio lavora quando il capitalista lo vuol far lavorare e, quando questi non ci trova più la convenienza, lo getta sulla via”. E se ciò non bastasse afferma parole di straordinaria attualità anche oggi: “Signori, la pretesa civiltà moderna tende a sostituire il feudalesimo economico all’antico soppresso feudalesimo civile e politico. Tutt’oggi è capitale, e noi tendiamo ad una radicale trasformazione sociale. Se vogliamo costruire il nuovo Stato, la nuova società, su basi incrollabili, atteniamoci alla giustizia distributiva. Di fronte a questa lussuria sempre irrompente del capitale, io credo che per ora non c’è nessun altro rimedio se non l’imposta progressiva. Dacché il capitale è tanto favorito, è ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”. Personaggio polivalente e poliedrico dedicò “studi diligenti” ai problemi di politica nazionale ed internazionale. Capì che per avere e mantenere la sicurezza in Patria e nell’Europa delle nazioni di allora, era necessaria una forza armata nazionale di professionisti “allenati”. In occasione della discussione sul riordino e sull’armamento della Guardia Nazionale proposti da Garibaldi si espresse affermando che: “Bisogna che il cittadino acquisti le attitudini che all’occorrenza lo facciano essere soldato, e perché diventi soldato bisogna che sia istruito in tutte quelle pratiche che costituiscono l’arte militare. Perché si ottenga un’istruzione solida da avere, al bisogno, tanti soldati quanti sono i cittadini capaci di tenere un fucile, è d’uopo che ogni cittadino sia abituato alle pratiche della milizia”. A tale fine prevedeva periodiche “esercitazioni” che avrebbero conferito “un’idea precisa di come guerreggiare in campo” per cui, “in breve tratto di tempo si potrà vedere il nostro popolo armato ed esercitato, ed in caso di bisogno non avremo più dei corpi di truppa incomposta, ma dei soldati d’ordinanza”.

Attento ai problemi internazionali nel novembre del 1872, Musolino prende la parola alla Camera per esporre il suo pensiero netto e chiaro sui rapporti tra la Russia, la Prussia e l’Austria, i cui imperatori si erano incontrati in un convegno a Berlino nell’ottobre precedente: “La razza slavo moscovita si ritiene come predestinata al compimento di una grande missione, al rinnovamento dell’umanità accasciata sotto il peso della decrepitezza e della corruzione, mediante l’assorbimento delle altre razze, nazioni e credenze allo stesso centro politico e religioso. E’ un’utopia, escalamo taluni. Ed io rispondo che diventerà realtà se l’Europa non vi provvede in tempo. Se l’Europa le permetterà, non dico di fare, ma di sviluppare gli immensi elementi di potenza e di espansione che in sé racchiude, prima di mezzo secolo il vecchio continente di Europa e di Asia sarà invaso e dominato dalla razza slavo-moscovita (…). Per analoghi motivi la Prussia, avendo innalzata la bandiera della nazionalità, deve necessariamente osteggiare ogni ingrandimento della Russia e perché non può lasciarsi assorbire in Europa e perché non può permettere che quella estenda la sua dominazione nell’Asia minore. Il giorno che l’Europa permetterà alla Russia di sboccare e avere possessi nel Mediterraneo, sia avanzando dalla parte del Bosforo sia discendendo dall’Armenia in Siria e in Anatolia, l’Europa avrà segnato il decreto della sua servitù, giacché avrà concesso alla Russia il mezzo di come avere quei marinai che non può avere con le sue gelate contrade: marinai senza cui non potrà mai mettere in piedi delle grandi flotte che le sono indispensabili per girare le nazioni di occidente, onde neutralizzare la loro azione e il loro concorso quando sarà arrivato il momento di operare contro tutta l’Europa, invadendola da lato della Germania con enormi masse che potrà avere al più tardi fra due generazioni a causa dello sviluppo naturale e prodigioso della sua popolazione. E la Germania si trova nella stessa nostra condizione come quella che, essendo confinante con la Russia, sarebbe esposta elle prime invasioni dalle orde settentrionali, che per essere le prime, sarebbero accompagnate dal maggiore accanimento e seguite dalle più desolanti rovine.

I sapienti uomini politici del nuovo Impero Germanico non possono né debbono chiudere gli occhi di fronte all’avvenire che è riservato a tutte le Nazioni del vecchio continente dallo spirito di cosmopolitismo moscovita. E se non pensiamo fin da ora a mettere quest’ultimo nell’impotenza di continuare la sua espansione, essi avranno fabbricato sull’arena. Potranno ben costituire una Germania sapiente, splendida, gloriosa, ma sarà una Germania che non durerà più di cinquant’anni”.

Sorprendono ancora l’attualità e la veridicità dei presagi di quest’eroico garibaldino e dovrebbero destare ammirazione sincera. Crediamo giusto che quello spirito, quei suoi discorsi, quel suo ardore, quelle di idee e quelle azioni di rivoluzionario, patriota e politico di “fede italiana” fossero meditati anche oggi in questo cento cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale Musolino, assieme a tanti altri di Calabria, sacrificò la vita e ogni bene di fortuna. Sarebbe sicuramente un bell’esempio per vecchie e nuove generazioni.

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Eco tasse: un rivoluzione ambientalista, sociale e liberista

di Marco Cappato e Elisabetta Zamparutti
(Radicali italiani)

Pubblicato su “Il Foglio” del 01.05.2010

A 16 anni di distanza dal tremontiano “spostare le tasse dalle persone alle cose”, è necessario non solo passare dalle parole ai fatti, ma anche prendere in considerazione l’immenso patrimonio delle risorse naturali finora fiscalmente trascurato. Spostare le tasse “dal lavoro all’ambiente”, dunque: questa è l’urgenza per una rivoluzione fiscale che non si ponga soltanto l’obiettivo di una maggiore equità nei confronti dei lavoratori e di efficienza nella riscossione, ma anche di migliorare la qualità della vita rafforzando il libero mercato.

Aria, acqua e suolo sono risorse quasi sempre utilizzate senza che alcuno paghi un prezzo corrispondente al loro valore. Dalle emissioni di c02 all’inquinamento di mari e fiumi, dalla cementificazione del suolo alla distruzione di biodiversità, il consumo di risorse non rinnovabili sotto forma di inquinamento e esaurimento di capitale naturale è realizzato senza che le ricadute per tutti in termini di minore salute, benessere e ricchezza siano riconosciute nel loro effettivo valore economico. In termini globali, l’utilizzo di risorse naturali da parte dell’uomo ha da tempo abbondantemente superato la capacità del pianeta stesso di rigenerarle.

Nel mettere mano alla riforma di un fisco come quello italiano, che spreme i lavoratori e penalizza le imprese, bisogna dunque valorizzare il patrimonio dilapidato di risorse comuni ambientali. Il principio da affermare per una riforma fiscale sostenibile dovrebbe essere quello di una progressiva riduzione del carico fiscale sul lavoro al quale corrisponda un aumento della pressione fiscale sul consumo dei beni ambientali. Una prima occasione è resa urgente dallo sforamento degli impegni italiani in sede di Unione europea per la riduzione delle emissioni di co2. I Parlamentari radicali hanno presentato una proposta di legge per creare un’imposta “sui consumi di combustibili fossili” nei settori non soggetti al sistema dell’”emission trading” e “finalizzare il gettito derivante dall’imposta a ridurre il carico fiscale sui redditi da lavoro”. Gli ordini di grandezza inizialmente l imitati (si potrebbe partire da 13 euro a tonnellata di CO2 emessa, cioè circa 3 miliardi) diverrebbero importanti (35 miliardi) qualora raggiungessimo, con la necessaria gradualità, l’attuale livello svedese.Se il principio della carbon tax fosse esteso agli altri beni ambientali, l’incidenza sulla composizione del carico fiscale potrebbe in pochi anni diventare davvero significativa, a livello non solo nazionale, ma anche locale: consumo di acqua potabile al di là dell’uso domestico minimo; consumo del suolo; occupazione di suolo pubblico per automezzi privati; produzione di rifiuti domestici e industriali. In tempi di federalismo fiscale non si tratta di questioni marginali.

L’impatto e la sostenibilità politica di una riforma fiscale di questo tipo dipende da alcune condizioni.
La prima è che non possa avere in alcun caso come conseguenza l’aumento della pressione fiscale: ogni euro raccolto dalle tasse ambientali, qualunque sia il loro gettito complessivo, deve essere rigidamente vincolato alla corrispondente diminuzione di almeno un euro delle tasse provenienti dai redditi da lavoro e impresa. La pressione fiscale complessiva dovrebbe semmai nettamente diminuire, attraverso quella riforma delle pensioni e del welfare che Debenedetti ha proposto su questo giornale e sulla quale come Radicali abbiamo presentato diverse iniziative anche parlamentari.
Sempre sul piano sociale, la seconda condizione è che si neutralizzino gli effetti regressivi che ogni tassazione indiretta produce. Le compensazioni a favore dei più poveri non dovranno necessari amente avvenire sotto forma di esenzioni, ma preferibilmente di accesso a servizi pubblici anch’essi “virtuosi”, in particolare nel settore dei trasporti (pubblici e collettivi) o delle abitazioni (promuovendo la massima efficienza energetica). Solo garantendo il contenimento della pressione fiscale complessiva e l’eliminazione degli effetti regressivi si può ottenere il consenso sulle tasse ambientali. Anche per questo, incontreremo i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori per discutere la nostra proposta.La terza condizione è quella di definire subito l’andamento del nuovo sistema di imposizione nel lungo periodo, anche tra venti o trent’anni: solo con aspettative certe si può innescare un circolo virtuoso sugli investimenti che portino a una transizione “dolce” verso settori e metodi di produzione più sostenibili.Una riforma del genere contribuirebbe ad avviare una vera e propria rivoluzione, oltre che “ambientalista” anche “sociale” (rispetto al costo del lavoro e all’evasione) e persino “liberista”, nel senso dell’applicazione del libero mercato, operando sul meccanismo dei prezzi invece che su dirigiste imposizioni di metodi produttivi o di altrettanto arbitrari e distorcenti “eco-incentivi”.

Non è invece una condizione, ma soltanto un ulteriore obiettivo, quello di coinvolgere la comunità internazionale. Se infatti è certamente vero che l’ambiente è questione globale, e dunque ogni azione isolata avrebbe un impatto limitato, ciò non significa che il nostro sistema economico subirebbe un danno a intraprendere politiche di avanguardia. Al contrario, oltre a sviluppare competenze imprenditoriali “verdi”, saremmo finalmente tra quel gruppo di Paesi virtuosi che hanno più da guadagnare che da perdere nel caso -probabile oltre che auspicabile- di consenso per accordi globali su ambiente e clima. Potremmo così sostenere proposte, come quella avanzata per ora senza successo dalla Presidenza svedese dell’UE, di una tassa europea sulle emissioni, da far pagare anche sui beni di importazione extra-UE. Per fugare ogni tentazione protezionistica, l’Europa potrebbe vincolarsi all a restituzione del gettito ai Paesi esportatori “inquinanti”, ma sotto forma di investimenti per la salvaguardia del patrimonio ambientale di quei Paesi. Anche sul piano internazionale, mercato e ambiente possono essere rafforzati assieme, e le eco-tasse sono lo strumento adatto.

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I rigori delle Banche e le fauci degli usurai

di Giuseppe Candido

E’ ormai certo: il 2009 sarà ricordato come l’anno della crisi. Crisi delle banche, crisi dell’economia, crisi dell’occupazione. E a ricordare che “La crisi si supera se le banche fanno credito” è stato il Presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet. Ma i rigori delle banche già in passato avevano gettato nelle mani degli usurai piccole e medie imprese. E’ la storia ad insegnarcelo. Al sud e in Calabria, in particolare, la disoccupazione tocca oggi tassi a due cifre raggiungendo record storico negativo per i giovani che, se non s’interviene, saranno destinati, per fame e per miseria, al “brigantaggio” moderno. Servirebbe un rilancio dell’economia, servirebbero riforme ma il sistema creditizio, nel mezzogiorno, è ancora quello maggiormente oneroso, un sistema che agli imprenditori in crisi chiede il rientro immediato dei fidi. Una regione, la nostra, con livelli di disoccupazione doppi rispetto alla media nazionale, con tassi d’interesse sul credito alle imprese superiori al 9% a fronte di quelle del centro nord dove il costo del denaro è poco superiore al 6%. Un sistema creditizio, quello calabrese, che, addirittura, come ricordava qualche settimana addietro l’editoriale di Guido Talarico, direttore de “Il Domani della Calabria”, non si degna neppure di partecipare ai bandi della Comunità europea per la distribuzione di fondi capitale a tassi agevolati nelle aree depresse per non perdere occasione, assai più lucrosa, di speculare prestando i soldi a tassi quasi usurai. Ed è certo che la crisi “non ha ancora dispiegato pienamente i suoi effetti e ciò produrrà disorientamento, conflitti, rivolgimenti”. Nella nostra regione, non lo diciamo per piangerci addosso, se non vi fossero i finanziamenti europei, che però troppo spesso finiscono tra le mani di prenditori anziché di imprenditori veri, molte piccole e medie imprese calabresi sarebbero rimaste nelle mani della sola usura. Ma il problema non è certo nuovo e che la crisi si risolva “Se le banche fanno il credito” era anch’esso noto. Oltre 120 anni or sono, l’editoriale dell’Avvenire Vibonese del 15 Marzo del 1887, allora diretto da Antonino Scalfari nonno del più noto Eugenio, portava un titolo chiarissimo e inequivocabile: “I Rigori delle Banche”. Un titolo ed un editoriale in cui denunciava fortemente come “L’assoluta deficienza di capitali gittò i nostri proprietari nelle ingorde fauci degli usurai che, come vampiri, succhiarono ogni vitale alimento economico”. L’editoriale cercava d’interpretare la gran maggioranza dei proprietari terrieri e dei commercianti del circondario in cui la rivista veniva distribuita, manifestando le “generali preoccupazioni in vista dei provvedimenti di soverchio rigore, adottati dal Banco di Napoli e della Banca Nazionale, col non accettare nuove cambiali allo sconto, e col richiedere nella rinnovazione degli effetti in scadenza il pagamento di una quota rilevante del valore degli stessi”. Soverchi rigore che ancora oggi si manifesta. Poco più di un anno fa, nell’ottobre del 2008, Cosimo De Tommaso, imprenditore calzaturiero calabrese titolare di una azienda con 50 dipendenti e oltre 3 milioni di euro di fatturato annuo, lanciò un grido di allarme sul sistema creditizio bancario calabrese che purtroppo è rimasto inascoltato: “In un momento critico per l’economia come quello attuale – scriveva Cosimo De Tommaso nella sua testimonianza al quotidiano della confindustria – il sistema finanziario sta mettendo in atto una serie di “accorgimenti tecnici” che impediscono, in particolare modo alla piccola azienda, di poter operare agevolmente nel sistema creditizio. L’accesso al credito è ormai di fatto bloccato e gli sconfini temporanei di brevissima durata (sempre consentiti) sono tassativamente proibiti”. Qualcuno potrebbe chiamarli corsi e ricorsi della storia economica. A fine ‘800 la produzione della terra, allora unica risorsa delle nostre Calabrie, si faceva “ogni giorno più scarsa, le attività industriali e commerciali languenti e distrutte dal deplorevole abbandono in cui l’aveva lasciata il Governo di allora, senza ferrovie, senza strade, senza porti, senza scuole, senza un ricordo benevolo dei nostri bisogni e delle nostre ristrettezze. (…) Ora gli improvvisi rigori che le banche son costrette di adottare, riescono non solo gravosi, ma spesso rovinosi. Il domani sarà foriero di gravi sciagure, se questa speciale condizione economica non sarà convenientemente valutata da coloro che son preposti alle aziende Bancarie”. “Comprendiamo – anche noi come scriveva Antonino Scalfari oltre un secolo fa – che questi poderosi e benemeriti istituti di credito, nell’adottare siffatti provvedimenti, vi furon costretti da ragioni gravi e d’indole generale, e dai timori che suscitano certi punti neri, anzi certi oscuri nuvoloni che si veggono scorgere all’orizzonte politico; ma noi preghiamo coloro che stanno a capo degli istituti medesimi di considerare anch’essi con amorevole cura i bisogni locali, e le ristrette condizioni economiche, in cui si dibattono coloro che abitano questa regione, a cui danno pare che congiurino la natura e gli uomini”. Intanto, un augurio per un 2010 più “amorevole” per tutti. Banche comprese.

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“Finanza creativa” del dottor Stranamore

di Giuseppe Candido

Giuliano Tremonti - dottor Stranamore?
Giuliano Tremonti – dottor Stranamore?

Martedì prossimo, 15 dicembre, ricominceranno i lavori sulla manovra fiscale con il Governo che, molto probabilmente, chiederà un’ennesima fiducia sul provvedimento prevedendo il disco verde sia al disegno di legge di bilancio e sia a quello sulla finanziaria per giovedì. La manovra che, al netto di sorprese dell’ultimo secondo, dovrebbe essere licenziata a Montecitorio senza modifiche, passerà poi in Senato, per la terza ed ultima lettura, la settimana prima del Natale. L’opposizione ha ridotto a soli 49 gli emendamenti presentati con il fine, dichiarato, di togliere “l’alibi dell’ostruzionismo” e consentire una discussione sul provvedimento “normale”, senza “l’esautorazione delle prerogative del Parlamento rappresentata dal voto di fiducia” e garantendo di arrivare al voto finale del provvedimento entro giovedì, con gli stessi tempi, in pratica, in cui verrebbe approvata qualora il Governo decidesse di porre la fiducia. Davvero una situazione paradossale. Per essere più chiari, Dario Franceschini, intervistato da Giovanna Reanda, ai microfoni di Radio Radicale ha dichiarato che “Difronte ad un’opposizione che – tutta insieme – presenta 49 emendamenti soltanto e garantisce di far approvare la finanziaria negli stessi tempi in cui verrebbe approvata col voto di fiducia è chiaro che, se a questa offerta la maggioranza dicesse no, il governo pone la fiducia perché ha paura che non ci sia tenuta politica tra i propri parlamentari”. E che tra la maggioranza vi siano delle crepe è evidente. In effetti, il Professore Giuliano Cazzola, economista riconosciuto e deputato del PdL, pure lui intervistato dalla giornalista, ha evidenziato le sue perplessità sulla manovra che, tra le risorse in entrata, vede soltanto la variabile rappresentata dallo scudo fiscale per il rientro dei capitali e l’utilizzo del TFR, il trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti, destinato per i fabbisogni dello Stato. Un’iniziativa, quest’ultima, che secondo lo stesso On.le Cazzola, “Rientra nel novero della finanza creativa cui ci ha abituato Giuliano Tremonti”. Anche se, continua Cazzola, “Il TFR dei lavoratori non corre nessun rischio, perché la legge prevede che, nenanche nel caso in cui le aziende con più di 49 dipendenti siano tenute a versare il TFR maturando al fondo gestito dall’IMPS, sono sempre le aziende a restare responsabili del TFR stesso nei confronti dei lavoratori e quindi i lavoratori andranno a riscuotere il TFR sempre dal datore di lavoro il quale si arrangerà con l’IMPS in termini di compensazione delle erogazioni sborsate rispetto a quello che deve dare, ad altro titolo, all’IMPS”. Un meccanismo questo che non danneggerà i lavoratori ma che, sostiene il deputato del PDL, rappresenta soltanto per modo di dire una “partita di giro” come invece l’ha definita Tremonti e questo perché, “In realtà sono risorse a disposizione dello Stato, che lo Stato aveva destinato ad altre finalità, e queste finalità oggi vengono cambiate. Si tratta di soldi che vengono tolte alle imprese e non vengono tolti ai lavoratori, ma un a diversa allocazione c’é”. Il parlamentare PDL spiega che “Di singolare c’è che, quando questa norma (sul TFR ndr) venne varata dal Governo Prodi nel 2007, queste risorse, cifrate in 6 miliardi di euro l’anno, dovevano essere destinate ad investimenti, soprattutto per opere pubbliche e infrastrutture e, in questi anni, sono serviti per la TAV, per le ferrovie dello Stato, per leggi a sostegno delle imprese. Oggi, in buona parte, per la parte cioè eccedente l’uso che si fa per la liquidazione del TFR, saranno destinate alla sanità, in parte in investimenti in conto capitale, per l’edilizia ospedaliera, ma, un’altra parte andrtà per interventi che rientrano nella spesa corrente”.

In pratica niente aiuti alle imprese, niente investimenti per infrastrutture o per il rilancio dell’economia ma destinazione del TFR per coprire la spesa corrente della sanità col rischio, non infondato considerata la situazione della Sanità nelle diverse regioni, che diventi strutturale con l’impossibilità futura di destinare l’uso di tali risorse per gli scopi di sviluppo cui erano destinati in precedenza. Un aspetto, questo, se non altro originale considerati i tempi di crisi che invece richiederebbero, con questi chiari di luna, un’aiuto alle imprese sia come sgravi promessi e sia anche con la realizzazione e l’ammodernamento della rete infrastrutturale. “Non c’è traccia di aiuti neanche come sgravi IRAP. Una mossa di dottor Stranamore, una battuta simpatica – conclude Cazzola – che in qualche modo esprime la situazione”.

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Pensioni e Welfare. Un’idea semplice: posticipare volontariamente il pensionamento dei lavoratori

di Giuseppe Candido

Giuliano Cazzola e Pietro Ichino
Giuliano Cazzola e Pietro Ichino

Qualche volta, nelle analisi delle notizie economiche ci si limita solamente alla presentazione dei dati senza però formulare ipotesi o tenere conto di specifiche proposte politiche che sarebbero utili per la risoluzione dei problemi che emergono. Lo scorso 24 novembre l’Imps, Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, ha presentato il bilancio preventivo relativo all’anno 2010 i cui numeri e dati venivano spulciati con dovizia da Enrico Marro sul Corriere della Sera in un articolo dal titolo: “I conti della previdenza? Salvati dai precari”. Dall’analisi dei conti della previdenza, oltre che un attivo vertiginosamente in calo da 6,8 miliardi di euro del 2008 ai 2,8 miliardi previsti per il 2010, emergeva chiaramente che l’unica gestione separata dell’Imps in attivo è quella dei lavoratori parasubordinati, cioè di quei lavoratori con contratto a progetto già meno tutelati sotto altri punti di vista. L’attivo della gestione separata dell’Imps relativa ai lavori dipendenti si ridurà dal 3,7 a 2,7 miliardi di euro mentre continueranno a sprofondare nella voragine della passività, anche per il 2010, le gestioni relative agli autonomi: artigiani, commercianti, coltivatori diretti etc. Un buco complessivo di 10 miliardi di euro. L’Imps non è costretta a dichiarare bancarotta soltanto perché 1,6 milioni di lavoratori parasubordinati pagano i contributi senza però percepire pensioni da quel fondo poiché Istituito dal ’95 con la legge Dini e, come si dice in gergo, non ancora “giunto a maturazione”. Tutte le alte voci sono in rosso ed anche la gestione separata dei lavoratori dipendenti, con un attivo vistosamente in calo, presenta dei “buchi neri” fortemente in passivo per i dirigenti d’azienda (ex Impdai) che nel 2010 chiuderà il conto con una passività di 3 miliardi di euro. Una bancarotta, quella dell’Imps, evitata soltanto dal “sacrificio” contributivo dei precari che si sono visti aumentata l’aliquota contributiva al 26 e rotti per cento senza percepire pensioni. Contributi che servono a ripianare i deficit delle altre gestioni e che delinea quello che Marro definisce, a ragione, una sorta di “solidarietà alla rovescia”. E se non si vuole mantenere questa ingiustizia le strade possibili possono essere, secondo Marro, essenzialmente quattro: aumentare le tasse per tutti, aumentare l’imposizione contributiva, tagliare le prestazioni previdenziali o aumentare i limiti dell’età pensionabile. A questo punto però l’articolo finisce e le domande restano. Come risolvere il problema? Quale strada seguire? La prima strada indicata ci sembra però improponibile vista la già elevata pressione fiscale che grava sui cittadini nel nostro Paese e anche la seconda, quella di aumentare l’aliquota contributiva sui lavoratori, visti i costi del lavoro, tra i più alti in Europa, che ci sono in Italia. E anche di tagliare le prestazioni previdenziali manco a parlarne in un periodo in cui si discute così tanto della necessità di fare riforme degli ammortizzatori sociali per dare più garanzie. Rimane quindi, unica tra le vie indicate nell’articolo, quella dell’aumento dell’età pensionabile. Al giornalista sarà sfuggito che su questo argomento esiste anche la nuova proposta di legge che porta le firme del Professor Pietro Ichino e del Professor Giuliano Cazzolla che è in corso di sperimentazione da parte dell’Imps e cui ha preso parte, nella stesura, anche Marco Pannella. Una proposta di legge che ha messo insieme, su un progetto di riforma radicale, due massimi esperti della materia del PD e del PdL. Si tratta di applicare un’idea semplice: posticipare il pensionamento dei lavoratori su base volontaria. Depositata sia alla Camera e sia al Senato lo scorso mese di agosto, il nuovo regime delineato dalla proposta di legge bilancia adeguatamente gli interessi di tutte le parti in causa e configurando un risparmio pubblico per le casse dell’Imps. Il lavoratore che, volontariamente, intende posticipare il pensionamento potrà, proseguendo nell’attività lavorativa, godere di un trattamento economico superiore a quello che percepirebbe se andasse subito in pensione. Il datore di lavoro potrà continuare ad avvalersi delle maestranze di lavoratori con un elevato livello di esperienza a costi più contenuti in virtù della diminuzione dei contributi. Per l’Imps, inoltre, il rinvio del trattamento pensionistico si risolve in un risparmio netto sul piano economico. La notizia, riportata nella relazione di tesoreria di Michele De Lucia presentata lo scorso 12 novembre al congresso di radicali italiani a Chianciano, è che la la simulazione effettuata dall’Imps sugli effetti che la l’applicazione della proposta di legge avrebbe sui conti pubblici dice che si potrebbero risparmiare fino a due miliardi di euro all’anno che, in cinque anni, consentirebbero di ripianare il buco di dieci miliardi di euro della gestione dei lavoratori autonomi. Davvero un’idea semplice ma al contempo rivoluzionaria che, mentre l’Europa continua a chiederci di aumentare l’età di pensionamento delle donne e con i conti dell’Imps, forse non sarebbe male, quantomeno, prendere considerazione.

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Poggiare la prima pietra: la bretella per il ponte che verrà

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 24 novembre 2009

Associazione No Ponte
Associazione No Ponte

Secondo molti sostenitori del ponte sullo stretto, le principali motivazioni addotte per spiegarne la necessità è che il Sud, Calabria e Sicilia in testa, sarebbe miracolato da un “rilancio delle condizioni economiche e sociali dell’area interessata oltreché da una riduzione infrastrutturale che colpisce il Mezzogiorno sin da prima dell’Unità. Il Ponte dovrebbe favorire l’integrazione tra le diverse modalità di trasporto così da “soddisfare la domanda di un crescente bisogno di un più efficiente collegamento tra il continente e la Sicilia”. Ciò nonostante le recenti statistiche definiscano il traffico in diminuzione. E poi se fosse solo questo il vero problema, il traffico, verrebbe facile pensare che col sistema degli aerei cargo e delle “vie del mare” incentivati dall’unione europea, anche dal punto di vista economico la costruzione del ponte sembrerebbe poco consigliabile. Giulia Maria Mozzoni Crespi presidente del FAI, il fondo per l’ambiente italiano, è intervenuta alla trasmissione del 21 novembre scorso di “ambiente Italia” su Rai tre definendo il ponte sullo stretto un’opera non solo inopportuna ma anche contraria al buon senso. Oggi molti calabresi sono impegnati a tentare di bloccare i lavori della “bretella” che, nel progetto in variante, è opera necessaria alla costruzione del ponte. Stiamo parlando quindi della prima pietra o, quantomeno, della prima opera funzionale a quello che sarà il ponte sullo stretto. Poi arriveranno anche i piloni. La bretella è necessaria per la costruzione del ponte ma, ci chiediamo: il ponte è necessario alla Calabria e alla Sicilia? E’ questa forse la vera domanda cui dovremmo, noi calabresi, siciliani, darvi risposta perché è di Scilla e Cariddi che si discute. Dovremmo, noi, decidere se vogliamo vederle collegate, per i prossimi 150 anni fino a quando, cioè, non cadrà per usura, da un enorme, gigantesco, ponte di acciaio e cemento o se, invece, lasciarle così agli occhi dei nostri figli, nipoti. Vorrei fare un paragone: Immaginate due immobili dirimpettai intrisi di storia e cultura ma fatiscenti, vecchi, talmente vecchi che in alcuni punti sono pronti al crollo, coi vetri rotti, con gli scarichi otturati, i tubi dell’acqua con la ruggine e che perdono come cola brodi, pensate se, i due amministratori di quei condomini, per idea geniale di entrambi, pensassero di spendere i pochi soldi che avranno in cassa nei prossimi anni ed investirli tutti in un ponte per collegare i due tetti, o due balconate, ed evitare così di scendere le scale, attraversare la strada e trovarsi nell’altro condominio. Ci verrebbe subito di dire che si tratta di follia. Tutti, anche i bambini, capirebbero che sarebbe certo meglio occupare quei soldi per investire sul risanamento del territorio, sull’adeguamento e/o la rottamazione del patrimonio edilizio non adeguato a resistere agli eventi sismici la cui frequenza, in Calabria, è storicamente oltre che geologicamente, provata.

Che l’Italia non abbia bisogno di “opere faraoniche” e che bisogna invece intervenire per ridurre il rischio idrogeologico lo ha detto anche la più alta carica dello Stato dopo che per anni geologi e associazioni ambientaliste non parlano d’altro. Cerzeto, Beltramme, Crotone, la frana sull’A3 e più di recente i fatti di Messina non si possono dimenticare. La Calabria è la regione dove il 100% dei comuni presenta aree a rischio idrogeologico per frana o per alluvione. Una regione, la nostra, dove i cantieri per l’ammodernamento della Salerno Reggio Calabria, sono spesso interrotti per le frane oltre che per le infiltrazioni mafiose. La questione del rischio idrogeologico e il degrado dei corsi d’acqua sono un problema prioritario per tutto il Paese ma per il mezzogiorno in particolare. Un problema che, se affrontato, consentirebbe anch’esso di promuovere sviluppo e occupazione. Il ricorrere di fenomeni di dissesto idrogeologico negli ultimi anni non può essere più attribuito ad eventi naturali o alle intemperanze di un clima eccezionale ma a un modello di sfruttamento intensivo e poco programmato del territorio: un dissesto idrogeologico causato dal disastro ideologico e l’incapacità di governare il territorio dei politici che ci hanno amministrato ai vari livelli. Oggi è a questo che dobbiamo dare rimedio, è questa l’opera faraonica da compiere: risanamento idrogeologico del territorio senza dimenticare che la nostra è un anche una regione geologicamente “ballerina” ad alto rischio sismico per la presenza di un’edilizia, anche pubblica, ormai vetusta che andrebbe risanata o “rottamata” per avere edifici, almeno quelli pubblici, che resistano agli eventi sismici. Insomma, una grande opera di risanamento ambientale e una grande opera di rottamazione dell’edilizia vulnerabile al posto di un solo ponte le cui basi poggeranno sulla faglia numero 50 del modello neotettonico d’Italia. E poi, ci chiediamo se, per avvicinare Sicilia e Calabria al resto del mondo, non sarebbe meglio trovare in agenzia qualche volo “lowcost” in più.


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