120 GIORNI DI GALERA, PER UN “RAGIONEVOLE DUBBIO
Quando la giustizia diventa un incubo
Di Valter Vecellio
Come ricorda opportunamente il “Grande Bardo”, William Shakespeare ne L’Amleto, “ci sono più cose in cielo e in terra che non sogli la tua filosofia…”. Verissimo. E quante ce ne sono in quel territorio che chiamiamo “pianeta giustizia”. Eccone una che fa al nostro caso, la racconta l’avvocato Giorgio Carta, specializzato in “Diritto militare”. L’avvocato Carta si è dato una sorta di missione, quella di raccontare attraverso il sito GRNET.IT le “follie giuridiche” che si insinuano nei codici militari, e che grazie a queste “follie” trovano poi pratica attuazione. Questa è così incredibile che dev’essere per forza di cose vera.
L’anno 2016 volge al termine e un militare, scrive l’avvocato, “in un momento di sconforto si punta la pistola alla tempia”, vuole uccidersi. Ci ripensa, desiste. Magari si può pensare che qualcuno si preoccupi: perché quel militare ha pensato di uccidersi? E quell’arma in mano, magari, chissà, prima di puntarla contro se stesso, poteva usarla per uccidere altre persone? Vai a capire cosa ti prende in certi momenti… Niente di tutto ciò. Quel militare si trova indagato nientemeno che “per violata consegna e per distruzione di armamento militare”; perché il proiettile l’ha esploso, ma è finito altrove, non nella tempia come in origine si voleva fare. Ineccepibile al punto di vista della forma. Aver distrutto un proiettile senza giusto e valido motivo, è senz’altro reato. D’altra parte, si può dar torto all’avvocato Carta quando osserva che “un dramma personale così grave da indurre un uomo ad un gesto estremo, lo espone anche alla eventualità di una detenzione in un carcere militare?”
Sempre Carta racconta il caso di un militare “sottoposto a procedimento disciplinare per essersi cagionato una frattura ossea durante l’espletamento del servizio”. Insomma: “Non ha prestato la dovuta attenzione, procurandosi così colposamente un’infermità fisica”.
Sorridiamone, anche se il sorriso è amaro. Resta però solo l’amaro (senza ombra di sorriso), quando si legge la lettera scritta dal signor Ludovico Gay.
“Mi chiamo Ludovico Gay, ho 50 anni e da 4 anni combatto contro una disgrazia che mi toglie la forza e la voglia di vivere, e che mi isola dal resto del mondo. Non si tratta di una grave malattia fisica, né di una forma di depressione cronica, anche se sono convinto che ci siano tante analogie tra la mia e questo tipo di avversità che capitano agli umani. La mia disgrazia si chiama Giustizia”.
E’ accaduto questo: “Il 12 dicembre del 2012, all’alba, degli agenti della Guardia di Finanza, pistole e manette bene in vista, mi “catturano” mentre dormivo nel letto di casa mia, ignaro di tutto. Mi notificano una lunga ordinanza di arresto che coinvolgeva oltre 30 persone, tra dirigenti, funzionari pubblici ed imprenditori privati, accusati a vario titolo di corruzione, abuso d’ufficio e concussione. Gli agenti mi hanno fatto preparare un bagaglio minimo e sotto gli occhi sgomenti di mia moglie (oggi ex) e dei miei figli, mi hanno portato a Regina Coeli, dove sono rimasto rinchiuso per i successivi 120 giorni, di cui buona parte in stato di isolamento, nel braccio, per intendersi, dove finiscono i detenuti da tenere sotto controllo o ai quali deve essere inflitta una punizione”.
Un trattamento da riservare a un mafioso, un terrorista pronto a tagliarti la gola, a un cinico speculatore sulla pelle di bambini o anziani… Non si direbbe proprio: “Sono rimasto li fino all’8 aprile del 2013, 120 giorni esatti, fintanto che la Corte di Cassazione ha deciso la mia immediata scarcerazione, annullando “senza rinvio” l’ordinanza di arresto e quella del “tribunale delle libertà” che aveva invece confermato la necessità “cautelare” certo della mia colpevolezza e giustificando tale necessità in quanto non avevo mostrato alcuna “resipiscenza” in sede di interrogatorio di “garanzia”. Altrettanto convinti della mia colpevolezza sono stati, da subito, gli organi di informazione: tg nazionali, giornali, siti noti e ignoti, blog e altro, inclusi quelli dei 5 Stelle. Unanimi hanno invocato per qualche settimana successiva al blitz della Magistratura, la necessità di pene esemplari per quella che era stata definita la “cricca dell’agricoltura, hanno elaborato teorie che prospettavano inimmaginabili sviluppi dell’inchiesta che avrebbe coinvolto presto i vertici politici ed istituzionali del Ministero e hanno concordato più o meno coralmente sulla necessità di gettare le chiavi della piccola cella nella quale ero rinchiuso, senza mostrare, per giunta, segnali di pentimento. Il migliore articolo pubblicato sul caso, dal mio punto di vista, fu di un giornalista di cui non ricordo il nome, del quotidiano “Il Messaggero”, il quale, credo più che altro preoccupato di dare un pò di coerenza alla sua narrazione, scrisse più o meno di me: “… e non saranno certo questi gli unici benefici ricevuti dal Gay, direttore generale di Buonitalia”. Il suo pezzo, ordinanza alla mano, elencando i milioni di contributi che avevo erogato a soggetti pubblici e privati nel corso degli anni in cui avevo lavorato al Ministero delle politiche agricole, accertava che avevo ricevuto in cambio tre (tre!) notti in alberghi di lusso e la promessa (la promessa!) di una cucina”.
Ah! Ecco che alla fine qualcosa viene pur fuori… No, invece: “Non importava se già in sede di interrogatorio avevo dimostrato, documenti alla mano, che i soggiorni erano missioni istituzionali e che la cucina era stata regolarmente pagata a rate e per il suo effettivo costo. Non un euro di mazzetta, nessun conto milionario in paradisi fiscali, nessuno appartamento con vista monumentale, nessuna vacanza su lussuose barche in luoghi esotici, niente di niente, ma sicuramente, per il giornalista, qualche cosa doveva esserci, altrimenti tutto questo baccano (di manette e di inchiostro!) non avrebbe trovato alcuna “giustificazione”. Credo di essere stata l’unica persona che ha colto allora, in quella parte di articolo, l’evidenza di un’indagine inconsistente, basata su congetture illogiche e non documentate, meramente assertive, che i media avrebbero dovuto e potuto cercare di comprendere e di denunciare anziché lasciarsi andare al facile e appassionante gioco del massacro mediatico contro persone private, di fatto, anche della libertà di parola”.
E come finisce questa odissea? “Dopo un lungo processo, che il codice di procedura penale definisce addirittura “immediato cautelare”, il 14 aprile del 2016 è arrivata la sentenza di assoluzione in primo grado, piena, perché il “fatto non sussiste”. Giustizia è fatta? Ebbene no, perché il “ragionevole dubbio” che fossi colpevole del reato di corruzione, sebbene fosse stato instillato dalla Cassazione prima e sancito poi dalla sentenza di primo grado, non è stato sufficiente affinché il Pubblico Ministero, affatto resipiscente, non potesse o non volesse presentare il ricorso in appello. Da un punto di vista formale infatti, il PM può appellare un giudizio che ritiene non corretto, anche senza apportare qualche nuovo elemento di prova a favore della sua tesi accusatoria. E nel silenzio quasi totale dei media, gli stessi che ieri mi condannavano senza giudizio, oggi, attendo una nuova sentenza. E in attesa di questo giudizio in qualche modo, “ragionevolmente” contaminato almeno dal dubbio che qualche fraintendimento abbia generato l’inchiesta che mi ha stravolto la vita, continuo a scontare la condanna latente del pregiudizio sociale. Perfino trovare una casa è diventata un impresa impossibile. I locatori curiosano su internet ed è fatta: la casa è già stata affittata a miglior referenza, ci dispiace tanto. Il lavoro è una chimera e d’altra parte le istituzioni latitano. Nessuno beneficio finanziario o morale è previsto in questi casi. Anzi, potendo si infierisce ancora un pò negando perfino le spese legali che in questo caso dovrebbe risarcire il Ministero con l’avvallo dell’Avvocatura di Stato. Trovare un senso e dare un perché alla vita di ogni giorno è l’impegno quotidiano maggiore, il come vivere poi è relegato alla saltuarietà di qualche lavoretto e alla magnanimità dei pochi amici che, in questi casi sciagurati, restano fedeli e vicini”.
Ora non chiedete al curatore di questa rubrica di commentare, di esprimere un’opinione. Sarebbe qualcosa di molto, molto, molto volgare e a prescindere dai reati previsti dal codice, di incompatibile con la buona educazione che nonostante tutto si vuole continuare ad avere. Però il lettore, credo, ha sufficiente immaginazione per capire senza leggere; e confido che il cuor suo condivida analoga inquietudine, identico sdegno, lo stesso sentimento di ripulsa e (anche) orrore.