Mentre anche dal carcere di Catanzaro continuano ad arrivarci adesioni alla marcia del 6 novembre organizzata dal Partito Radicale Nonviolento a Roma in occasione del giubileo dei carcerati, leggiamo sulla stampa locale che, nel carcere di Vibo Valentia, “i detenuti della sezione Alta sicurezza hanno intrapreso una protesta pacifica per reclamare trattamenti più umani all’interno dell’istituto di pena e denunciare quelle che a loro avviso rappresentano violazioni dei loro diritti fondamentali”.
In una lunga e articolata lettera i detenuti di Vibo Valentia denunciano disservizi e la sistematica violazione dei loro diritti fondamentali, invocano un’ispezione ministeriale e provvedimenti contro i dirigenti. «Qui fallisce ogni giorno il principio riabilitativo della pena» scrivono. A dare il “la” alla protesta – secondo Il Vibonese che riporta ampi stralci della lettera dei detenuti – sarebbe stato “l’ultimo drammatico caso che si è consumato tra le mura del carcere vibonese con la morte di Giuseppe Barbaro, deceduto a causa di un male che lo attanagliava da tempo ma che, ad avviso dei reclusi (ma anche del legale del detenuto morto, l’avvocato Gianpaolo Catanzariti), non era stato adeguatamente valutato in termini di «assistenza sanitaria e monitoraggio H24». Ma il caso Barbaro, scrivono i detenuti nella lettera, sarebbe solo «la punta di un iceberg fatto di suicidi, negligenze nelle cure, disservizi», che fanno sentire gli stessi detenuti a «repentaglio, dal punto di vista sia fisico che mentale» e gli fanno invocare l’avvio di approfondite indagini interne da parte della Commissione ministeriale nonché reclamare a gran voce la sospensione del direttore, del commissario e del dirigente dell’istituto.
Quando c’eravamo statini visita ispettiva il 7 agosto scorso con l’ex deputata radicale Rita Bernardini, in realtà avevamo denunciato il clima di tensione che si respirava tra detenuti e direzione del carcere. Una visita che – non a caso – era durata 8 ore. E tutti i detenuti che avevamo incontrato, ci avevano detto che considerano Vibo un carcere punitivo. Nonostante fosse presente il direttore Galati i detenuti ci avevano parlato, chiaramente di quello che chiamavano “califfato di Vibo Valentia”, “la Guantanamo del diritto”, e dove, ci avevano riferito, “i diritti elementari agli affetti e all’affettività diventano miraggi”.
E non solo, in quella visita (ma anche nelle precedenti) avevamo visto detenuti “definitivi” tenuti insieme ai detenuti “giudicabili”, passeggi al sole (e alla pioggia) senza neanche pensilina, un’infermeria h24 che ad un cardiopatico non riusciva a garantire una visita da otto mesi e non gli misurava la pressione da circa un anno. Ci avevano detto del fatto che non c’era lavoro. E ci avevano persino riferito che “ai passeggi non ci si poteva togliere la maglietta, che dovevi scendere con le scarpe chiuse per motivi di decoro” e che, quando chiedevano al direttore spiegazioni, si sentivano risponde – appunto – che era “una questione di decoro”.
Un clima teso come una corda di violino, un’aria pesante che si poteva tagliare col coltello. “Come ti muovi prendi un rapporto”, ci dicevano.
Alla marcia per l’amnistia, la giustizia giusta e la libertà intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco hanno aderito pure la Regione Calabria e molti comuni del reggino che manderanno i propri gonfaloni a rappresentarli. E’ una marcia per chiedere il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani, per chiedere allo stato di rientrare nell’alveo della legalità costituzionale attraverso un provvedimento di Amnistia e rispettando il principio della durata ragionevole dei processi e della effettività rieducativa della pena che deve riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso.
A distanza di pochi mesi da quella visita ispettiva fatta con l’ex deputata radicale Rita Bernardini, esplode ora la protesta – per fortuna pacifica, nonviolenta direi – e, nelle 24 pagine del documento, oltre a descrivere le criticità vissute, i detenuti mettono nero su bianco il fatto che i principi riabilitativi della pena sono vanificati da condizioni al limite della dignità umana. La nonviolenza vince perché convince. E oggi ci convince il fatto che, dal carcere di Vibo, si leva una richiesta che – al contempo – è una vera e propria lezione di diritto: «Considerato che il principio e l’utilità di un carcere nella sua totale essenza» – scrivono infatti i detenuti -, «dovrebbe essere collocato sull’unico binario di far intraprendere al detenuto un percorso di rieducazione e reinserimento nella società, con l’unico fine che un detenuto, espiata la propria pena, debba essere una persona migliore rispetto a quanto ha fatto ingresso nel sistema penitenziario italiano, a Vibo tale principio sembra essersi smarrito».
E non è un caso che la protesta pacifica esploda proprio mentre, sempre dallo stesso carcere, un centinaio di carcerati hanno aderito – come altri quattromila hanno fatto da altre carceri italiane – sia alla marcia per l’amnistia la giustizia e la libertà intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco che il Partito Radicale Nonviolento ha organizzato in occasione del giubileo dei carcerati, sia al digiuno del 5 e 6 novembre e che Rita Bernardini, Maurizio Bolognetti e Irene Testa hanno intrapreso ormai da giorni (dalla mezzanotte del 10 ottobre) e volto a domandare al Guardasigilli Orlando che fine ha fatto l’ottimo lavoro scaturito dagli Stati Generali dell’esecuzione penale che lo stesso ministro della Giustizia ha voluto e finalizzato a chiedere al Governo e al Parlamento l’immediata riforma dell’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena che deve riguardare tutti i detenuti, nessuno escluso.
Al digiuno del 5 e 6 novembre abbiamo aderito anche noi, da fuori dal carcere, perché militanti del partito radicale nonviolento, il partito per lo stato di diritto, e il 6 novembre marceremo a Roma da Rebibbia a San Pietro.