di Giuseppe Candido
In questi giorni se n’è parlato a seguito delle dichiarazioni di Berlusconi al comizio di Brescia. Ma anche oggi, proprio come trent’anni fa nel momento del suo arresto, il “caso Tortora” dovrebbe essere, soprattutto, “simbolo e bandiera di un riscatto che non può più tardare”. Domani, martedì 28 maggio 2013, a venticinque anni dalla morte e trenta dall’arresto di Enzo Tortora, una delegazione del “Comitato promotore dei referendum” presieduto da Marco Pannella con il coinvolgimento formale anche della “Lista Pannella”, depositerà presso la Corte di Cassazione altri cinque quesiti referendari “per la giustizia giusta”: Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, custodia cautelare, incarichi extragiudiziali, progressione delle carriere. (altri 5 sono stati presentati nei giorni scorsi su legalizzazione droghe, immigrazione clandestina, 8×1000, finanziamento partiti e divorzio breve)
Come scrisse lo stesso presentatore nell’articolo del 14 marzo del 1984 titolato “Occorreva un Tortora”, anche oggi, quotidianamente, “sentiamo ogni giorno testimonianze agghiaccianti sui soprusi, le infamie, le illegalità che quotidianamente vengono compiute”. E anche oggi, come venticinque anni fa per colpa di una politica impegnata in tutt’altre riforme ad personam, “l’Italia è tutto un’immenso “Muro Lucano”, che”, scriveva Tortora, “eleggerei davvero a capitale di questa Repubblica fondata non più sul lavoro, ma sul sopruso, cementato nel silenzio”. Anche oggi il silenzio dei media che avvolge i nuclei di Shoah attivi presenti nelle carceri del nostro Paese è davvero assordante! Tortora aveva compreso, in quei giorni che da detenuto era candidato al Parlamento europeo, “come persino la verità, quando si tinge di parola “radicale”, diventi sospetta, non più vera, o meno di prima, e oggetto di attacchi velenosi, irresponsabili, abbietti”. Quant’attualità in quelle parole. “Sto attraversando l’intera programmazione di un’Italia incredibile e invivibile, che mai come in questo momento, proprio perché l’ho vista, e la vedo vivere, sento il bisogno, sento l’urgenza di contribuire a cambiare. Cambiare nel profondo, cambiare nelle sue strutture marcite e putrescenti: cambiarla non “contro”, ma per amore della democrazia”. E si domandava se, proprio a questa nostra Repubblica, “occorreva un uomo chiamato Tortora, esibito in catene come un trofeo di caccia, in un osceno carosello televisivo, per destare il Ministro Martinazzoli da un sonno lungo quanto quello di Aligi”. La Giustizia italiana e la sua appendice rappresentata da carceri sovraffollate in maniera inumana e degradante continuano a mostrasi vicende sempre più Kafkiane e dimenticate: “A fare il punto sul problema della giustizia in Italia, mi pare che il caso Tortora si configuri come esemplare”. Scriveva così Leonardo Sciascia aggiungendo, tanto per esser chiari, che usava “il caso Tortora” soltanto per “abbreviazione”. “Potrei anche dire: il caso di numerosi arrestati, insieme a Tortora perché omonimi, di persone indicate dai “pentiti” come camorristi – che mi pare caso, qualitativamente e quantitativamente, anche più grave. Voglio dire che non è soltanto quello della carcerazione preventiva il nodo che viene al pettine, ma anche quello dell’affidabilità conferita ai partiti e del mandato di cattura facile, dello strapotere della magistratura inquirente, del suo essere al riparo da responsabilità”. Ancora oggi ci sono ingiustizie che potrebbero essere vedute da chi queste le commette e anche oggi, come allora sosteneva lo scrittore di Racalmuto, “Un argine bisogna metterlo, un rimedio bisogna trovarlo: a fronte della giungla giudiziaria”. Anche oggi, come allora, il “1984 di Orwell può”, in questo nostro Stato che sembra aver smesso di essere Stato di Diritto, “assumere specie giudiziaria”. Ce ne sono non soltanto “i presentimenti” e “gli avvisi”: oggi ci sono anche le condanne europee della Corte dei Diritti dell’Uomo che mettono l’Italia in condizioni di essere tecnicamente criminale contro i suoi stessi cittadini. E, se non si pone rimedio, “questo Paese sarà veramente finito”. “Il caso Tortora” per Sciascia era allora “l’ennesima occasione per ribadire la gravità della situazione” in cui versava l’amministrazione della giustizia in Italia. “Il tutto”, scriveva Sciascia, “porta a riflettere sui giudici e sui loro errori: bisognerebbe far fare ad ogni magistrato, appena vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere o, meno utopisticamente, “caricarli di responsabilità” (civile) senza togliergli l’indipendenza”. Se la politica non cambia, allora cambiamo noi. Ecco perché servono quei 5 referendum per una Giustizia Giusta: ancora oggi “c’è la manetta facile in un paese dove tutto è diventato facile, tranne l’onestà, tranne il carattere”.