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Black bloc, indignados e la rivolta nonviolenta

di Giuseppe Candido

Rivolta in nord Africa, rivolta in Grecia, rivolta degli indignados in tutto il mondo e in Italia. Rivolta per la libertà, rivolta dei “No Tav”, rivolta per lo stipendio che si perde, rivolta per il lavoro e il futuro che non c’è. È rivolta la parola chiave: una parola inquietante, singolare, che però serpeggia diffusamente sulle pagine dei giornali e dei telegiornali. E di rivolta si parla anche quando i lavoratori perdono il lavoro nella nostra terra di Calabria: allora si sale sui tralicci e si fanno scioperi della fame per richiamare l’attenzione dei media. Dell’indignazione di tanti giovani che non trovano un lavoro qualificato per quello che hanno studiato non ci si può disinteressare anche se qualcuno vorrebbe spiegarci che trattasi di “bamboccioni che non vogliono rimboccarsi le maniche”. Non soltanto faticano lustri a trovare un lavoro ma quando lo trovano è un lavoro precario che non consente di progettare un futuro, di pensare ad un mutuo. Black bloc e violenti cretini a parte, fanno tenerezza i tentativi di protesta non violenta di quei giovani che inscenano l’applauso silenzioso agitando, senza sbattere, le mani. Fanno tenerezza perché ignari dell’esistenza di un metodo, quello della nonviolenza gandhiana, quella scritta senza spazio e senza trattino che va oltre il semplice rifiuto della violenza. Oggi sarebbe importante parlare di rivolta ricordando che per farla esistono due metodi: la violenza e la nonviolenza. Purtroppo la storia ci ricorda che il primo metodo è stato quello troppo spesso scelto in preferenza dai grandi rivoluzionari del passato ma è la stessa storia a ricordarci che Gandhi riuscì a liberare l’intera India con il metodo della nonviolenza. Molto spesso sentiamo dire, specialmente dai più ferventi sostenitori della rivolta coi forconi, che “i fini giustificano i mezzi” e che “il nonviolento è un codardo mentre il rivoltoso che si batte contro il potere braccio armato ha coraggio”. Sul rapporto tra fini e mezzi bisognerebbe però ricordare le parole di Aldo Capitini su come la nonviolenza contribuisce positivamente indicando chiaramente che “il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma attraverso un’altra legge: Durante la pace, prepara la pace”. A chi sosteneva che “i mezzi in fin dei conti sono mezzi”, Gandhi rispondeva che “i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Quali i mezzi, tale il fine. La convinzione che non vi sia rapporto tra mezzi e fini è per Gandhi un grave errore: “Per via di questo errore, anche persone che sono state considerate religiose hanno commesso crudeli delitti”. E insisteva: “Il vostro ragionamento equivale a dire che si può ottenere una rosa piantando un’erba nociva (…) il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra mezzo e fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l’albero”. Bisognerebbe dire a quei giovani indignados che, a differenza del metodo della guerriglia violenta che vede impegnati solo uomini, forti e coraggiosi, la nonviolenza gandhiana è un metodo per tutti: “ha il pregio” – come sostiene Aldo Capitini in Tecniche della nonviolenza – “di stabilire una perfetta eguaglianza, perché se la libertà deve essere condivisa in modo uguale da tutti – anche il più debole, il paralitico, lo zoppo – essi devono poter contribuire in egual modo alla sua difesa. Lo sa bene Martin Luther King quando nel suo volume “Why we can’t wait” nel 1964 scriveva: “Nell’esercito della nonviolenza c’è posto per tutti coloro che vogliono arruolarsi. Non ci sono distinzioni di colore, non ci sono esami da sostenere né garanzie da dare, senonché, come un soldato degli eserciti della violenza deve controllare e tener pulito il suo fucile, così i soldati della nonviolenza sono tenuti a esaminare e a rendere belle le loro armi: il cuore, la coscienza, il coraggio e il senso della giustizia”. E, per rispondere a chi dà del codardo al non violento, bisogna dire che non è un caso che M.L.K. parli di coraggio quale arma della nonviolenza. “Il metodo di lotta nonviolenta creato da Gandhi” (Satyagraha – che vuol dire forza e amore per la verità) – come sottolineava Joan V. Bondurant nel suo volume Conquest of Violence – “è fondamentalmente un principio etico, l’essenza del quale è una tecnica sociale di azione (…) L’introduzione del metodo gandhiano in qualsiasi sistema sociale politico effettuerebbe necessariamente modificazioni di quel sistema. Altererebbe l’abituale esercizio del potere e produrrebbe una ridistribuzione e una nuova strutturazione dell’autorità. Esso garantirebbe l’adattamento di un sistema sociale politico alle richieste dei cittadini e servirebbe come strumento di cambiamento sociale”. Rivolta, dunque, di rivolta e di cambiamento sociale, politico e morale c’è bisogno, c’è bisogno di alterare l’esercizio del potere si, ma c’è necessità di una rivolta nonviolenta che, con il proprio metodo, non comprometta il fine della giustizia sociale e della verità. Bisognerebbe rileggere il volume Tecniche della nonviolenza, di Aldo Capitini che nel 1967, dopo aver fondato la marcia della Pace di Assisi, pubblicò questa guida che non ebbe però la diffusione e l’influenza che avrebbe meritato. Il respiro sociale del metodo nonviolento, l’influenza che esso potrebbe esercitare come una rivoluzione permanente, la garanzia che dà di amministrare pubblicamente in modo che valga il controllo dal basso e che la prospettiva metta in primo piano l’educazione e l’onestà individuale sono evidenti. Oggi che il degrado morale, civile e sociale del nostro Paese è sempre di più sotto gli occhi di tutti, causa ed effetto del degrado partitocratico e del cinismo della sua classe dirigente, la lettura del volume di Capitini potrebbe davvero suggerire a quei giovani indignados idee su come comportarsi nei confronti di un potere che, nella sua dilagante corruzione, sembra sempre di più avere la capacità di corrompere tutto ciò che tocca, di coinvolgere tutte le opposizioni, di vanificare tutte le reazioni, di anestetizzare tutte le possibili opposizioni.

 

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